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Indice dei contenuti 4
Neuroprotezione nel glaucoma: ruolo dell’epigallocatechinagallato (EGCg) Nicola Pescosolido
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Correlation between CD4 + T Lymphocyte count and ocular manifestation in HIV/AIDS cases in Nepal Gyanendra Lamichhane
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Misura dell’angolo di bagnabilità in materiali silicone idrogel ed effetto delle procedure di manutenzione sul suo valore Giancarlo Montani
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Rapporto costo-beneficio del trattamento anti-VEGF terapeutico-profilattico rispetto al solo trattamento terapeutico Paolo Limoli
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Blefaroptosi pediatrica: come, quando e perchè trattarla Nicola Pescosolido
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Neuroprotezione nel glaucoma: ruolo dell’epigallocatechinagallato (EGCg) Nicola Pescosolido Università di Roma Sapienza - Dipartimento di Scienze dell’Invecchiamento
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RIASSUNTO Il glaucoma, seconda causa di cecità nei paesi industrializzati, è una sindrome caratterizzata da neuropatia ottica ad evoluzione progressiva e tipici difetti del campo visivo, nella quale l’aumento della pressione intraoculare (IOP) è il principale fattore di rischio. Essendo la patologia glaucomatosa una malattia multifattoriale si è cercato di individuare gli altri fattori di rischio, tra i quali è emerso che lo stress ossidativo e i radicali liberi sono importanti agenti eziologici coinvolti nei cambiamenti morfologici e funzionali riscontrati
nel glaucoma e tipici delle patologie degenerative. La scoperta dell’importanza dei radicali liberi come agenti eziologici ha aperto il campo a molte sperimentazioni con agenti antiossidanti e scavenger atti a ridurre lo stress ossidativo con effetto neuroprotettivo tra cui prendiamo in considerazione l’epigallocatechinagallato.
INTRODUZIONE Il glaucoma è una malattia multifattoriale in cui sono numerosi i fattori di rischio implicati e tra i quali l’aumento della pressione intraoculare (IOP) è il più rilevante (Wilson et al.,1982; Fechtner e Weinreb, 1994; Nicolela e Drance, 1996; Anderson, 1999). Il danno al nervo ottico non è però un fattore direttamente correlato ai livelli della pressione intraoculare e questo è dimostrato dalla possibilità del verificarsi di danni al campo visivo in pazienti con IOP inferiori a 20 mmHg e dalla possibile assenza di danni campimetrici a valori di IOP superiori a 30 mmHg (Richler et al., 1982; Green e Madden, 1987; Vogel et al., 1990; Shirakashi et al., 1993; Suzuki et al., 1999; Bellezza et al., 2000). Tuttavia, nella maggior parte dei pazienti si verifica un miglioramen-
to della funzione visiva riportando i valori alterati di IOP in ambiti fisiologici e un suo peggioramento quando la IOP alterata non è trattata (Novack et al., 1990; O’Brien et al., 1991; Curcio et al., 1996). Gli esami del campo visivo e la pachimetria permettono di stimare molto accuratamente il rischio di sviluppare glaucoma entro 5 anni in ogni singolo individuo con ipertono oculare basandoci e seguendo indicazioni su quella che si chiama medicina basata sull’evidenza (Evidence Based Medicine [EBM]). Infatti, sappiamo che su 100 casi di ipertensione oculare solo un numero compreso tra 9 (Brandt et al., 2001; Feuer et al., 2002; Gordon et al., 2002; The Ocular Hypertension Treatment Study [OHTS], 2002; Ocular Hypertension Treatment Study Group, 2006a; 2006b) e 11
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PAROLE CHIAVE Glaucoma, pressione intraoculare (IOP), epigallocatechinagallato, radicali liberi dell’ossigeno, neurprotezione.
(European Glaucoma Prevention Study Group [EGPS], 2002; 2003; 2005; 2007a; 2007b; Miglior et al., 2007) svilupperanno in 5 anni una progressiva alterazione glaucomatosa del campo visivo (CV) o della papilla ottica. Questo vuol dire che nello stesso arco di tempo circa 85-90 pazienti non trattati rimarranno invariati. Se si riesce a diminuire la IOP del 20% rispetto ai valori basali riscontrati all’inizio dello studio è possibile ridurre da 10 a 4-5 il numero di pazienti che svilupperanno glaucoma (Brandt et al., 2001; Feuer et al., 2002; Gordon et al., 2002; Ocular Hypertension Treatment Study, 2002; Ocular Hypertension Treatment Study Group, 2006a; 2006b). Sulla base di questi dati appare evidente che il trattamento ipotonizzante è efficace, ma allo stesso tempo non è assolutamente necessario o comunque indicato per la totalità dei 100 pazienti. Da ciò si evince che se la malattia glaucomatosa è l’insieme di patologie che terminano in una neuropatia ottica, una terapia volta a prevenire i processi che innescano il danno, più che a ridurre i fattori di rischio, potrebbe rappresentare un enorme potenziale terapeutico. In questa ottica si instaura il concetto di neuroprotezione in quanto questa è volta alla protezione del nervo ottico dalla degenerazione che si verifica in corso di glaucoma. C’è un consenso generale riguardo al fatto che l’accumulo dello stress ossidativo è correlato, e molto probabilmente, responsabile dell’invecchiamento (Stephen et al., 2000). In effetti, vi è un aumento, correlato all’età, del carico ossidativo sistemico e la morbosità etàdipendente è associata con delle basse difese antiossidanti (Rondanelli et al., 1997; Poalisso et al., 1998). Quindi, il danno ossidativo può giocare un ruolo importante nella patogenesi di malattie correlate con l’età, come lo è il glaucoma, soprattutto quando l’equilibrio ossidazione/antiossidazione è alterato e cioè i radicali liberi superano le difese antiossidanti. I radicali liberi sono sostanze che possiedono un elettrone spaiato e, di conseguenza, reagi-
scono con lipidi, acidi nucleici e proteine. I radicali liberi più noti e meglio studiati sono quelli che derivano dalla degradazione dell’ossigeno molecolare, in particolare l’anione superossido (O2.-), lo ione ossidrile (OH.) e l’ossigeno singoletto (1O2). Queste molecole reagiscono in vivo con gli aminoacidi contenenti gruppi solfuro e con gli acidi grassi insaturi, determinando, di conseguenza, fenomeni quali la denaturazione proteica, la perossidazione dei lipidi di membrana che si traduce in un’alterata permeabilità di membrana, la produzione di fattori chemiotattici, l’alterata sintesi di collagene attraverso una diminuita attività enzimatica e un’aumentata infiltrazione cellulare. I radicali liberi possono ancora danneggiare gli acidi nucleici per modifiche delle loro basi, le proteine e gli enzimi per denaturazione e depolimerizzazione e ancora i polisaccaridi per depolimerizzazione (Pescosolido e Guglielmelli, 1994). Esistono più di 70 meccanismi con cui i radicali liberi dell’ossigeno possono causare effetti nocivi (Halliwell e Gutteridge, 1990; Andersen et al., 1994). Possono inoltre facilitare il rilascio di sostanze eccitotossiche (es. glutammato), insieme alle quali inducono la morte cellulare in seguito a ischemia o ipertono oculare (Pescosolido e Guglielmelli, 1994). Non è stato ancora possibile stabilire in vivo quali siano le strutture più colpite dai danni prodotti dai radicali liberi anche se in vitro sembra che essi esercitino la loro azione soprattutto a livello delle cellule endoteliali, delle cellule gliali e gangliari retiniche (Pescosolido e Guglielmelli, 1994). Il ruolo causale attribuito ai radicali liberi nella genesi di alcuni processi patologici oculari, ha suscitato l’interesse del mondo scientifico in quanto fornirebbe un’affascinante chiave di interpretazione dei meccanismi patogenetici responsabili di diverse malattie come la degenerazione maculare senile, nelle sue varie forme, le degenerazioni tapetoretiniche periferiche e centrali, la cataratta senile e, non ultimo, la malattia glau-
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comatosa (Andersen et al., 1994). Lieven et al. (2006), misurando lo stress ossidativo delle RGC sottoposte ad assotomia, hanno osservato l’aumento del livello intracellulare dell’anione superossido. L’anione superossido può essere prodotto in vari siti all’interno della cellula tra cui il mitocondrio ed è proprio il livello di anione superossido generato nel mitocondrio ad incrementare (Figura 1). Verosimilmente è questo lo step che innesca il signaling dell’apoptosi. Inoltre, l’aggiunta di neurotrofine non ha fatto diminuire il livello di anione superossido suggerendo che la deprivazione delle neurotrofine non sia responsabile della morte delle RGC a seguito dell’assotomia (Figura 2). Gli effetti neurodegenerativi dei radicali liberi non sono però limitati a stimoli acuti come
nell’ischemia, ma sono coinvolti anche in patologie del sistema nervoso centrale di tipo cronico quali la sclerosi laterale amiotrofica e la sindrome di Alzheimer (Mc Namara e Fridovich, 1993). Altri studi hanno dimostrato una maggiore sensibilità della retina allo stress ossidativo, in quanto lo strato dei fotorecettori è quello più ricco in tutto l’organismo di acidi grassi poliinsaturi, costituenti la membrana dei coni e dei bastoncelli; pertanto, è facile comprendere l’azione lesiva di tali sostanze a questo livello. I radicali liberi stimolano il processo di perossidazione lipidica, nel quale le catene di acidi grassi poliinsaturi sono ossidate ad idroperossidi e distruggono le membrane di tali cellule (Halliwell e Gutteridge, 1984; Babizhayev e Bunin, 1989).
Figura 1. L’inibizione del complesso III della catena di trasporto degli elettroni mitocondriale è stato in grado di prevenire l’incremento dei livelli dell’anione superossido nelle RGC. (A) Antimicina A ha bloccato tale incremento. Le cellule sono state trattate con vari inibitori del trasporto elettronico (antimicina, indometacina, allopurinolo, rotenone e DPI) per 1 e 24 ore prima della misurazione dei livelli di anione superossido. Il mezzo di coltura arricchito con indometacina, allopurinolo, rotenone e DPI ha messo in evidenza significanti incrementi dei livelli di anione superossido dopo 1 e 24 (p < 0.0001) i quali non sono stati rilevati nelle cellule arricchite in antimicina A, la quale blocca selettivamente il complesso III della catena di trasporto degli elettroni mitocondriale. (B) Sorgenti endogene di radicali liberi dell’ossigeno (ROS) e i loro inibitori. Il flusso di elettroni attraverso la catena di trasporto degli elettroni è una potenziale sorgente di ROS all’interno della cellula. Rotenone e antimicina A bloccano il trasferimento degli elettroni rispettivamente verso l’ubichinone e tra il citocromo bH e il semichinone. L’allopurinolo inibisce la xantina ossidasi che genera l’anione superossido. L’indometacina inibisce la ciclossigenasi che converte gli acidi grassi in perossidi (come l’acido arachidonico in prostaglandina G2) (modificata, da Levine et al., 2006).
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Figura 2. L’incremento dei livelli di anione superossido nelle RGC dopo dissociazione e assotomia non è stato inibito dai fattori neurotrofici. (A) L’aggiunta di 50 ng/ml di BDNF, 10 ng/ml di CNTF, 5 µg/ml di insulina e 5 µg/M di forskolin alla coltura cellulare non ha determinato una riduzione significativa dei livelli di anione superossido nelle RGC. Legenda: Cerchi pieni – RGC in assenza di neurotrofine; rombi vuoti – RGC in presenza di neurotrofine. Gli asterischi rappresentano la significatività rispetto al controllo (p=0.02 con ANOVA. (B) Incremento del 50% durante le 24 h dopo la dissociazione delle RGC. Legenda: RGC in assenza di neurotrofine; rombi vuoti – RGC in presenza di neurotrofine. (C) Mezzo di coltura essenziale che non ha accentuato l’effetto delle neurotrofine. Aggiunta di BDNF, CNTF, forkolin o insulina. (D) Meccanismi di traduzione del segnale delle neurotrofine studiate (modificata, da Levine et al., 2006)
Studi successivi hanno dedotto che la degenerazione del nervo ottico nel glaucoma non mostra segni di infiammazione indotta da necrosi, come nella arterite giganto-cellulare, ma la morte avviene principalmente per attivazione della cascata apoptotica dopo aumento della pressione intraoculare o dopo sezione trasversa degli assoni del nervo ottico o dopo schiacciamento del nervo ottico o dopo riperfusione sanguigna in cui i radicali liberi giocano un fattore rilevante (Pescosolido et al., 1998; 1999; 2000). Considerando l’importante ruolo svolto dai radicali liberi nel danno alle cellule gangliari retiniche (RGC) sono state testate numerose sostanze protettive tra le quali l’epigallocatechingallato. L’epigallocatechinagallato (EGCg) è uno dei principali costituenti del tè verde, un polifenolo conosciuto in quanto esercita effetti antitu-
morali, antimutageni ed antiapoptotici, azioni che possono essere sufficientemente spiegate attraverso le proprietà antiossidanti della molecola. Inoltre, è ampiamente accettato che l’EGCg possa influenzare molti processi metabolici, quali quelli che portano all’inibizione di TIMP e MAPK come pure alla modulazione dell’ossido nitrico (Amico et al., 2006). È stato anche dimostrato che l’EGCg svolge un ruolo protettivo nella malattia di Alzheimer, nel Parkinson, nell’Huntington e nei modelli animali di ischemia neuronale. Il meccanismo ipotizzato è quello di ristabilire i ridotti livelli di fosforilazione della proteinchinasi C (PKC) e di ERK 1/2 indotti dallo stress ossidativo e anche la modulazione dei geni anti-apoptotici. Questo meccanismo è dimostrato dal fatto che l’effetto neuroprotettivo dell’EGCg viene annullato dall’inibizione della PKC; inoltre,
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Figura 3. Meccanismo di eccitotossicità glutammato indotta
l’EGCg impedisce la riduzione dell’attività della ERK 1/2 rilevata a seguito di stress ossidativo confermando anche l’effetto neuroprotettivo di questa chinasi (implicata anche nella neuroprotezione associata al BDNF e all’attivazione di recettori metabotropici glutaminergici gliali) (Levites et al., 2002). Un potenziale effetto terapeutico è quello di vasodilatatore in diversi letti vascolari. Infatti, l’EGCg produce una significativa vasodilatazione concentrazione-dipendente nell’arteria oftalmica bovina molto probabilmente mediante l’azione dell’ossido nitrico (Romano et al., 2006). Inoltre, sembrerebbe che l’EGCg sia in grado di far diminuire l’aumento delle concentrazione del Ca2+ glutammato-indotto proteggendo in questo modo le cellule. L’aumento della concentrazione del Ca2+ glutammato-indotto può essere dato dall’attivazione dell’influsso di Ca2+ dal compartimento extracellulare, dal danneggiamento dei meccanismi di estrusione transmembrana del Ca2+, dall’inibizione del sequestro del Ca2+ negli organelli intracitoplasmatici o, infine, potrebbe risultare dal rilascio del Ca2+ dai compartimenti intracellulari. Questi diversi meccanismi vengono esplicati attraverso i recettori ionotropici NMDA del glutammato, i recettori ionotropici voltaggio-sensibili del Ca2+ attivati dalla depolarizzazione causata dai recettori AMPA e/o kainato e infine dal ri-
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lascio metabotropico del Ca2+ dagli organelli intracellulari provocato dall’attivazione della fosfolipasi C. L’EGCg andrebbe ad attenuare l’aumento della concentrazione del Ca2+ glutammatoindotto mediante la riduzione dell’influsso attraverso i recettori ionotropici (Lee et al., 2004). Una recente dimostrazione degli effetti neuroprotettivi dell’epigallocatechinagallato è stata data da Zhang et al. in due studi consecutivi (2007; 2008). Gli Autori hanno testato la molecola sulla retina di ratto (in vivo, iniezione sistemica del farmaco) per la valutazione della protezione rispetto al danno da ischemia/riperfusione, rilevando la sua capacità di contrastare le modifiche retiniche indotte da questo tipo di danno, quali la riduzione dell’ampiezza delle onde a e b all’ERG, la perdita di specifiche proteine e mRNA nelle cellule gangliari retiniche e nei fotorecettori, l’aumento nella retina dell’mRNA per caspasi specifiche (3 e 8) e per la GFAP. Anche la somministrazione orale sembra sortire i medesimi effetti. L’induzione di uno stress ossidativo in vitro con il perossido di idrogeno, ha permesso di evidenziare nelle cellule gangliari retiniche pretrattate con EGCg una significativa riduzione dell’apoptosi. Gli stessi Autori hanno mostrato che l’EGCg è in grado di attenuare l’apoptosi indotta dalla luce nelle cellule in coltura. Le RGC esposte a insulti, come un’elevata IOP, si trovano in uno stato di compromissione energetica e diventano più suscettibili a insulti secondari (ad esempio la luce), normalmente tollerati. Il meccanismo attraverso il quale l’epigallocatechinagallato attenui l’insulto luminoso coinvolge probabilmente la rimozione delle specie reattive dell’ossigeno (ROS), che si formano negli enzimi mitocondriali a causa della luce. Anche i risultati ottenuti sull’uomo sono stati finora confortanti: in 55 occhi di trenta pazienti glaucomatosi, dopo somministrazione di 270 mg di EGCg per novanta giorni, sono stati rilevati miglioramenti statisticamente significativi all’analisi del campo visivo (Errico e Riccardi, 2008).
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Correlation between CD4 + T Lymphocyte count and ocular manifestation in HIV/AIDS cases in Nepal Gyanendra Lamichhane Consultant Ophthalmologist, Lumbini Eye Institute, Bhairahawa
ABSTRACT Background - Ocular manifestations have been reported in approximately 7080% of HIV cases. In general CD4+ T Lymphocyte count has been used to predict the onset of certain ocular infections in patients who are HIV positive. Aim and Objective - To study the correlation between CD4+ T Lymphocyte count and ocular manifestations in the cases known to be infected with HIV. Materials and Methods - A cross sectional, descriptive study during the period between January 2007 to July 2008 (a period of one and half year). Statistics: Findings were recorded in the proforma developed for the study SPSS ver14.0 was used for data analysis. The p value of <0.05 was considered as significant. RESULTS: A total of 117 HIV infected cases were included in this study. Among them 76 (64.95%) were male and 41 (35.05%) were female. Total ocular involvement was seen in 55(47%) patients. The common anterior segment findings
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were Herpes Zoster Ophthalmicus (4.27%), anterior uveitis (2.56%), blepharitis (2.56%) and conjunctivitis (1.7%) where as HIV retinopathy (19.6%), CMV retinitis (5.1%), ocular toxoplasmosis (2.5%) and presumed Ocular Tuberculosis (0.85%) were common posterior segment findings. In relation to CD4+ T-cell count and ocular manifestations, 11.9% with count above 500 cells/mm3, 20% with count between 200-500 cells/mm3, 64.86% with count between 51-199cells/mm3 and 100% with count below 50 cells/mm3 had various ocular manifestations respectively. Anterior segment manifestations were found to be more common in patients with higher CD4+ count whereas posterior segment findings were more common in those with lower range of CD4+ count. Conclusion: Ocular manifestation in HIV/AIDS is not uncommon and its correlation with CD4+ count is significant. KEYWORDS: HIV/AIDS, anterior and posterior segments, ocular involvement, CD4+ Count
INTRODUCTION HIV has the capability to affect every organ and system of the body by direct damage by the virus or by making the host susceptible to opportunistic infections. Ocular manifestations have been reported in 70-80% of individuals infected with HIV and it has become apparent that the ocular manifestations always reflect systemic disease and may be the first sign of disseminated infections in many cases. Thus Ophthalmologist may be the first one to detect sight saving and life prolonging diagnosis1. In 1983 first description of ocular manifestations in HIV/AIDS was noted and since then several reports have been reported regarding ocular manifestations in HIV/AIDS. Before the introduction of HAART (Highly Active Anti Retroviral Therapy) numerous reports described the ocular complications of AIDS2. There are numerous ocular manifestations associated with AIDS, but all may be summarized to one of the four major categories: • noninfectious associated eye diseases • opportunistic ocular infections • neoplasms • neuro-ophthalmic manifestations The ocular lesion can also be classified by ocular structure involved3: Adnexal manifestations Herpes zoster ophthalmicus, Kaposis's sarcoma, Molluscum contagiosum . Anterior segment manifestations Keratoconjunctivitis sicca, Infectious keratitis, Iridocyclitis. Posterior segment manifestations Retinal microvasculopathy, Infectious retinitis, CMV retinitis, Infectious choroiditis, Intraocular lymphoma Neuro-ophthalmic lesions Papilloedema, Optic neuritis, Optic atrophy, Cranial nerve palsy. Orbital lesions Orbital lymphoma, Orbital cellulitis, Orbital Kaposi's sarcoma.
CD4 cells are a type of lymphocyte (white blood cell). They are an important part of the immune system. CD4 cells are sometimes called T- helper cells. There are two main types of T-cells. T-4 cells, also called CD4+, are "helper" cells. They lead the attack against infections. T-8 cells, (CD8+), are "suppressor" cells that suppress the immune response. When someone is infected with HIV for a long time, the number of CD4 cells they have (their CD4 cell count) goes down. This is a sign that the immune system is being weakened. The lower the CD4 cell count, the more likely the person will get sick. There are millions of different families of CD4 cells. Each family is designed to fight a specific type of germ. When HIV reduces the number of CD4 cells, some of these families can be totally wiped out. CD4 cell tests are normally reported as the number of cells in a cubic millimeter of blood, or mm3. There is some disagreement about the normal range for CD4 cell counts, but normal CD4 counts are between 500 and 1600 One can lose the ability to fight off the particular germs those families were designed for. If this happens, one might develop an opportunistic infection26. In general CD4+ T Lymphocyte count has been used to predict the onset of certain ocular infections in patients who are HIV positive. CD4+ T-cell count above 500cells/mm3 hardly has any ocular involvement or may have very non-specific ocular manifestations whereas patients with CD4+ count less than 500 cells/mm3 has findings like Kaposi's sarcoma, HZO, Lymphomaand Tuberculosis. Similarly, CD4+ T-cell less then 200 cells/mm3 is associated with Toxoplasmosis, cryptococcosis, HIV retinopathy and less than 50cells/mm3 is associated with HIV retinopathy, CMV retinitis, Vericella-Zoster retinitis, Mycobacterium avium complex infections3.
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MATERIALS AND METHODS A descriptive type of cross-sectional study was done at BPKLCOS (B.P Koirala Lion's center for Ophthalmic Studies) and various rehabilitation centers in Kathmandu during January 2007 to June 2008. Patients in the rehabilitation centre were the referred patients from various parts of Nepal. Results A total of 117 cases were included in this cross-sectional study. Majority of the patients (41%) were in age group 31-40 years followed by 21-30 years (37.6 %). Mean age of male was 29.78 years with (S.D +/-11.30) and female was 30.54 years with (S.D +/11.47). The mean age of total cases was 30.04 years. Male and Female were 76 (64.9%) and 41 (35.1%) respectively which comprised the ratio of 1.8:1. The relation
CD4+Level (cells/mm3)
Table 1. Patient distribution according to CD4+ T Lymphocyte count and Gender
Gender Total
Percent (%)
9 (21,5%)
42
35,8
12 (80%)
3 (20%)
15
12,9
51-199
19 (51,3%)
18 (48,7%)
37
31,7
<50
12 (52,1%)
11 (47,9%)
23
19,6
Total
76 (64,9%)
41 (35,1%)
117
100
Male (%)
Female (%)
>500
33 (78,5)
200-500
HAART
CD4+Count (cells/mm3)
Table 2. Patient distribution according to CD4+ Level and HAART
14
between age and gender was not statistically significant (P= 0.5). About 55 (47%) cases had various ocular involvement. About 60.5% patient with age range 31-40 years showed ocular involvement whereas 100% of patient in age group 51-60 years had ocular involvement. Almost 100% patients with age range 0-20 years had no ocular involvement. The commonest anterior segment manifestations were very nonspecific like conjunctivitis, stye, blepharitis and Herpes zoster ophthalmicus where as posterior segment manifestations were HIV retinopathy, CMV retinitis, ocular toxoplasmosis and presumed ocular tuberculosis. In the study 35.8% of the patients had CD4+ count more than 500 cells/mm3 followed by 37 (31.7%) patients with CD4+ count between 51-199 and least i.e. 15 (12.9%) patients with CD4+ count between 200-500 cells/mm3.
Total
Yes (%)
No (%)
>500
0
42 (100)
42
200-499
1 (6,7%)
14 (93,3%)
15
51-199
32 (86,4%)
5 (13,6%)
37
<50
23 (100%)
0
23
Total
56 (47,8%)
61 (52,2%)
117
EuVision Peer-reviewed Journal of Ophthalmology 2/10
The mean CD4+ cell count was 324 (S.D +/279). The highest count was 1500 and the least was 3. Ocular involvement in the patients with CD4+ count <50 was the highest accounting 100% followed by in the group with CD4+ count 51-199 (63.8%) and least being among those with CD4+ above 500 cells/mm3 accounting 12%.The association between CD4+ count and ocular involvement was statistically significant (p=0.0002). Table 1 shows majority (35.8%) of the patients had CD4+ count more than 500 cells/mm3 followed by 37 (31.7%) patients with CD4+ count between 51-199 and least i.e. 15 (12.9%) patients with CD4+ count between 200-500 cells/mm3. The mean CD4+ cell count was 324 (S.D +/-279). The highest count was 1500 and the least was 3. Table 2 shows that all patients with CD4+ count above 500 had not received HAART where as all 23 (100%) patients with CD4+ cell count less than 50 were on HAART. Table 3 shows that Ocular involvement in the patients with CD4+ count <50 was the highest accounting 100% followed by in the group with CD4+ count 51-199 (63.8%) and least being among those with CD4+ above 500 cells/mm3 accounting 12%. The association between CD4+ count and ocular involvement was statistically significant (p=0.0002). Table 4 shows associated systemic disease (63%) was common in group with CD4+ count between 51-199 cells/mm3 where as only 3 (7.1%) had systemic illness in the group with CD4+ count above 500 cells/mm3. The relation between CD4+ count and associated Systemic illness was statistically significant. (p= 0.000003). Table 5 shows that ocular involvement was seen more in those patients with low CD4+ count. Similarly posterior segment findings were more common with low CD4+ count, the commonest being HIV Retinopathy and CMV Retinitis. One case of Cryptococcal meningitis had choroidal lesion (Cryptococcal Choroiditis) too. This ocular lesion was later improved with anti-cryptococcal treatment.
CD4+Count (cells/mm3)
Diagnosis Ocular NAD
Ocular Disease
Total
>500
37 (88%)
5 (12%)
42
200-499
12 (80%)
3 (20%)
15
51-199
13 (35,2%)
24 (64,8%)
37
<50
0
23 (100%)
23
Total
62
55
117
Table 3. Patient distribution according to CD4+ count and ocular involvement
DISCUSSION In this study 64.95% (n=76) patients were male and 35.05% (n=41) patients were female with male: female ratio of 1.85:1. In all other similar studies carried out at various other centers also showed male preponderance. A demographic study done by Aich T K et al7 in Nepal, also found male preponderance in HIV infection accounting for 86%. This male preponderance may be because of more involvement of males in high risk behavior for HIV/AIDS like IDU use and sexual contact. The demographic pattern of our cases were similar to those reported in Nepalese statistics for HIV disease in general8. The relation between gender of the case and ocular involvement was not statistically significant (p= 0.35). In our study, out of total 42 patients with CD4+ count above 500cells/mm3 only 5 patients (11.92%) had ocular manifestations. Similarly ocular findings were found to be the highest in those group with CD4+ T Lymphocyte counts below 50 cells/mm3 where ocular involvement was seen in 23 (100%) cases and also common in those with CD4+ T Lymphocyte count between 51-199 cells/mm3 where ocular findings
CD4+Count (cells/mm3)
Associated Systemic Disease Total
Yes (%)
No (%)
>500
3 (7,1)
39 (92,3)
42
200-499
12 (80)
3 (20)
15
51-199
27 (63)
10 (27)
37
<50
12 (52,1)
11 (47,9)
23
Total
54 (46,1)
63 (53,9)
117
Table 4. Patient distribution according to CD4+ Count and associated Systemic Diseases
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Ocular Disease
CD4+T Lymphocyte Count (cells/mm3)
Total
>500
200+499
51-199
<50
No Ocular Findings
37
12
13
0
62
Conjunctivitis
1
0
1
0
2
Blepharitis
1
0
1
1
3
Stye
2
1
2
0
5
Herpes Zoster Ophthalmicus
0
2
2
1
5
Papilloedema
0
0
1
1
2
CMV retinitis
0
0
1
5
6
Cryptococcal Choroiditis
0
0
1
1
2
Kaposi's Sarcoma
0
0
0
0
0
Ocular Lymphoma
0
0
0
0
0
Toxoplasmosis
0
0
2
1
3
HIV retinopathy
0
0
11
12
23
Ocular Tuberculosis
0
0
1
0
1
Retinal Detachment
0
0
1
0
1
Retro bulbar Neuritis
1
0
0
0
1
B/L LR palsy with
0
0
0
1
1
42
15
37
23
1172
Papilloedema Total
Table 5. Patient distribution according to Ocular disease and CD4+ Count
were found in 24 (64.80%) cases. The association between CD4+ T Lymphocyte count and ocular involvement was statistically significant (p= 0.0002). These findings are similar to the study done
Study
Sample size
by Ballacco Gabrieli et al50 where they found ocular involvement in 100% if CD4+ count is below 50 cells/mm3. Ebana M Vogo C et al21 found 91.7% of patients with ocular complications had a CD4 count of less than 100/mm3. Regarding correlation between CD4+ T Lymphocyte count and ocular manifestations in this study, out of 42 patients with CD4+ cell count above 500cells/mm3 only 5 (11.1%) had various ocular manifestations which included: Stye, Blepharitis, Conjunctivitis. Similarly, in those group with CD4+ T Lymphocyte count between 200-500 cells/mm3 (n=15) the ocular manifestations were present in 3 (20%) of cases which comprised HZO (13.3%), Stye (6.7%). In the group with CD4+ count 51-199 cells/mm3 (n=37) ocular involvement was present in 24 patients (64.8%) and comprised HIV retinopathy (29.7%), HZOv (5.4%), Toxoplasmosis (5.4%), Papilloedema (2.7%), Stye (5.4%), ocular tuberculosis (2.7%) and CMV retinitis (2.7%) and finally in group with CD4+ count less than 50 cells/mm3 (n=23) ocular manifestations were present in 23 (100%) cases. HIV retinopathy (52.1%) and CMV retinitis (21.7%) were the commonest manifestations along with Cryptococcal Choroiditis, HZO and Papilloedema each of which comprised one case each. This result is quite close to the prospective study by Kupperman B D et al22 where 30% had CMV retinitis with CD4+ count below 50 cells/mm3.
Jabs et al4 USA 1995
Ebana Mvogo Cet al5 Cameroon 2005
Assefa et al6 Ethiopia 2004
Present Study 2007-2008
781
57
125
117
Table 6. Comparison of studies done in different centers with our study
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EuVision Peer-reviewed Journal of Ophthalmology 2/10
Study
CD4+count >500 cells/mm3
N doye et al23 1991, Dakar
Brain A Philips et al24, USA
AAO section13 BCS25 2006-2007
Present Study 2007-2008
Conjunctivitis Dry eyes Blepharitis Stye
Conjunctivis HZO Dry eyes
CD4+count HZO 200-499 cells/mm3
HZO Kaposi’s sarcoma Lymphoma Tuberculosis
HZO Kaposi’s sarcoma Lymphoma
HZO Stye
CD4+ count 51-199 cells/mm3
Pneumocystosis Toxoplasmosis
Pneumocystosis Toxoplasmosis Coccidiodomycosis CMV retinitis
HIV retinopathy Toxoplasmosis Papilloedema CMV retinitis
HIV retinopathy CMV retinitis Cryptococcosis Varicella –Zoster retinitis Mycobacterium avium complex infection
HIV retinopathy CMV retinitis Cryptococcosis Varicella –Zoster retinitis Mycobacterium avium complex infection
HIV retinopathy CMV retinitis Cryptococcal choroiditis Papilloedema
CD4+ count <50 cells/mm3
HIV retinopathy
CONCLUSION Both anterior as well as posterior segment can be equally involved in HIV/AIDS. Posterior segment complication is more potentially sight threatening. Patient with less CD4+ count and not receiving HAART (Highly Active Anti Retro-viral Therapy) is more vulnerable for posterior segment com-
Table 7. Correlation between CD4+ count and ocular manifestations in different studies
plication. If ocular problems can be detected earlier by routine screening programme and regular follow up, early and timely medical or surgical intervention could be done for prevention and minimizing potential blinding complications and help people to leave socially and economically productive life.
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NOTE
Misura dell’angolo di bagnabilità in materiali silicone idrogel ed effetto delle procedure di manutenzione sul suo valore Giancarlo Montani Ottico - Docente a contratto Università del Salento
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La bagnabilità è un proprietà molto importante dei materiali utilizzati in contattologia e può essere definita come l’abilità con cui riescono a lasciarsi bagnare uniformemente e in maniera stabile dal liquido lacrimale. Le lenti a contatto che presentano una ridotta bagnabilità risultano poco confortevoli e quando la superficie fra un ammiccamento e l’altro si secca si creano delle aree idrofobiche che possono ridurre la qualità della visione e creare irritazione alla palpebra durante il suo scorrimento sulla superficie della lente. Un film lacrimale stabile determina una adeguata lubrificazione che permette alla palpebra di scorrere sulla superficie della lente senza subire irritazione. Un materiale poco bagnabile ha anche una maggior tendenza
ad accumulare depositi; infatti quando tra gli ammiccamenti il film lacrimale evapora nelle zone secche possono formarsi depositi, specialmente di natura proteica. In vitro la misura della bagnabilità di un materiale viene effettuata tramite la misura dell’angolo di contatto (θ) che rappresenta l’angolo al punto di contatto tra la superficie del materiale e la tangente alla superficie della goccia di liquido depositato (Figura 1). Esistono diversi metodi utilizzati per la misura dell’angolo di contatto in vitro anche se i più utilizzati in contattologia sono quelli “della goccia sessile”, “della bolla intrappolata” e “della dinamica di Wilhelmy”. Il metodo della goccia sessile prevede la deposizione, tramite un ago e una siringa, di
Figura 1. L’angolo di contatto (θ) si forma al punto di contatto tra la superficie del materiale e la tangente alla superficie della goccia di liquido depositato
Figura 2. Metodo della goccia sessile per la misura dell’angolo di bagnabilità
EuVision Peer-reviewed Journal of Ophthalmology 2/10
a.
b.
Figura 3. Misura dell’angolo di contatto tramite software
Figura 4. Angolo di contatto secondo la procedura “advancing” (a) e secondo la procedura “receding” (b)
una goccia di acqua deionizzata sulla superficie da misurare (Figura 2). Prima di effettuare la deposizione della goccia la superficie da esaminare deve essere asciugata. La misura dell’angolo può essere effettuata tramite sistemi ottici che al loro interno prevedono la presenza di un goniometro o tramite software di analisi di immagine (Figura 3). Più il valore angolare risulta vicino a 0° più il materiale risulta bagnabile un valore angolare superiore a 90° indica che il materiale risulta scarsamente bagnabile (Tabella 1).
La procedura descritta fornisce una valutazione definita “advancing” per distinguerla dalla valutazione definita “receding” (Figura 4) che prevede il riassorbimento parziale della goccia tramite l’ago della siringa. L’angolo di contatto “receding” è spesso inferiore a quello “advancing” e la loro differenza determina l’isteresi dell’angolo di contatto. La spiegazione di questa differenza è dovuta alle condizioni in cui si trova la superficie del materiale durante la misura . Infatti la superficie è asciutta nella misura “advancing” mentre con l’assorbimento della goccia la misura “receding” viene effettuata su di una superficie bagnata. I materiali utilizzati per la realizzazione di lenti morbide possono presentare elevate isteresi dell’angolo di contatto poiché le catene polimeriche orientano la loro parte più idrofila dove c’è più acqua e la parte più idrofoba in direzione opposta; quando la superficie della lente è bagnata la parte idrofila delle catene polimeriche è orientata verso l’esterno mentre quando la superficie è asciutta la parte idrofila è orientata verso l’interno, spostando la componente più idrofoba verso l’esterno rendendo così la superficie meno bagnabile (Figura 5).
Tabella 1. Significato clinico dell’angolo di bagnabilità
Figura 5. Modificazione dell’orientamento delle catene polimeriche per effetto della disidratazione
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21
Figura 6.Metodo della bolla intrappolata per la misura dell’angolo di bagnabilità
Figura 7. Metodo dinamico di Wilhelmy per la misura dell’angolo di bagnabilità
Secondo Tonge la misura dell’angolo di contatto “advancing” rappresenta la misura singola clinicamente più rilevante poiché fornisce indicazioni sulla bagnabilità della lente quando la superficie della lente risulta più idrofoba. Questa condizione può verificarsi durante la fasi dell’inserimento della lente o quando il film lacrimale pre lente si rompe prima dell’ammiccamento. Al contrario del metodo della goccia sessile Il metodo della bolla intrappolata prevede che la superficie da misurare venga immersa in acqua durante la misura e tramite una siringa ed un ago viene generata una bolla d’aria sotto la superficie da misurare (Figura 6). L’angolo di contatto viene successivamente misurato in un modo simile a quello descritto per il metodo della goccia sessile. Poiché la bolla d’aria introdotta spinge il liquido via dalla superficie del materiale la misura che si ottiene può essere considerata di tipo “receding”. Uno dei principali problemi riconducibili a questa tecnica per la misura dell’angolo di contatto in materiali idrogel è dovuta all’assorbimento dell’acqua da parte della superficie del campione da misurare. Il metodo dinamico di Wilhelmy serve a calcolare la media fra avanzamento e ritorno dell’angolo di contatto su solidi con geometria uniforme. Entrambi i lati del solido devono avere le stesse caratteristiche. La bagnabilità del solido viene misurata immergendolo e ritirandolo in un liquido a tensione superficiale nota (Figura 7).
22
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Le tecniche in vitro possono essere utili per poter confrontare l’angolo di bagnabilità fra materiali con caratteristiche diverse ma non forniscono informazioni sulle interazioni che si possono creare fra materiale e film lacrimale. Infatti il film lacrimale presenta una tensione superficiale più bassa rispetto all’acqua e per questo motivo anche l’angolo di bagnabilità risulterà inferiore inoltre una lente a contatto applicata si ricopre di depositi di natura proteica e lipidica. I depositi di natura proteica inizialmente migliorano la bagnabilità della lente mentre la loro denaturazione o i depositi di natura lipidica la riducono. Per questo motivo può essere utile valuta-
Figura 8. La valutazione della bagnabilità può essere effettuata utilizzando gli anelli del videocheratoscopio o le mire oftalomometriche.
re anche la bagnabilità in vivo utilizzando delle tecniche che possono essere suddivise in due gruppi: quelle effettuate in campo scuro e quelle effettuate in campo chiaro. Le tecniche in campo scuro prevedono l’utilizzo di strumenti come l’oftalmometro e il topografo (Figura 8) corneale e la procedura prevede la misura del tempo che intercorre dall’ultimo ammiccamento fino alla perdita di regolarità delle immagini riflesse dalla cornea. I materiali con miglior bagnabilità garantiscono tempi di stabilità delle immagini riflesse più lunghi. Le tecniche in campo chiaro prevedono l’utilizzo della lampada a fessura e del Tearscope. Con la lampada a fessura possono essere utilizzate le tecniche della riflessione speculare o la tecnica diffusa (Figura 9a). Un film lacrimale assottigliato su di una lente morbida può portare alla formazione di fenomeni di interferenza che si presentano con frange colorate (Figura 9b). La misura del tempo che intercorre fra l’ultimo ammiccamento e la formazione delle frange di interferenza che precedono la formazione di zone secche (Figura 9c) sulla lente può essere considerato per la valutazione della bagnabilità. Anche in questo caso più lungo è il tempo migliore è la bagnabilità della lente. Il vantaggio del Tearscope rispetto alla lampada a fessura è legato alla illuminazione uniforme della lente ottenuta tramite un sistema a luce bianca e alla possibilità di inserire reticoli davanti al sistema illuminante consentendo la valutazione della bagnabilità a anche in campo scuro. Per garantire la corretta performance della lente applicata e fondamentale che non si presentino zone di secchezza fra un ammiccamento e l’altro nel caso in cui questo non è possibile oltre alla scelta di materiali più bagnabili è possibile ricorrere all’utilizzo di gocce oculari con agenti umettanti in grado di legarsi alla superficie della
A
B
C
Figura 9. Valutazione della bagnabilità con lampada a fessura e Tearscope
lente a contatto migliorandone la bagnabilità, favorendo la distribuzione e la stabilità del film lacrimale. Anche i sistemi di manutenzione rivestono un ruolo importante nel migliorare la bagnabilità della lente a contatto rimuovendo dalla superficie eventuali depositi di natura lipidica. A questo proposito è stato condotto presso l’Università del Salento uno studio con lo scopo di evidenziare se le procedure utilizzate per la manutenzione della lente possono avere effetto sull’angolo di bagnabilità di lenti a contatto morbide realizzate in materiali silicone-idrogel. A questo studio hanno partecipato 35 soggetti di età compresa fra 22 e 43 anni 23 femmine e 12 maschi che sono stati divisi in 7 gruppi. Ogni gruppo ha ricevuto una lente diversa in materiali: Balafilcon A, Comfilcon A, Filcon II 3, Galifilcon A, Lotrafilcon A, Lotrafilcon B, Senofilcon A, le cui caratteristiche di idratazione e permeabilità sono riportate in figura 10 e le caratteristiche di
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23
temperatura (25°) e allo stesso livello di umidità (35%). I risultati ottenuti sono stati analizzati attraverso l’utilizzo di un software dedicato (http://bigww.pfl.ch). Dopo otto ore di utilizzo le lenti sono state rimosse e utilizzando una soluzione unica a base di PHMB (0,0001%) con poloxamina come tensioattivo la lente destra veniva pulita seguendo il metodo “rub”* mentre la lente sinistra secondo la metodica “no rub”** e l’angolo di bagnabilità nuovamente misurato. In tabella 3 vengono riportati i risultati ottenuti. Dai risultati di questo studio emerge inoltre che la procedura “RUB” può essere indicata per lenti con trattamento di superficie mentre la procedura “NO RUB” può essere indicata per lenti senza trattamento di superficie. Tabella 2.
superficie in tabella 2. Prima dell’applicazione è stato misurato l’angolo di bagnabilità di ogni lente utilizzando la metodica della goccia sessile depositando sulla superficie della lente (da cui è stato rimosso il liquido in eccesso) una goccia di 5ml di acqua deionizzata. Le misure sono state condotte alla stessa
Figura 10. Idratazione e permeabilità (DK) dei materiali silicone idrogel utilizzati nello studio
24
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CONCLUSIONI La bagnabilità della superficie di una lente a contatto è fondamentale per garantire una miglior visione una minor irritazione palpebrale e un miglior comfort. La valutazione della bagnabilità in-vitro può essere effettuata tramite la misura dell’angolo di contatto attraverso il metodo “della goccia sessile”, “della bolla intrappolata” e “della dinamica di Wilhelmy”. Queste tecniche forniscono informazioni indicative sulla bagnabilità della lente applicata poiché non sono in grado di prevedere le interazioni che si creano fra materiale e film lacrimale. Per avere ulteriori informazioni può essere utile effettuare valutazioni in-vivo che prevedono l’utilizzo dell’oftalmometro, del to* la lente viene posizionata sul palmo della mano e dopo averla ricoperta di soluzione MPS viene strofinata delicatamente e risciacquata prima di essere riposta nel contenitore ** la lente viene risciacquata per almeno 5 secondi per superficie con la soluzione MPS prima che questa venga riposta nel contenitore
pografo, della lampada a fessura o del Tearscope. Dai risultati del nostro studio emerge che i materiali in silicone idrogel presentano angoli di bagnabilità diversi fra loro e che non possono essere previsti considerando gli altri parametri normalmente dichiarati dai costruttori come la permeabilità, l’idratazione o il trattamento di superficie. Inoltre viene evidenziato come anche la procedura utilizzata per la manutenzione della lente può influenzare l’angolo di bagnabilità con un indicazione della procedura “rub” per le lenti trattate in superficie e della procedura “no rub” per le altre.
Tabella 3.
BIBLIOGRAFIA 1. CHENG L, MULLER SJ, RADKE CJ. Wettability of silicone-hydrogel contact lenses in the presence of tear-film components Curr Eye Res. 2004 Feb;28(2):93-108. 2. MALDONADO-CODINA C, MORGAN PB. In vitro water wettability of silicone hydrogel contact lenses determined using the ses sile drop and captive bubble techniques. J Biomed Mater Res A. 2007 Nov;83(2):496-502. 3. KAREN FRENCH - Contact lens material properties. Part 1 - Optician December 02, 2005 No 6022 Vol 230 : 20-28 4. MALDONADO-CODINA C, EFRON N. Dynamic wettability of pHEMA-based hydrogel contact lenses. Ophthalmic Physiol Opt. 2006 Jul;26(4):408-18. 5. CHENG L, MULLER SJ, RADKE CJ. Wettability of silicone-hydrogel contact lenses in the presence of tear-film components. Curr Eye Res. 2004 Feb;28(2):93-108. 6. TONGE S, JONES L, GOODALL S, TIGHE B. The ex vivo wettability of soft contact lenses. Curr Eye Res. 2001 Jul;23(1):51-9. 7. MALDONADO-CODINA C, MORGAN PB. In vitro water wettability of silicone hydrogel contact lenses determined using the ses sile drop and captive bubble techniques. J Biomed Mater Res A. 2007 Nov;83(2):496-502. 8. LORENTZ H, ROGERS R, JONES L. The impact of lipid on contact angle wettability. Optom Vis Sci. 2007 Oct;84(10):946-53.
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Rapporto costo-beneficio del trattamento anti-VEGF terapeutico-profilattico rispetto al solo trattamento terapeutico Paolo Limoli Low Vision Research Centre - Milano
RIASSUNTO La terapia antiangiogenica intravitreale nella degenerazione Maculare Legata all’Età (AMD) di tipo essudativo, pur avendo raggiunto grandi risultati, presenta alcuni aspetti clinicamente sfavorevoli. Il primo è legato alla frequenza di somministrazione, il secondo relativo alla durata del trattamento. Ci è sembrato opportuno nella fase di carico terapeutico iniziale associare al trattamento antiVeGF altri trattamenti come la terapia fotodinamica, l’uso di antiossidanti aspecifici e specifici, l’uso di steroidi intravitreali e/o per via generale. Tuttavia nonostante l’utilizzo del trattamento combinato per avere un più rapido e sicuro effetto sulla neovascolarizzazione, non si hanno effetti sulle recidive, che nella maggioranza dei casi avvengono dopo 6-12 mesi e che abbattono le performance visive. Scopo del lavoro è verificare quale sia la strada terapeutica più efficace e meno dispendiosa. Abbiamo considerato 27 occhi e
26
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suddiviso tali occhi in due gruppi: gruppo A con trattamento terapeutico e profilattico periodico, gruppo B con solo trattamento terapeutico. Il gruppo A ha mantenuto delle performance migliori e stabili nel tempo rispetto al gruppo B. Abbiamo concluso che a prescindere da un approccio terapeutico combinato iniziale, è importante per mantenere le performance nel tempo mantenere un trattamento profilattico con periodicità variabile da caso a caso. La stabilizzazione delle performance visive semplifica il monitoraggio del paziente con neovascolarizzazione retinica. Il paziente riferisce un maggior senso di serenità e fiducia nei confronti delle proprie future capacità visive. Inoltre la pianificazione dei trattamenti e dei controlli periodici rende tale approccio clinico anche più economico. Parole chiave CNV, ARMD, IVT
Il trattamento con anti-VEGF della degenerazione Maculare Legata all’Età (AMD) di tipo essudativo ha portato a risultati molto interessanti e impensabili fino a dieci anni fa. Tuttavia bisogna considerare che, dopo una terapia efficace, è fondamentale prevenire le recidive che esitano in genere con performance visive sempre peggiori per il sovrapporsi di danni retinici. Per questo motivo abbiamo condotto questo studio, al fine di identificare la strada terapeutica più efficace e più economica, cercando di ridurre il senso di frustrazione e di demotivazione nelle terapie del paziente. Si riduce così il dispendio e il discomfort da parte del paziente dovuti alla ripresa intensiva di indagini diagnostiche e dei provvedimenti terapeutici per fronteggiare le recidive, mantenendo nel contempo il livello funzionale precedentemente raggiunto. INTRODUZIONE La terapia antiangiogenica intravitreale mediante l’inibizione selettiva del Fattore della Vasoproliferazione (Vascular Endothelial Growth Factor, VEGF) in corso di degenerazione Maculare Legata all’Età (AgeRelated Macular Degeneration, AMD) di tipo essudativo, ha attualmente raggiunto dei risultati che solo fino a pochi anni fa sembravano impensabili. In particolare, gli Studi Clinici Marina ed Anchor1-5 hanno dimostrato che il trattamento con ranibizumab delle neovascolarizzazioni coroideali (CNV), indifferentemente dalla loro composizione6 (classiche, minimamente classiche ed occulte) permette di stabilizzare l’acuità visiva a due anni in oltre il 90% dei pazienti, con un miglioramento medio di 7-11 lettere. La terapia anti-VEGF presenta però alcuni aspetti clinicamente sfavorevoli. Il primo è legato alla frequenza di somministrazione, che è mensile secondo i primi studi, in seguito è diventata di sei somministrazioni nei primi sei mesi, e ora PRN [Pro
Re Nata (quanto basta)] dopo la loadingphase di tre iniezioni mensili7-8. Il secondo è relativo alla durata del trattamento, tuttora non conosciuta. Tutto ciò espone il paziente ai rischi9-10 legati alla procedura iniettiva ed all’esposizione al farmaco, che dopo anni di trattamento potrebbe dare effetti collaterali locali e sistemici ancora non conosciuti. Inoltre, non tutti i pazienti rispondono allo stesso modo al trattamento. Questo fatto va parzialmente ricondotto ai limiti della terapia anti-VEGF: è una monoterapia, altre vie metaboliche restano attive, ed inoltre il blocco di una specifica via provoca un effetto rebound indotto da stimoli compensatori da altre vie. Infine, non è attiva sui neovasi già formati, ma solo sulla componente neovascolare immatura e dunque l’efficacia su componenti neovascolari importanti o avanzati è sicuramente più ridotta. Da queste considerazioni appare più che mai giustificata la necessità da un lato di raggiungere sempre il miglioramento dell’acuità visiva, dall’altro di ridurre la frequenza dei trattamenti ed una maggiore stabilità nel tempo. Ci sembra opportuno nella fase di carico terapeutico iniziale associare al più rapido e semplice trattamento anti-VEGF anche altri trattamenti11-13 come la terapia fotodinamica, l’uso di antiossidanti aspecifici e specifici, l’uso di steroidi sia intravitreali che per via generale. Tuttavia l'utilizzo del trattamento combinato per avere un più rapido e sicuro effetto sulla neovascolarizzazione, non ci pone al riparo dalle recidive, che in genere avvengono dopo 6-12 mesi nella maggioranza dei casi imponendo la ripresa delle strategie diagnostiche e terapeutiche14-21. È esperienza comune, che quando un paziente ha sofferto della complicanza neovascolare, la recidiva abbatte ovviamente le performance visive, intese come BCVA,
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visus residuo per vicino e ingrandimento necessario per ottenere un visus per vicino utile (dopo riabilitazione) e velocità di lettura, che si modificano in senso peggiorativo. La ripresa intensiva di indagini diagnostiche e dei provvedimenti terapeutici per fronteggiare la recidiva, la vanificazione di un'eventuale pregressa riabilitazione visiva e la progettazione di una nuova riabilitazione ad un livello visivo più basso e con obiettivi qualitativi necessariamente più modesti, comportano oltre ad un maggiore abbassamento delle abilità visive del paziente, un senso di frustrazione profonda, una demotivazione nei confronti delle terapie ed un notevole dispendio economico. Scopo del lavoro è verificare quale sia la strada terapeutica più efficace e meno dispendiosa22-24.
Iniziali Età
Patologia
Terapie Occhio BCVA Cp T0 cp Sist. integrate T0 T0
1
82
MNV ARMD
Antiox
OD
0,2
11
2
71
MNV ARMD Distacchi drusenoidi
Antiox
OD
0,8
10
6
3
74
MNV ARMD
PDT + Antiox OD
0,3
12
4
75
MNV ARMD
Antiox
OD
0,4
5
74
MNV ARMD
Antiox
OS
6
78
MNV RAP
7
67
MNV ARMD
8
68
MNV RAP
PDT + Antiox OS
0,2
11
9
77
MNV ARMD
PDT + Antiox OS
0,2
18
10
72
MNV ARMD
PDT + Antiox OS
0,55
11
11
58
MNV ARMD
Antiox
OD
0,4
12
58
MNV ARMD
Antiox
OS
13
81
MNV ARMD
14
69
15
71
16
91
MNV ARMD
17
42
18 19
N° Periodicità Follow IVT up
BCVA T1
cp cp X T1 T1 Sist. T1 T1
3
6
18
0,3
10
7
1,75
0,75
3
6
24
0,8
6
6
0,75
8
1,75
6
6
36
0,125
18
10
3
10
7
1,5
3
6
18
0,5
6
8
1,15
0,1
70
NV
NV
4
7
28
0,1
36
NV
NV
PDT + Antiox OS
0,9
6
6
0,75
7
5
35
0,6
7
6
0,75
PDT + Antiox OS
0,1
22
8
2,25
3
6
24
0,1
18
10
2,25
6
10
8
3
30
0,05
18
6
10
10
2,25
7
6
48
0,3
10
8
2
6
1,25
6
6
48
0,8
9
6
1,12
18
7
1,5
3
6
12
0,2
9
7
1,75
0,6
10
6
1,5
3
6
12
0,4
7
6
1,75
PDT + Antiox OD
0,15
18
6
2
7
6
48
0,3
9
6
1
MNV ARMD
PDT + Antiox OS
0,2
70
NV
NV
7
6
54
0,1
26
NV
NV
MNV ARMD
PDT + Antiox OD
0,1
18
8
2
8
6
48
0,7
10
6
2
OD
0,6
9
6
1,25
3
6
18
0,4
9
6
1,25
MNV CRM
PDT + Antiox OS
0,4
12
NV
NV
2
6
18
0,6
6
NV
NV
67
MNV RAP
PDT + Antiox OD
0,05
92
6
15
4
5
24
0,05
36
6
10
77
MNV ARMD
PDT + Antiox OD
0,05
62
10
10
2
6
18
0,1
48
10
10
0,3
25,8
7,1
3,6
4,7
5,8
29,5
0,3
15,7
7,1
3,2
Media 71,2
Antiox
Tabella 1. ARMD trattamento periodico curativo preventivo (Gruppo A)
28
X T0
PAZIENTI E METODI Abbiamo considerato 27 occhi, tutti hanno subito un primo approccio terapeutico con anti-VEGF e antiossidanti: 17 occhi (62,96%) hanno effettuato anche un trattamento iniziale combinato con PDT. Abbiamo ipotizzato di mantenere un trattamento anti-VEGF nei pazienti affetti da neovascolarizzazione anche dopo l’avvenuto controllo da parte di terapie più o meno combinate a seconda del caso clinico. Ogni paziente è stato attentamente monitorato dopo la prima remissione della complicanza fino al momento in cui si verificava l’inizio della recidiva. Non appena si modificava un qualunque parametro visivo veniva immediatamente effettuato un trattamento intravitreale con anti-VEGF, e veniva decisa una periodicità iniettiva minore all’interval-
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Iniziali Età
Patologia Trattamenti integrati Occhio BCVA T0 Cp T0 cp Sist. T0 X T0
N° IVT Follow Up BCVA T1 cp T1
cp Sist. T1 X. T1
1
73 MNV ARMD
Antiox + Avastin
OS
0,1
30
6
10
2
24
0,05
26
6
10
2
67 MNV ARMD
PDT + Antiox
OD
0,05
26
NV
NV
0
24
0,03
126
NV
NV
3
81 MNV ARMD
Antiox + Avastin
OS
0,05
30
NV
NV
1
24
0,03
36
6
10
4
71 MNV ARMD
PDT + Antiox
OD
0,1
30
10
10
1
48
0,05
62
10
10
5
71 MNV ARMD
PDT + Antiox
OS
0,3
18
9
2
1
8
0,2
22
10
2,5
6
91 MNV ARMD
Antiox
OD
0,4
9
6
1,25
1
12
0,1
36
8
10
7
84 MNV ARMD
PDT + Antiox
OD
Medie 77,6
0,2
14
NV
NV
3
24
0,05
30
NV
NV
0,2
35,4
7,8
5,8
1,4
24,3
0,1
58,0
8,0
8,5
Tabella 2. Trattamento all’evenienza solo anti VeGF (Gruppo B)
lo tra prima guarigione e inizio recidiva. Ad esempio, se il paziente, che ha controllato la neovascolarizzazione in gennaio, ha una recidiva a ottobre, cioè dopo 9 mesi, viene trattato con una periodicità semestrale. Se una RAP si scompensa dopo 5 mesi, il paziente viene trattato nuovamente dopo 3 o 4 mesi. Tuttavia molti pazienti, dopo un risultato terapeutico efficace, in seguito a recidiva legata alla coesistenza di altre problematiche, cliniche o socioeconomiche, che ne hanno impedito una diagnosi tempestiva o perché, da un punto di vista clinico, non ci sembrava il caso di eseguire un trattamento anti-VEGF in assenza di attività da parte della membrana, posticipando eccessivamente il controllo clinico, hanno subito un deterioramento delle proprie performance visive. Abbiamo retrospettivamente suddiviso tali occhi in due gruppi: un gruppo A con
Figura 1. Comportamento della BCVA nei due gruppi considerati. Il trattamento iniettivo con antiVeGF mantenuto dopo la remissione della CNV ogni 5,8 mesi determina il mantenimento delle performance visive per lontano. Le recidiva trattate tardivamente portano a riduzione della capacità visiva.
trattamento terapeutico e profilattico periodico composto da 19 occhi, di cui 12 (63,15%) trattati con PDT, e un gruppo B con solo trattamento terapeutico e che comunque non hanno mantenuto un trattamento profilattico, composto da 8 occhi, di cui 5 (62,5%) trattati anche con PDT. Di ogni gruppo abbiamo considerato all’inizio e alla fine del follow up il BCVA per lontano in Snellen, visus residuo e con sistema per vicino in corpi di stampa, ingrandimento necessario, periodicità di trattamento e durata complessiva del trattamento. (Tabella I e II) RISULTATI E DISCUSSIONE Notiamo che il trattamento combinato con PDT non ha influenzato nel tempo il mantenimento dei risultati funzionali, considerando che i due terzi di ogni gruppo hanno effettuato PDT.
Figura 2. Comportamento della visus residuo per vicino nei due gruppi considerati. Il trattamento iniettivo con antiVeGF mantenuto dopo la remissione della CNV ogni 5,8 mesi determina addirittura un progressivo incremento delle performance visive per vicino. Le recidiva trattate tardivamente portano a riduzione del residuo visivo per vicino.
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Figura 3. Comportamento del visus per vicino con sistema nei due gruppi considerati. Non si evidenziano reali differenze nella capacità di lettura di caratteri utili, cioè sotto i 10 cp (meno di 1 cp). La riabilitazione visiva, che va sempre integrata nella terapia delle maculopatie, è in grado di aiutare entrambi i gruppi.
Figura 4. Comportamento dell’ingrandimento necessario nei due gruppi considerati. Se pure i due gruppi possono leggere con adeguato sistema ingrandente un carattere utile, cioè inferiore ai 10 cp, tuttavia l’ingrandimento necessario si mantiene o tende a ridursi nel tempo nel gruppo con trattamento terapeutico profilattico, mentre nel gruppo con solo approccio terapeutico il visus tendendo a scadere, richiede ingrandimenti sempre più alti. Un ingrandimento superiore a 4-5 X richiede in genere un sistema elettronico ingrandente, molto più discriminante rispetto a ingrandimenti di 2-3 X che richiedono solo ipercorrezioni o lenti aplanatiche.
Dunque non ci interessa in questa sede evidenziare la bontà del trattamento combinato rispetto al solo trattamento anti-VEGF. Quello che ci interessa valutare è il comportamento delle performance visive all’interno dei due gruppi nel tempo. Nel gruppo A (trattamento terapeutico e profilattico) il trattamento intravitreale è stato necessario 4,7 volte (valori medi), il trattamento fotodinamico è stato applicato nel 62,15% dei casi e il follow up è durato 29,5 mesi: la BCVA (valori medi) resta 0,3, il visus residuo per vicino passa da 25,8 a 16,6 cp, con sistema da 7,1 a 7,2 cp, l’ingrandimento da 3,6 X a 3,5 X. Nel gruppo B (trattamento solo terapeutico) il trattamento intravitreale è stato effettuato 1,4 volte (valori medi), come abbiamo già detto il trattamento fotodinamico è stato applicato nel 62,5% dei casi e il follow up è durato 24,3 mesi: la BCVA (valori medi) passa da 0,2 a 0,1, il visus residuo per vicino passa da 35,4 a 58 cp, con sistema da 7,8 a 8 cp, l’ingrandimento da 5,8 X a 8,5 X. Si evidenzia subito che il gruppo A mantiene delle performance migliori e stabili nel tempo rispetto al gruppo B, e questo nonostante un follow up maggiore rispetto al gruppo B di 6 mesi.
La periodicità del trattamento permette di limitare nel gruppo A la componente diagnostica ad un OCT e ad una microperimetria di controllo un mese dopo il trattamento, dunque ogni 5,8 mesi di media. Il gruppo B vede un peggioramento delle sue performance a causa dell’atteggiamento terapeutico che affronta il trattamento solo a recidiva conclamata e quindi solo dopo che si è instaurato un nuovo danno nella retina già colpita. (Figure 1-4)
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CONCLUSIONI Riteniamo che, a prescindere da un approccio terapeutico combinato iniziale, sia importante mantenere le performance nel tempo grazie ad un trattamento profilattico con periodicità variabile da caso a caso, studiata sulla base del mantenimento individuale della stabilità della patologia. Tale approccio semplifica l’iter diagnostico e terapeutico nel paziente con neovascolarizzazione retinica e lascia una maggior serenità e autonomia al paziente che ne viene colpito. Rispetto alla ciclicità mensile proposta dal MARINA study ci sembra inoltre nettamente più economico.
BIBLIOGRAFIA 1. Vision-related function after ranibizumab treatment by better- or worse-seeing eye: clinical trial results from MARINA and ANCHOR. 2. BRESSLER NM, CHANG TS, SUÑER IJ, FINE JT, DOLAN CM, WARD J, IANCHULEV T; MARINA Ophthalmology. 2010 Apr;117(4):747-56.e4. Epub 2010 Mar 2.
AND
ANCHOR RESEARCH GROUPS.
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NOTE
Blefaroptosi pediatrica: come, quando e perché trattarla
Nicola Pescosolido Sapienza - Università di Roma - I Facoltà di Medicina e Chirurgia Dipartimento di Scienze dell’Invecchiamento
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RIASSUNTO Nel bambino la gestione e il trattamento della blefaroptosi risultano essere più complicati che nell’adulto per una serie di ragioni che comprendono la maggiore frequenza di ambliopia e strabismo nella ptosi congenita, le condizioni dell’operazione chirurgica che prevedono un anestesia generale e la tendenza dei genitori a rimandare l’intervento di correzione fino all’età scolare. Invece, la precoce valutazione del paziente con blefaroptosi congenita è necessaria a causa della più alta incidenza di errori rifrattivi e strabismo rispetto alla popolazione generale e per prevenire lo sviluppo dell’ambliopia. In generale, il tasso di successo dell’intervento chirurgico, scelto in base alla quantità residua funzionale del muscolo elevatore della palpebra interessata, in base alla severità del grado di ptosi al momento della diagnosi e in relazione all’occlusione dell’asse visivo dell’occhio interessato,
di lagoftalmo notturno e di erosioni corneali superficiali e solo in un caso è stato riscontrato la presenza di granuloma da sutura in un paziente operato con la procedura di La Mange in una recente review. La sutura di mersilene, invece, materiale sintetico utilizzato nell’intervento di sospensione al frontale, sembra dare risultati molto incoraggianti con
risulta buono nella maggior parte dei casi. Le complicanze riportate riguardano la presenza
Blefaroptosi pediatrica, errore rifrattivo, strabismo, ambliopia, trattamento chirurgico
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un basso tasso di complicazioni. Infine, dato che la maggior parte dei casi noti di ricaduta della palpebra dopo la prima operazione ricorre solitamente entro i primi 6 mesi, viene raccomandato in tutti i pazienti pediatrici che si sottopongono ad un intervento di blefaroptosi un follow-up di almeno 6 mesi. I parenti e i pazienti dovrebbero essere avvertiti che, nonostante un buon risultato iniziale, vi è la possibilità che la ptosi si ripresenti in un secondo tempo nell’arco della vita. Parole chiave
La blefaroptosi (ptosi palpebrale) consiste in un’alterazione della posizione delle palpebre. Sebbene esista anche la ptosi della palpebra inferiore, con il termine di ptosi ci si riferisce generalmente ad un anomalo abbassamento della palpebra superiore in posizione primaria di sguardo, che determina una riduzione della rima palpebrale (in condizioni normali il bordo palpebrale superiore è situato 1-2 mm sotto il limbus). La ptosi può essere uni o bilaterale, ma nel 75% dei casi colpisce un solo occhio. Deve essere caratterizzata a seconda dell’epoca di insorgenza, della severità e dell’eziologia. In base all’età d’insorgenza la ptosi può presentarsi alla nascita (congenita) o durante la vita (acquisita). In base all’eziologia può essere miogena (il m. elevatore della palpebra superiore e il m. di Müller), neurogena (III nervo cranico), aponeurotica, traumatica, e meccanica (Tabella 1), mentre in base alla severità può essere divisa in lieve (1-2 mm), moderata (3-4 mm) e severa (> 4 mm). Una lieve ptosi può non essere clinicamente significativa mentre la malattia moderata o severa spesso dà luogo a deficit cosmetici e funzionali. Molto importante invece, per la scelta dell’intervento chirurgico, è la classificazione in base alla funzionalità residua del muscolo elevatore espressa in mm e indicata come scarsa (0-4 mm), moderata (5-10 mm) e buona (> 10 mm) (vedi avanti). Dunque, l’accurata determinazione della causa chiarisce le necessità di ulteriori test, facilita il trattamento ed ha valore prognostico (Orzalesi et al., 2003). La blefaroptosi rappresenta un problema considerevole nel bambino sia sul piano estetico, funzionale che sul piano psicosociale. La maggior parte delle ptosi congenite nei bambini sono dovute a una disgenesia muscolare che esita in un alterato sviluppo del muscolo elevatore o ad anomalie innerva-
Ptosi congenita: cause Miogena miopatie, miastenia congenita, disgenesia muscolare Neurogena paralisi congenita del III nervo cranico, sindrome di Horner congenita,sindrome di Marcus-Gunn Meccanica tumori periorbitari, neurinomi, neurofibromi Aponeurotica trauma da parto Altre cause sindrome di Sturge-Weber, morbo di Recklinghausen,sindrome fetale alcolica Tabella 1. Diagnosi differenziale della blefaroptosi della palpebra superiore.
zionali. Questa condizione è presente alla nascita e generalmente rimane stabile durante la vita. Studi istologici hanno rilevato la presenza di tessuto fibroso e adiposo all’interno del muscolo elevatore di questi pazienti. Queste anomalie nella composizione istologica alterano la capacità di contrazione e di rilasciamento del muscolo. Rispetto alla ptosi acquisita, in quella congenita la posizione della palpebra superiore non è uguale nello sguardo verso il basso e nello sguardo verso l’alto. Mentre nella ptosi acquisita, nello sguardo verso il basso, la
Figura 1. Ptosi congenita semplice. La diminuita funzione dell’elevatore si accompagna ad una indistinta piega della palpebra superiore. La ptosi è aumentata nello sguardo verso l’alto per la scarsa funzione del muscolo elevatore. Nello sguardo verso il basso la ptosi è ridotta o assente (da Orzalesi et al. 2003)
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palpebra si abbassa assumendo una posizione inferiore rispetto a quella controlaterale sana, nella ptosi congenita la palpebra superiore resta più in alto o alla stessa altezza della palpebra controlaterale: il grado di ptosi è generalmente meno marcato nello sguardo verso il basso (Figura 1). La piega della palpebra superiore è tipicamente indistinta o assente e molti bambini mantengono una posizione della testa con il mento elevato o presentano un’elevazione compensatoria delle loro sopracciglia (Orzalesi et al. 2003). Nei piccoli pazienti, difatti, questi meccanismi compensatori che s’instaurano, hanno il compito di mantenere l’asse visivo il più possibile libero dalla copertura palpebrale: il primo è il “chin-up”, ovvero l’atteggiamento posturale della testa caratterizzata da un iperestensione del collo con il mento in avanti e in alto, il secondo è la contrazione del muscolo frontale omolaterale alla ptosi che con la sua azione tende a vicariare l’azione del muscolo elevatore. La blefaroptosi in pediatria è caratterizzata da una complessità nella gestione e nel trattamento a causa di ulteriori considerazioni, quali l’ambliopia, la difficoltà nel sottoporre ad un esame piccoli pazienti e l’ anestesia generale richiesta per l’intervento chirurgico. In linea generale, nei casi in cui la ptosi interessi l’asse visivo è indicato l’intervento chirurgico. Due sono le tecniche fondamentali per correggere la ptosi della palpebra superiore e dipendono dalla funzionalità del muscolo elevatore: l’accorciamento del muscolo elevatore o del muscolo di Müller, nei casi in cui la funzionalità dell’elevatore sia > 5 mm e la sospensione al muscolo frontale, nel caso l’elevatore sia < 5 mm. Per quanto riguarda la chirurgia sul muscolo elevatore due sono le tecniche possibili. La prima consiste nell’avanzamento del muscolo elevatore. In particolare, l’elevatore e la sua aponeurosi vengono avanzati, plicati e fissati al piano tarsale mediante sutura
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non riassorbibile. Solitamente pazienti con ptosi congenita monolaterale e funzionalità residua dell’elevatore vengono trattati con questa tecnica. La seconda tecnica, generalmente considerata di scelta nel trattamento delle ptosi congenite monolaterali, è la resezione dell’elevatore. Anche per questa tecnica l’elevatore deve avere una funzionalità relativamente risparmiata (5-10 mm). Nella tecnica di sospensione al frontale, eseguita invece quando la funzionalità dell’elevatore è < 5 mm, il muscolo elevatore viene bypassato e la funzione di retrarre la palpebra superiore è affidata al muscolo frontale a cui la palpebra viene ancorata mediante una fascia di tessuto autologo (generalmente la fascia lata) o sintetico (mersilene e silicone). A questo proposito, scopo di un recente lavoro di Fogagnolo et al. (2008) è stato quello di valutare l’efficacia della correzione della ptosi palpebrale mediante tecnica di sospensione al frontale con banda in silicone. Il 90% dei pazienti presentava una ptosi neurogena, il 10% miogena. L’età dei pazienti al momento dell’intervento era di 5.5 settimane con un range compreso tra la V e la VI settimana di vita; i pazienti sono stati seguiti per un periodo di follow up compreso tra i 18 e i 30 mesi. Al momento dell’intervento tutti i pazienti presentavano una ptosi severa con completa ostruzione del campo pupillare. La distanza margine palpebrale-riflesso corneale media preoperatoria, espressa in valore negativo, era di -2.4 mm. La distanza margine palpebrale-riflesso corneale media è stata di 2.9 mm nell’immediato postoperatorio e di 2.3 mm al 3º mese. Dal 12º mese si è poi mantenuta su valori stabili senza mostrare variazioni fino alla fine del follow-up. Dunque, durante il periodo di studio l’intervento di sospensione al frontale con banda di silicone è risultato una procedura efficace e sicura.
Severità della ptosi alla diagnosi
Funzione del muscolo elevatore in mm
Tipo di intervento
2 mm
10
Fasanella Servat
8-9
10-13 mm resezione EPS
3 mm
4 mm
>8
14-17 mm resezione EPS
5-7
18-22 mm resezione EPS
4
>23 mm resezione EPS
5-7
>23 mm resezione EPS
<5
Sospensione al frontale
Tabella 2. La scelta della procedura chirurgica è stata effettuata in base alla severità del grado di ptosi e alla funzionalità del muscolo elevatore della palpebra (EPS: muscolo elevatore della palpebra superiore) (da Berry-Brincant et al., 2009)
Berry-Brincant et al. (2009), in uno studio retrospettivo della durata di 10 anni riportano i casi di 155 bambini (186 occhi) che si sono sottoposti ad intervento chirurgico per blefaroptosi nell’ospedale pediatrico di Birmingham tra il 1993 e il 2002. Tutti gli interventi venivano eseguiti dallo stesso chirurgo e i dati analizzati comprendevano le cause della ptosi, il grado di severità, la correzione chirurgica, gli esiti e le complicanze, inclusa la necessità di una seconda operazione. A tutti i bambini veniva effettuato un esame oftalmologico e ortottico dettagliato e le indicazioni all’intervento chirurgico comprendevano ragioni estetiche, visive o una significativa postura compensatoria del capo. L’acuità visiva veniva valutata mediante il sistema LogMAR (logaritmo del minimo angolo di risoluzione) a 3 m o mediante la tabella di Snellen a 6 m. Le procedure chirurgiche effettuate venivano scelte in base alla quantità residua funzionale del muscolo elevatore della palpebra interessata, in base alla severità del grado di ptosi al momento della diagnosi e in relazione all’ occlusione dell’asse visivo dell’occhio interessato (Tabella 2). Molto importante per la scelta dell’intervento chirurgico è la classificazione in base alla funzionalità residua del muscolo elevatore che viene espressa in mm come escursione tra la posizione dell’elevatore durante lo sguardo
verso il basso e la posizione dell’elevatore durante lo sguardo verso l’alto in assenza di contrazione del muscolo frontale. Ricordiamo che per escludere l’attività del muscolo frontale è sufficiente che l’esaminatore prema con decisione con la mano sulla regione frontale del paziente durante l’escursione dell’elevatore dal basso verso l’alto. Come regola,inoltre, le ptosi moderate sono associate a una buona funzione dell’elevatore, mentre le ptosi severe ad una sua scarsa funzionalità. Tutti gli interventi venivano eseguiti sotto anestesia generale. Per quanto riguarda le tecniche chirurgiche, l’approccio anteriore descritto da Collin (1989) veniva usato in tutti i casi di resezione dell’ aponeurosi del muscolo elevatore della palpebra superiore. La sutura di mersilene (fibre di poliestere) veniva usata come materiale sintetico nella chirurgia di sospensione al frontale. La procedura di La Mange veniva usata invece in soli due casi osservati di fenomeno di Marcus- Gunn (Figura 2). La sindrome di Marcus-Gunn, o della mandibola-ammiccamento, è una forma di ptosi sincinetica ed è tipicamente unilaterale. La palpebra ptosica mostra un’elevazione intermittente che coincide con la contrazione dei muscoli della masticazione. Invece, la tecnica di Fasanella Servat veniva scelta per i casi di ptosi lieve e di buona funzione del muscolo elevatore della palpebra.
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Figura 2. Sindrome di Marcuss Gunn. Nello sguardo primario, con la bocca chiusa c’è una ptosi della palpebra superiore destra. Con l’aperture della mandibola la palpebra superiore destra si solleva per la sincinesia (da Davis et al. 2004)
I bambini con ptosi congenita semplice che hanno una buona funzione dell’elevatore sono quindi trattati con una resezione anteriore del muscolo elevatore della palpebra superiore, mentre i bambini che hanno una ptosi severa e una scarsa funzionalità richiedono spesso una sospensione al frontale. La sospensione frontale unilaterale può essere presa in considerazione nei bambini che hanno un’elevazione compensatoria del sopracciglio. La sospensione frontale bilaterale combinata con l’ablazione del muscolo elevatore della palpebra superiore non coinvolto conferisce un aspetto e una funzione simmetrica delle palpebre anche se, in ogni caso, la maggior parte dei pazienti è riluttante a prendere in considerazione la chirurgia sulla palpebra normale (Orzalesi et al., 2003). A tutti i pazienti riportati nel lavoro BerryBrincant veniva prescritto nel post-operatorio cloramfenicolo pomata per 2 settimane;
tutti i bambini ritornavano a visita dopo 1-2 settimane dall’intervento e venivano sottoposti ad un ulteriore follow-up a 3 mesi dopo l’operazione. La maggior parte dei pazienti con esiti soddisfacenti venivano congedati entro 1 anno, a meno che la presenza di successivi problemi non richiedesse un tempo di follow-up più lungo. I criteri di successo dell’intervento chirurgico venivano classificati in base alla necessità di una seconda operazione, in base alla presenza di complicanze post-operatorie e in base alla soddisfazione dei parenti e del chirurgo (Tabella 3). Per quanto riguarda le caratteristiche dei pazienti e la demografia del gruppo di studio, tra i 155 bambini venivano identificati 93 maschi (115 occhi) e 62 femmine (71 occhi): il 20% soffriva di un coinvolgimento bilaterale e l’occhio affetto nel 45.8% dei casi era quello di sinistra; 76 bambini presentavano una ptosi congenita semplice mentre 79 avevano una ptosi associata ad una sindrome conosciuta o ad altre patologie oculari. Il data-base identificava 124 pazienti con ptosi miogena, 22 con ptosi neurogena, e 8 con ptosi di origine meccanica; 1 solo bambino presentava ptosi aponeurotica successiva ad una storia clinica di trauma (Tabella 4). L’età media al momento della diagnosi era di 46,94 mesi, nonostante la famiglia del bambino riferiva di aver notato l’abbassamento palpebrale nei primi 6 mesi di vita. Questo poteva es-
Grado di successo
Criteri di definizione
Buono
Singola operazione e buon risultato estetico (la quantità di ptosi residua era minore o pari a 1mm). Nessuna complicazione Sia i parenti che il chirurgo sono soddisfatti dei risultati
Sufficiente
Singola operazione, ma sufficiente risultato estetico +/- complicazioni O i parenti o il chirurgo sono insoddisfatti del risultati
Scarso
Più di un’operazione con uno scarso risultato cosmetico Complicazioni presenti Sia i parenti che il chirurgo sono insoddisfatti dei risultati
Tabella 3. I criteri e i differenti gradi di successo dell’intervento chirurgico di blefaroptosi (da Berry-Brincant et al., 2009)
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Tipo di ptosi
N. di Sesso dei bambini (occhi) bambini
Tipo di intervento in accordo all’eziologia della ptosi (N. di bambini (occhi) ) Resezioneaponeurosi elevatore
Sospensione al frontale
Fasanella Servat
La Mange
Miogena
124 (154)
80 M;44 F
85 (96)
25 (44)
14 (14)
0 (0)
Neurogena
22 (22)
10 M;12 F
16 (16)
3 (3)
1 (1)
2 (2)
Meccanica
8 (9)
3 M;5 F
8 (9)
0 (0)
0 (0)
0 (0)
Aponeurotica (Post-traumatica)
1 (1)
1 M;0 F
1 (1)
0 (0)
0 (0)
0 (0)
N. totale di bambini (occhi)
155 (186)
110 (122)
28 (47)
15 (15)
2 (2)
Tabella 4. Distribuzione dei pazienti in base alla causa della ptosi e al tipo di intervento chirurgico a cui vengono sottoposti in accordo all’eziologia (da Berry-Brincant et al., 2009)
sere spiegato con varie ragioni: i pazienti potevano precedentemente essere stati seguiti in un altro centro diverso da quello di riferimento, la tendenza dei genitori a rimandare il videat oculistico nel tempo e a richiedere l’intervento solo nel momento in cui i bambini dovevano andare a scuola o perché gli stessi in età già scolare erano oggetto di burle da parte dei compagni per motivi estetici. Da quello che emerge nello studio, invece, nonostante la chirurgia della ptosi veniva comunemente rimandata fino all’età dei 3-5 anni, i bambini di contro dovrebbero recarsi precocemente da un oftalmologo. Infatti, esiste una significativa incidenza di ambliopia, documentata anche nel seguente lavoro, nei bambini con ptosi congenita, specialmente di tipo unilaterale (Kumar et al., 2005; Dray et al., 2009). Le cause di ambliopia comprendevano strabismo (20 casi), anisometropia (16 casi), deprivazione dello stimolo (3 casi) e un’associazione tra strabismo e anisometropia (2 casi). In accordo con i dati raccolti in tale studio, anche in altri lavori si riporta che l’anisometropia è presente nel 12% dei pazienti con ptosi congenita semplice (Merriam et al., 1980; Beneisch et al., 1983); la palpebra ptosica può alterare lo sviluppo corneale dando luogo ad un astigmatismo secondo regola.
Lo strabismo e l’anisometropia possono portare all’ambliopia che è presente nel 20% dei pazienti con ptosi congenita semplice (Anderson et al., 1980). Nel lavoro di Berry –Brincant l’ambliopia era presente in 41 bambini e in 3 di questi veniva identificata dopo l’intervento di chirurgia. Due di questi bambini erano stati operati di resezioneaponeurosi del muscolo elevatore e uno di sospensione al frontale. In questi tre casi le cause di ambliopia non erano chiare, ma in accordo con altri lavori (Anderson et al., 1980; Hornblass et al., 1995) l’ipotesi più accreditata veniva identificata nella deprivazione dello stimolo proveniente dalla corteccia cerebrale. Per tale ragione, al fine di prevenire il rischio di ambliopia nei casi di compromissione dell’asse pupillare, è bene procedere ad un intervento di correzione della blefaroptosi in età precoce. Così diventa necessario un tempestivo esame e un adeguato follow-up nei pazienti con ptosi congenita al fine di monitorare lo sviluppo visivo, anche a causa della maggiore frequenza di errori rifrattivi e strabismi rispetto alla popolazione generale. L’anisometropia viene considerata l’errore rifrattivo più comune associato alla blefaroptosi con una maggiore propensione per l’astigmatismo.
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Anche nello studio di Whitehouse et al. (1995) viene documentato lo sviluppo di strabismo in due dei casi affrontati nel loro studio di follow-up nella chirurgia della ptosi. Uno di questi pazienti sviluppava anche un esotropia nel post-operatorio. Per tale motivo si raccomanda ai bambini, sottoposti ad un intervento, un necessario monitoraggio della vista che richiede un attento esame ortottico prima della completa dimissione. La maggior parte dei bambini veniva trattata con la procedura di resezione del muscolo elevatore (122 occhi), 28 (47 occhi) venivano sottoposti ad un intervento di sospensione al frontale usando la sutura di mersilene e 15 (15 occhi) venivano operati con la procedura di Fasanella Servat e 2 (2 occhi) con la procedura di La Mange. In totale il 70,97% (132 di 186) delle palpebre venivano corrette con successo con una singola operazione, in 17 (9,14%) pazienti il risultato veniva reputato sufficiente, ma non veniva effettuato un ulteriore intervento, invece 37 bambini (19,89%) venivano sottoposti ad una seconda operazione effettuata nel 19,67% dei casi di resezione del muscolo elevatore, nel 17,02% dei casi con
sospensione al frontale e nel 20% dei casi con intervento di Fasanella Servat. Entrambi i casi operati con la procedure di La Mange hanno richiesto una seconda operazione (Tabella 5). Le complicanze più frequenti erano rappresentate dal lagoftalmo notturno e da erosioni corneali punteggiate superficiali. Il grado di lagoftalmo è legato alla quantità complessiva di muscolo elevatore sezionato, alla severità della ptosi e ad una scarsa funzionalità del suddetto muscolo. Nonostante la maggior parte dei pazienti in tale studio veniva sottoposta a tale tipo di intervento, solo una piccola quota di bambini presentavano questa complicanza, anche se leggermente più frequente se paragonata al gruppo che aveva subito un’operazione di sospensione al frontale. Solo un paziente sottoposto a procedura di La Mange presentava un granuloma da sutura che richiedeva un secondo intervento di escissione. Nessuno dei pazienti operati di sospensione al frontale presentava complicanze di esposizione o estrusione della sutura di mersilene. In studi antecedenti a tale lavoro (Sharma et al.2003) veniva sottolineata la presenza di formazioni granulomatose in 4 occhi di pazienti operati con
Tipo di intervento (primo)
Risultato: buono
Risultato: sufficiente
Risultato: scarso
Tipo di intervento (secondo) negli occhi con uno scarso risultato
Resezione-aponeurosi elevatore
88
10
24 (19.67%)
19 resezione EPS 1 sospensione al frontale 1 procedura di Henderson 1 ricostruzione della piega della pelle 1 Levator tuck
Sospensione al frontale (con la sutura di mersilene) 32
7
8 (17.02%)
6 resezione EPS 1 sospensione al frontale 1 La Mange
Fasanella Servat
12
0
3 (20%)
3 resezione EPS
La Mange
0
0
2 (100%)
2 resezione EPS
Totale n. di occhi
132 (70.97%)
17 (9.14%)
37 (19.89% )
37
Tabella 5. Tasso di successo di ogni tipo di intervento chirurgico e il tipo di operazione successiva nei soggetti con un risultato scarso (da Berry-Brincant et al., 2009)
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Figura 3. Bambino con blefaroptosi fotografato prima e dopo dell’intervento chirurgico. Un esempio di successo nella chirurgia della blefaroptosi
l’utilizzo di tale materiale sintetico. Ma, in seguito, grazie a delle modifiche riportate alla tecnica di sospensione non si rendeva necessario un successivo intervento; tali modifiche consistevano nell’immergere il materiale sintetico in una soluzione di gentamicina prima dell’inserzione. In questo studio come in quello proposto da Kempt et al. (2003), i risultati ottenuti con la sutura di mersilene sono molto incoraggianti. In complesso, il tasso di successo della chirurgia nella blefaroptosi pediatrica è stato quotato tra il 75,3% -77% (Figura 3). In tale studio, la ricorrenza della ptosi dopo il primo intervento veniva notata in un arco di tempo di 6 mesi dall’intervento. I risultati sono simili in grandi linee allo studio di Berlin et al. (1989), in cui veniva evidenziato un ridiscesa della palpebra operata entro i 2-4 mesi nel post-operatorio; questi autori associavano il tempo di ripresentazione del problema al tasso di riassorbimento della sutura. In conclusione, tale lavoro pone luce su tre importanti questioni: 1) il possibile e frequente sviluppo di ambliopia e strabismo post-operatorio 2) l’alta incidenza di errori rifrattivi, strabismo e ambliopia nella popolazione pediatrica 3) il periodo di ricorrenza della ptosi successiva al primo intervento. In base ai suddetti punti, dunque, durante
la visita di un bambino con blefaroptosi congenita, compatibilmente con l’età del piccolo paziente, andrebbero valutati i seguenti parametri: l’eventuale presenza di una posizione anomala del capo, di strabismo e di sincinesie muscolari come nella sindrome di Marcus-Gunn, la reattività, la simmetria dei riflessi pupillari e la motilità oculare. Molto importante la valutazione della rifrazione, con particolare attenzione per l’astigmatismo che, se non diagnosticato ed eventualmente trattato, può essere causa di ambliopia in assenza di ostruzione del campo visivo. Inoltre, di fondamentale importanza è ribadire che la decisione del trattamento chirurgico dipende dalla gravità della ptosi e dalla funzionalità residua dell’elevatore, piuttosto che dal preciso inquadramento eziologico della ptosi, sicché non sono necessari il più delle volte complessi esami strumentali per chiarire l’eziologia di questa condizione. Tuttavia ricordiamo che in alcuni casi particolari, può essere utile avvalersi di qualche indagine strumentale a completamento dell’iter diagnostico. Per esempio, nel sospetto di miastenia è utile la ricerca nel siero di anticorpi contro il recettore per l’acetilcolina, mentre nel sospetto di miopatia le indagini dovrebbero avvalersi dell’elettromiografia e di una biopsia muscolare sulla quale eseguire ricerche di tipo morfologico, biochimico e gene-
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tico. Nel caso si sospetti una ptosi neurogena, soprattutto in presenza di altri segni di compromissione neurologica, o nel caso in cui la comparsa della ptosi sia acuta, dovrebbe essere eseguita una TC o una RMN dell’encefalo. In ultimo, riferendoci alle complicanze postoperatorie dei trattamenti chirurgici della blefaroptosi, la più comune complicanza consiste nella sottocorrezione della ptosi e può dipendere da un’inadeguata resezione o dal non corretto riconoscimento delle strutture anatomiche. Nel caso di sottocorrezione significativa, può essere eseguito
un secondo intervento precocemente nel periodo postoperatorio. L’ipercorrezione della ptosi è invece una complicanza più rara in caso di ptosi congenite e data la conseguente impossibilità a chiudere completamente la rima palpebrale, può dar luogo ad una cheratopatia da esposizione. Infine, altre complicanze riguardano il sanguinamento durante e dopo l’intervento, cheratiti o abrasioni corneali a causa di un non corretto posizionamento dei punti di sutura. Ascessi e granulomi da materiali sintetici delle fasce.
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