

IL TASSELLO MANCANTE


In omaggio il kit essenziale per la gestione della presbiopia
Il kit contiene:
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Opuscolo “Le principali cause di perdita della vista”
Opuscolo “Lenti Progressive: vedere bene, a ogni distanza”
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Modulo di accompagnamento al medico oculista
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Redazione
Timothy Norris
Laura Gaspari, MA redazione@eyeseenews.it www.eyeseenews.it
Pubblicità info@fgeditore.it tel 01411706694
Direttore responsabile
Ferdinando Fabiano f.fabiano@fgeditore.it
Grafica e impaginazione Cristiano Guenzi
Copertina Silvia Schiavon
Coordinamento scientifico Vittorio Picardo, MD
Hanno partecipato a questo numero
Ivo Andreatta
Emanuela Aragona, MD, PhD
Roberto Bellucci, MD
Davide Borroni, MD, PhD
Francesco Boscia, MD
Maria Lucia Cascavilla, MD
Donald J. D’Amico, MD
Simone Donati, MD
Giuseppe Donvito, MD
Matteo Forlini, MD
James Fujimoto, PhD
Allen Ho, MD, FACS
Claudio Iovino, MD
Paolo Lanzetta, MD
Marco Lupidi, MD, PhD
Vincenzo Orfeo, MD
Vito Primavera, MD
Aleksandra Rachitskaya, MD
Editore
FGE srl – Fabiano Gruppo Editoriale
EditorialE
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IL TASSELLO MANCANTE
largo ai giovani AL SERVIZIO DEGLI ULTIMI
innovazioni LE NUOVE FRONTIERE DELLA RETINA
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DRY EYE: LA BATTAGLIA CONTRO L’OCCHIO SECCO
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Redazione: Strada 4 Milano Fiori, Palazzo Q7 – 20089 Rozzano (MI)
Sede legale: Regione Rivelle, 7 - 14050 Moasca(AT)
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Registrazione presso il Tribunale di Asti - n. 1/2020 del 05/02/2020
Copia omaggio
IL VERO VALORE DEL MEDICO
Di Vincenzo Orfeo, Direttore Unità Operativa di Oculistica della Clinica Mediterranea di Napoli, Professore a contratto all’Università di Trieste, Presidente A.I.R.O. Onlus ETS
C
Tutte le interviste contenute in questo numero sono consultabili collegandosi al sito: www.eyeseenews.it
A volte è nelle situazioni più inusuali, più difficili, ma non per questo meno gratificanti, che si riscopre il vero valore della nostra professione di medici. A volte basta fare le valigie e partire per una missione umanitaria in aree del mondo svantaggiate come quelle del continente africano, per riscoprire la bellezza e la forza del vero compito del medico: curare i nostri pazienti e le persone in difficoltà. Dopo vent’anni di esperienza di missioni in Ghana e in Madagascar con A.I.R.O. Onlus ETS (Associazione Italiana Rinnovamento in Oculistica), che ho fondato nel 2004 e di cui sono Presidente, posso dire con certezza che partecipare a una missione umanitaria è un’esperienza formativa importante sia a livello professionale sia, soprattutto, a livello personale. Esperienze del genere sono in grado di aprire la mente e farci capire

che cos’è veramente la vita e il suo inestimabile valore.
Purtroppo noi, nati nella parte più ricca e fortunata del mondo, professionisti formati e specializzati, rischiamo troppo spesso di dimenticare la vera missione della medicina e l’importanza fondamentale del rapporto umano che ci lega inesorabilmente ai nostri pazienti. Partire per una missione umanitaria non è facile! Tutti lo vorrebbero fare, tanti si candidano, ma sono pochissimi quelli che realmente lo fanno.
Bisogna preferibilmente avere un’organizzazione di supporto, essere pronti a qualsiasi imprevisto (e ne capitano davvero tanti), lasciarsi un po’ alle spalle gli agi a cui siamo abituati, cercare di affrontare al meglio le numerose complicanze, ed essere disponibili a vedere con i propri occhi la disperazione di certe situazioni. Le difficoltà che questi pazienti devono affrontare, tra viaggi lunghi e complicati, solo per avere una qualche cura, sono impressionanti. In questi Paesi africani non c’è un sistema sanitario pubblico, e molte persone non si possono permettere un’assicurazione sanitaria né tantomeno possono far ricorso al privato. Sì, perché ora ci sono dei medici che magari si sono specializzati all’estero, comunque pochi, ma si fanno pagare tanto. Quindi non tutti hanno accesso alle cure, molti si affidano ancora a stregoni e santoni, o curatori nei loro villaggi. Basta vedere le file fuori dai nostri ambulatori. Lunghissime, composte da anziani, ma anche giovani, con cataratte avanzatissime, o bambini ciechi o sull’orlo della cecità. Si visita e si opera tutto il

giorno, senza sosta, senza le tecnologie che abbiamo qui, con le strumentazioni sempre a rischio per le alte temperature o l’usura
o l’incuria dello scarso personale.
L’elettricità che a volte salta e magari stai con i ferri negli occhi del paziente…

Ma comunque si deve andare avanti per il bene di questi pazienti che hanno bisogno di cure. Che gioia vedere la trasformazione nei pazienti che arrivano accompagnati per le grandi difficoltà visive, poi muoversi con una buona autonomia dopo la rimozione del cristallino catarattoso! E quanta gratitudine e felicità. Questo è quello che rende la nostra professione bella e speciale. Il vero messaggio del giuramento d’Ippocrate. Attività come le missioni umanitarie dovrebbero essere inserite nei programmi delle Scuole di Specializzazione, per far sì che i nostri giovani colleghi non si facciano tentare dal solo riscontro economico, o dalla fama, o dal potere, e che non dimentichino mai questi valori fondamentali della professione del medico. Dobbiamo essere sempre coscienti della fortuna che abbiamo noi occidentali, imparando ad apprezzarla e diffondendo questa positiva considerazione.
IL TASSELLO MANCANTE
Alla scoperta del ruolo del microbiota in oftalmologia
Intervista al Professor Davide Borroni, Riga Stradinš University di Riga, Lettonia e al Professor Simone Donati, Università Insubria di Varese
A
Simone Donati è Professore
Associato di Oftalmologia
all’Università Insubria di Varese

Alla fine del diciannovesimo secolo, nel laboratorio dell’eclettico microbiologo Heinrich Anton de Bary a Strasburgo, un giovane ricercatore originario della Kyiv occupata di nome Sergei Nikolaevich Winogradsky si sta occupando dello studio dei Beggiatoa, un genere di batteri filamentosi all’epoca poco conosciuto. È in questo laboratorio che il giovane ricercatore, osservando il ciclo metabolico di questi batteri, pone la pietra d’angolo teorica della chemiolitotrofia, lasciando tuttavia aperta una questione che lo accompagnerà per molto tempo. Arriviamo a Zurigo, nel 1888. Ora impiegato all’Istituto Politecnico della città, Winogradsky si sta arrovellando su un pezzo mancante della sua teoria, un vuoto che si è portato dentro dalla sua precedente esperienza di Strasburgo, un pezzo di un mosaico che gli varrà presto il titolo di padre della moderna ecologia microbica. Oggi l’interconnessione tra microrganismi è un assunto quasi totalmente scontato, ma non all’epoca di Winogradsky, per il quale il mondo dell’interazione vitale tra diversi microrganismi aerobici e anaerobici risultava essere una finestra in un sofisticato universo nascosto. Sembra un paradosso, ma la nozione assodata di far parte di un mondo interdipendente a livello molecolare, pur scuotendo alle radici la microbiologia, non aveva ottenuto un pari impatto sulla biologia e nella medicina, allora squisitamente guidata dalle rivoluzionarie scoperte di Joseph Lister e Louis Pasteur sull’impatto negativo dei batteri sulla salute. Non vi erano tuttavia solo voci all’unisono: già quarant’anni prima, Theodor Escherich aveva osservato la presenza di E.Coli nell’intestino di pazienti malati come di bambini perfettamente sani, mentre all’inizio del ventesimo secolo, il Professor Elie Metchnikoff predicava, non senza qualche scherno,
l’importanza di batteri come il Lactobacillus per prevenire la “putrefazione intestinale” legata all’invecchiamento. È tuttavia necessario attendere il terzo millennio per vedere una reale concettualizzazione del termine microbioma umano, per opera di Joshua Ledenberg, un ombrello che definisce la presenza di microrganismi e la loro interazione con l’ambiente. Lo stesso frammento del mosaico di Winogradsky, riscoperto nell’ecosistema biologico del corpo umano.
IL SECONDO TASSELLO
Ben prima della realizzazione del ruolo del microbiota, la teoria che la salute intestinale fosse direttamente collegata allo stato mentale e psichico dell’individuo era già ben radicata dai tempi di Ippocrate, Avicenna e altri luminari della medicina antica. Non si può dire lo stesso invece sul collegamento tra salute intestinale e apparato visivo. Quello che oggi chiamiamo asse GutBrain, nascondeva dietro di sé un fratello più piccolo, ma non meno rilevante: l’asse Gut-Eye. Nonostante sia un organo contemporaneamente esposto ai fattori esterni e collegato direttamente al cervello, il concetto stesso che l’occhio possa essere influenzato da un ecosistema microbico è davvero un argomento recente nel dibattito medico. “In oftalmologia questo è un fenomeno recentissimo, che vede il suo momento di svolta nel 2015-2016 con la pubblicazione dei primi studi sul microbioma oculare”, afferma Davide Borroni, MD, PhD, “mentre già dagli anni ottanta lo sviluppo di tecnologie come la PCR (Polymerase Chain Reaction) di Kary Mullis avevano dato via a una serie di studi sul microbiota”. Professore Associato di Oftalmologia alla Riga Stradinš University di Riga, Lettonia, Davide Borroni è uno dei principali esperti emergenti
Il microbiota intestinale ha un ruolo chiave nell’equilibrio tra le risposte infiammatorie e regolatorie del sistema immunitario, e una sua alterazione può provocare un aumento dell’infiammazione
Simone Donati

nel campo della cornea e del microbioma oculare.
Secondo Borroni, l’introduzione sul mercato della tecnologia NGS (Next-Generation Sequencing) nel 2005 è stato il vero momento chiave. “Si tratta dell’evoluzione della PCR, per cui un singolo test permette di vedere migliaia di microrganismi presenti in un singolo campione”, spiega. “Questo ha aperto le porte sull’esistenza di un microbioma e di un microbiota a esso associato. Se prima non veniva dato un adeguato peso alla possibile influenza della microbiologia sistemica sull’apparato visivo, è proprio da allora che le prime ipotesi iniziano a emergere”. Questo rapido sviluppo ha portato alla conferma del ruolo cruciale del microbiota nella modulazione del sistema immunitario con un conseguente impatto in numerose patologie autoimmuni e degenerative. “Si pensava che l’occhio fosse un ambiente sterile e isolato dal
resto dell’organismo, ed è per questo che l’oculistica ha iniziato a studiare il fenomeno qualche anno dopo”, spiega Simone Donati, MD, Professore Associato di Oftalmologia all’Università Insubria di Varese. “L’occhio, tuttavia, è influenzato da due diversi microbiota: il microbiota intestinale e un microbiota distinto presente sulla superficie oculare”, spiega. “Molto è stato recentissimamente studiato per poter capire la connessione tra queste e le patologie oculari, specialmente per quanto riguarda la disbiosi intestinale e patologie degenerative come l’AMD e il glaucoma”, aggiunge.
GUT-EYE AXIS
A essere maggiormente interessato dall’asse Gut-Eye è sicuramente il segmento posteriore dell’occhio. Secondo Donati, tre sono i modi per cui una disbiosi intestinale può influenzare l’occhio interno. “Prima di tutto il microbiota intestinale ha un ruolo chiave nell’equi-
librio tra le risposte infiammatorie e regolatorie del sistema immunitario, e una sua alterazione può provocare un aumento dell’infiammazione sistemica. In secondo luogo, l’influenza sulla permeabilità della barriera emato-retinica: una disbiosi può aumentare la permeabilità intestinale, quello che si chiama ‘leaky gut’, permettendo l’ingresso nel flusso sanguigno di citochine che a loro volta possono avere degli effetti negativi sul microcircolo oculare”, spiega. “Terzo, alcuni batteri intestinali producono metaboliti dalla fermentazione delle fibre alimentari, come acidi grassi a catena corta (SCFA, Short-Chain Fatty Acids), che possono influenzare la funzione della retina e il metabolismo dei fotorecettori. Una ridotta produzione di butirrato, propionato e acetato a causa della disbiosi possono compromettere la capacità della retina di riuscire a eliminare le sostanze tossiche e antiossidanti e i prodotti di scarto del suo stesso metabolismo, che, una volta accumulati, possono aumentare il rischio di maculopatie e altre patologie retiniche degenerative”, aggiunge.
‘’Sorprendentemente, in uno studio condotto da Kangcheng Liu su 300.000 pazienti è stato osservato che la presenza di Rhodospirillales a livello intestinale influenzi in maniera statisticamente significativa il rischio di degenerazione maculare legata all’età’’, aggiunge Borroni. Secondo Borroni, inoltre, una presenza di disbiosi può avere un chiaro effetto anche esternamente, a livello di superficie o perioculare. “Se decidessimo di mangiare per tre, cinque giorni di fila un chilo di formaggio al giorno, a parte gli esami del sangue sicuramente poco positivi, avremmo un’altissima possibilità di sviluppare un calazio tra i dieci e i quindici giorni successivi a causa del cambiamento della flora batterica gastrointestinale”, afferma.
“I calazi hanno spesso un andamento ci-
di Timothy Norris
Davide Borroni è Professore Associato di Oftalmologia
alla Riga Stradinš University di Riga
Cover TopiC
Non siamo molto lontani dal giorno in cui avremo un apparecchio NGS nel nostro studio per leggere il microbiota del paziente a scopo di diagnosi e monitoraggio delle terapie
Davide Borroni

Connessione tra disbiosi e patologie retiniche. Tratto da https://doi.org/10.1016/j. ajpath.2023.02.017)
clico, e a due o tre settimane dalle feste natalizie viene di solito osservato un aumento di casi”.
ORAL-EYE AXIS
Anche l’igiene orale gioca un ruolo fondamentale in questo processo. Secondo Donati, la bocca è un ulteriore elemento di un sistema allargato chiamato OralGut-Brain axis, in cui nuovamente l’occhio partecipa allo stesso modo. “La parodontite, e tutti gli altri processi infettivi del cavo orale che vedono una colonizzazione della bocca da parte di batteri come lo Porphyromonas Gingivalis delle tasche parodontali influiscono negativamente sull’intero sistema cardiocircolatorio e sistemico”, osserva. “Questo processo influisce ovviamente anche sulla barriera emato-retinica, danneggiando le cellule RPE e aumentando il rischio
di retinopatia diabetica e degenerazione maculare”, aggiunge, osservando che il P. Gingivalis potrebbe essere un sospetto anello mancante tra diverse patologie degenerative della retina.
SUPERFICIE OCULARE
La presenza di un microbiota sulla superficie oculare non è una novità. Ciò nonostante, il legame tra il suo disequilibrio e l’insorgenza di patologie è un mistero che solo di recente si sta man mano svelando. “Sappiamo che la presenza di una patologia cambia questo delicato equilibrio”, spiega Borroni. “Dall’altra parte non abbiamo ancora in letteratura la prova che sia un disequilibrio del microbiota a influenzare l’insorgenza di questa patologia, e quali siano esattamente i fattori esogeni che portano a que-
sto mutamento” osserva. “Questo, tuttavia, non va a togliere valore a quella che è comunque una grande rivoluzione: il fatto che l’analisi del microbiota stia diventando a tutti gli effetti un esame diagnostico”. Come osserva Borroni, il ruolo della flora batterica della superficie oculare nell’eziopatogenesi dell’occhio secco è un fenomeno che si sta notando solo adesso, anche a causa dell’evoluzione dei trattamenti topici per il glaucoma. “Sono colliri che spesso portano a un’alterazione della superficie oculare, causando dry eye nel paziente. Quello che stiamo osservando è che c’è una variazione nei microrganismi presenti sulla superficie oculare, e non solo”, suggerisce Borroni, “negli studi condotti con il Professor Cosimo Mazzotta si è osservato una particolare profilazione batterica nei pazienti affetti da cheratocono. Grazie alla possibilità di paragonare il microbiota del nostro paziente con migliaia di altri microbioti classificati per patologia all’interno di un Database Normativo, l’analisi metagenomica del microbiota sta assumendo sempre più un valore diagnostico e un aiuto per il clinico. Indizi che abbiamo intenzione di approfondire molto presto”.
“La facilità con cui possiamo analizzare il microbiota sulla superficie oculare ci sta dando una finestra estremamente importante sull’effetto che antibiotici, antisettici e altri farmaci, nonché fluttuazioni nella dieta hanno sulla concentrazione di batteri del nostro corpo”, osserva Donati. Una sensibilità che inizia a farsi spazio anche nell’ambiente chirurgico, come osserva Borroni, dove “un’analisi del microbiota prima di un intervento di cataratta può dare indicazioni su quale possa essere la migliore profilassi, il miglior processo di sterilizzazione e l’efficacia dei colliri postoperatori da somministrare, con un potenziale migliore decorso e una riduzione delle complicanze. In aggiunta, oggi riusciamo a valutare la presenza di

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uno stato di immunosoppressione sistemica osservando la presenza di un caratteristico microbioma, programmando quindi l’intervento chirurgico nel momento migliore”.
AGIRE SUL MICROBIOTA COME
METODO DI PREVENZIONE
Agire proattivamente sull’equilibrio della flora batterica potrebbe dunque avere il giusto razionale per coadiuvare la prevenzione e facilitare il trattamento di numerose patologie oculari. L’approccio di Borroni e Donati, seppur con la giusta prudenza, è incoraggiante.
“In presenza di patologie multifattoriali è difficile prescindere da fattori di rischio più macroscopici, come il diabete nella retinopatia diabetica”, spiega Donati. “Tuttavia, la correzione della disbiosi, favorendo la permanenza di uno stato eubiotico della
flora batterica intestinale può avere il pregio di prevenire le infezioni, regolare la risposta immunitaria e ridurre l’infiammazione cronica. Tre elementi fondamentali per la prevenzione di numerose patologie”, aggiunge. “Per quanto riguarda il segmento anteriore, sono già in commercio tecnologie innovative come la Low Light Laser Therapy, che sono in grado di fornire ottimi risultati nel riequilibrare la flora batterica della superficie oculare”, spiega Borroni. “Spero, comunque, che si possa arrivare presto all’introduzione sul mercato di un collirio ‘microbiologicamente riequilibrante’”.
UNA MEDICINA EURISTICA
Nonostante il suo potenziale, lo studio e l’approfondimento del microbiota in oftalmologia sta iniziando a compiere i suoi primi passi nel nostro
Effetto della disbiosi sul metabolismo e omeostasi dell’organismo. Tratto da https://doi.org/10.1016/j. ajpath.2023.04.006)
Paese, non senza qualche difficoltà. “Per quanto non ci sia assolutamente un’opposizione aperta sull’argomento, non tutti gli oculisti sono convinti che possa davvero avere un grosso impatto nella loro professione”, osserva Borroni. “Con il tempo, però, questo cambiamento è destinato ad avverarsi”.
“Ci sono una serie di centri in Italia che si stanno già focalizzando sul microbiota in questo campo, come L’Accademia Mediterranea di Chirurgia di Catania e l’Università degli Studi di Padova, dove si sta approfondendo l’approccio bioinformatico”, aggiunge Donati.
“Penso che la direzione che verrà intrapresa sarà quella di un maggiore sviluppo proprio dal punto di vista della tecnologia”, sottolinea Borroni. “Non siamo molto lontani dal giorno in cui avremo un apparecchio NGS nel nostro studio per leggere il microbiota del paziente a scopo di diagnosi e monitoraggio delle terapie”, aggiunge.
“Grazie alla tecnologia avremo modo di analizzare meglio grandi quantità di dati per formulare un approccio pratico, mirato alla risoluzione delle alterazioni”, osserva Donati. “Se prima era inconcepibile l’idea di individuare e selezionare le popolazioni batteriche benefiche da quelle nocive, oggi siamo di fronte a un mondo nuovo, sulla soglia di un nuovo approccio euristico alla medicina”, aggiunge Donati. “Non esiste più il concetto di ‘’microrganismo buono’’ e ‘’microrganismo nocivo”, ma si va verso un’idea di equilibrio tra le parti. Lo Staphylococco Aureus, ad esempio, è famoso per essere causa di devastanti cheratiti e rappresenta negli occhi sani almeno il 20% dei batteri totali. Riduzioni sotto a questa percentuale sono indice di alterazioni della superficie oculare che necessitano attenzioni e cure. Un nuovo mondo da studiare con intuito”, conclude Borroni.
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Il racconto di una missione umanitaria di giovanissimi oculisti in Madagascar, tra difficoltà, crescita e soddisfazione
Intervista al Dottor
Claudio Iovino, Università degli Studi della Campania
Luigi Vanvitelli, Napoli
QPer collegarsi al video, scansionare il codice QR

Dottor Claudio Iovino

Quello del medico è un mestiere complesso e dalle molte sfaccettature: c’è il lato più scientifico e teorico, del professionista indefesso, in continuo aggiornamento e specializzato; ma c’è anche il lato umano, quello che deve avere a che fare con i pazienti, persone che si aggrappano alla sua professionalità per stare meglio. Persone a volte in difficoltà, disperate, o in situazioni difficili e ai margini. Non tutto il mondo ha le stesse possibilità e accessibilità mediche e quei problemi o patologie che ci sembrano tranquillamente curabili o addirittura prevedibili, altrove sono insormontabili. Qui, il lato umano del medico si mischia alle sue competenze, e molti, nati nella parte più fortunata del mondo, decidono di fare le valigie e partire, prestare servizio anche per quei pazienti, condividere le loro conoscenze con il personale locale, fornire infrastrutture e strumentazione. Una mano tesa, in nome del Giuramento di Ippocrate. A.I.R.O. Onlus ETS (Associazione Italiana Rinnovamento in Oculistica), fondata e presieduta dal Professor Vincenzo Orfeo, dal 2004 è impegnata nella prevenzione e assistenza dei pazienti affetti da varie patologie oculari, sia in Italia che nei Paesi più svantaggiati del mondo. Da vent’anni svolgono missioni in Africa su cadenza annuale, con la collaborazione di molti oculisti e volontari. Lo scorso agosto, una delegazione composta interamente di giovani medici oftalmologi, tra cui anche specializzandi, è partita alla volta del Madagascar, capitanata dal Dottor Claudio Iovino, ricercatore
presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli di Napoli. Il Dottor Iovino era il più anziano del gruppo nonostante la giovane età di 36 anni. Con lui abbiamo parlato dell’esperienza di questa giovane delegazione, che ha condiviso con successo sui social media, di come si svolge una missione e di ciò che ha lasciato loro sia come medici che come esseri umani.
L’OCULISTICA NELLE AREE PIÙ DIFFICILI DEL MONDO
Offrire le proprie competenze cliniche e chirurgiche in aree svantaggiate del mondo come quelle visitate dalle missioni di A.I.R.O. non è semplice. Si deve fare i conti con un’altra realtà a cui spesso l’oculista non è abituato. “Se per noi un intervento di cataratta può sembrare una banalità, là è qualcosa a cui non tutti hanno accesso e i pazienti sono un po’ abbandonati a se stessi”, racconta Claudio Iovino. Spesso, le persone affette da cataratta in quelle zone non riescono ad accedere a un intervento chirurgico per una serie di ostacoli geografici, economici o sociali. A volte sono così invalicabili, da lasciare il paziente cieco e vulnerabile. “Non solo la patologia della cataratta: ma anche una banale infezione, che qui curiamo velocemente con tre giorni di collirio, in quei luoghi può portare alla cecità”, aggiunge. Senza contare che le infrastrutture mancano, non ci sono strade percorribili o cliniche accessibili, o non adeguate e le persone formate sono poche o del tutto assenti. Le cose più semplici, dunque, rischiano di diventare insormontabili. “Anche un corpo
Mettete in programma di fare una missione come la nostra, perché vi cambierà per sempre la vita
di Laura Gaspari
Claudio Iovino

estraneo può diventare un problema se non rimosso accuratamente nelle prime 24-48 ore”, afferma Iovino. “Può dare un’ulcera corneale che può evolvere a endoftalmite con perdita della vista”.
Durante le missioni si cerca quindi di lavorare senza sosta per garantire il più alto numero di cure e interventi a pazienti che ne hanno veramente bisogno, cercando di arrangiarsi con quello che si ha,
lontano dalle sofisticate sale operatorie e tecnologie, ma facendo comunque del bene al prossimo.
LA MISSIONE IN MADAGASCAR
Claudio Iovino è partito per la prima volta lo scorso agosto guidando una squadra di giovanissimi medici, con un’età media tra i 26 e i 27 anni. Destinazione Ambanja, Madagascar, dove sono rimasti a lavorare senza sosta per 18 gior-
ni. “Io come capo missione ero il più “anziano”, a 36 anni!” , specifica Iovino. Una missione di giovani che è stata documentata sulla pagina Instagram del Dottor Iovino, anche prima della partenza. “Prima di partire ho fatto diversi video cercando di sensibilizzare gli amici sui social sul tema e invitarli a fare una donazione”, racconta. “Ho avuto un feedback più che positivo perché proprio grazie alla
Il Dottor Iovino e i giovani medici oculisti della missione in Madagascar
Largo ai giovani

generosità delle persone abbiamo raccolto fondi sufficienti per portare con noi tanti materiali che ci hanno consentito di visitare più di mille persone, donare duecentocinquanta occhiali, ed eseguire oltre ottanta interventi di cataratta”. Ottanta interventi di cataratta, spiega sempre Iovino, possono sembrare un numero esiguo, ma in un Paese come il Madagascar sono in realtà un miracolo. Per ringraziare i donatori e sostenitori della missione, il Dottor Iovino ha infatti deciso di documentare tutta la missione giorno per giorno sul suo profilo Instagram, con un numero di seguaci che cresceva giorno per giorno.
TANTO LAVORO, TANTA
SODDISFAZIONE
“C’era tantissimo lavoro da fare. Le nostre giornate iniziavano verso le sette di mattina, dove ci tenevo facessimo colazione tutti insieme e poi ci dividevamo in gruppi: chi stava in ambulatorio a fare le visite generali; chi andava a fare gli screening nei villaggi circostanti; e chi era con me in sala operatoria tutta la giornata”, spiega il Dottor Iovino. Fuori dalla porta della loro clinica oculistica ogni mattina alle 8 attendevano una trentina e più di pazienti, di tutti i tipi: l’anziano con la cataratta, il giovane con un trauma
perforante, i bambini con le infezioni oculari. Il flusso di pazienti era continuo fino alle sei di sera, e si lavorava a ritmi molto serrati. “In sala operatoria non ci fermavamo nemmeno per pranzare, ci portavano magari un po’ di riso o qualcosina per arrivare fino a sera, ma si lavorava ininterrottamente”, racconta. Le difficoltà non mancavano. “Mi è capitato un paio di volte che saltasse la corrente mentre stavo operando un paziente e ho continuato con la luce dell’IPhone, che non è decisamente la stessa cosa”, ricorda. “Ovviamente il microscopio ha un ingrandimento notevole e le difficoltà sono state enormi”. La strumentazione, spiega Iovino, era lo stretto necessario. Non è semplice, e ci vuole spirito d’adattamento. Finita la giornata lavorativa, si tornava poi a casa, dove ci si lavava spesso senza acqua corrente, si mangiava e si stava insieme, pronti per affrontare la giornata successiva. In diciotto giorni di permanenza, spiega Iovino, si sono concessi una sola giornata al mare. La priorità era aiutare i pazienti.
QUELLO CHE RIMANE
Secondo il Dottor Iovino, un’esperienza del genere è importante, se non necessaria, specialmente per i giovani. “Nell’ultimo
Il Dottor Iovino in sala operatoria mentre esegue un intervento su un paziente
video che ho postato nelle storie sui social c’era proprio un incoraggiamento e un appello rivolto ad altri giovani a effettuare una missione come la nostra” , spiega. La cosa più importante quando si fanno queste esperienze è avere alle spalle qualcosa di solido, come il sostegno di un’associazione o la guida di mentori. “Devo ringraziare in particolare il Professor Vincenzo Orfeo e la Professoressa Francesca Simonelli per la loro enorme fiducia, e per aver creduto in me permettendomi di fare questa bellissima esperienza” , afferma. Il ringraziamento del Dottor Iovino è rivolto anche ai suoi compagni di viaggio. “Devo ringraziarli uno a uno, Angelo, Nicola, Mariachiara, Ernesto, Laura, Valerio e Gabriella: senza il loro contributo, il mio lavoro di capo missione non sarebbe stato lo stesso”. Per il Dottor Iovino questa non sarà l’ultima missione, ma una prima di una lunga serie. Il suo messaggio per gli altri giovani oculisti quindi è molto chiaro. “Mettete in programma di fare una missione come la nostra, perché vi cambierà per sempre la vita. Non è facile, si opera in condizioni di stress e difficoltà, ci vuole dello spirito di sacrificio e non è da tutti, ma aiutare il prossimo arricchisce più di ogni cosa” , conclude.
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PER ALTE MIOPIE
LE NUOVE FRONTIERE DELLA RETINA
Uno studio tutto italiano porta nuovi insight sulla peripapillary pachychoroid syndrome
Intervista ai Dottori Giuseppe Donvito e Vito Primavera, U.O.S.V.D. di Oculistica dell’Ospedale della Murgia ASL Bari
IIl mondo del segmento posteriore e della retina è terreno fertile per ricerca e scoperta di patologie che fino a poco tempo fa non avevano un nome, o che venivano classificate con altro. Dare un nome a una patologia, però, significa aprire la strada per nuovi processi diagnostici e terapeutici per contrastarla, oltre che allargare la nostra conoscenza e ricerca medica. Strada che porta inesorabilmente al progresso.

La ricerca in oftalmologia del nostro Paese non è sicuramente da meno e lavori nostrani trovano pubblicazione su importanti riviste scientifiche internazionali come l’American Journal of Ophthalmology, com’è successo ai Dottori Giuseppe Donvito e Vito Primavera, della U.O.S.V.D. di Oculistica dell’Ospedale della Murgia ASL Bari. Sono stati loro infatti a riportare sull’illustre giornale specialistico di un caso di peripapillary pachychoroid syndrome (PPS), patologia rara della retina, individuandone cause, segni clinici utili alla diagnosi e indicando un percorso terapeutico utile. In quest’intervista a EyeSee gli autori hanno voluto spiegare nel dettaglio cos’è la PPS, raccontando lo studio da loro pubblicato e dando qualche visione per il futuro del trattamento di questa malattia.
COS’È LA PPS?
La PPS è una malattia appartenente al gruppo delle pachychoroid disease spectrum (PDS), riconosciute per la prima volta da Warrow1 nel 2013. “Si tratta di un gruppo di malattie caratterizzate da anomalie corioretiniche determinate dall’aumento dello spessore della coroide”, afferma Vito Primavera. A differenza della più conosciuta di queste malattie, la corioretinopatia sierosa centrale, che insorge in età più giovanile, la PPS si manifesta prevalentemente nei pazienti più anziani.
La prima descrizione della PPS in letteratura risale al 2018, in un lavoro pubblicato su Retina da Phasukkijwatana e il suo team dell’Università di Zurigo 2 “È stato osservato che il fluido che si accumulava nelle formazioni cistiche
Da sinistra a destra, il Dottor Vito Primavera e il Dottor Giuseppe Donvito.

intraretiniche dei pazienti proveniva dalla coroide congesta e che esso raggiungeva la retina attraverso le zone atrofiche della lamina di Bruch, dell’epitelio pigmentato della E/Z e della membrana limitante esterna”, spiega il Dottor Giuseppe Donvito. I segni clinici presenti nella totalità dei pazienti sono l’ispessimento prevalentemente della coroide della regione nasale della macula, la comparsa di tasche di fluido in regione juxtapapillare temporale, edema cistoide della retina della macula nasale, aree di atrofia dell’epitelio pigmentato e della retina esterna e un anello iperfluorescente da impregnazione attorno al nervo ottico. “In una percentuale inferiore di pazienti si possono osservare fluido sottoretinico, leakage juxtapapillare senza segni di infiammazione, un disco ottico sotto 0,1 o uno tipicamente affollato, ede-
ma del disco ottico e pieghe della coroide”, aggiunge Primavera. Precedentemente veniva classificata come una forma atipica di corioretinopatia sierosa centrale cronica e come tale veniva trattata, quando necessario, con terapia fotodinamica a bassa fluenza. “Veniva anche confusa con l’occult optic disc pit, e ci sono report di risultati ottenuti con la vitrectomia il peeling della MLI e il tamponamento con gas sull’ipotesi che una possibile trazione vitreale su difetti subclinici del nervo ottico permettesse al vitreo liquefatto di entrare nella macula nasale”, spiega Primavera. “Salvo accorgersi che l’occhio operato migliorava, ma l’occhio controlaterale non trattato e affetto anch’esso dalla malattia, migliorava alla stessa maniera e questo era dovuto ai miglioramenti spontanei
Imaging multimodale di una donna di 80 anni affetta da Peripapillary Pachychoroid Sindrome (PPS). A e B EDI-OCT, aumento dello spessore della coroide nasale, tasca di fluido in regione juxtapapillare temporale, spazi cistici intraretinici interessano lo strato granulare interno ed esterno. Aree di atrofia dell’epitelio pigmentato della EZ e della MLE. OS distacco essudativo del neuroepitelio centrale; C e D L’autofluorescenza del fondo illustra la distribuzione predominante delle anomalie dell’epitelio pigmentato nella regione peripapillare di entrambi gli occhi; E ed F Ingrandimento di fluorangiografia del disco ottico. Tempo di esecuzione 3,30 min. in OD e 6 min. in OS. Calibro irregolare e dilatazione delle venule a livello di SNFL e SPR prima della loro anastomosi con la vena centrale della retina (frecce bianche). Iperfluorescenza tardiva con una configurazione ad anello immediatamente circostante il disco ottico (frecce nere); G ed H OCT-A 8 mm e livello di segmentazione automatizzato in modalità profonda, vasi congesti ed aumento del flusso vascolare nella regione juxtapapillare temporale (frecce bianche).
caratteristici di questa patologia”. Quando la malattia coinvolge la retina centrale il paziente, sperimenta in primo luogo aree di annebbiamento visivo, poi un progressivo e lento calo del visus se non si interviene in maniera adeguata. La malattia si manifesta con fasi di recrudescenza seguita da miglioramenti spontanei.
LO STUDIO
Lo studio, intitolato “Peripapillary pachychoroid syndrome, a different pathway in venous remodelling of the choroidal vasculature”3, è un case report su un paziente in cura presso l’ospedale barese. “Seguivamo da tempo due pazienti sopra i 60 anni affetti da questa malattia, uno dei quali per la sua costanza nel farsi seguire e per la trasparenza dei mezzi diottrici, ci ha consentito di acquisire tutte le informazioni ne - ➧
di Laura Gaspari
InnovazIonI
cessarie alla pubblicazione. Inizialmente credevamo si trattasse di una forma atipica di corioretinopatia sierosa centrale cronica, anche se c’erano particolari che non ci convincevano”, afferma Giuseppe Donvito. Prendendo in mano la letteratura, nello specifico il lavoro di Phasukkijwatana et al, si sono accorti che il quadro clinico dei loro pazienti combaciava, seppur con qualche differenza. “Secondo la descrizione in letteratura l’aumento della resistenza al deflusso attraverso le vene vorticose o le vene coroidopiali sarebbe responsabile della congestione della coroide nasale, il conseguente aumento della pressione di perfusione porterebbe poi alla diffusione di fluidi verso gli strati retinici esterni attraverso le zone di atrofia della lamina di Bruch, dell’epitelio pigmentato, della E/Z e della MLE. Se così fosse stato, il fluido prodotto dalla coroide avrebbe dovuto, nel suo passaggio, accumularsi anche se in minima parte al di sotto dell’epitelio pigmentato o del neuroepitelio prima di dare origine a spazi cistici intraretinici. Ma i nostri pazienti non presentavano traccia di fluido sottoretinico”, spiega Donvito. Per questo motivo, i due medici baresi si sono concentrati nel cercare altri segni clinici che permettessero di capire la provenienza del fluido che si accumulava prima nello strato granulare interno e successivamente in quello esterno della macula nasale. La loro scoperta è valsa la pubblicazione sulla rivista scientifica internazionale. “La causa è da ricercarsi in una circolazione collaterale che si sviluppa in seguito all’aumento della resistenza al deflusso attraverso le vene coroidopiali e che consente di decongestionare la coroide della macula nasale deviando una parte del sangue venoso di questa regione verso la vena centrale della retina”, riporta il Dottor Donvito. Tra i segni evidenti di questo circolo collaterale, riportati nello studio sull’ American Journal of Ophthalmology e che diventavano sempre più evidenti durante le fasi avanzate della malattia, vi erano la dilatazione dei vasi del DVP e dell’IVP juxtapapillare evidenziata attraverso l’angio-OCT 8 mm e livello di segmentazione automatico in modalità deep e il riscontro di
venule dilatate a livello del superficial nerve fiber layer (SNFL) e della superficial prelaminar region (SPR). “Quest’ipotesi trovava conferma nella corrente di pensiero che voleva che l’aumento della resistenza al deflusso venoso attraverso le vene vorticose o le vene coroidopiali fosse responsabile di un rimodellamento del drenaggio venoso e della formazione di anastomosi venose nelle zone spartiacque fra i territori di competenza delle diverse vene vorticose. Con quest’ipotesi si dava finalmente anche una spiegazione all’anello iperfluorescente intorno al nervo ottico e agli altri segni meno frequenti di edema del disco ottico caratteristici della malattia” , spiega il Dottor Donvito. Come risultato indiretto delle osservazioni, aggiunge, si è verificato come il DVP e l’IVP della regione peripapillare siano normalmente tributari del circolo della regione prelaminare.
LA METODOLOGIA
E IL TRATTAMENTO
La metodologia utilizzata da Donvito e Primavera per arrivare alle conclusioni dello studio è stata l’approccio dell’imaging multimodale, che definiscono indispensabile, e con l’utilizzo soprattutto dell’EDI-OCT e l’OCT-A, oltre che l’autofluorescenza, la fluorangiografia e l’angiografia al verde di indocianina.
Per quanto riguarda il trattamento invece, un buon controllo pressorio contribuisce a ridurre l’influenza che l’ipertensione potrebbe avere sull’aumento della pressione di perfusione della coroide. Inoltre, da un’analisi retrospettiva condotta sui nostri pazienti sembra che lo stress, attraverso un aumento del cortisolo e delle catecolamine, possa contribuire al peggioramento della malattia, come accade in altre forme di malattia da pachicoroide.
“Nei pazienti, il campo visivo e l’acutezza visiva apparivano relativamente stabili nel tempo nonostante le alterne fasi di attività; le nostre osservazioni trovano riscontro in altri lavori in letteratura, così fino a quando la patologia rimane confinata al territorio circostante il nervo ottico, l’osservazione è una buona opzione”, suggerisce Donvito. Ci si è accorti inoltre di un rapido deterioramento degli strati retini -
ci esterni successivo al coinvolgimento della retina centrale, specie nella forma del distacco essudativo del neuroepitelio. Ciò suggerisce di non ritardare il trattamento in questa occasione, come anche Xu et al. riportavano a conclusione di in un loro studio in doppio cieco. “Noi trattiamo i nostri pazienti con aflibercept con un protocollo di trattamento simile a quello utilizzato per l’edema maculare diabetico con buoni risultati anatomici e funzionali”, riporta Donvito. “Un’altra molecola molto interessante per il suo duplice meccanismo d’azione sembra essere anche il faricimab”.
IL FUTURO PER I MALATI DI PPS
Le scoperte di Donvito e Primavera si aggiungono sicuramente al contributo per migliorare la condizione dei pazienti con PPS. Le speranze per il futuro sono comunque molte e sono attualmente in studio molte strategie terapeutiche interessanti. “Alcuni studi clinici parlano di risultati incoraggianti con l’uso di colliri a base di steroidi, che suggeriscono un attento monitoraggio della pressione intraoculare”, affermano entrambi. Tuttavia, gli stessi studi riportano una possibile successiva dipendenza da questi colliri, suggerendo di non sottovalutare gli effetti collaterali. Altri studi hanno riportato risultati positivi con l’uso della terapia fotodinamica, ma l’uso degli anti VEGF sembra essere efficace. “Dati i buoni risultati delle terapie con farmaci anti VEGF, si spera che sopraggiungano molecole capaci di allungare sempre di più gli intervalli di trattamento”, concludono.
BIBLIOGRAFIA
1 Warrow D.J., Hoang Q.V., Freund K.B. Pachychoroid pigment epitheliopathy. Retina. 2013 Sep;33(8):1659–1672. doi: 10.1097/ IAE.0b013e3182953df4. PMID: 23751942.
2 Phasukkijwatana N., Freund K.B., Dolz-Marco R., et al. Peripapillary pachychoroid syndrome. Retina. 2018 Sep;38(9):1652–1667. doi: 10.1097/IAE.0000000000001907. PMID: 29135799.
3 Donvito G, Primavera V. Peripapillary pachychoroid syndrome, a different pathway in venous remodelling of the choroidal vasculature. Am J Ophthalmol Case Rep. 2025;37:102248. Published 2025 Jan 9. doi:10.1016/j.ajoc.2025.102248
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RiflettoRi sull’espeRto
LENTI E VINILI
L’oculistica secondo Roberto Bellucci, tra curiosità e pensiero fuori dagli schemi
Intervista al Professor Roberto Bellucci, Clinica Vista Vision, Verona


RRoberto Bellucci è uno di quegli specialisti da sempre presenti sulla scena nazionale e internazionale, uno di quelli che ha contribuito con ininterrotto lavoro all’oculistica, con la pubblicazione di numerosissimi lavori, l’organizzazione di e la partecipazione a congressi in tutto il mondo e un ruolo attivo nelle più importanti società scientifiche d’Europa. Laureato e formato all’Università di Padova, è diventato poi Direttore del reparto di oculistica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, e attualmente lavora alla Clinica Vista Vision della città scaligera. Già Presidente dell’ESCRS dal 2014 al 2015 e dell’AICCER dal 2015 al 2018, il Professor Bellucci, nonostante i suoi ben meritati successi, è capace di parlare di sé stesso con una disarmante umiltà. Un oculista che continua a essere curioso, un insospettabile amante della musica rock, e un portabandiera dell’eccellenza dell’oftalmologia italiana anche sulle scene internazionali. Roberto Bellucci si è raccontato a EyeSee in questo Riflettori sull’Esperto, condividendo le sue passioni, i suoi interessi, le sue speranze per i pazienti, anche quelli a volte che consideriamo senza speranza, e quella che secondo lui è la vera missione dell’oculista che, nelle sue parole, è il mestiere più bello che esista.
Qual è la sua sotto specialità o la sua area di interesse prevalente in oculistica?
Principalmente sono sempre stato interessato alla chirurgia della cataratta, pubblicando quasi tutti i miei lavori in questo ambito. Soprattutto, sono interessato alla tecnologia chirurgica e quella che riguarda l’ottica delle lenti intraoculari, e i risultati che si ottengono nei pazienti impiantati.
Quanti anni di attività alle spalle?
Dove ha lavorato durante la sua carriera?
Mi sono unito al mondo dell’oculistica nel settembre 1975, subito dopo il servizio militare come studente. Tuttavia, avevo deciso ben prima di fare l’oculista per il resto della mia vita. Sono stato nel reparto universitario per la specialità e per qualche anno successivo, per poi diventare primario in ospedali del circondario. Sono tornato all’ospedale di Verona come Direttore di oculistica, dove ho terminato la mia carriera ospedaliera.
Qual è stato il suo contributo nazionale e internazionale al progresso dell’oculista? Quali ritiene che siano stati i traguardi professionali che ha raggiunto?
Per quanto riguarda il contributo all’oculistica devo dire che a livello nazionale sono sempre stato molto attivo nella partecipazione a società scientifiche e nell’organizzazione di congressi. Ho contribuito nelle chirurgie in diretta in molti congressi in Italia e all’estero. Ho operato in diretta nello studio di Svyatoslav Fyodorov a Mosca, ma anche in Cina, e in India. Questo mi ha permesso di avere uno sguardo globale sull’oculistica.
Da un punto di vista delle pubblicazioni, ne cito qualcuna: la prima curva di defocus con una lente multifocale pubblicata nel 1992, un’analisi dei problemi dell’ottica delle lenti multifocali nel 2005, che è stata usata negli Stati Uniti come lavoro per il test ECM, e la pubblicazione delle lenti EDOF nel 2017. Però mi piace anche ricordare un case report del 2011 sul trapianto di cornea in un caso di una distrofia congenita dell’endotelio corneale in una bambina di tre mesi, che è stato
Professor Roberto Bellucci
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in un certo senso il lavoro che ha cambiato la tecnologia chirurgica di quella patologia. Recentemente abbiamo pubblicato il follow-up e la paziente, che ora frequenta il liceo, vede molto bene. Questa è una grande soddisfazione per me.
Credo però che il mio più importante successo sia stato diventare il Presidente della Società Europea dei Chirurghi della Cataratta e della Rifrazione (ESCRS) dieci anni fa, dal 2014 al 2015, e subito dopo Presidente di AICCER. Devo dire che queste espe-
rienze mi sono servite molto anche per la mia crescita professionale.
Quali sono state le figure più influenti per la sua carriera? Chi considererebbe un maestro o un mentore?
Le figure influenti della mia carriera sono moltissime. Ho imparato da Jan Worst e da Lucio Buratto a pensare con la mia testa, fuori dai percorsi comuni, out of the box, come si dice in inglese. Ho imparato moltissimo dal mio Professore Luciano Bonomi. Mi ha insegnato ad accettare le evoluzioni della scienza, che sono normali, come capaci di distruggere in un momento tutto quello che noi abbiamo faticato anni a imparare. Io ero sceso a una precisione di 0,25 diottrie nella schiascopia, quando uscirono gli autorefrattometri e il Professore mi disse: “Bellucci sono una meraviglia!”. Me lo ricordo bene. Poi ho imparato da tantissimi altri colleghi e anche dai pazienti l’amore per questa professione. Ricordo anche chi mi insegnò a mettere la prima lente intraoculare, il Dottor Nevio Canali a Desenzano, il 6 settembre 1985. Una data che non si può scordare! Conservo ancora la fotografia di quella lente. La paziente vedeva 10/10 naturali, e quel giorno cambiò la mia vita.
Quanto è importante la professione nella sua vita? In una scala da 1 a 10? Il mio numero è otto, perché la professione è il luogo dove esercito la mia
di Timothy Norris
curiosità. Sono sempre stato e continuo a essere curioso di tutte le novità. Qualche volta con qualche passo falso, molte volte con passi che poi si sono rivelati vincenti. Questo è ciò che tuttora mi affascina e mi fa dire che la professione dell’oculista è forse la migliore che esista. Questo ovviamente perché amo questo lavoro e ha occupato tantissimo della mia vita, direi forse quasi tutta la mia vita al di fuori della famiglia.
Carriera professionale a parte, quali sono le sue passioni e i suoi hobby? Per quanto riguarda gli hobby, mi piace moltissimo ascoltare musica. Ho investito il mio primo stipendio, nel 1977, in un impianto stereo, che tuttora possiedo e utilizzo. Ovviamente per l’età sono un fan della musica rock anni ‘70 e ancora oggi questo mi porta qualche volta ad andare a concerti e acquistare vinili e dischi. Ho visto dal vivo i Rolling Stones, i Deep Purple, Steve Hackett, chitarrista dei Genesis, Steve Copeland dei Police, Ian Anderson dei Jethro Tull e andrò a vedere gli Who quest’estate. Durante il Winter Meeting di ESCRS ad Atene ho trovato e acquistato il vinile di The Wall dei Pink Floyd. Mi dedico inoltre a qualche attività fisica. Mi piace andare in barca a vela sul lago di Garda e andare a sciare nei dintorni. Queste passioni riempiono la parte della mia vita che non è occupata dall’oculistica o dalla famiglia.
La lampada di Aladino: un desiderio, un’innovazione che vorrebbe ci fosse già oggi per i suoi pazienti. Le innovazioni che vorrei sono due: una è quella che vogliono i pazienti, cioè una lente intraoculare multifocale che non dia disturbi fotici; è un po’ il Santo Graal per noi. L’altra però è qualcosa di cui i pazienti hanno bisogno, ed è una soluzione per la degenerazione maculare senile. Ovviamente quelli che non ce l’hanno chiedono la lente multifocale, ma quelli che ce l’hanno si rendono conto di cosa veramente è importante nell’oculistica. La passione è la chirurgia della cataratta, la lente intraoculare; tuttavia, i bisogni reali sono le malattie che sono in grado di diminuire e forse di portarsi via la vista. In una società che parla sempre di inclusione, ma esclude alla fine chi vede poco, questo è molto triste.
Il Professor Bellucci al congresso della Società Indiana 2025 ad Amritsar
Il Professor Bellucci al concerto dei Rolling Stones a Milano
U STUDIO RIPORTA L’IMPATTO
DEL FUMO SULLA VASCOLARITÀ COROIDEALE
Uno studio pubblicato sull’ International Journal of Retina and Vitreous da Miguel A. Quiroz-Reyes, MD, PhD e colleghi dell’università autonoma nazionale del Messico e del Juarez Hospital di Città del Messico, ha rivelato che il fumo di sigaretta ha un impatto negativo sulla vascolarità della coroide, indicato da una riduzione significativa dell’indice di vascolarità coroideale (CVI). Come spiegato dagli autori, il fumo incrementa lo stress ossidativo che ha un effetto sull’endotelio vascolare e riduce la vitamina C antiossidante, interrompendo la normale attività dell’ossido nitrico. Il fumo ridurrebbe il flusso sanguigno nella retina e nella coroide a causa dell’aumentata
resistenza vascolare e della compromissione della regolazione del flusso sanguigno coroidale rispetto ai non fumatori. Gli effetti negativi del fumo sui tessuti oculari sono ben noti in letteratura. Gli autori hanno condotto una meta-analisi che ha incluso studi provenienti da Web of Science, Medline, PubMed e Embase. Sono stati inclusi inoltre studi osservazionali per esplorare le relazioni tra fumo e parametri oculari come il CVI e lo spessore totale della retina/coroide. Quattro dei 743 articoli identificati, che coinvolgono 702 occhi, hanno soddisfatto i criteri di inclusione. L’analisi ha rivelato una significativa riduzione del CVI tra i fumatori (differenza

media standard: -0,61, intervallo di confidenza [CI] al 95%: da -0,78 a -0,43, p < 0,00001), indicando una vascolarizzazione coroidale compromessa, come hanno riferito gli autori. Al contrario, l’impatto del fumo sullo spessore coroidale subfoveale (SFCT) non ha raggiunto risultati significativi (differenza media: 3,88 μm, 95% CI: -7,34-15,10, p = 0,50), con elevata eterogeneità (I² = 79%). Anche lo spessore retinico completo (FRT) non differiva significativamente tra fumatori e non fumatori. Gli autori hanno suggerito che i valori medi del CVI diminuiscono all’aumentare dell’intensità del fumo, il che suggerisce una dipendenza dalla dose. “Il fumo di sigaretta influisce negativamente sulla vascolarizzazione coroidale, come indicato da una significativa riduzione del CVI” , riportano gli autori. “Tuttavia, il suo impatto su FRT e SFCT rimane poco chiaro e richiede ulteriori ricerche. Questi risultati evidenziano l’importanza di smettere di fumare per la salute degli occhi e suggeriscono il CVI come un prezioso biomarker predittivo non invasivo per il monitoraggio dei cambiamenti vascolari nei fumatori” , hanno concluso.
Fonte: Quiroz-Reyes, M.A., Quiroz-Gonzalez, E.A., Quiroz-Gonzalez, M.A. et al. Effects of cigarette smoking on retinal thickness and choroidal vascularity index: a systematic review and meta-analysis. Int J Retin Vitr 11, 21 (2025). https://doi. org/10.1186/s40942-025-00646-9
U OCCHIO SECCO
E INVECCHIAMENTO INDIVIDUATI
NUOVI MECCANISMI MOLECOLARI NELLE GHIADOLE DI MEIBOIMIO
Una ricerca condotta al Mount Sinai di New York e pubblicata su Nature Communications ha identificato popolazioni di cellule staminali e dei meccanismi molecolari alla base della degenerazione legata all’età nelle ghiandole di Meibomio, essenziali per la normale funzionalità oculare. Questo potrebbe portare a nuovi approcci terapeutici per condizioni comuni negli anziani, come la malattia dell’occhio secco evaporativo. Il restringimento delle ghiandole di Meibomio correlato all’invecchiamento può derivare, in parte, dall’esaurimento delle cellule staminali ed è associato alla malattia dell’occhio secco evaporativo. Il team di ricerca del Mount Sinai, che include collaboratori della Johns Hopkins University, dell’università del Michigan e della uni -
versità della Pennsylvania, ha identificato la via di segnalazione di Hedgehog (Hh) come un regolatore chiave della proliferazione delle cellule staminali delle ghiandole di Meibomio e della rigenerazione dei tessuti. Per le analisi dei dati è stato utilizzato un modello murino, poiché le ghiandole di Meibomio dei topi sono strutturalmente e fisiologicamente simili a quelle degli esseri umani. I ricercatori hanno scoperto che le ghiandole invecchiate mostrano una diminuzione della segnalazione di Hh e del recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR). Questi potrebbero essere due potenziali nuovi obiettivi per stimolare l’attività delle cellule staminali e successivamente trattare la malattia dell’occhio secco. Inoltre, sono state osservate un’innervazio -

ne compromessa e una perdita di collagene nei fibroblasti di nicchia nelle ghiandole invecchiate, il che suggerisce che anche il microambiente potrebbe contribuire. “Nonostante la prevalenza nella popolazione della sindrome dell’occhio secco, c’è poca comprensione delle cellule staminali e dei meccanismi molecolari che controllano l’omeostasi della ghiandola di Meibomio e che sono compromessi dall’invecchiamento” , ha affermato in un recente comunicato stampa una delle autrici, la Professoressa Sarah E. Millar, PhD, Direttrice dell’Istituto per la medicina rigenerativa e del Black Family Stem Cell Institute, Co-Direttrice associata, Skin Biology and Diseases Resource-based Center, Dean del dipartimento di Scienze di base alla Icahn School of Medicine del Mount Sinai e Professoressa di Medicina genica e cellulare, scienze oncologiche e dermatologia. “Ci auguriamo che il nostro lavoro alla fine si traduca in nuove terapie più efficaci per questa condizione molto comune”, conclude.
Fonte: https://www.mountsinai.org/ about/newsroom/2025/mount-sinai-led-research-team-identifies-underlying-mechanisms-of-agerelated-dysfunction-in-glands-crucial-to-eye-function e Zhu, X., Xu, M., Portal, C. et al. Identification of Meibomian gland stem cell populations and mechanisms of aging. Nat Commun 16, 1663 (2025). https://doi. org/10.1038/s41467-025-56907-6
U STUDIO DEL MOORSFIELD RIVELA UNA PROMETTENTE TERAPIA GENICA
Un recente studio pubblicato su The Lancet, finanziato dal UK National Institute for Health Research e dal Moorsfield EyeCharity e guidato dal NIHR Moorfields Biomedical Research Centre e dal Great Ormond Street Hospital for Children di Londra, ha valutato una terapia di integrazione genica per pazienti affetti da distrofie retiniche come l’amaurosi congenita di Leber associata a variazioni del gene AIPL1. I pazienti sono stati trattati con un vettore virale adeno-associato ricombinante comprendente la sequenza codificante AIPL1 umana guidata da una regione promotrice della rodopsina chinasi umana (rAAV8.hRKp.AIPL1). Il Professor Michel Michaelides, MD, oculista specializzato in retina medica, malattie oculari ereditarie e oftalmologia pediatrica presso il Moorfields Eye Hospital e Professore di oftalmologia presso
l’University College London Institute of Ophthalmology, ha valutato insieme ai suoi colleghi quattro bambini tra gli 1 e 2,8 anni di età affetti da distrofie retiniche ereditarie a esordio precoce correlate all’AIPL1. I piccoli pazienti sono stati reclutati nello studio dopo la diagnosi di amaurosi congenita di Leber, venendo da Stati Uniti, Turchia e Tunisia per ricevere il trattamento. In tutti e quattro i pazienti la struttura retinica esterna era relativamente conservata all’inizio del trattamento, come determinato dall’esame all’OCT. Prima dell’intervento, i pazienti hanno eseguito una serie di attività per testare la visione funzionale, che includevano test di localizzazione degli oggetti e di mobilità. Test di acuità visiva sono stati somministrati per entrambi gli occhi e per ciascun occhio in modo indipendente con metodi appropriati all’età. Tutti e quattro i

bambini hanno dimostrato di percepire solo la luce. Gli investigatori hanno somministrato rAAV8.hRKp.AIPL1 a un occhio di ciascun paziente tramite iniezione sottoretinica, mentre l’occhio controlaterale è rimasto non trattato. Il follow-up a 3-4 anni ha dimostrato come l’acuità visiva degli occhi trattati ha subito un miglioramento significativo. “A una media di 3,5 anni (intervallo 3,0-4,1) dopo l’intervento, l’acuità visiva degli occhi trattati dei bambini era migliorata”, hanno scritto gli investigatori. “In tre dei bambini, la laminazione strutturale della retina esterna era meglio preservata nell’occhio trattato rispetto all’occhio non trattato e, per tutti e quattro i bambini, lo spessore della retina appariva meglio preservato nell’occhio trattato rispetto all’occhio non trattato”. Solo un paziente ha sviluppato un edema maculare cistoide nell’occhio trattato. Non sono state segnalate altre preoccupazioni sulla sicurezza. I ricercatori hanno affermato alla BBC che continueranno a monitorare i piccoli pazienti e documentare ogni cambiamento nell’acuità visiva e nella struttura oculare. “I risultati ottenuti da questi bambini sono estremamente impressionanti e dimostrano il potere della terapia genica nel cambiare la qualità della vita”, ha concluso il Professor Michaelides.
Fonte: https://www.bbc.com/news/articles/c5ydnz2d75xo e Gene therapy in children with AIPL1-associated severe retinal dystrophy: an open-label, firstin-human interventional study Michaelides, Michel et al. The Lancet, Volume 405, Issue 10479, 648 - 657


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PER LA DIAGNOSI PRECOCE
DEL GLAUCOMA AD ANGOLO APERTO
Seonix bio ha annunciato il lancio negli Stati Uniti di SightScore, il test disponibile sul mercato che valuta punteggio di rischio poligenico clinico per il glaucoma primario ad angolo aperto. SightScore utilizza un test della saliva per identificare gli individui ad alto rischio di glaucoma, consentendo una diagnosi precoce, un intervento e un trattamento più personalizzato, individuando al contempo i pazienti a basso rischio che potrebbero trarre beneficio da un monitoraggio meno frequente. La patologia, che colpisce circa 80 milioni di persone al mondo, è difficile da individuare agli stadi iniziali, quando i trattamenti disponibili sarebbero più efficaci. Il 50% dei casi di glaucoma rimangono non diagnosticati nei Paesi sviluppati, portando a una perdita della vista non necessaria. Gli strumenti attuali per determinare chi è a rischio di glau-
coma si basano sulla storia familiare, sull’età e su esami della vista come quello della pressione oculare e la diagnostica per immagini, ma questi strumenti non hanno un potere predittivo sufficiente per selezionare in modo affidabile i pazienti. SightScore è disponibile anche in Australia e Nuova Zelanda. Il test salivare esamina milioni di varianti genetiche nel genoma del paziente per creare un punteggio di rischio poligenico personalizzato per il glaucoma. Il test stima il rischio genetico del paziente di sviluppare il glaucoma in futuro o, se è già affetto da glaucoma, valuta che il pazien te possa peggiorare. “SightScore è un punto di svolta nel modo in cui valuteremo e gestiremo i pazienti a rischio di glaucoma. È uno strumento prezioso per identificare gli individui che potrebbero non mostrare ancora segni evidenti della malattia e sono a

più alto rischio genetico”, afferma il Dottor Inder Paul Singh, Presidente dei Eye Centers of Racine & Kenosha, Ltd., Kenosha, Wisconsin in un comunicato dell’azienda. “Incorporando SightScore nella nostra pratica, possiamo dare priorità in modo più efficace ai pazienti per lo screening precoce, personalizzare la loro cura e garantire di rilevare il glaucoma nelle sue fasi iniziali e più curabili”. SightScore si inserisce dunque in una serie di strumenti innovativi volti a combattere quello che conosciamo come il ladro silenzioso della vista, e lo fa in modo rivoluzionario. “In passato, la valutazione del rischio genetico clinico per il glaucoma aveva come obiettivo un singolo gene o decine di varianti genetiche. Come primo punteggio di rischio genetico clinico veramente poligenico per il glaucoma sul mercato, che utilizza 7 milioni di varianti genetiche, SightScore rappresenta un importante passo avanti nel modo in cui diagnostichiamo e gestiamo questa malattia”, riporta Nick Haan, CEO di Seonix Bio. “Identificando gli individui ad alto rischio genetico tramite un semplice test della saliva, diamo ai medici gli strumenti per intervenire prima e, in definitiva, preservare la vista”, conclude.
Fonte: https://www.businesswire. com/news/home/20250220762988/ en/Seonix-Bio-Announces-US-Launch-of-SightScore-the-First-Commercially-Available-Clinical-Polygenic-Risk-Score-Testing-Service-for-Glaucoma
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Un nuovo studio dei National Institutes of Health ha riportato che i bambini che indossano lenti a contatto multifocali per rallentare la progressione della miopia mantengono i benefici anche dopo aver smesso di indossarle con l’adolescenza. Lo studio, un follow-up dello studio BLINK, pubblicato nel 2020, ha dimostrato che le lenti a contatto multifocali con potenza elevata di messa a fuoco periferica sono le più efficaci nel rallentare il tasso di crescita dell’occhio, riducendo così il grado di miopia nei bambini. “Ci si preoccupava che l’occhio potesse crescere più velocemente del normale quando veniva interrotto il trattamento con le lenti a contatto per il controllo della miopia. I nostri risultati mostrano che quando gli adolescenti smettono di indossare queste lenti, l’occhio
torna al tasso di crescita previsto per l’età”, afferma David A. Berntsen, ricercatore principale dello studio e Presidente di scienze cliniche presso l’Università di Houston in un comunicato stampa. Lo studio di follow-up ha previsto che i partecipanti indossassero le lenti a contatto ad alta addizione per 2 anni, seguiti da 1 anno di lenti a contatto monofocali tradizionali per valutare se l’interruzione del trattamento avesse influenzato l’allungamento dell’occhio e l’errore refrattivo successivo. I risultati hanno dimostrato che la crescita assiale dell’occhio è tornata ai tassi previsti per l’età dopo l’interruzione delle lenti multifocali. Sebbene ci fosse un piccolo aumento (0,03 mm/ anno) nella lunghezza dell’occhio in tutti i gruppi di età, non c’era alcuna differenza significativa rispetto al

tasso previsto per l’età. I partecipanti al gruppo di trattamento originale con lenti multifocali ad alta addizione continuavano ad avere occhi più corti e meno miopia alla fine dello studio di follow-up. Tuttavia, i bambini a cui sono state cambiate le lenti a contatto ad alta addizione durante lo studio di follow-up non hanno raggiunto il gruppo che le indossavano fin dall’età di 7-11 anni. “I nostri risultati suggeriscono che è una strategia ragionevole adattare i bambini con lenti a contatto multifocali per il controllo della miopia in età più giovane e continuare il trattamento fino agli ultimi anni dell’adolescenza, quando la progressione della miopia rallenta”, ha dichiarato Jeffrey J. Walline, Direttore dello studio di follow-up e Dean associato per la ricerca presso l’Ohio State University College of Optometry, Columbus. L’utilità delle lenti a contatto multifocali è la correzione della visione da lontano mentre simultaneamente rallentano la crescita dell’occhio. Gli occhiali o le lenti a contatto monofocali correggono la visione da lontano, ma non affrontano il problema sottostante della miopia: la crescita anomala dell’occhio. Poiché i tassi globali di miopia sono in aumento, fermare la progressione a partire dall’infanzia diventa sempre più importante per ridurre il rischio di complicazioni che minacciano la vista, come il distacco della retina e il glaucoma.
Fonte: https://www.nei.nih.gov/about/ news-and-events/news/contact-lenses-used-slow-nearsightedness-youth-have-lasting-effect
U UNO STUDIO ITALIANO
VALUTA LA SODDISFAZIONE DEI PAZIENTI POST CATARATTA
Uno studio italiano ha riportato che l’insufficienza del sistema della superficie oculare è responsabile dell’insoddisfazione espressa dai pazienti dopo un intervento di cataratta riuscito, nonostante una buona acuità visiva. Il team di ricerca, guidato dai co-autori la Dottoressa Chiara De Gregorio e il Dottor Sebastiano Nunziata dell’UOC di oftalmologia del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma, ha spiegato che i pazienti misurano il successo dell’intervento di cataratta sia in base al ripristino dell’acuità visiva, che ai miglioramenti soggettivi della qualità della vista e alla soddisfazione generale. Gli oftalmologi dunque si ritrovano a soddisfare uno spettro più ampio di esigenze, tra cui sensibilità al contrasto, abbagliamento e aberrazioni ottiche. “Il raggiungimento di risultati ottimali si basa su calcoli precisi del potere della IOL e sull’allineamento, nonché sulla gestione completa della salute della superficie oculare, che è sempre più riconosciuta come un fattore determinante per il successo postoperato-
rio”, hanno commentato. Hanno spiegato che, in particolare la malattia dell’occhio secco, è una variabile chiave nei risultati perioperatori, con oltre l’80% dei pazienti che presentano un certo grado di occhio secco nel postoperatorio; il 20% dei pazienti ha una occhio secco preesistente e il 60% rimane non diagnosticato prima dell’intervento chirurgico. “Nonostante il raggiungimento di un’eccellente acuità visiva non corretta o meglio corretta di 10/10, fino al 35% dei pazienti segnala insoddisfazione dovuta ad alterazioni della superficie oculare innescate da un trauma chirurgico”, riferiscono gli autori. Lo studio osservazionale, pubblicato sul Journal of Clinical Medicine, ha incluso 20 pazienti con opacità del cristallino. Il pre e post operatorio sono stati valutati con un questionari OSDI e SANDE, il test di Schirmer il TBUT e la colorazione con fluoresceina. I pazienti sono stati seguiti a 1 settimana e 1 e 3 mesi dopo l’intervento. “Nonostante il raggiungimento di una BCVA di 10/10, il 44% dei pazienti ha riportato sintomi di

alterazione della superficie oculare. Le valutazioni postoperatorie hanno rivelato un significativo peggioramento dei punteggi OSDI e SANDE (P < 0,001), test di Schirmer (media preoperatoria 19,92 ± 10,06; P < 0,001) e TBUT (media preoperatoria 5,88 ± 2,64 secondi; P < 0,001). Anche la disfunzione della ghiandola di Meibomio e l’iperemia congiuntivale sono peggiorate”, hanno riportato gli autori. Sempre gli autori hanno raccomandato quindi attenzione particolare ai pazienti prima dell’intervento di cataratta e nel postoperatorio, valutando le strategie opportune per ridurre o prevenire l’infiammazione. Anche il tipo di chirurgia deve essere attentamente valutato. Sebbene tutti i pazienti di questo studio siano stati sottoposti a una procedura di facoemulsificazione standard, studi futuri dovrebbero valutare gli effetti della chirurgia della cataratta assistita da laser a femtosecondi o della chirurgia della cataratta con microincisione sui parametri della superficie oculare. “Tali risultati porterebbero a una pianificazione chirurgica personalizzata e a strategie di gestione perioperatoria, migliorando in ultima analisi sia i risultati oggettivi che la soddisfazione del paziente. Oltre ai fattori valutati in questo studio, altri potenziali fattori di rischio per l’occhio secco postoperatorio meritano di essere presi in considerazione. Fumo, diabete mellito, punteggi elevati sulla scala Hospital Anxiety and Depression Scale e una maggiore lunghezza dell’incisione chirurgica sono stati tutti identificati come fattori che contribuiscono alla disfunzione della superficie oculare post operatoria”, gli autori concludono.
Fonte: De Gregorio C, Nunziata S, Spelta S, Lauretti P, Barone V, Surico PL, Mori T, Coassin M, Di Zazzo A. Unhappy 20/20: A New Challenge for Cataract Surgery. Journal of Clinical Medicine. 2025; 14(5):1408. https:// doi.org/10.3390/jcm14051408
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Dal MonDo Dell’ottica
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SI INCONTRANO
Il brand di ottica si presenta alla classe medica, con il suo modello di business unico
Intervista a Ivo Andreatta, CEO di Fielmann Italia
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Approfondimenti
EMPATIA E COMPRENSIONE
La medicina narrativa applicata al dry eye può aiutare a migliorare il rapporto medico-paziente e le terapie
Intervista alla Dottoressa Emanuela Aragona, Clinica Oculistica, IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano
LDottoressa Emanuela Aragona

La malattia da occhio secco è troppo spesso un peso psicologico per i pazienti che si trovano ad affrontarla. Nonostante la diagnosi e la prescrizione di colliri specifici per contrastare i sintomi, talvolta le conseguenze di questa malattia sulla vita quotidiana e sulla salute generale sono insostenibili e il bisogno di un supporto empatico risulta fondamentale anche da parte degli specialisti curanti. La ricerca sul dry eye e la sua patogenesi ha visto una crescita esponenziale negli ultimi anni, eppure ci sono ancora problematiche nella diagnosi e nelle valutazioni dello specialista, a causa della multifattorialità della malattia, senza contare tutte le difficoltà che il paziente può incontrare nel trattamento, che a volte viene abbandonato per le più svariate ragioni. Sulla base di questo assunto, uno strumento che può essere utilizzato nella valutazione dei casi di dry eye è quello della medicina narrativa. Si tratta di un approccio che va a integrare quello basato sulle evidenze, tenendo in considerazione i racconti delle esperienze dirette dei pazienti, dei loro caregiver e delle figure sanitarie di riferimento per meglio formulare una diagnosi e un trattamento adeguati. Proprio la medicina narrativa per il dry eye è al centro di uno studio intitolato “Utilising Narrative Medicine to Identify Key Factors Affecting Quality of Life in Dry Eye Disease: An Italian Multicentre Study”1. Per EyeSee ne ha parlato la Dottoressa Emanuela Aragona, tra i firmatari dello studio, e che lo ha presentato a importanti appuntamenti internazionali specialistici, descrivendo perché questo tipo di approccio può essere particolarmente rilevante anche in oftalmologia, per il dry eye, ma anche per altre malattie croniche che possono creare discomfort per il paziente.
LA NUOVA FRONTIERA DELLA
MEDICINA NARRATIVA
“La medicina narrativa è un mezzo che non è mai stato utilizzato nelle indagini in cam-
po oculistico, ma più comunemente viene adottato nelle branche della medicina più internistiche come l’oncologia, o nel campo delle patologie degenerative o neurologiche. Dunque tutto ciò dove il vissuto del paziente fa parte della condizione patologica”, spiega Emanuela Aragona, della Clinica Oculistica, IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano.
La malattia dell’occhio secco si presta a una valutazione con questo approccio poiché, come spiega Aragona, gli specialisti si stanno abituando a considerare come parte integrante della condizione patologica del paziente anche la sua qualità di vita, la quotidianità e come queste siano impattate da essa. Tuttavia, la valutazione esistente è più analitica che comprensiva delle esperienze diverse di ogni paziente. “Come oculisti analizziamo la qualità di vita del paziente tramite i questionari OSDI, che sono un mezzo valido perché sono rapidi e consentono una quantificazione della problematica, soprattutto per i trial clinici, o l’impatto delle terapie e l’andamento della patologia”, afferma. “In questi però si perdono quelle sfumature o interpretazioni diverse riferite da ogni paziente come per esempio sui sintomi. Volevamo andare più in là”.
La medicina narrativa utilizza dunque delle domande aperte in cui si dà al paziente la possibilità di esprimere meglio il proprio vissuto e la sua esperienza con la patologia. Anche l’esperienza di coloro che assistono il paziente diventa fondamentale. “Si valuta anche il vissuto dei cosiddetti caregiver, che convivono con qualcuno che ha questa patologia e ne condivide il carico. Anche gli oculisti vengono coinvolti, perché a volte anche la gestione può essere impegnativa e da valutare in ogni suo aspetto”, spiega la Dottoressa Aragona.
Un approccio dunque rivoluzionario, che può però essere una marcia in più anche per le prescrizioni di terapie customizzate sul paziente, ma soprattutto, consentono una va-

lutazione sull’approccio da tenere con i vari pazienti, che non sono tutti uguali e hanno esigenze differenti gli uni dagli altri.
LO STUDIO
Lo studio, pubblicato su Ophthalmology and therapy lo scorso novembre, ha coinvolto 38 centri italiani e uno a San Marino e ha avuto come fine quello di analizzare proprio la qualità di vita del paziente con occhio secco attraverso le risposte dei malati stessi, dei loro caregiver e degli oftalmologi curanti. Le risposte sono state raccolte in forma anonima attraverso il portale online del progetto e analizzate da un’agenzia che si occupa di medicina narrativa utilizzando un software chiamato MAXQDA, di VERBI Software con sede a Berlino.
Allo studio hanno partecipato in totale 171 pazienti, 37 caregiver e 81 oculisti e si è cercato di individuare anche i termini chiave utilizzati dai partecipanti in modo da valutare quante volte si ripetessero e le loro sfere di significato. Ad esempio, il 19% dei pazienti e il 35% dei caregiver coinvolti ha definito l’occhio secco come una condizione invalidante. “Sia pazienti che assistenti hanno posto l’accento su come il dry eye sia una patologia vera e propria”, spiega Aragona. “Una patologia traducibile in inglese con sickness, ovvero una condizione che influisce il modo in cui il paziente si approccia al mondo”. I risultati ottenuti, e presentati come poster all’ultimo congresso internazionale TFOS, dove ha riscosso particolare interesse, hanno aperto a un dibattito molto importante sulle condizioni di questi pazienti, le loro famiglie e il rapporto con
i medici e il personale sanitario. “Chi ha assistito alla presentazione ha sottolineato come ci sia effettivamente la necessità di questo tipo di indagine, perché questi aspetti non sono per nulla secondari”, afferma. Infatti, tra i risultati emersi, secondo la Dottoressa Aragona, c’è proprio la necessità del paziente di avere una solida alleanza terapeutica con l’oculista come parte integrante del trattamento della malattia dell’occhio secco, così come di una maggiore empatia. “È emerso che molti lamentavano che l’oculista è solitamente una figura un po’ distante, che si approccia molto all’aspetto clinico e meno al paziente in sé, che invece vede la sua condizione non banale e un problema enorme”, spiega Emanuela Aragona. Una commistione tra aspetti clinici ed emotivi aiuta anche a sostenere meglio terapie che a volte possono risultare complesse o collidere con gli aspetti della vita quotidiana, come la capacità di focalizzarsi sugli impegni o il lavoro. Proprio le difficoltà sul luogo di lavoro sono quegli aspetti maggiormente sottolineati nello studio. “Il paziente spesso ha la sensazione di non essere compreso, e la sua problematica minimizzata, si ha paura di non essere creduti. Invece questo aspetto va valutato seriamente”, sottolinea. Anche il peso materiale della malattia a volte è insostenibile per il paziente e la sua famiglia, ed è un aspetto non sempre tenuto in considerazione. “Si è notato come c’è una certa solitudine a sostenere, ad esempio, la parte economica della malattia e la propria quotidianità e come sia richiesta una
maggiore riconoscenza di questi anche da parte degli organi legislativi”, sottolinea la Dottoressa Aragona.
HA SENSO APPLICARE LA MEDICINA NARRATIVA ALL’OFTALMOLOGIA IN GENERALE?
Come riportato, l’approccio della medicina narrativa è un campo ancora inesplorato in oftalmologia. Tuttavia, ci sono delle applicazioni che potrebbero essere interessanti, oltre a quello della superficie oculare, come il glaucoma o le distrofie retiniche. “Il glaucoma ha una gestione impegnativa, complessa e un outcome finale che non è sempre felice per il paziente, che considera anche di perdere la vista”, spiega Aragona. “Per le distrofie retiniche, si può trovare un modo di formulare questo approccio soprattutto perché molte di queste non hanno terapia e si tratta di pazienti anche giovani e con bisogni psicologici specifici”.
La difficoltà di traslare questo tipo di approccio al real world però non è semplice, come spiega Emanuela Aragona. “La pratica clinica è veloce, gravosa, con volumi alti, tipo l’attività ospedaliera o ambulatoriale. La cosa che si può fare però è cercare di migliorare il proprio rapporto con il paziente e fargli capire che nella valutazione complessiva tutto conta”. Domandare informazioni quindi sul tipo di lavoro che svolge, le sue abitudini, se pratica sport può essere molto utile. “Dobbiamo far capire al paziente che non siamo lì solo per compilare una lista delle malattie in corso, o di sintomi, mettendo poi in mano il foglio con la terapia. Dobbiamo far capire che stiamo cercando di comprendere bene tutto il contesto, compresi i familiari che si occupano del paziente”, afferma la Dottoressa Aragona.
Empatia e comprensione sembrano i concetti chiave per un rapporto proficuo tra i pazienti con occhio secco e i loro oculisti di fiducia. “Non siamo abituati a porci delle domande nei confronti di tutto il contesto attorno al paziente e iniziare a far capire che vogliamo prendere tutto in considerazione è già qualcosa che aiuta e che sostiene il bisogno di una maggiore empatia tra medico e paziente”, conclude.
1 Aragona P, Barabino S, Akbas E, et al. Utilising Narrative Medicine to Identify Key Factors Affecting Quality of Life in Dry Eye Disease: An Italian Multicentre Study. Ophthalmol Ther. 2024;13(11):29652984. doi:10.1007/s40123-024-01033-7
di Laura Gaspari
Approfondimenti
DRY EYE: LA BATTAGLIA CONTRO L’OCCHIO SECCO
Uno studio sull’efficacia dei colliri a base di idrossipropil-guar e nanoparticelle lipidiche nelle donne in postmenopausa
di Dottoressa
Maria Lucia Cascavilla, Unità Operativa di Oftalmologia e Malattie Rare (UnIRAR), IRCCS Ospedale
San Raffaele, Milano
LLa sindrome dell’occhio secco (DES) è una condizione diffusa che colpisce milioni di persone in tutto il mondo, caratterizzata da una mancanza di lubrificazione e idratazione sufficienti sulla superficie dell’occhio. Questa condizione può causare disagio, disturbi visivi e potenziali danni alla superficie oculare. Tra i gruppi più colpiti ci sono le donne in postmenopausa, che sperimentano cambiamenti ormonali che esacerbano i sintomi dell’occhio secco. Questo articolo approfondisce uno studio condotto su 30 donne in postmenopausa di età compresa tra 45 e 60 anni, che valuta l’efficacia dei colliri a base idrossipropil-guar e nanoparticelle lipidiche nell’alleviare i sintomi dell’occhio secco in un periodo di tre mesi.
LO STUDIO
Lo studio è stato effettuato su 30 donne in postmenopausa di età compresa tra 45 e 60 anni. Le partecipanti sono state valutate utilizzando quattro test chiave: il Break-Up Time test (BUT), il test di Schirmer I, l’Ocular Surface Disease Index (OSDI) e la meibomiografia. Questi test hanno fornito una valutazione completa della stabilità del film lacrimale delle partecipanti, della produzione di lacrime, della gravità dei sintomi e della funzionalità delle ghiandole di Meibomio.
METODI DI VALUTAZIONE
Dottoressa Lucia Cascavilla

La sindrome dell’occhio secco si verifica quando gli occhi non producono abbastanza lacrime o quando quste evaporano troppo rapidamente. Ciò può causare infiammazione e danni alla superficie dell’occhio. Il film lacrimale, che ricopre l’occhio, è costituito da tre strati: lo strato lipidico, lo strato acquoso e lo strato mucinico. Ogni strato svolge un ruolo cruciale nel mantenimento della salute e del comfort degli occhi. Lo strato lipidico, prodotto dalle ghiandole di Meibomio, impedisce l’evaporazione dello strato acquoso, che fornisce idratazione. Nelle donne in postmenopausa, i cambiamenti ormonali possono portare a una diminuzione della produzione di lacrime e ad alterazioni nella composizione del film lacrimale, rendendole più suscettibili alla DES.
Come citato, i metodi di valutazione sono stati: il Break-Up Time (BUT), che misura il tempo necessario affinché compaiano macchie secche sulla cornea dopo un battito di ciglia. Un break-up time più breve indica un film lacrimale meno stabile, che è un segno distintivo della sindrome dell’occhio secco. Il test di Schirmer I, che valuta la produzione lacrimale posizionando una piccola striscia di carta da filtro sotto la palpebra inferiore. La quantità di umidità assorbita dalla carta in un periodo di tempo stabilito indica il livello di produzione lacrimale. L’Ocular Surface Disease Index (OSDI) o test OSDI, un questionario che valuta la gravità dei sintomi dell’occhio secco, tra cui disagio, disturbi visivi e l’impatto sulle attività quotidiane. Il test viene valutato con un sistema di punteggio basato su questionario di 12 domande. I valori di OSDI indicano la condizione di occhio secco e possono variare da 0 a 100 a seconda della gravità. Infine, la meibomiografia, una tecnica di imaging utilizzata per visualizzare le ghiandole di Meibomio, che producono lo strato lipi-





dico del film lacrimale. La disfunzione di queste ghiandole può portare all’occhio secco evaporativo.
TRATTAMENTO E FOLLOW-UP
Dopo le valutazioni iniziali, alle partecipanti sono stati somministrati colliri a base di idrossipropil-guar e nanoparticelle lipidiche, progettati per migliorare lo strato lipidico del film lacrimale e ridurre l’evaporazione. Sono state condotte valutazioni di follow-up a un mese, due mesi e tre mesi per monitorare i cambiamenti nei sintomi dlle partecipanti e la stabilità del film lacrimale.
I RISULTATI
lo studio ha prodotto risultati promettenti, con oltre il 90% delle partecipanti che ha segnalato un miglioramento nei sintomi dell’occhio secco. Il test BUT ha mostrato una maggiore stabilità del film lacrimale, il test di Schirmer I ha indicato una maggiore produzione lacrimale e i punteggi OSDI hanno riflesso una significativa riduzione della gravità dei sintomi. I risultati della meibomiografia hanno anche dimostrato una migliore funzionalità delle ghiandole di Meibomio.
DISCUSSIONE E CONCLUSIONE
I risultati di questo studio sottolineano l’efficacia dei colliri a base lipidica nel trattamento della sindrome dell’occhio secco nelle donne in postmenopausa. Stabilizzando il film lacrimale e migliorando lo strato lipidico, questi colliri affrontano le cause profonde della sindrome da occhio secco in questa fascia demografica. Il miglioramento della funzionalità delle ghiandole di Meibomio supporta ulteriormente l’uso dei colliri a base lipidica come opzione di trattamento praticabile.
La sindrome dell’occhio secco è una condizione comune e spesso debilitante, in particolare tra le donne in postmenopausa. Questo studio evidenzia dunque il potenziale dei colliri a base di idrossipropil-guar e nanoparticelle lipidiche per fornire un significativo sollievo dai sintomi dell’occhio secco, migliorando la qualità della vita delle persone colpite. Si raccomandano ulteriori ricerche con popolazioni più ampie e diversificate per convalidare questi risultati ed esplorare le applicazioni più ampie di questo trattamento.
La meibomiografia alla baseline, foto fornita dalla Dottoressa Cascavilla
La meibomiografia di follow up a 3 mesi, foto fornita dalla Dottoressa Cascavilla
EvEnti CongrEssuali
TALK EYESEE @FLORETINA 2024
Talk EyeSee è arrivato anche a Floretina 2024, il congresso italiano di respiro internazionale dedicato alle innovazioni del segmento posteriore che si è svolto a Firenze alla Fortezza da Basso dal 5 all’8 di dicembre 2024. Ancora una volta
Matteo Forlini ha condotto delle interessanti interviste ai protagonisti nazionali e internazionali della retina, con un occhio di riguardo a tutte le novità del settore.

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IL FUTURO DEI PROGRAMMI DI SCREENING CON L’OCT
Matteo Forlini intervista James Fujimoto, tra gli inventori dell’OCT, sui futuri utilizzi di questa tecnologia nei programmi di screening. Il Professor Fujimoto ha parlato di quanto l’OCT, combinato con altri strumenti di imaging come il fundus, sia importante per individuare patologie sistemiche a stadi precoci e non precedentemente diagnosticate anche nei servizi di cura primari, con cui il paziente si interfaccia in prima battuta.

GLP-1 E OCCHIO, NUOVA FRONTIERA DELLA RICERCA
Matteo Forlini intervista Aleksandra Rachitskaya sulle nuove ricerche riguardanti gli effetti che gli agonisti recettoriali del GLP-1 possono avere. Infatti, dati hanno registrato che possono avere effetti antinfiammatori e neuroprotettivi, così si è deciso di fare degli studi più approfonditi per capire se è possibile utilizzarli in determinate patologie oculari come AMD e glaucoma. La Professoressa Rachitskaya ha parlato inoltre della sua esperienza con l’home monitoring OCT.

COME, QUANDO E PERCHÉ OPERARE PAZIENTI CON FLOATERS?
Matteo Forlini intervista Donald D’Amico sulla vitrectomia per i floaters, la floaterectomy, quando farla e su quali pazienti. Il Professor D’Amico ha sottolineato come molti chirurghi sono riluttanti a fare questo tipo di chirurgia, a causa dell’incertezza e della possibilità di fare un “danno” su un occhio normale. Il Professor D’Amico dà inoltre importanti consigli su questo tipo di chirurgia.

LA COROIDOPATIA SIEROSA CENTRALE, UN INQUADRAMENTO TERAPEUTICO
Matteo Forlini intervista Marco Lupidi sulla coroidopatia sierosa centrale. Il Professor Lupidi sottolinea come sia una patologia dai tratti sistemici e quindi è importante studiare il paziente attentamente a livello emodinamico, per capire bene quali sono i fattori su cui agire e impostare correttamente la terapia.

LA TERAPIA GENICA PER LE PATOLOGIE RETINICHE
Matteo Forlini intervista Allen Ho sulla terapia genica per la retina, un’innovazione in costante progresso e che sta coinvolgendo tutta la medicina, non solo l’oftalmologia. Nel segmento posteriore, la terapia genica ha fatto passi da gigante nel campo delle malattie rare, ma sta venendo studiata anche per condizioni come l’AMD o la retinopatia diabetica. Il Professor Ho ha parlato nello specifico di ABBV-RGX-314 di Regenexbio e degli studi di punta su questa terapia.

I
FARMACI INTRAVITREALI DI SECONDA GENERAZIONE
Matteo Forlini intervista il Professor Paolo Lanzetta e il Professor Francesco Boscia sulle nuove possibilità intravitreali di seconda generazione. Entrambi hanno fatto presente che questi farmaci permettono di estendere l’intervallo tra un’iniezione e l’altra, riducendo quindi il peso sul paziente. Non tutti i pazienti hanno però accesso a queste nuove terapie nel nostro Paese. È importante dunque ripensare il sistema per stare al passo con i tempi.
DRUSENoffEVO: EVOluzione IN VISTA NELLA DMLE

LEVOLUZIONE NELLA SCELTA DELLE
SOSTANZE ATTIVE
Le sostanze attive utilizzate per la formulazione di DRUSENoffEVO sono scelte considerando le più autorevoli pubblicazioni scientifiche internazionali, prendendo come riferimento lo studio AREDS 2, il cui ultimo report di giugno 2022 conferma l’utilità di Luteina, Zeaxantina, Zinco, Vitamine C ed E nella prevenzione della DMLE.
L’evoluzione della composizione è stata cercata operando proprio in direzione di un completamento della formula AREDS 2, puntando su sostanze che agissero direttamente sulla protezione dell’Epitelio Pigmentato Retinico (EPR)
La scelta è così caduta sulla Cyanidin 3 O-Glucoside (C3G), una antocianina comunemente presente nel riso nero che raggiunge il tessuto oculare dopo somministrazione orale. (1)


Tra gli antociani il C3G è quello che possiede le più forti proprietà antiossidanti utili ad inibire la fotossidazione anche a livello delle cellule della retina.
Il C3G si è dimostrato essere un valido supporto al mantenimento dell’efficienza funzionale dell’EPR
• C3G aumenta la vitalità delle cellule dell’Epitelio Pigmentato Retinico (EPR) contrastando l’apoptosi indotta da stress ossidativo.(2)
• C3G migliora la funzione di barriera delle cellule dell’EPR sovra regolando l’espressione di proteine delle tight junction.(2)
Un ulteriore aspetto importante del C3G è che evidenziato la capacità di accelerare la rigenerazione della rodopsina apportando un contributo utile alla qualità della visione,
andando così a sinergizzare con la Luteina che si è dimostrata capace di ridurre il fastidio da abbagliamento. (3,4)
EVOLUZIONE NELLA TECNOLOGIA FARMACEUTICA
Le compresse di DRUSENoffEVO sono preparate con una tecnologia farmaceutica innovativa, la “NEW MICRONIZATION TECNOLOGY”
Tale sistema prevede la micronizzazione dei principi attivi e consente un maggiore contatto delle sostanze attive con i villi intestinali migliorandone notevolmente la biodisponibilità, ottimizzando l’assorbimento e di conseguenza l’efficacia.
EVOLUZIONE NELLA COMPLIANCE DEL PAZIENTE
Le dimensioni delle compresse ed il loro numero per confezione possono costituire fattori limitanti per la compliance del paziente alla terapia prescritta. Ecco perché DRUSENoffEVO è caratterizzato da:
• compresse di facile deglutizione grazie alle dimenzioni ridotte
• confezione da 30 compresse per la terapia di un’intero mese
DRUSENoffEVO: l’EVOluzione della formula AREDS mirata alla protezione dell’EPITELIO PIGMENTATO RETINICO
BIBLIOGRAFIA
1) Amato R, Canovai A, Melecchi A, Pezzino S, Corsaro R, Dal Monte M, Rusciano D, Bagnoli P, Cammalleri M. Dietary Supplementation of Antioxidant Compounds Prevents Light-Induced Retinal Damage in a Rat Model. Biomedicines. 2021 Sep 7;9(9):1177. doi: 10.3390/biomedicines9091177
2) W. Peng et al. “Cyanidin-3-glucoside improves the barrier function of retinal pigment epithelium cells by attenuating endoplasmic reticulum stress-induced apoptosis.” FoodResearch International, Volume 157 July 2022 3)
3) Matsumoto H, Nakamura Y, Tachibanaki S, Kawamura S, Hirayama M. Stimulatory effect of cyanidin 3-glycosides on the regeneration of rhodopsin. J Agric Food Chem. 2003 Jun 4;51(12):3560-3. doi: 10.1021/jf034132y. PMID: 12769524.
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PROGRESSIONE MIOPICA “L’ESPERTO RISPONDE” A FLORetina
Risposte alle domande più frequenti di chi gestisce la progressione miopica e di chi si astiene
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AAldo Vagge, Professore Associato di Oftalmologia presso l’Università degli Studi di Genova, è stato protagonista della sessione “Incontra l’Esperto” presso lo stand di EssilorLuxottica al congresso internazionale FLORetina, tenutosi dal 5 all’8 dicembre 2024 alla Fortezza da Basso a Firenze. Durante l’evento ha risposto alle domande dei medici oculisti presenti, affrontando le problematiche relative alla gestione della progressione miopica nei pazienti pediatrici e condividendo esperienze pratiche.
In che modo l’uso prolungato dei dispositivi digitali influisce sulla miopia? E perché leggere un libro è diverso?
L’uso dei dispositivi digitali rappresenta tre fattori di rischio per la progressione miopica: l’elevato numero di ore di utilizzo, spesso compulsivo, l’uso in condizioni di scarsa illuminazione e l’effetto della luce blu sul ciclo sonnoveglia, implicato anch’esso. A differenza dei dispositivi digitali, la lettura di un libro non presenta gli stessi rischi. La progressione miopica non dipende
soprattutto dalla genetica? In che modo lenti a defocus e farmaci possono contrastarla?
Sebbene la genetica giochi un ruolo importante, il Prof. Vagge sottolinea che la progressione miopica è multifattoriale, con l’epigenetica che ha un peso maggiore rispetto alla genetica. I principali fattori di rischio includono l’età di insorgenza, la familiarità, il tempo trascorso all’aria aperta, l’eccessivo lavoro da vicino e le alterazioni della visione binoculare. Anche il livello di istruzione ha un impatto: nei paesi con alta scolarizzazione si osserva una maggiore prevalenza di miopia elevata rispetto ai paesi con minor accesso all’istruzione.
Nel caso di un bambino di 8 anni con -0,75D di miopia in assenza di familiarità miopica, ha senso intervenire con le lenti a defocus? La risposta del Professore è stata affermativa: “Sì, ha senso intervenire perché c’è il supporto della letteratura” A sostegno di questa scelta, cita i

risultati di uno studio pubblicato su Jama Ophthalmology, che ha mostrato come il 33% dei bambini inclusi nello studio non avesse genitori miopi, dimostrando l’efficacia delle lenti Stellest in una popolazione eterogenea.
Le lenti a defocus sono adatte a pazienti con eteroforia o ambliopia?
E ancora la risposta è stata affermativa: “le lenti a defocus possono essere utilizzate anche nei pazienti con eteroforia o ambliopia”. Il Prof. Vagge sottolinea che non ci sono evidenze che dimostrino un peggioramento della funzione accomodativa o un’alterazione delle eteroforie o ambliopie con l’uso di queste lenti. La loro azione si basa sul defocus simultaneo, che non interferisce con l’accomodazione.
È utile intervenire con lenti a defocus nei soggetti pre-miopi?
Il soggetto pre-miope presenta un’ipermetropia ridotta (+0.75D o inferiore) e alti fattori di rischio, come la familiarità. In questi casi, potrebbe avere senso l’utilizzo di lenti neutre a defocus, anche se al momento mancano studi clinici definitivi a supporto. Tuttavia, questi pazienti devono essere monitorati attentamente, poiché presentano un’elevata probabilità di sviluppare miopia.
L’astigmatismo influisce sulla progressione miopica?
L’elemento chiave per decidere se e come intervenire non è tanto il difetto refrattivo ma la misurazione delle lunghezze assiali e la loro collocazione nei percentili di crescita.
Qual è l’età ottimale per iniziare e terminare l’uso delle lenti a defocus?
Gli studi clinici sulle lenti Stellest indicano che possono essere utilizzate in bambini dagli 8 ai 18 anni, ma esistono anche ricerche che hanno incluso pazienti con meno di 6 anni. “Il mio approccio è dai 6 anni fino ai 17 o 18 anni” afferma il Prof. Vagge. Non ci sono evidenze precise su quando interrompere l’uso delle lenti: “Se l’allungamento della lunghezza assiale è maggiore rispetto a quello atteso per sesso ed età, mi spingo oltre parlandone con il paziente e i genitori”. Qual è la sua strategia nel controllo della progressione miopica?
Il Prof. Vagge ha riportato all’attenzione dei presenti il concetto di terapia combinata, mostrando i risultati del suo studio presentato ad ARVO 2024, in cui ha confrontato l’efficacia della monoterapia con l’uso combinato di atropina allo 0,01% e lenti a tecnologia

H.A.L.T. I risultati hanno evidenziato che, rispetto ai trattamenti singoli, la terapia combinata è più efficace in termini di equivalente sferico mentre non è stata trovata nessuna differenza statisticamente significativa tra il combinato e la tecnologia H.A.L.T. per quanto riguarda la riduzione dell’allungamento assiale. Questo potrebbe significare che nel breve termine il defocus potrebbe controllare meglio l’allungamento assiale rispetto all’atropina.
Nel suo approccio clinico, il Prof. Vagge valuta inizialmente la posizione del paziente nelle curve di crescita biometrica, che variano in base al sesso. Se il paziente si trova sotto il cinquantesimo percentile, il rischio di sviluppare una miopia elevata è di fatto nullo, e non si interviene con trattamenti specifici. Se invece supera il cinquantesimo percentile, si avvia una strategia di controllo della progressione miopica. Sarà poi importante valutare il rischio di sviluppare una miopia elevata, aggiunge il Prof. Vagge, cresce particolarmente a partire dal settantacinquesimo percentile. Come possiamo valutare la reale efficacia delle lenti nella progressione miopica?
Valutare la tendenza di crescita della lunghezza assiale nelle varie visite di follow up. Se questa rallenta e inizia a scendere nei percentili nel tempo allora significherà che il trattamento è efficace. Il nostro obiettivo è quindi fare in modo che la lunghezza assiale del paziente aumenti in maniera fisiologica per sesso ed età.
Un altro sistema che permette di sensibilizzare i genitori sull’importanza della progressione miopica è rappresentato dal Myopia Calculator,che, inserendo dati come etnia, età e tipologia di trattamento adottato, genera un grafico dettagliato
della progressione miopica fino ai 17 anni. Questo strumento permette di stimare la progressione miopica con il trattamento e confrontarla con l’evoluzione naturale della patologia in assenza di intervento.
Esiste un effetto rebound alla sospensione del trattamento con le lenti?
L’effetto rebound è noto per l’atropina ad alte concentrazioni, motivo per cui si preferiscono dosaggi più bassi (comunemente tra 0,01% e 0,05%).
Il defocus, invece, non sembrerebbe essere associato a fenomeni di rebound, in quanto non agisce a livello recettoriale. Gli studi finora disponibili confermano che l’effetto delle lenti a defocus si mantiene nel tempo senza variazioni significative alla loro sospensione.
Qual è il meccanismo d’azione del defocus miopico?
Le evidenze scientifiche dimostrano che un paziente miope non corretto presenta un defocus in zona foveale, con l’immagine che si focalizza prima della retina, favorendo la progressione miopica. L’uso di lenti monofocali risolve il defocus foveale, ma induce un defocus ipermetropico periferico, che stimola l’allungamento assiale dell’occhio. Il defocus ipermetropico è considerato il principale fattore di rischio per la progressione della miopia.
L’ipocorrezione è una strategia efficace per controllare la miopia?
L’ipocorrezione è un fattore che favorisce l’allungamento assiale. Il paziente miope, leggendo senza correzione adeguata, genera raggi molto più divergenti che si focalizzano dietro la retina, causando un defocus ipermetropico periferico. Questo meccanismo è alla base dell’effetto negativo del near work e dimostra perché l’ipocorrezione non è una strategia utile per controllare la progressione miopica.
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CCastiglione Olona (VA), 18 Febbraio 2025 – Come ormai è ampiamento noto, la miopia è in costante aumento: fino al 90% dei giovani in Asia è già miope e le previsioni indicano che, entro il 2050, metà della popolazione mondiale sarà affetta da miopia. Oltre a causare una visione offuscata, infatti, la miopia può influire sulla qualità della vita in molti modi.
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