Moscato: pane burro e acciughe

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Associazione Aroma di un Territorio

Moscato pane burroeacciughe

Fabiano Editore


© Copyright 2020 FGE Srl Fabiano Gruppo Editoriale Regione Rivelle 7/F - 14050 Moasca AT Finito di stampare: Maggio 2020


prefazione

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vederlo da fuori, giudicandolo dalla copertina o sfogliandolo in maniera superficiale e poco attenta, il tema principale di questo libro potrebbe facilmente sembrare il vino. E invece no, ci si sbaglierebbe di grosso. O meglio: di vino si parla, certo, ma è importante capire in quale accezione. Oggi, per molti, parlare di vino significa dedicarsi con tutti i sensi al calice, porgendolo al naso, ossigenandone il contenuto e preparandosi ad esprimere un giudizio e a descriverne caratteristiche organolettiche e visive. Ebbene, questo libro non parla di questo. O meglio, non solo di questo: queste pagine parlano di vita, della vita di un gruppo di persone che col vino, e in particolare con il Moscato, sono intimamente e profondamente connesse. È emozionante leggere queste otto storie intrise di sogni, di sudore, di ricordi, di legami speciali con un territorio che si vuole (ri)scoprire fino in fondo, e che si vuole valorizzare al di là delle tradizioni. Da ogni racconto traspare la grandissima umanità di chi la terra la conosce e la coltiva da sempre, vinificando i suoi frutti e conoscendone il vero valore. Una conoscenza, quella del mondo del Moscato, che scorre nel sangue dei protagonisti che animano queste righe e che nasce direttamente in vigna, al fianco di nonni e padri da sempre coinvolti nella cura di filari adiacenti alle proprie cascine. Pagine di vita vissuta, dove si tocca con mano la voglia di “fare” e di cambiare. Conoscere queste storie conferisce ad un bicchiere di vino tutt’altro sapore e significato, andando ben oltre a quello che è un semplice degustare analitico. Tutto quello che una bottiglia ha da dire non lo si trova solo in ciò che contiene, ma piuttosto in quello che nasconde dietro. Ebbene, dietro queste bottiglie di Moscato c’è quella vitalità emozionante tipica del coraggio di persone che hanno deciso di sperimentare un qualcosa di diverso, creando un disciplinare apposito per rilanciare un prodotto fin ad oggi sempre e solo identificato nelle due versioni storiche, ormai fin troppo conosciute, commercializzate e deprivate di carattere e personalità. Non era così quarant’anni fa: all’epoca il Moscato viveva i suoi anni d’oro, quando sotto l’influenza del fenomeno modaiolo dell’Asti spumante, venivano sostituiti i filari di Dolcetto per lasciar spazio a quest’uva all’epoca più amata perchè più redditizia e più sicura per le economie contadine. Ma come sempre, quando non si governa il limite, non si tutela la biodiversità e si risponde a logiche di

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Moscato pane burroeacciughe mero profitto dove vince sempre la quantità a discapito della qualità, il valore si perde e si depaupera per strada, a furia di coltivare una terra per ottenere soldi, piuttosto che un vino buono. Oggi quindi le uve Moscato sono in cerca di riscatto, e per tornare ad essere simbolo d’orgoglio di un territorio ormai snaturato da logiche di produzioni massive, hanno bisogno di qualcuno che dia loro una nuova possibilità. E chissà, probabilmente questa possibilità è arrivata, e grazie a questi piccoli grandi personaggi audaci, stiamo già assistendo ad una di quelle spinte innovatrici che riescono a cambiare la storia. E forse ha ragione Simone nel dire che fra vent’anni sarà normale, anzi che dico, sarà auspicato poter accompagnare ad un semplice pane burro e acciughe o ad un più sofisticato piatto di ostriche un buon calice di Moscato secco. Vorrebbe dire che l’audacia e le visionarietà di questi piccoli produttori è stata premiata, e che ancora una volta l’amore per la propria terra abbinata alla creatività di menti giovani e volenterose, trovano sempre nuove chiavi di volta per tornare a dare vita autentica ad un posto, una nuova veste ad un prodotto e più in generale, speranza per il futuro. La verità è che, se tutto questo accadesse, non ne sarei affatto stupito ma profondamente felice sì, senz’altro. Carlo Petrini, Cherasco, 2020

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introduzione

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iò che va subito detto, è che la decisione di scrivere questo libro non è stata presa da altri, bensì dagli stessi protagonisti, tutti insieme, e questo la dice lunga sul valore e sulla verità di questa azione, nonché sul sodalizio che si fonda sull’amicizia e che unisce questo entusiasta gruppo di giovani. Non c’è quindi un progetto editoriale studiato a tavolino ma semplicemente la volontà di raccontarsi, di offrire trasparenza e di metterci la faccia fino in fondo. In questo libro ci sono le idee, i pensieri, le storie e le vite che stanno dietro alla Associazione Aroma di un Territorio, l’interprete di un atto di coraggio e di sfida lanciato in un tempo storico non così felice per il comparto vitivinicolo delle colline del Moscato, ma la difficoltà e l’innovazione rendono infine ancora più motivata la scelta di proporre un prodotto “alternativo”, che in realtà ha già un suo intimo passato. Nelle pagine i produttori di Moscato Secco si presentano e si raccontano offrendo risposta alla curiosità di sapere cosa c’è dietro al progetto di un vino dal nome così curioso: esCAMOtage, che richiama a una trovata soluzione e si prende il nome di un luogo delle Langhe dai ripidi e affascinanti versanti coltivati a vigneto. E ognuno dei giovani produttori sceglie di dar voce a un capitolo con la sua visione, che si manifesta sulla sua collina e nella sua cantina. In una sorta di spartizione dei temi da approfondire si parla di uva e di vino, delle giornate in vigna, di tradizione o di turismo, offrendo molte belle immagini in cui molti agricoltori di queste colline si possono riconoscere. Loro scelgono la qualità senza scendere a compromessi, difendono il paesaggio e ciò che la natura sa donare, invitando altri ad aggregarsi nel rispetto di regole che testimoniano un incedere sano e consapevole. Questo libro ci voleva, perché il territorio va raccontato, soprattutto se, come in questo caso, non è un concetto abusato ma il suo significato appare invece intimo e profondo: questi ragazzi rappresentano un orgoglio, conoscono l’ingombro della terra bianca dentro le scarpe e in autunno le loro mani si prendono il colore della cantina, hanno il rispetto di chi magari ha costruito per loro l’azienda e l’avvenire, lasciando a un certo punto che la gestione avesse un volto giovane e delle visioni più allungate. Queste pagine ci volevano perché trasportano belle storie, spesso nate dalle tribolazioni di un passato difficile per tutti ma non dimenticato, una realtà a cui attingere ancora rubando quei giusti valori che qui si riconoscono e sono infine serviti ai nostri protagonisti per trovare il giusto aroma del loro territorio. Bruno Penna, Castiglione Tinella, 2020 5



capitolo I Perchè dolce?

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a frazione “Morra” a Coazzolo è il luogo in cui è nato mio papà Sergio nel 1950, e prima di lui nonno Vigin (Luigi). Ed è stato lo spunto per dare il nome alla nostra Barbera superiore “Cà del Mura” (case dei Morra). Oggi il suo nome è stato sostituito con Osasca, ma è al “Mura” che ho sentito per la prima volta il profumo del Moscato. Come posso descrivervi quel profumo? Difficile a parole, tanto era ed è l’intensità di quell’aroma del Moscato bianco, attraverso i frutti esotici per poi diventare pesca, fiori di sambuco e alla fine salvia e menta selvatica, neanche nei migliori dei mojito! Da bambino queste esperienze si memorizzano, si incidono addosso e te le porti dentro tutta la vita. Chiudendo gli occhi e pensando alla casa dei nonni al “Mura”, ricordo perfettamente il profumo del mosto uscire dal crutin, l’odore della stalla dove i nonni tenevano i conigli, ed entrando in cucina di nonna Fiorina il profumo di minestrone sul putagè (cucina a legna). Oppure la domenica, quando era d’obbligo mangiare la lepre, che il nonno Vigin aveva cacciato con il suo fido Milord. Sicuramente certi ricordi ed esperienze positive dell’infanzia, soprattutto vissute in famiglia, sono gli strumenti che segnano il proprio cammino nella vita, o almeno per me è stato questo. E gli stessi ti donano serenità, anche quando in alcuni momenti può scarseggiare. Sono partito dalla frazione Morra perché li iniziò l’attività di viticoltore di Lorenzo Vada, nostro trisavolo, che nel 1852 si mosse da Neive (pensate che viaggio) alla volta di Coazzolo, dove ai tempi coltivava circa 40 giornate (circa 15 ettari) di terreno, fra vigneti, prati e seminativi. Ed è al “Mura” che ho sentito per la prima volta il profumo di quel mosto… la sfida era mantenere quella dolcezza, già negli anni ’50 lo faceva mio nonno, senza tecnologia, frigoriferi, filtri ecc. Si cercava di bloccarlo travasandolo diverse volte nei sacchi olandesi, dove per caduta scendeva nei recipienti sottostanti in cemento, filtrato grossolanamente. Intanto giungeva l’autunno e poi l’inverno, quando l’arrivo delle basse temperature ne bloccava temporaneamente la fermentazione. A la pruma (in primavera) veniva poi imbottigliato e non di rado qualche bottiglia scoppiava per la troppa pressione.

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Moscato pane burroeacciughe Per tanto tempo nel mio e nell’immaginario di tante persone il Moscato è stato sinonimo di vino dolce, anche perché quel suo aroma ricorda perfettamente, quando, mangiandone un grappolo, ti si rompe un acino fra i denti, un’esplosione di frutta, e la stessa sensazione si ripropone quando si beve un calice di Moscato d’Asti. Ma tornando alla mia storia, andiamo al 1994, classe terza media, arriva il momento di scegliere un indirizzo per la scuola superiore, bella grana… Le parole dei miei genitori furono poche ed eloquenti: scegli quello che vuoi ma non fare il contadino… la terra è bassa! Quindi scelsi l’ITIS Artom di Asti, perito elettrotecnico. Nel frattempo a casa si continuava a vinificare, per lo più vino sfuso venduto in damigiana ai privati. Nel 2002, dopo il diploma e dopo due anni passati a lavorare come elettricista, il richiamo alla terra e la voglia di mandare avanti la cantina furono sempre più forti, così mi iscrissi alla facoltà di viticoltura ed enologia all’università di Torino. Intanto avevo iniziato ad imbottigliare piccole partite di vino, principalmente Barbera d’Asti sia affinata in acciaio che in botti di rovere, un po’ di Dolcetto e un po’ di Chardonnay. Le prime bottiglie prodotte con le mie mani sono dell’annata 2000, lavoravo in cantina nel tempo libero, ed erano iniziati i primi battibecchi con mio papà, principalmente per il modo diverso con cui volevo condurre le vinificazioni, la quantità di uva che lasciavo sulla pianta… ma poco alla volta mio papà mi lasciava lo spazio di cui avevo bisogno, di questo gliene sarò sempre grato. Nel frattempo fare il vino era una passione, quasi un gioco, era divertente, il problema più grosso era la commercializzazione! E non essendo io esattamente un venditore nato, visto che nei weekend lavoravo come cameriere per arrotondare, iniziai a proporre il mio vino nei diversi ristoranti dove andavo a servire. Il vino sfuso era ancora la fetta più importante della nostra produzione, principalmente Barbera e poi un vino bianco, un taglio di uve Moscato e Cortese. E proprio quel vino bianco che un anno, il 2008 per la precisione, era composto quasi al 100% da uva Moscato, siccome il Cortese scarseggiava. Nell’autunno, a novembre, organizzai una bagna cauda in cantina con gli amici, e per non rimanere a secco, il vino bianco per la cena veniva tirato direttamente dalla vasca… insomma, a fine serata, con il livello della vasca abbassato vistosamente, tutti mi chiedevano perché non avevo ancora imbottigliato quel vino profumatissimo, che noi invece ci limitavamo a vendere in damigiana. E proprio in quel periodo che ho iniziato a chiedermi “perché il Moscato dev’essere solo un vino dolce?”

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In quel periodo non producevamo ancora Moscato d’Asti in bottiglia nella nostra cantina, e siccome le quantità richieste erano basse, era impossibile produrre poche bottiglie di Moscato in autonomia. Vendevamo poche bottiglie, che ci venivano date dalla cantina dove conferivamo la maggior parte dell’uva. Si trattava di un vino prodotto dall’insieme delle uve dei tanti conferenti, non era possibile così differenziarsi e dire con orgoglio “questo è il risultato delle nostre uve”. Quindi, nella mia breve storia di winemaker, nasce prima il Moscato secco e poi il Moscato d’Asti, con la prima annata 2011 completamente vinificata nella nostra cantina. E allora mi chiedo di nuovo, ma perché dev’essere solo dolce? Perché per così tanto tempo i nostri nonni senza alcuna attrezzatura rischiavano di far esplodere le bottiglie e tribolavano così tanto per mantenerlo dolce? Ma soprattutto perché non secco? Sarebbe stato molto più semplice, soprattutto per loro… Con questo non sto demonizzando il Moscato d’Asti, anzi, è e sarà sempre il vino che ha fatto e farà la storia del nostro territorio, che ci ha fatto conoscere ovunque nel mondo. Avrei piuttosto da ridire su come è stato trattato a livello commerciale, non riuscendo mai a spiccare il volo, se non tramite alcuni pochi produttori che ancora oggi ci credono, e i quali ammiro per la tenacia con cui lo fanno. Ma purtroppo sempre in maniera individuale, non si è mai fatto gioco di squadra per valorizzare il Moscato d’Asti, rimanendo schiacciati dalla concorrenza delle industrie, con un legame al territorio troppo spesso assente. In questi dieci anni di sperimentazione sulla vinificazione del Moscato secco, la cosa più sorprendente che è emersa è la sua longevità: riassaggiare oggi le prime annate è emozionante! Le bottiglie di 8 – 10 anni (purtroppo nel mio misero magazzino sono ancora troppo poche le annate vecchie stoccate, sarebbe bello averne di più da vendere oggi) mi diverto ad infilarle nelle degustazioni alla cieca, che ogni tanto facciamo tra amici appassionati. E’ il modo migliore per scoprire e capire un vino del genere, a bottiglia coperta, senza pregiudizi sull’uva di provenienza e su chi sia il produttore, la reazione è sempre di grande entusiasmo. Quando ho iniziato a girare per ristoranti, enoteche e rivenditori a proporre il mio vino, in un primo momento lo presentavo come Moscato vinificato secco… questo però prima che l’eventuale cliente lo avesse assaggiato… dire la parola Moscato metteva subito la persona che avevo di fronte a disagio, anche se spiegavo che non era dolce, il mio interlocutore rimaneva fermo sulla convinzione

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Moscato pane burroeacciughe che quel vino non gli sarebbe piaciuto, essendo l’uva Moscato, senza neanche averlo assaggiato. Questa è stata inizialmente una difficoltà non piccola da superare, per cui semplicemente ho smesso di dire quale fosse l’uva d’origine del mio vino bianco. In questo modo la curiosità di assaggiarlo aumentava, e dopo averlo provato lo stupore era enorme! “Ma come, non avrei mai pensato, un bianco del genere con uva Moscato, ma sei sicuro, mi prendi in giro!” ecc. ecc…. e questo non ha fatto altro che aumentare la mia autostima e il mio credo in questo vino. La strada è ancora molto lunga, siamo solo all’inizio ma penso ci sarà da scrivere una bella pagina della nostra enologia. Tempo al tempo. Iniziando le prime fiere del vino, Vinitaly su tutte, ho cominciato a conoscere tanti colleghi nel nostro mondo del Moscato d’Asti, e scoprivo ogni anno qualche produttore in più che produceva Moscato secco, a volte era quasi un vicino di casa o un vicino di vigna e neanche lo sapevo, sono dovuto andare a Verona per scoprirlo! Per circa tre anni ho fatto alcuni incontri con colleghi produttori che credono come me in questa alternativa al Moscato, al fine di unire le forze, siccome in Piemonte non esiste ancora una denominazione d’origine che tuteli questa versione, attualmente è “solo” vino bianco generico. La soluzione più veloce sarebbe stata rivolgersi al consorzio di tutela del Moscato, ma da subito, parlando con i colleghi, la voglia è stata quella di fare fuoco con la nostra legna. Non è indispensabile avere una denominazione per un vino, oggi l’unione di idee comuni di diversi produttori, comunicate nel modo giusto e magari non istituzionale, può fare la differenza o magari essere ancora più efficace. Poi finalmente nel 2019 le ambizioni e gli intenti comuni hanno dato origine alla nuova associazione “Aroma di un territorio”. Abbiamo creato un nostro disciplinare interno, molto restrittivo (forse molto più di tante DOC già esistenti), e dove per la prima volta si discute anche di prezzo minimo di vendita… già, è un argomento che nessun consorzio si permette di affrontare, anche se poi si trovano sugli scaffali bottiglie di vini DOCG prestigiose a prezzi che mortificano chi produce l’uva, o peggio ancora interrompono l’economia di quel prodotto. Qualcuno ci rimette in sostanza, e di solito sono i contadini. Oggi siamo un gruppo di 8 produttori a perseguire questa strada, faticosa ed in salita che, credo di poter dire forse con un pochino di presunzione, porterà sicuramente ad una svolta nel

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mondo del Moscato piemontese. Anche rispetto al Moscato d’Asti, che ognuno di noi componenti dell’associazione vinifica da sempre per tradizione. Adesso noi rappresentiamo l’innovazione. Quindi che sia Moscato d’Asti oppure “esCAMOtage”, le nostre viti di Moscato bianco meritano un rispetto maggiore di quello che, in parte fino ad oggi, gli sia stato dato. Proprio in questi giorni, noi produttori di Moscato, siamo protagonisti di una tensione molto forte causata dai presunti dazi che, a quanto pare, il governo americano vorrà mettere sui vini europei nell’immediato futuro. Si tratta di aumenti che vanno da un minimo del 25 a un massimo del 100% sul prezzo del vino, il quale ricadrà inevitabilmente sul consumatore finale che si vedrà aumentati i prezzi, in certi casi anche del doppio. Discutendo con colleghi e con i rivenditori negli USA, pare che i vini a soffrire di più saranno proprio quelli di fascia medio bassa, come il Moscato d’Asti, che già fino ad oggi ha avuto prezzi medi di vendita molto bassi, al limite della sopravvivenza per chi lo produce. Per assurdo, vini di alta fascia di prezzo, sembra patiranno meno di questi aumenti. Stiamo parlando di un problema enorme per il nostro vino, il Moscato d’Asti è assorbito per almeno il 30% dal mercato statunitense. Questo potrebbe essere si catastrofico per il nostro comparto, ma forse potrebbe anche trattarsi di un giro di boa… ovvero, a meno di questi prezzi non si può vendere il vino, può darsi che questo rincaro, se venisse confermato, porterà ad uno stravolgimento del mercato. Alcuni importatori stanno studiando il piano B, cioè organizzarsi come tour operator per wine lovers, al fine di far venire più persone nelle nostre terre a conoscere direttamente le nostre realtà. Di conseguenza rivenderebbero negli USA il nostro vino con un prezzo migliore, perché questo taglierebbe parte della filiera e si venderebbe direttamente al consumatore finale. Sicuramente i volumi di consumi non sarebbero gli stessi, ma forse non tutti i mali vengono per nuocere… E’ probabile che i piccoli produttori ne trarranno vantaggio, meno quantità ad un prezzo migliore. In ogni caso staremo a vedere. Ma quindi qual è la risposta alla domanda “perché dolce?” Probabilmente non c’è e credo possano convivere entrambe le espressioni di questo vino. La cosa importante in entrambi i casi è che colui che si farà protagonista, sporcandosi le mani di terra e di mosto per mettere in bottiglia il proprio sogno, faccia sempre più saldo e forte il legame con la terra e le proprie origini.

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Moscato pane burroeacciughe Solo su questa strada i nostri vini saranno amati ed apprezzati, e anche giustamente retribuiti. L’economia di questo territorio deve andare oltre all’accumulo di beni o di denaro. Il denaro deve permettere a tutti di vivere dignitosamente, al produttore e ai suoi collaboratori. Deve fare in modo che l’ambiente dove viviamo e lavoriamo sia sempre più rispettato, noi contadini siamo i primi responsabili del nostro habitat dove vivono anche altre persone, le quali non ne possono nulla se irroriamo di veleni le nostre vigne, e di conseguenza l’aria di tutti. Abbiamo una responsabilità enorme, voler coltivare a tutti i costi centinaia di ettari per fare profitto, e per fare ciò passare metà della nostra vita su di un trattore di ultima generazione… per sparare veleni nell’aria e sul terreno, forse è il momento di fermarsi e pensare a cosa stiamo lasciando a chi verrà dopo di noi. E se sempre più persone verranno a visitare le nostre colline, dobbiamo dimostrare loro che vivere qui è bello anche per chi non è un contadino. La più grande soddisfazione l’ho presa un giorno, quando, durante una visita in cantina, una persona di un gruppo mi ha detto:” io sono astemio, ma vengo a visitarvi perché credo che il vostro sia un posto meraviglioso dove vivere!” E noi dobbiamo renderlo e mantenerlo tale. Guido Vada, Coazzolo, 2020

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capitolo II Una vita in vigna

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no dei miei primi ricordi legati alla vigna risale a quando avevo circa tre anni e correvo, rigorosamente scalzo, dietro ai vendemmiatori urlando: “Bisogna raccogliere gli acinelli!”. Questo ero io, Emanuele Contino, classe 1987, enotecnico e viticoltore, da poco titolare dell’Azienda Agricola Teresa Soria di Castiglione Tinella. La passione per la vigna, al di là del ricordo che ho delle mie prime vendemmie da bambino, credo me l’abbia trasmessa mia nonna materna, Anna Colla, lei portava un cognome molto importante per il Moscato: quello dei Colla de “La Tana”. Lei veniva da una famiglia di Santo Stefano Belbo, da una cascina ai piedi della collina di Crevacuore, nella quale si vinificava già da parecchie generazioni. Mia nonna Anna e mio nonno Armando si sposarono il 30 novembre 1946, dopo non pochi litigi tra mio nonno e sua madre Neta: lei infatti voleva acquistare un pezzo di terra confinante alla loro, lui la camera da letto per sposarsi. Mi pare chiaro chi ebbe la meglio! Mio nonno non aveva cantina, quindi le uve della prima vendemmia da novelli sposi le vinificarono proprio nella cantina de “La Tana” di suo suocero. Fu mia nonna ad insistere per acquistare un torchio usato, far costruire due vasche di cemento ed un filtro a sacchi olandesi qui a San Carlo, per poter vinificare in casa loro le proprie uve. Mia nonna è quella che mi ha cresciuto come viticoltore, stando con lei in vigna ho maturato la passione che ho oggi. Lei era sempre in vigna, molto spesso anche nei giorni festivi, rispettando quasi esclusivamente i tempi dettati dalla natura, dalla potatura alla scacchiatura, al tirare la gomma per i trattamenti fitosanitari e per finire alla vendemmia. Da bambino passavo molto tempo con mia nonna, una persona decisa e dura, ma molto buona e tranquilla: mi ha insegnato veramente tanto sulla vite e soprattutto sulla vita. Mia nonna ebbe una sola figlia, Teresa, e ben presto si trovarono sole per la prematura perdita di mio nonno, ma continuarono a vinificare e mandare avanti la piccola azienda di due ettari coltivati a Moscato a Castiglione Tinella ed un piccolo appezzamento ai Marini di Santo Stefano Belbo. Credo che il fatto di non aver venduto questa piccola proprietà in un contesto così difficile, per mia madre sia stata una scelta coraggiosa e non proprio scontata, per questo motivo il nome della mia azienda è e resterà Teresa Soria. Siamo nel 1983 Teresa e Piero, i miei genitori, si sposarono e proprio in quell’ anno Giovanni Cavagnero, enologo della Martini & Rossi, casa spumantiera a cui solitamente

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Moscato pane burroeacciughe vendevano il mosto, comunicò che non avrebbe ritirato la loro produzione perché ormai il torchio a mano ed i filtri a sacchi olandesi non erano più tecnologie attuali per quel tempo. Fu così che dalla vendemmia successiva iniziarono a vendere l’uva e dovettero smettere di vinificare: si limitarono a produrre qualche damigiana di Moscato dolce per qualche cliente affezionato, ma all’epoca i clienti erano veramente pochi. Mia madre e mia nonna vissero un vero e proprio dramma, non potevano attrezzarsi con vasche frigo e filtri moderni, sia per la loro piccola dimensione aziendale, sia perché non avevano la necessaria preparazione tecnica per gestire quelle tecnologie e quindi non restò loro che scegliere di smettere di vinificare. Dopo tutti i sacrifici che avevano fatto per proseguire quella preziosa arte si poteva smettere? Ovviamente no, e questa volta mio padre ci mise del suo: oltre alle poche damigiane di Moscato dolce, perché non provare a farne qualcuna di secco? In fondo si fanno vini bianchi secchi vinificando uve Moscato in molte parti d’Italia e del mondo. Proprio nel 1983 si consumò un’altro dramma per il Moscato: il prezzo delle uve in quella vendemmia crollò a circa 6000 lire, si era infatti ben lontani dalle 16000 lire del 1982, al contempo negli anni successivi le rese ad ettaro per la Doc si alzarono ed abbassarono di anno in anno, non garantendo una grande stabilità economica. Nel frattempo mio padre imperterrito continuò a provare a vinificare questo Moscato secco, un anno macerando con le bucce, un’altro senza bucce, provando a chiarificare il mosto o a non chiarificarlo. Puntualmente, tutti gli anni passava a trovarci in vendemmia l’enologo Cavagnero, ormai pensionato dall’importante casa spumantiera, per una visita di cortesia a mia nonna. Mio padre puntualmente gli faceva assaggiare un bicchiere di Moscato secco, per avere il suo parere da enologo: lui assaggiava, passava il vino da una parte all’altra del palato, faceva una mezza smorfia col viso e sentenziava: “ër Moscà o r’è ‘n vin da fé doss; nen da fé sèch!” (Il Moscato è un vino da fare dolce, non secco!). Nonostante il suo parere negativo e quello diffidente di molti vicini e conoscenti, si continuò a sperimentare. Le produzioni erano sempre limitate a una vaschetta e poche damigiane vendute a clienti affezionati, che iniziarono ad apprezzarlo come piacevole vino da pasto. Mia nonna Anna è sicuramente la persona che ha forgiato in me la passione per il vigneto Moscato, ma se oggi produco un Moscato secco è sicuramente grazie alla caparbietà ed un po’ di follia di mio padre. Non solo ha avuto lui l’idea che si potesse fare anche secco, ma ha portato avanti questa difficile vinificazione con pazienza e costanza fino al mio diploma da Enotecnico del 2007. Non ho alcuna vergogna a scriverlo: proprio fino al mio diploma abbiamo vinificato una parte dei due ettari

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con il vecchio torchio a mano ed i filtri a sacchi dei miei nonni, magistralmente attaccati e lavati da Anna. Terminati gli studi, iniziai a lavorare anch’io in azienda, anche se non a tempo pieno, e contribuii ad affinare il lavoro di vinificazione, sul Moscato secco in particolare. La mia prima vendemmia l’ho fatta alla cantina sociale di Clavesana: esperienza fantastica, in cui ho conosciuto persone autentiche e visitato luoghi, il Monregalese, che mi hanno lasciato un ricordo indelebile. Di Clavesana conservo il ricordo della vera Langa, quella di una volta, non quella delle coltivazioni intensive, ma di cascine e di colline in cui il tempo sembra essersi fermato; i campi alternati a stalle, ai boschi e noccioleti ed immancabilmente qualche vecchio vigneto di Dolcetto, ma non troppi, il tutto in un perfetto equilibrio. Terminata la mia prima vendemmia da enotecnico, dopo qualche mese di lavoro, ricevetti la chiamata di Carlo Arnulfo, un mio ex docente della scuola enologia di Alba, che oltre al ruolo di insegnate praticava anche la libera professione presso uno studio di consulenze come agronomo ed enologo; chiamata in cui mi disse che aveva bisogno di un ragazzo per seguire la parte viticola. Accettai subito con entusiasmo, a dire il vero senza aver capito bene di cosa si trattasse, ma ne valse la pena. Entrare in contatto con molte persone del settore vitivinicolo è fondamentale per crescere come persona prima di tutto ed accrescere la propria formazione come tecnico: questo lavoro mi ha dato sicuramente quest’opportunità. Dai colleghi che porto nel cuore ancora oggi, alle aziende che seguivamo, partendo dalla zona del Barolo a quella del Barbaresco, dal Roero al Tortonese, svolgendo molte mansioni, come il lavoro con i sovrainnesti che mi ha permesso di girare diverse zone viticole d’Italia, vederle dal vivo, prendere contatto direttamente con viticoltori veri di quei territori. Della mia esperienza con Arnulfo tante sono le persone a cui devo molto, ma ne sento vicina una in particolare, anche se purtroppo oggi non c’è più: sto parlando di Beppe Colla. Ho avuto il piacere di conoscere Beppe proprio in quegli anni di lavoro da Carlo, noi seguivamo il vigneto alla Bussia di Monforte d’Alba ed io ero personalmente responsabile della sua “tòpia” (pergola) di uva da tavola. Mi colpì subito il suo carattere forte e la sua grande esperienza, sarà perché quando lo conobbi avevamo da poco acquistato il nostro primo appezzamento a Moncucco e Beppe era molto legato a quel cru di Santo Stefano Belbo, probabilmente perché durante una delle sue gite alla riscoperta delle zone viticole piemontesi, (in quel caso era la nostra del Moscato), passò da casa mia per assaggiare il Moscato fatto ancora con i sacchi. Sinceramente non so come, ma si instaurò da subito una sincera amicizia tra noi due. Giunse il 2009, mi arrivò una chiamata da

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Moscato pane burroeacciughe parte di mia madre mentre ero intento a svinare una vasca di Nebbiolo in una cantina di Barolo: “Bruno Penna vuole parlarti”, Bruno era il vicesindaco di Castiglione Tinella e si stava organizzando per comporre la squadra di amministratori per le prossime elezioni comunali, così a soli ventidue anni venni eletto consigliere. Sono stati anni di impegno in Pro Loco e nelle varie iniziative comunali, Bruno era ed è una guida autorevole e sicura, che mi insegnò tantissimo con il suo esempio. Nel frattempo l’azienda Teresa Soria crebbe, prendemmo terreni in affitto e ne acquistammo altri, per arrivare ad una decina di ettari, quasi tutti vitati a Moscato ed in forte pendenza, quindi scarsa meccanizzazione e molto lavoro manuale. Mi venne sempre più difficile condividere il lavoro in azienda con quello fuori, così decisi di concentrami solo a casa, imbottigliai il mio primo Moscato d’Asti DOCG con menzione in etichetta Vigna Moncucco nel 2014, e l’anno successivo decisi di preparare una partita di Moscato secco raccolto in leggera surmaturazione, metterlo in bottiglia e chiamarlo INSOLITO. Il nome deriva da un’idea di mia moglie Elisa e dallo spirito creativo di mio padre che scriveva sul cartello della vasca la O centrale contornata di puntini a simboleggiare un sole. Nel 2016 non arrivò un nuovo vino, ma mio figlio Gabriele, il 21 settembre, il giorno dopo aver finito di pigiare il dolcetto. Quella fu sicuramente la vendemmia più difficile, ma forse fino ad ora è stata la più bella. Ora c’è lui che corre nei filari, sinceramente non so se avrà mai la mia stessa passione per il vigneto, spero abbia come me la stessa passione per qualcosa e che possa viverla così intensamente come ho fatto io. La nascita di Aroma di un territorio ed il progetto esCAMOtage partì dall’idea avuta con Simone Cerruti di fare una cena nel suo agriturismo riunendo tutti i produttori di Moscato secco, o almeno quelli che fino ad allora conoscevamo. Detto fatto, un primo incontro costituito da cena ed una degustazione dei vini prodotti lo facemmo nella primavera 2018: un tentativo di confronto tra i vari produttori era già stato avviato qualche anno prima da Gabriele Saffirio e Guido Vada, ma non si sviluppò oltre a qualche scambio di idee. L’incontro portò ad un bell’assaggio dei Moscati prodotti, ognuno col suo stile, ma si capì subito che il livello qualitativo di partenza era buono. Da lì seguirono altre cene ed altri confronti, per culminare nella primavera 2019 con la costituzione in municipio a Santo Stefano Belbo dell’Associazione Aroma di un territorio, tra sei produttori di Moscato secco: Simone Cerruti, Guido Vada, Gabriele Saffirio, Fabio Grimaldi, Francesco Bocchino ed il sottoscritto, con tanto di marchio registrato esCAMOtage per i vini che rispettassero il regolamento interno che scrivemmo. Il percorso fu un po’ travagliato, perché il nome

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inizialmente scelto per il sodalizio era: Produttori Moscato Secco di Langhe e Monferrato, ed il vino che rispettasse il disciplinare di produzione era CAMO, per dargli una valenza territoriale importante, in onore al Comune del Moscato che proprio dal 2019 cessò di esistere. Dopo aver già tutto praticamente definito, con tanto di atto, arrivò il parere negativo sul termine CAMO, perché non si poteva parlare di Langhe e Monferrato nel nome dell’associazione. Allora che fare? Non ci arrendemmo, grazie ad un suggerimento di Bruno Penna prendemmo spunto da una sua frase per dare il nome all’associazione: “Aroma di un territorio”, che ben sintetizza l’essenza del Moscato. Bruno ci diede anche dei suggerimenti per il nome del vino, ma non ci colpirono particolarmente. Presi dall’indecisione, in un pomeriggio di scambi di divertenti messaggi su WhatsApp iniziammo ad ironizzare su come mascherare il nome Camo in un’altra parola: “e se lo chiamassimo ricamo?” o magari “esCAMOtage”...? Ecco, così trovammo il nome al nostro vino! Dopo pochi mesi abbiamo la richiesta di ingresso nell’ associazione di altri giovani produttori: Luca Amerio ed i fratelli Stefano e Daniele Cerutti; così il gruppo passa da sei ad otto produttori. Finalmente siamo ai giorni attuali, i progetti, non mi mancano, al di là di nuovi vini in prossima uscita, forse il passo più importante è quello della realizzazione della nuova cantina con annessa ristrutturazione della parte vecchia; pensando proprio a questo progetto, mia madre mi ha ricordato un compito che avevo fatto in seconda elementare in cui la maestra mi chiedeva cosa volevo fare da grande, ed io risposi: “una grossa cantina!” La viticoltura della zona del Moscato è caratterizzata da uno sviluppo negli anni di un legame con la realtà industriale e spumantiera che ne ha generato la fortuna degli ultimi quarant’anni, producendo però anche condizioni negative. Sviluppo che è stato intensivo e oltre che monocolturale, in Comuni come Santo Stefano Belbo e Castiglione Tinella addirittura monovarietale, orientando i viticoltori principalmente alla vendita dell’uva piuttosto che alla trasformazione in proprio. Questo tipo di viticoltura negli anni ha portato i contadini a orientarsi verso una gestione limitata al produrre uva in quantità, con un buono stato sanitario alla raccolta ed a disinteressarsi progressivamente di tutta quella parte di filiera che c’è dalla vendemmia in poi, trasformazione in cantina e affinamento e vendita del prodotto, parti che erano delegate alle grandi ditte spumantiere. Ad oggi probabilmente il 90% dei viticoltori conferisce uva, - questo passaggio lo avete anche letto nella breve storia della mia azienda - visto che negli anni ottanta hanno quasi cessato le operazioni di vinificazione in favore

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Moscato pane burroeacciughe della vendita diretta delle uve. Alcuni esempi di vinificatori artigianali di Moscato d’Asti non mancano, ma probabilmente visti gli elevati costi necessari per la trasformazione delle uve, nella versione dolce sono ancora troppo pochi nel panorama della zona del Moscato, quindi manca quel tessuto di piccole aziende che vinificano piccole partite di vino e se le vanno a vendere sfuse o ancor meglio in bottiglia. Tessuto di micro aziende che concepirebbero al meglio la visione di “vigneto-biglietto da visita” per un territorio ormai indispensabile per i nuovi canali di comunicazione del vino. Ad oggi il territorio del Moscato si estende su 3 province ed è un territorio riconosciuto per la produzione di un grande vino dolce. Con l’associazione Aroma di un territorio non si vuole andar contro a tutto questo, ma la volontà - ben diversa - è quella di andare a ricreare quel prezioso tessuto di micro aziende produttrici, che fino agli anni ‘70 era vivo nella trasformazione di mosto per poi venderlo alle case spumantiere, come fossero stati dei negotiant francesi, che girano dai piccoli viticoltori ad acquistare una barrique di un cru, piuttosto che una barrique di un’altra menzione. Questo fenomeno, nel territorio del Moscato probabilmente si potrà sviluppare solo con una versione ferma e secca. Partendo da queste considerazioni, nel disciplinare esCAMOtage abbiamo deciso di premiare un modello di viticoltura più rispettoso possibile delle peculiarità della varietà e dell’ambiente. Non avendo una storicità che va oltre i 20 o 30 anni, di tentativi artigianali di sperimentazione nella versione ferma e secca, si è deciso di limitare l’origine dei vigneti ai territori delle province di Cuneo ed Asti, già presenti nel disciplinare dell’Asti DOCG, per mantenere un’origine territoriale legata ai due fiumi che li solcano, il Belbo ed il Tinella, zone in cui erano già presenti timidi tentativi di vinificazione di questo prodotto. Inizialmente l’idea era di limitarsi a Santo Stefano Belbo ed ai suoi confinanti, ma sarebbe stato troppo limitativo per un vino nuovo come il nostro. Quindi abbiamo deciso di essere meno restrittivi sull’origine delle uve, evidenziando questa suddetta zona come una core zone all’interno dello stesso disciplinare. Si è deciso pertanto di puntare su una resa bassa di 90 q,li per ettaro, un titolo alcometrico di 12,5% ed escludere l’esposizione Nord se in pendenza, questo perché secondo noi le condizioni ottimali per la coltivazione di uva Moscato atta a dare un vino bianco fermo, si raggiungono in vigneti ben esposti, possibilmente vecchi, con sesti d’impianto stretti, in cui i quintali per ettaro si raggiungono con pochi grappoli per pianta ma di elevata qualità. La forma di allevamento deve essere il guyot, quella tipica delle nostre colline ed è vietata ogni pratica di forzatura. Particolare importanza nella coltivazione dei vigneti da cui nascerà l’uva

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esCAMOtage è la gestione del suolo, infatti abbiamo totalmente abolito l’uso di diserbi chimici: un impegno importante per la salvaguardia del suolo. Sicuramente la parte più difficile da portare avanti, soprattutto sui vigneti di forte pendenza, dove l’uso di macchine è fortemente limitato, ma crediamo fermamente che il nostro progetto debba avere un punto fondamentale come questo. Il territorio è molto ampio, con caratteristiche di suoli e di quote molto differenti, che danno origine a prodotti molto diversi. Personalmente credo che delle buone condizioni per la coltivazione di uva Moscato per la vinificazione a secco siano terreni leggeri o sabbiosi, buona esposizione, con una buona escursione termica tra il giorno e la notte, vigneti vecchi, evitare le pratiche che portano ad un’eccessiva produzione, inerbimento affinché possa generare un po’ di stress idrico, raccolta in buona maturazione o leggera surmaturazione. Credo che il viticoltore debba essere rispettoso ed orgoglioso di questa varietà, coltivandola, rispettandola e non considerandola un buono del tesoro che ti da un reddito e basta. Queste poche righe sulla viticoltura del Moscato non vogliono essere un trattato agronomico: io non sono né un professore, né un ricercatore, sono semplicemente un enotecnico che coltiva delle vigne, un bambino che sta realizzando il suo sogno, che vi ha raccontato la sua storia e le sue idee, ma vorrei che potessero essere da stimolo a tanti giovani che come me e gli altri mie amici viticoltori del gruppo Aroma di un territorio credono nel Moscato e pensano che il Moscato secco possa essere il futuro del nostro territorio. Emanuele Contino, Castiglione Tinella, 2020

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capitolo III Sorì Baciati dal Sole

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ieni, vieni Francesco” diceva mia nonna Anna. “Ormai sei abbastanza grande per conoscere la storia della nostra famiglia, dei sudori che abbiamo versato per costruire la nostra casa e per la cantina”. Da lì inizia la più bella storia che mi abbiano mai raccontato: “Vedi Francesco, la nostra casa faceva parte delle proprietà di una ricca famiglia di Santo Stefano Belbo, i Bauda (che hanno dato anche il nome alla collina). Verso la fine dell’800 tuo tris nonno Carlo (Carlin) ha comprato per 5 mila lire la cascina. Questa casa è stata fatta completamente di pietre delle nostre colline. Perché sai, quando si piantava una vigna nuova tutti i contadini della collina venivano ad aiutarci a scassare; a mano naturalmente. Con picconi andavano profondi anche più di un metro, e poi usavano mazze e cunei per rompere il tufo e la pietra. Da lì le pietre più belle venivano portate per costruire la casa e la cantina, al contrario quelle brutte o piccole venivano messe sul fondo del taglio (fosso) fatto durante lo scasso per favorire il drenaggio dell’acqua. E poi sai, la scalinata in pietra tra noi e Mario (il nostro vicino)? Quella dove vai sempre a giocare con Pulen (il nostro cane)? Beh, quella è stata fatta da tuo bis nonno Tojo e nonno Remo. Parte dalla cima della collina e arriva fino in fondo: è una “scursa” (scorciatoia), che facevamo quando la domenica andavamo a piedi a messa e serve per lo scolo dell’acqua. Ma non solo, anche i muretti a secco sono stati fatti durante molti inverni, per riuscire a rendere coltivabili i nostri sorì di particolare pendenza. Ma la sai la cosa più bella di tutte? Le risate che ci facevamo! In fondo del futuro vigneto c’era sempre il pintone di vino, che era quasi sempre vuoto alla fine della mattinata. Si, perché il vino un tempo era una vera e propria fonte di energia e rendeva tutti più allegri. Tutti cantavano ed erano contenti! Alla fine della giornata di lavoro io e bis nonna Giacomina preparavamo cena. Ma la giornata non era finita, si andava tutti a ballare in una stanza che non aveva neanche il pavimento, con un vecchio giradischi che ogni tanto si incantava… che ridere!

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Moscato pane burroeacciughe “Ma non è tutto Francesco” diceva la nonna “Un tempo ogni cascina non viveva solo di uva, infatti ogni famiglia aveva anche la stalla, dove c’erano galline e conigli, per le uova e la carne. Ma soprattutto i bovini che poi venivano venduti o utilizzati per il lavoro in campagna, al posto dei macchinari che si usano oggi. Una volta le lavorazioni del terreno erano fatte tramite il traino animale. In mezzo al filare veniva coltivato altro: fave, cipolle e altri ortaggi che venivano poi venduti al mercato, ma soprattutto veniva coltivato il grano. Dopo averlo falciato, poi si facevano i covoni (dei fasci) e venivano portati a casa e ammucchiati sulla cascina. Più tardi c’era la trebbiatura: la paglia veniva posta di nuovo sulla cascina mentre il grano si metteva in sacchi di juta per l’essiccazione. Al bisogno si caricava sul carro e veniva portato al mulino dell’Annunziata per trasformarlo in farina utilizzata per fare pane e pasta. Ovviamente si teneva lo stretto necessario per il nostro consumo, il resto lo si vendeva. La persona che si occupava di questo era tua bis nonna Giacomina, grande venditrice! Lei partiva con il carro e il bue “Balin”, andavano al mercato a Canelli e fin quando non aveva venduto tutto non tornava a casa!!! Nel mentre a casa, Bis nonno Vittorio TOJO e nonno Remo si occupavano del lavoro in campagna, zappavano tutte le viti più volte l’anno per eliminare le erbacce. Una volta l’erba la si tagliava con la falce e veniva poi portata a casa per dar agli animali. In mezzo c’è stata la guerra, brutto periodo, tanta fame e pochi soldi. Però c’era chi stava peggio di noi. I nostri parenti da Torino venivano ad aiutarci il sabato e la domenica per poter portare a casa qualche pagnotta di pane per la famiglia. Là si che si sentiva la fame. Alla fine, in campagna in un modo o nell’altro si trova sempre da mangiare che è la cosa più importante. Il 30 dicembre 1949, grande festa per la nascita di tuo papà Vittorio (Tojen), serviva proprio un giovane che aiutasse in campagna. Non era come adesso, a soli 12 anni appena arrivava a casa da scuola” nonna si ferma un attimo e poi mi bisbiglia all’orecchio “ti confido un segreto, al tuo papà non piaceva tanto studiare, combinava solo guai a scuola”. “Ma la voglia di lavorare non mancava, appena tornava dalla scuola correva in vigna per stare davanti al bue e a soli 14 anni aiutava già i tuoi nonni a tempo pieno nei campi e in cantina.

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Aiutava con i trattamenti che una volta erano un grosso problema. L’unica soluzione contro la peronospora era il rame e di rame ce n’era poco, e pur di salvare il raccolto anche le padelle in rame venivano fatte fondere per creare il verderame. Naturalmente il verderame veniva dato con delle macchinette a spalla anche ogni 6-7 giorni. Fortunatamente i nostri vigneti sono tutti Sorì e se da una parte era uno svantaggio perché molto faticosi, d’altra parte era un grosso vantaggio perché la qualità dell’uva era molto elevata. Proprio per questo i mediatori, gli enologi delle ditte spumantiere venivano a cercare il nostro Moscato perché quello del Bauda insieme a quello di Moncucco, San Carlo, Camo, San Pietro e altri Sorì era di una qualità superiore, che grandi soddisfazioni!!” Grazie a questa storia nasce in me la curiosità e la passione per il Moscato. Correva l’anno 1992 quando nascevo io, Francesco, figlio di Tojen, quinta generazione della famiglia Bocchino, pochi anni più tardi nasce mia sorella Delia Anna che prende i nomi delle due Nonne. Fin da subito mi sono appassionato all’ uva e al vino. Poco tempo fa, mentre stavo frugando tra i reperti storici della mia famiglia, ho trovato una mia foto da piccolo: io in braccio a mia zia che pasticciavo vicino a una cassetta piena d’uva. Vedendo quella foto ho proprio pensato che solitamente i sogni si trovano nel cassetto, io invece, l’ho trovato in una cassetta d’uva. Passano gli anni e crescendo mi appassiono sempre più a questo mondo, fin quando alle medie, quando si doveva scegliere la scuola superiore non ho avuto nessun dubbio: Enologica di Alba. Sei anni intensi ricchi di avventure e di formazione, non ero un “secchione” non mi piaceva stare troppe ore sui libri, ma come diceva un mio professore:” Francesco tu sei un praticone” in qualche modo riuscivo ad uscirne sempre fuori senza diventare matto per lo studio. Finita la scuola, dopo qualche piccola esperienza, sono tornato a casa, per cercare di coronare il mio sogno. Quello di valorizzare la mia cantina, il Territorio ed il Moscato. Il perché? Beh, son cresciuto tra la dolcezza del Moscato a Santo Stefano Belbo, cuore della zona di questo vitigno. Vederlo screditato, dopo i sacrifici fatti dalle generazioni passate mi spezza il cuore. Nel 2013 escono le prime bottiglie sotto la guida di mio papà Vittorio. Per 3 anni sperimento in vigna ed in cantina per creare il MIO vino. Anno di svolta il 2016 quando finalmente nascono i miei vini sempre sotto l’ala di mio padre ma con la mia impronta. Sono felice che mia nonna Anna abbia potuto assaggiare i miei vini poco prima di lasciarci, lei è stata

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Moscato pane burroeacciughe una grande lavoratrice e apprezzava molto il vino soprattutto quello buono ed era la degustatrice ufficiale, se c’era qualcosa che non andava me lo diceva subito. Parlando di territorio, la zona della DOCG Moscato d’Asti e Asti DOCG è molto ampia, si parla di una superficie di 10.000 ettari che comprende 51 Comuni divisi in 3 province. Dalle colline più ripide delle Langhe in provincia di Cuneo, a quelle dolci del Monferrato in provincia di Asti fino alla pianura Alessandrina. Ogni territorio presenta il suo microclima, dato dalla differenza di altitudine, che varia dai 170m fino ai 700m e dalla tipologia del terreno, dal quale deriva un prodotto molto diverso da una zona all’altra. In questo territorio ci sono circa 4000 aziende agricole che vivono grazie al Moscato, solitamente le aziende sono piccole, mediamente 3 ettari, perché molte famiglie coltivano la vite solo come un lavoro secondario. La parola Sorì, significa letteralmente baciato dal sole. S’intende quindi un vigneto con pendenza oltre il 40% con esposizione sud, ovest ed est che nella maggior parte dei casi risulta essere non meccanizzabile. In tutta la denominazione, dagli ultimi dati del C.S.I. “Centro Sperimentale Informatico della Regione Piemonte” ci sono circa 951 ettari di Sorì oltre il 40% di cui 189,4 superiori al 50% di pendenza. La provincia più interessata è quella di Cuneo con 629 ettari, seguono Asti con 288 e Alessandria con 34. Limitandoci alle pendenze superiori al 40% citiamo Santo Stefano Belbo con 235,6 ha, Cossano Belbo con 103, Vesime con 25,7, Castiglione Tinella 54,8 e Loazzolo con 30,2. Un dato da tutti accertato: nei Sorì nasce la migliore qualità dell’uva Moscato. Grazie agli appunti di Renato Ratti (enologo, produttore e presidente del consorzio del Moscato d’Asti) e Lorenzo Tablino (enologo, giornalista, docente Onav), di seguito i più importanti Sorì del moscato: Moirano-Maggiora di Acqui. Montersino- Serre- Bonina- Masucco- Molone di Alba. Casale- Costa-Gattera di Alice Belcolle. Garbazzola di Calamandrana. San Siro- Crevacuore- Moiso- Monterotondo, Boscodonne di Calosso.

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Sant’Antonio – Serra Masio- di Canelli. Annunziata di Castagnole Lanze. Sant’Andrea-La Serra- Noceto-Cainula-Montecolombaro di Cassine. Costa del sole e Cortile di Castelboglione San Carlo – Caudrina – San Bovo – Manzotti di Castiglion Tinella. Rovere- San Pietro, Scorrone di Cossano Belbo. Bricco Lu – Sant’Anna di Costigliole D’Asti. Martini-Terrabianca-Luis- Riforno-Avene di Mango. Tagliata -Vezzano di Maranzana. San Giorgio di Mombaruzzo. Gallina -Micca di Neive. Scaletta, Coda -Sur Reymond di Neviglie. Bazzana – San Michele di Nizza Monferrato. Valporcile-Vallerenza di Ricaldone. Moncucco-San Maurizio-Bauda-Bruciata-Santa Libera- Brunetti – Solito di Camo di Santo Stefano Belbo. Marchesa -Casarito -Pineto-Scrapona -Vallerizza di Valle Bagnario in Strevi. Pajorè-Rizzi-Manzola-Valeirano-Marcarini-Montersino di Treiso. Gentili – Roreto – Soglio di Trezzo d’Alba. Definiti così, grazie a molteplici fattori: • Per la massima insolazione dei grappoli, grazie alle somme termiche annuali elevate. • Di fatto i terreni ripidi sono quelli in grado di assorbire in maniera eccellente i raggi del sole. • Aggiungiamo l’altitudine del Sorì, spesso oltre 400 metri s.l.m. • Che porta un clima più temperato, adatto quindi alla coltivazione di vitigni a contenuto aromatico. • Aggiungiamo migliore sanità dell’uva grazie alla minor presenza di Peronospora e Botrytis e una composizione della polpa dell’acino maggiormente equilibrata. Ecco i precisi “fattori di qualità dei Sorì”. Garantiscono produzione di uva con alta ricchezza zuccherina, migliori quadri aromatici sul piano quantitativo e soprattutto qualitativo. Spesso proprio nei Sorì si trovano i cosiddetti “rapet” del Moscato.

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Moscato pane burroeacciughe Provengono da viti vecchie. Come dice il termine si tratta di piccoli grappoli di uva moscato, Gli acini minuti presentano sempre un bel color giallo-dorato, sempre spargoli. Ovviamente pesano poco. Ma la dolcezza e l’aromaticità sono ineguagliabili. I Sorì hanno bisogno di molte più ore lavorative rispetto ad un vigneto con una pendenza minore, perché la maggior parte delle operazioni colturali vengono fatte completamente manualmente: • Controllo dell’erba: oggi con una trincia trainata da un trattore ci si impiegano 2 ore di lavoro per 1 ha di vigneto mentre con un decespugliatore servono almeno 8 ore. • Cimatura: nei Sorì quest’operazione viene fatta con delle forbici oppure tramite delle lame rotanti montate su una barra e il vignaiolo fa molto fatica e ci impiega circa 8 ore per 1 ha, nei vigneti meccanizzati ormai con una cimatrice moderna in 2 ore di tempo cimi 1 ha di vigneto • Trattamenti: vengono effettuati solitamente con le gomme e ci vogliono 2 operatori e 3 ore di tempo per trattare 1 ha di vigneto mentre con un atomizzatore si impiega 1 ora per 1 ettaro. • Sermenti: nei Sorì devono essere tutti portati via manualmente in fondo al filare per essere poi bruciati (solo in determinati periodi e lontani da incolti, boschi o sterpaglie), cippati o trinciati; mentre in vigneti pianeggianti si passa a trinciarli in mezzo al filare. • Vendemmia: ormai per la vendemmia nei vigneti pianeggianti si utilizza la vendemmiatrice che ha ridotto notevolmente le ore e i costi di lavorazione; nei Sorì viene effettuata ancora manualmente, l’uva staccata viene posta in cassette dai 25-30 kg e poi portata in fondo al filare tramite l’uso di carrette manuali e successivamente l’uva viene versata nel brentone o posta la cassetta su un trattore e poi portata in cantina. Da come si può capire i costi di gestione di un ettaro di vigneto a Sorì sono almeno 3 volte superiori a quello di un vigneto meccanizzato. Oggi poi la manodopera sta diventando sempre più costosa e più difficile da reperire, i giovani difficilmente vogliono lavorare in campagna e soprattutto lavorare quei vigneti non meccanizzabili perché molto faticosi. Negli anni sono state create strade per riuscire a meccanizzare un minimo i vigneti, c’è tutta una serie di regole agronomiche per la regimazione delle acque e il loro ruscellamento, i nonni hanno creato dei veri e propri fossi per evitare l’erosione del terreno e delle righe soprattutto nelle capezzagne per rallentare la corsa dell’acqua.

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Fondamentale anche il controllo dell’erba, negli anni passati si utilizzavano i diserbi chimici, ma ormai siamo sulla strada del loro abbandono, sia perché sono molto inquinanti, sia per una questione etica e di immagine di territorio; purtroppo però il controllo dell’erba nei Sorì non è così facile, lo sfalcio a seconda delle annate è fatto da 2 a 4 volte tutto manualmente con l’ausilio di decespugliatore, quindi risulta molto faticoso e richiede parecchie ore di tempo durante l’anno. Negli ultimi anni i Sorì specialmente quelli con esposizioni a sud hanno avuto problemi a causa dell’innalzamento delle temperature, della carenza di precipitazioni (pioggia, neve), per questo le piante sono andate in stress idrico. Ci si è dovuti adattare al nuovo clima con sfogliature e potature verdi a nord, fatte quindi con la schiena a monte, si usano portainnesti con radici che vanno in profondità, la vendemmia in alcuni casi a seconda del vino che si vuole ottenere deve essere anticipata rispetto agli altri versanti. Di questo passo i Sorì potrebbero sparire in pochi anni a causa del reddito diventato non sostenibile. Oggi ci sono pochissimi vignaioli che reimpiantano un Sorì, infatti mediamente questi vigneti hanno tra i 35-40 anni, proprio per gli elevati costi di rifacimento del nuovo impianto anche solo a livello burocratico tra geologo, geometra, i materiali di drenaggio, il lavoro di scasso, barbatelle, pali per dire solo le cose più onerose, e proprio per questo c’è il rischio se non cambia qualcosa che questi pezzi di storia vengano abbandonati. Ma cosa succederebbe se i Sorì venissero abbandonati? Le colline più significative a livello di qualità diventerebbero gerbidi, con annesse problematiche a livello di gravi e pericolose malattie della vite, vedi Flavescenza dorata, enorme danno a livello d’ immagine del territorio, dal 2014 entrato nell’Unesco soprattutto grazie a questi vigneti eroici, e perdita di quella socialità e aggregazione che erano tipiche di questi territori, dissesto idrogeologico, grazie al lavoro dei contadini questi vigneti mantengono a posto le colline evitando frane e smottamenti. Mancanza di prodotto di punta “CRU” che dovrebbe fare da traino per il mercato del Moscato. Forse è proprio questo il problema del mondo Moscato in Piemonte: non c’è diversificazione di reddito tra chi produce uva di alta, altissima qualità e chi produce uva di bassa qualità.

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Moscato pane burroeacciughe Le soluzioni per riuscire a valorizzare questi Sorì sono molteplici: • creare una MENZIONE SORI’ per valorizzare i prodotti di questi vigneti e far si che una bottiglia prodotta con quell’uva sia con caratteristiche uniche, con una storia dietro che racconta la nostra fatica ma anche quella dei nostri nonni. • i giovani dovrebbero investire e credere nel Moscato iniziando a trasformarsi da contadini a veri e propri imprenditori, non solo vendendo l’uva ma iniziando a vinificare il proprio prodotto e andandolo a proporre in giro per l’italia e per il mondo, in maniera da valorizzare l’intero Territorio, non solo i Sorì. • fare gruppo, creare delle collaborazioni tra più aziende e cantine per contenere i costi, per es. comprando attrezzatura di cantina o vigneto tra più produttori, creare rete anche a livello turistico tra cantine, enti pubblici (Comuni), Associazioni (culturali, di categoria) e collaborare con le strutture ricettive in modo che i turisti abbiano la possibilità di visitare le nostre meravigliose colline e poter degustare i nostri straordinari vini. Proprio per questo è stata creata l’Associazione Aroma di un Territorio, dando la possibilità di valorizzare il Moscato in un’altra veste. I SORI’ sono parte fondamentale del territorio, è su queste terre scoscese, questi BRICCHI che è nato il Moscato e come diceva Cesare Pavese, illustro scrittore che ha i propri natali a Santo Stefano Belbo cuore della zona del Moscato e Paese con più ettari di Vigneti eroici: “Invece traversai Belbo, sulla passerella, e mentre andavo rimuginavo che non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore.” Francesco Bocchino, Santo Stefano Belbo, 2020

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capitolo IVL’unica cantina di Camo

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azienda agricola 499 nasce a marzo del 2012 dall’idea e dall’unione delle forze tra Gabriele Saffirio e Mario Andrion. Dopo anni di lavoro in cantine della zona di Barolo del Barbaresco abbiamo maturato una ottima conoscenza sui vini rossi e una buona competenza sui bianchi che ci ha permesso di realizzare il nostro sogno. Produciamo vini di qualità a base di Moscato bianco di Canelli, Freisa, Chardonnay, Nebbiolo e una piccola parte di Dolcetto (che non vinifichiamo) nel rispetto della natura a Santo Stefano Belbo, nella frazione di Camo, dove ha sede la nostra cantina. Io Gabriele, faccio parte dell’Associazione Aroma di un Territorio, socio fondatore e ricopro il ruolo di vicepresidente vicario. Quello timido, quello esuberante, quello esperto e quello che vuole un consiglio… sono tutti diversi gli avventori curiosi che si imbattono nella nostra cantina ma, prima o poi, tra un sorso e l’altro, fissando interrogativamente l’etichetta, sorgerà la fatidica domanda: “perché 499?”. Le nostre vigne sono a quasi 500 metri sul livello del mare (come la frazione Camo per l’appunto) e ciò comporta, insieme all’esposizione favorita, un’ottima acidità e freschezza. Questo significa anche tanto, tanto lavoro in vigna dove, si può dire “eroicamente” il sottoscritto (Gabriele Saffirio) cura tutti i 12 ettari di vigneto che si inerpicano quasi verticalmente sulle colline delle Langhe. In cantina, possiamo poi incontrare il socio, enologo ed amico Mario Andrion, intento a degustare i nostri nuovi vini per “badare” alla loro buona evoluzione. Li viziamo, insomma, e ci viziamo con loro. La nostra prima scommessa, nel 2012, è stata la Freisa: vitigno e vino difficili, dicono anche i più competenti, ma anche una tradizione del nostro territorio che abbiamo voluto far rivivere in chiave moderna da vero protagonista e in più versioni (acciaio, legno e rosé). Ad affiancare la Freisa, profumato, frizzante, dolce e fresco troviamo il Moscato d’Asti. La ricerca certosina della qualità ha portato negli anni a farlo diventare uno dei vini premiati della nostra produzione, da bere a fine pasto con un dolce, ma da provare anche all’aperitivo (parola di esperto in luculliani banchetti!). Non ci annoiamo mai e a riposare in vasca o in botte, abbiamo una coppia eterogenea di vini pronta per progetti importanti: il Nebbiolo, blasonato ed indiscusso principe delle Langhe, e

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Moscato pane burroeacciughe l’internazionale e versatile Chardonnay, che si fregerà in etichetta della dicitura “Metodo Classico”. E che dire del motivo per cui sto scrivendo questo capitolo? “Il Moscato Secco viene amaro”, “il Moscato Secco non si può fare”, queste le premesse della maggiore sfida che abbiamo intrapreso, testardi più che mai per rendere questa versione equilibrata, aromatica ma soprattutto, ovviamente, non amara. Com’è stato possibile? ENIGMA… Il Moscato Secco, ora è nostro paladino, il nostro orgoglio emerso a livello aziendale e da far emergere in Italia a mezzo dell’associazione Aroma di un territorio. Ci crediamo, ci crederete appena lo assaggerete! Prendetene un bicchiere e, sorseggiandolo, scoprite qualcosa in più sull’unica cantina di Camo. Mi sembra ieri, anche se ormai sono passati ben 8 anni, Mario il mio socio è venuto a casa mia per vedere come era messa la mia cantina dell’epoca: male. Avevamo 3 botti di legno inutilizzate da trent’anni o più, 3 vasche di vetro-resina, una pompa e con il pavimento in terra battuta; insomma, era la situazione tipica che si poteva ritrovare in molte case, aziende del mondo del Moscato. Nonostante questo, Mario è riuscito a vedere del potenziale in questi locali. Con molto olio di gomito di mio padre, di Mario e mio, siamo riusciti a dar vita alle nostre idee e a ricavare i locali sotto la casa dei miei genitori. Mentre eravamo li a ristrutturare tra polvere e preoccupazioni, mi ponevo molte domande: “ma perché solo noi stiamo facendo una cantina a Camo?”, “perché solo noi stiamo rischiando?”, “come mai in passato nessuno ha provato a vinificare e a vendere il proprio vino?” “Possibile che nessuno voglia sapere che gusto ha il vino di Camo, soprattutto i giovani?” “Come mai qua da noi passano pochi turisti? Eppure la vista è stupenda…” La risposta alla prima domanda che mi sono dato è che probabilmente siamo matti. Poi, pur rimanendo convinto di questo, ho iniziato a scavare nella storia di questa collina tenendo conto anche della situazione italiana, a collocare cronologicamente fatti, avvenimenti e situazioni ambientali. Per dare una spiegazione bisogna partire dal dopoguerra, quando la vita in campagna era molto dura ma dava da mangiare, famiglie numerose composte da molti membri, pochissimi soldi. I figli appena erano in grado di camminare venivano messi subito nei campi o ad accudire gli animali. Molti campi, oggi vigne, venivano coltivati con altre colture e si cercava di suddividere il più possibile i vari appezzamenti per avere più alimenti. Questo ha provocato una divisione e un rimpicciolimento delle particelle, tant’è che quando ci si doveva dividere “l’eredità” tra fratelli (che magari nel frattempo

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avevano già creato una loro famiglia) ognuno aveva un piccolo pezzo di terra, il quale non rendeva possibile l’inizio di attività atte a trasformare i propri prodotti e, nella maggior parte dei casi, non garantivano il sostentamento. Questi frazionamenti, ma soprattutto la fame, hanno provocato un flusso migratorio di braccia verso le città o le fabbriche che garantivano uno stipendio fisso e una vita più decorosa. Questi proprietari terrieri si ritrovavano quindi a lavorare durante il giorno in fabbrica e accudire a “tempo perso” queste piccole vigne, finito il turno di lavoro o magari alla domenica. Questo fattore non ha aiutato certamente ad aprire cantine o altre attività di trasformazione, lasciando in una sorta di limbo questi contadini. Verso la fine degli anni ‘70 si è visto un aumento della domanda del vino e di conseguenza una maggiore richiesta di uva da parte di cantine che sono riuscite già in passato a produrre molto vino. Si può dire che qui sono nate le industrie del Moscato, le quali chiedevano nel corso degli anni un aumento di uva ai contadini a discapito della qualità in modo inversamente proporzionale (più uva, meno qualità) in cambio di un buon prezzo al chilo. Anche questo fattore non ha incentivato la nascita di cantine, in quanto un uomo con un posto fisso in fabbrica e qualche giornata di vigna, aveva già il suo bel reddito. Ma solo questi fattori non bastano a spiegare le difficoltà. L’ investimento iniziale per la produzione di Moscato è impegnativo, infatti necessita di strumentazioni costose e molta tecnologia, in più è un vino che si presta molto alla sua lavorazione industriale a discapito sempre della qualità. Piccole aziende seppur con discreti guadagni non hanno mai iniziato la trasformazione di questo stupendo vino, le autoclavi per esempio, o l’imbottigliatrice isobarica, ma anche il frigorifero sono strumenti molto cari che scoraggiano, soprattutto quando si deve partire da zero: richiedono anni di ammortamento; e poi anche per un fattore di tranquillità: si lasciano alle cantine grandi tutti i “problemi” da dopo la raccolta delle uve, senza avere preoccupazioni di dover vendere il vino. Un altro fattore è che Camo è sempre stato un piccolo paese con pochi abitanti, quieto. Mi ricordo ancora dei giorni interi senza traffico, insomma un paradiso per chi vuole stare in pace e, secondo me, questa tranquillità non ha dato gli stimoli giusti agli abitanti per costruire un’economia locale fatta da cantine o ristoranti. Un’altra domanda che mi sono posto con il passare del tempo e perché luoghi come Coazzolo, Castiglion Tinella, Valdivilla ecc. avessero molte cantine e strutture rispetto a noi nonostante il numero di abitanti sia simile. Probabilmente un fattore determinante è proprio la collina. Camo è

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Moscato pane burroeacciughe arroccato su questo cucuzzolo che dà quasi a strapiombo su tutta la zona, “meraviglioso” direte se avrete la fortuna di trovarvi sulla magnifica terrazza sui colli. Sporgetevi un pochino e godetevi lo splendido panorama ripercorrendo il percorso che il sole fa ogni giorno: le colline della Valle Belbo si distendo morbide coperte da vigneti, un manto verde in primavera, arancione in autunno… mai uguale, non annoia mai. Volgendo lo sguardo a sud le colline aumentano piano piano di altitudine, i vigneti diventano sempre più radi, lasciando il posto ai noccioleti e ai boschi, paesaggi tipici dell’alta langa. Tutto questo panorama va guadagnato però perché purtroppo la strada che porta a Camo è una sola. Percorrendo la strada stretta che sale da Santo Stefano fino in cima, si fanno molte curve a gomito, tornanti, che ricordano una tipica strada di montagna limitandone l’accesso. Ma non è tutto, perché dall’altro lato, cioè arrivando da Mango, c’è una strettoia e quindi anche qui i mezzi molto grandi non possono passare. E’ chiaro che in passato questo non ha aiutato l’apertura di cantine o altre attività. Insomma, nonostante sia in una posizione unica e stupenda, risulta isolato. Da quando abbiamo aperto la cantina Mario ed io ci siamo accorti delle potenzialità del terreno di questa collina e del Moscato vinificato sia secco che dolce, oltre ad avere caratteristiche uniche (profumi e sapori minerali), si presta molto per l’invecchiamento. Una cosa che diciamo sempre ai nostri importatori e clienti è che Camo è come i Cannubi per il Barolo, abbiamo una risorsa per le mani che stiamo scoprendo solo ora (in entrambe le versioni), iniziando a vinificare l’uva di Camo. E’ bello spiegare ai produttori, enoblogger, winelovers ecc. le mille sfaccettature che prendono i nostri vini a base Moscato a seconda della collina da dove proviene l’uva, esattamente come in tutti i vini di Langa e non. Dovremmo smetterla di vedere il Moscato solo come vino industriale fatto con lo “stampo”, standardizzato e reso uguale di anno in anno. Sicuramente non è per nulla facile far conoscere il vino di Camo in giro per il mondo, soprattutto da soli. Ora sono soddisfatto di aver trovato altri sette (per ora) produttori che la pensano come me, (anche se non sono compaesani) sulla qualità del vino, sul rispetto dell’ambiente e con la voglia di far rinascere questa nostra zona ormai sempre più dipendente dalle industrie, che decidono il prezzo delle uve e del mercato. È questo il motivo per il quale bisogna creare delle piccole realtà, favorire l’apertura di enoteche o ristoranti, portare i turisti nella nostra zona unica, dove il Moscato sprigiona il massimo delle sue potenzialità, nei nostri sorì, nel nostro terreno dove si miscelano sabbia, arenaria, calcare, tufo; tutti elementi che donano un profumo unico invidiato in tutto il mondo

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ma non siamo ancora in grado di vendere e promuovere come si deve perché talvolta abbiamo una mentalità troppo chiusa; invece di fare squadra e provare a crescere insieme si sta guardinghi, più attenti a sperare che l’erba del vicino si ingiallisca un po’, piuttosto che mettersi insieme e creare un rigoglioso prato comune. Mi viene in mente una barzelletta che secondo me descrive molto bene la mentalità di questi posti. Recita così: un contadino sta lavorando il suo campo, quando con la zappa colpisce qualcosa di metallo di forma strana. Nota una scritta su di un fianco e per leggere meglio strofina: era una lampada. Di colpo esce il genio e dice al suo padrone: “mi hai liberato dalla lampada, ora hai diritto ad esprimere un desiderio…devo avvertirti però che qualunque cosa tu chieda io la raddoppierò al tuo vicino”. Il contadino allora inizia a pensare ”se chiedo un miliardo, al mio vicino ne vanno due, quindi no. Se chiedo una Ferrari, il mio vicino ne avrà due; se chiedo una moglie giovane e bella al mio vicino ne andranno sempre due”… poi dopo molti ragionamenti esprime il suo desiderio finale: “genio, fiacme n’ bala“, genio, schiacciami un testicolo. La mia speranza è di aver dato l’input e il coraggio per far aprire altre nuove realtà, sarebbe molto bello e vantaggioso per questa piccola comunità e non solo. Se i giovani enologi/enotecnici (anche quelli non più giovanissimi) aprissero qui le loro attività, si darebbe una nuova vita commerciale e turistica. Bisogna crederci e non avere paura di buttarsi. Gabriele Saffirio, Camo, 2020

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capitolo VRitorno alla terra

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a storia della nostra azienda è abbastanza diversa dalle altre, particolare diciamo, ma partiamo dall’inizio. Il nostro bisnonno Felice Cerutti era un mezzadro, quindi abitava nella cascina di un altro proprietario a Perletto, un piccolo paesino delle Langhe, e insieme a sua moglie e ai suoi nove figli, esatto nove figli, lavorava la terra del padrone dividendone il ricavato, metà a loro e metà al padrone. Era una vita assai più dura di quella che conosciamo oggi, ma con tanto sudore e tanta fatica riuscì a comprare una cascina con un pezzo di terra ad ogni figlio prima dei rispettivi matrimoni. Nonostante fossero mezzadri economicamente erano benestanti, grazie anche alla produzione del baco da seta che, da come raccontava mio nonno Mario, costringeva tutti i figli a dormire in un’unica stanza durante il periodo di produzione, per lasciar libere le altre stanze. Ovviamente comprarono le cascine per i figli facendo dei mutui che ripagarono man mano lavorando tutti assieme. A nostro nonno Mario, il più giovane dei 9 figli, toccò una piccola cascina (che fù poi la base della nostra azienda, ma ci ritorneremo) con qualche campo a prato, 4 mucche e pochi filari di Dolcetto. Mario ebbe tre figli tra cui nostro padre Sandro, che contribuì a lavorare insieme ai suoi fratelli la terra di famiglia. Nel 1975 decisero di sostituire la vigna di Dolcetto con il più pregiato Moscato, DOC dal 1967, che garantiva una produzione più costante e redditizia, lasciando solo qualche filare di Dolcetto per la produzione del vino da bere in famiglia, perché all’epoca il vino non era un bene di lusso come è oggi, ma era un vero e proprio alimento che garantiva un apporto calorico giornaliero. Però la terra “è bassa”, si fa tanta fatica e si guadagna poco. Decise così all’età di 21 anni di trasferirsi in città, a Torino, dove trovò lavoro in un’azienda come stampista. Qualche anno più tardi, tornando a Perletto per le vacanze estive come sempre, conobbe nostra madre Assunta, anche lei in vacanza estiva in quanto originaria di Vesime, paese confinante con Perletto, ma residente a Torino. Che poi “vacanze” è un modo di dire perché prendeva le ferie nel periodo della vendemmia per tornare ad aiutare nostro nonno. Nel 1993 nacqui io, Stefano, e nel 1996 io, Daniele. Dopo la nascita di Daniele nostro padre decise di lasciare il suo vecchio lavoro, che lo portava spesso a lavorare all’estero, per star di più in famiglia e aprì così con un amico un’impresa di giardinaggio. Questo gli permise appunto di poter passare più tempo con

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Moscato pane burroeacciughe noi oltre che avere un guadagno maggiore. Un’altra sua grande passione era il calcio, e questo fu un altro motivo per cui si trasferì a Torino, quello di dare a noi la possibilità di praticare questo sport a livelli più competitivi. Fin da quando eravamo piccoli però ogni week end i nostri genitori ci portavano a Perletto dove trascorrevamo anche le vacanze estive, da quando finivano le scuole a quando ricominciavano, da soli con i nonni, appassionandoci a tutte quelle piccole cose che per un bambino di città non sono affatto scontate, come per esempio ci ricordiamo quando il nonno al mattino ci portava con lui nella stalla per aiutarlo a mungere le mucche per prendere il latte per la colazione, e la prima volta che lo bevemmo non ci piacque poiché eravamo abituati a quello confezionato del supermercato, o come quando ci portava nella vigna e ci faceva assaggiare gli acini di quell’uva così dolce che sembrava miele. Tornando a Perletto ogni volta che ne avessimo l’opportunità ci affezionammo anche noi a questi posti meravigliosi che solo con il tempo, crescendo, imparammo ad apprezzare ancora di più. Tante sono le piccole cose che per una persona che da sempre abita qui sembrano scontate ma invece non lo sono affatto, come le stelle: di stelle in città a Torino non se ne vedevano, perché coperte dalla luce artificiale dei lampioni e delle case, mentre ci ricordiamo quando a Perletto nostro padre ci portava in giardino, alla sera, nelle notti con il cielo sereno e restavamo ore a guardarle, o anche il luccicare delle lucciole, il canto dei grilli di notte e il frastuono delle cicale nei giorni caldi d’estate, il profumo dei campi in cui avevano appena tagliato l’erba, la cordialità delle persone che salutano sempre perché in questi paesini si conoscono tutti, non come a Torino dove a momenti non conosci nemmeno il vicino di casa; ma anche il gusto della frutta raccolta direttamente dall’albero, che tra l’altro, fidatevi, non è minimamente paragonabile al sapore di quella comprata al supermercato che a confronto non sa di niente: quante ciliegie abbiamo mangiato da quella pianta che aveva nostro nonno nel giardino di casa. Tornando al calcio, da quando iniziammo a giocare più seriamente, crescendo, i nostri fine settimana a Perletto erano finiti perché la domenica c’era la partita e le lunghe vacanze estive anche, perché il ritiro con la squadra iniziava presto, ad agosto. Venne anche il giorno in cui venne a mancare nostra nonna e nostro nonno Mario ormai anziano, in pensione e con una gamba malandata decise di vendere le mucche e dare in affitto la vigna di Moscato. Qualche anno più tardi venne a mancare anche lui e, con noi a Torino, le mucche vendute e la vigna in affitto ad altri, l’azienda agricola di famiglia sembrava non aver futuro. Qui giocò un ruolo fondamentale nostro padre Sandro, da sempre molto legato a

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Perletto e alla terra di famiglia. Quando scadde il contratto d’affitto del vigneto decise di riprendere tutta la terra del nonno pagando le rispettive parti agli altri due fratelli, e di mandarla avanti contemporaneamente al lavoro di giardinaggio a Torino: in settimana a Torino e il week end e nelle ferie a Perletto. I tempi erano cambiati, erano passati tanti anni da quando i bisnonni e poi i nonni lavoravano quei pochi filari a mano, con il bue, e si erano modernizzati, meccanizzati riuscendo così, lavorando sempre, a far andare avanti entrambe le cose. La terra era poca, un ettaro e mezzo di vigneto (uno di Moscato e mezzo di Dolcetto) e qualche prato in cui piantò delle nocciole, ma sarebbe stato il suo fondo pensione, la poca terra da lavorare per fare qualcosa dopo il pensionamento e dopo essersi ritrasferito nel suo paese natale Perletto o almeno credeva che sarebbe stato così, infatti stavamo per arrivare noi a rovinargli i piani per la sua tranquillità futura. Appunto qualche anno dopo aver finito le superiori a Torino, io e mio fratello decidemmo di far si che l’azienda di famiglia di Perletto diventasse il nostro lavoro principale, anticipando nostro padre che sarebbe andato a vivere a Perletto solamente per l’annata 2018 a pensionamento avvenuto. Io mi trasferivo subito, mio fratello avrebbe iniziato a fare l’università per diventare enologo frequentando il primo anno obbligatoriamente a Torino per poi raggiungermi l’anno successivo. Quindi, naturalmente di comune accordo con i nostri genitori che sovvenzionarono alcune spese iniziali, aprimmo una benedetta Partita Iva e ci facemmo carico di tutti i terreni dell’azienda. Era l’annata 2015 ed era il momento giusto, io Stefano avevo 22 anni e Daniele 19, e uscivano anche dei bandi quinquennali per dei contributi europei che aiutarono non poco il nostro insediamento in agricoltura. La terra, come già detto era poca e non ci avrebbe consentito di vivere nemmeno singolarmente, quindi dovevamo ampliare l’azienda. Decidemmo dunque di piantare un vigneto di un ettaro di Moscato comprandone i diritti nei terreni in cui il nonno aveva i prati e trovammo l’occasione di comprare, facendo un mutuo importante, 3,5 ettari di vigneto di cui 3 ettari di Moscato e mezzo di Dolcetto. Per comprare questi vigneti avevamo iniziato ad informarci l’anno precedente per poterli avere in tempo per l’inizio dell’annata 2015 di modo da poter avere subito dal primo anno un reddito che permettesse all’azienda di poter sostenere costi e futuri investimenti. Dopo varie ricerche trovammo finalmente quello che stavamo cercando, e davvero non fu facile, un vigneto abbastanza grande, in produzione, in un unico appezzamento e nelle vicinanze di Perletto. Ricordo che quando andammo a vederlo per la prima volta ne notammo subito la bellissima esposizione a sud e l’altitudine intorno ai 500

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Moscato pane burroeacciughe m.s.l.m, ma notammo anche che non era in perfette condizioni e che questo avrebbe portato ad altri costi notevoli negli anni a venire. “Non era in perfette condizioni” per usare un eufemismo, infatti erano vigneti molto vecchi e che molto probabilmente sarebbe stato meglio, un pezzo alla volta e nel corso degli anni, estirpare e rifare da zero. Quello messo peggio era il vigneto di Dolcetto, tanto che decidemmo di estirparlo e di riconvertirne da subito la produzione a Chardonnay. L’anno successivo piantammo anche un ettaro di Pinot Nero per riempire gli ultimi campi del nonno arrivando così a 6 ettari vitati. Il Moscato Bianco di Canelli è il vitigno principe della zona, quello che da origine a due vini DOCG, quello che si lega di più al territorio, Pinot nero e Chardonnay invece sono i due vitigni consentiti nella produzione dell’Alta Langa DOCG una denominazione recente che dà origine ad uno spumante metodo classico prodotto in queste zone fin dall’800. Ecco! Il vino! Il vino è la vera passione da cui è nata l’idea di tornare a lavorare nell’azienda di famiglia, la soddisfazione di veder il lavoro finito al 100%, di averlo fatto tu e di vederlo, per esempio, su un tavolo in un ristorante importante. Il vino era il prossimo obbiettivo. Quando siamo partiti da Torino era già chiara l’intenzione di voler vinificare non appena fosse stato possibile, la vera e propria passione per il vino invece è maturata nei primi anni lavorativi rendendoci ancora più conto, toccando con mano ed addentrandoci ancora più dentro questo mondo, di quanto fosse incredibile con i vari differenti vitigni, con le loro caratteristiche che vengono espresse in modo unico e differente in base al luogo in cui sono piantati e che di conseguenza generano possibilmente vini infinitamente diversi tra di loro, prodotti con altrettanti possibili metodi di vinificazione. Con il 2018 alle porte nostro padre andò finalmente in pensione e, trasferitosi da Torino a Perletto, venne sfruttato a pieno regime nell’azienda ed era così finalmente tutto pronto per poter partire con il progetto vino. L’annata 2018 segnò un capitolo importante per la nostra azienda perché con le vigne ormai a pieno regime realizzammo il nostro sogno in quanto iniziammo a vinificare, anche se solo una piccola percentuale delle uve da noi prodotte. Partimmo con un Dolcetto che, in onore del nonno, non poteva mancare e con un Moscato che, in onore del territorio in cui ci troviamo e della storia di questi posti, come prima, anch’esso, non poteva mancare. Per il Moscato però prendemmo una decisione diversa dal solito decidendo di non vinificarlo dolce come ci si poteva aspettare, ma di fare un vino bianco, fermo e completamente secco. Un vino bianco ed uno rosso. Il Moscato è un’uva versatile, con tante possibili vinificazioni e quindi tipologie differenti, noi abbiamo scelto questa strada per partire ma

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un buon Moscato d’Asti come si deve è sicuramente nei nostri piani per il futuro prossimo e non tarderà ad arrivare. E qui riprendiamo il discorso di prima, di quanto sia bello e variegato questo mondo, della possibilità di poter raccontare ad un potenziale cliente due storie completamente diverse partendo dallo stesso vitigno. Ma qua arriva la particolarità, se di cose particolari non ne avevo ancora dette. Proprio nel 2019, cioè l’anno in cui saremmo usciti con le prime bottiglie, conoscemmo 7 giovani produttori tutti accomunati come me dalla conduzione delle rispettive aziende vitivinicole e soprattutto dalla produzione di questa versione di Moscato. Insieme a loro nacque da prima una discussione che portò dopo non poche vicissitudini alla creazione di un’associazione che raggruppava le nostre 8 aziende, con lo scopo di dare una regolamentazione e quindi una garanzia ad un vino da sempre prodotto ma mai veramente in modo definito, tutelarlo, e promuoverlo tutti insieme. La grande particolarità sta nell’unione di 8 aziende e quindi di 8 teste in un’unica associazione, con un’unica visione, che può sembrare una cosa banale, scontata, ma non lo è affatto quando di mezzo ci sono interessi e strategie aziendali, per non dire invidie e gelosie. Grazie a questi giovani produttori e all’associazione anche noi, da poco lavorativamente nel mondo del Moscato, abbiamo trovato la giusta via per una piccola azienda appena affacciatasi nell’immenso mondo del vino e la grinta necessaria ad affrontarlo. Il Moscato secco non è solo un vino, ma un’opportunità, un’opportunità per quelle piccole aziende che producono solo uva e che in questi anni fanno fatica, un’opportunità per i giovani per rimanere in azienda e su queste splendide colline e continuare a portare avanti l’infinito lavoro cominciato dai nostri avi, un’opportunità per un territorio di risollevarsi. Quindi coraggio, il percorso è appena cominciato e non si vede nemmeno la fine, ma il coraggio è l’unica cosa che serve! Stefano & Daniele Cerutti, Perletto, 2020

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capitolo VI Moscato VS Montrachet

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ccomi qua! Mi presento: Fabio Grimaldi, nato a Canelli nel 1990. In quell’anno, celebre in Italia per i Mondiali di calcio, la Nazionale azzurra di Azeglio Vicini si dovette accontentare del terzo posto. Anche i miei genitori, Angela e Piergiuseppe, si sono dovuti in un certo senso accontentare, non solo dei risultati calcistici, perché il 9 ottobre, ovviamente all’ora dell’aperitivo, sono arrivato io. Il fatto di essere nato all’ora dell’aperitivo ha segnato prepotentemente il mio destino, anche se da bambino nulla faceva pensare a un futuro vitivinicolo: i miei genitori erano impegnati fuori casa e la campagna era soltanto un secondo lavoro. Anch’io, dopo le scuole dell’obbligo, mi sono iscritto alle superiori con indirizzo meccanico… ma solo perché erano a due passi da casa e ci andavo a piedi. Anche la mia passione per i motori e le automobili m’indirizzarono verso quel tipo di scuola, scoprendo poi che gli argomenti di studio erano ben altri. Inoltre, come dicevano gli insegnanti a mia mamma, la voglia di studiare era pari a zero e di fare chilometri per andare in un’altra scuola non ci volevo proprio pensare. Quindi, immaginatevi la confusione su quello che avrei voluto diventare da grande. Arrivò il tempo della musica: fin da piccolo mi piaceva suonare le percussioni. A quattro anni, più di una volta mamma Angela mi beccò a sbacchettare con mestoli e cucchiai la batteria… di pentole. Tegami e coperchi creavano suoni e frastuoni da fare invidia a Tullio De Piscopo. Nella musica, a differenza della scuola dove ero un bòcc (parola piemontese che, scolasticamente, significa asino), mi impegnavo molto, frequentando corsi e scuole perché volevo diventare il nuovo Stewart Copeland, celebre batterista dei Police. Abbandonata la scuola per scarso rendimento e le aspirazioni musicali, ho cominciato a lavorare in varie aziende enomeccaniche della Valle Belbo, seguendo le orme di mio fratello Luca, nato undici anni prima di me: non ne volevo proprio sapere di vino e vigne. Persino all’aperitivo con gli amici mi bastava un triste analcolico o, al massimo, uno Spritz a base di Prosecco. Mi stavo rovinando il periodo più bello della mia vita!!!

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Moscato pane burroeacciughe Ed è proprio in quel momento che ho capito qual era la vera strada da prendere, per ottenere insieme soddisfazioni e felicità. La vedevo tutti i giorni con i miei occhi, ma non ci davo la giusta importanza. Sì, sto parlando di quella che oggi è Cascina Lodola. La Lodola è una storica cascina di Cossano Belbo, si trova sulla collina di Santa Libera, a 520 metri sul livello del mare. Il bisnonno Giovanni (Giuanulen) ci abitava già nel XIX Secolo e poi, con un atto datato 1950 che tengo gelosamente custodito in un cassetto, si arriva alla spartizione dei terreni tra mio nonno Pietro e i suoi fratelli che lavoravano campi e piantarono i primi vigneti di Moscato bianco. La casa era considerata da tutti i Cossanesi una delle più belle del paese: ogni anno, la Leva saliva fino alla cascina con carri e buoi per fare la foto ricordo che sanciva il raggiungimento della maggiore età e l’ingresso ufficiale nella società. Nel 1970 il nonno morì prematuramente e, così, nonna Angioletta portò avanti l’azienda agricola con mio papà, all’epoca appena diciottenne. Con il tempo vennero piantati altri vigneti. Arrivando a giorni più recenti, nella metà degli anni Novanta del Secolo scorso, ho ricordi bellissimi delle vendemmie: scorrazzavo qua e là nei filari, saltando le ceste e mangiando l’uva. Ogni anno la raccolta dei grappoli dorati era una grande festa: a fine giornata ci si ritrovava tutt’insieme intorno al tavolo per mangiare e cantare fino a tarda notte, nonostante la stanchezza. Gira, vira e smürcia il dubbio era se coltivare le vigne poteva diventare o no il mio mestiere. Andando spesso tra i filari a trovare il mio caro amico Cristiano, un contadino di Agliano Terme con qualche anno in più di me ed esperienza da vendere, mi spronò a cominciare l’attività vitivinicola e, dopo poco tempo, ho capito che coltivare le vigne doveva diventare il mio lavoro. E lo è tuttora dopo una decina di anni. Ho portato innovazioni all’azienda di famiglia, soprattutto nella gestione del vigneto, puntando molto sul rispetto dell’ecosistema e sulla salvaguardia della salute. Diserbanti e concimi chimici non fanno parte del mio modus operandi. In tutti questi anni mi sono appassionato sempre più di vino, studiando e collezionando bottiglie di tutto il mondo per arricchire la mia cultura enologica. Tutti vini, tanti vini… Prosecco escluso. Quello in casa mia non entra più! Ho sempre amato i vini bianchi di struttura: da quelli della Borgogna alla Napa Valley, da quelli della Mosella all’Alsazia. Così nel 2017 ho prodotto il mio primo vino bianco, nato sul solco della tradizione, inserendo elementi nuovi mutuati dall’esperienza francese. Un Moscato secco, quindi

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di controtendenza perché non dolce come tutti gli altri, vinificato sullo stile degli Chardonnay d’Oltralpe, che sono la mia passione. Una scelta dettata dal fatto che nella mia azienda non ho, per ora, questa tipologia di uva (forse meno male). Un bianco di corpo e di struttura lasciato affinare otto mesi in barrique: botti di rovere che cedono il giusto sentore, rendendo più caldo e vigoroso il vino. La prima produzione, limitata, è stata di 726 bottiglie destinate alla ristorazione e alle enoteche. Per me questo vino non è solo fatto di uva Moscato, ma vuole essere l’espressione della potenzialità di un terroir. Questo è il mio sogno e quello della mia azienda, poter fare un vino che possa stare al tavolo con tutti i grandi bianchi del mondo. Il suo nome è “Finalmente” perché, dopo tante prove ed esperimenti… finalmente è arrivato. Un vino prodotto sicuramente con una mentalità diversa da quella che circonda il grande mondo del Moscato fatto di aziende vitivinicole e Case spumantiere. Ispirato, soprattutto nella vinificazione, a quel mito di nome Borgogna, un territorio sicuramente benedetto dal dio Bacco e dal quale tutti noi giovani produttori dovremmo prendere esempio. Non è necessario essere grandi esperti di enologia per conoscere la Borgogna. Andare in Borgogna senza scoprirne i vigneti sarebbe come visitare Roma senza ammirare il Colosseo oppure recarsi a Parigi e non osservare la Tour Eiffel. La strada dei vini della Borgogna costituisce il filo conduttore ideale per scoprire questo affascinante territorio. È considerata uno dei terroir in cui la produzione di vino è seguita con maggiore attenzione e dimestichezza. Localizzata nella zona centrorientale della Francia, questa è nota soprattutto per la produzione di vini bianchi da uve Chardonnay e di vini rossi prodotti da Pinot Nero, entrambi vitigni autoctoni di questa regione. La Borgogna è il luogo più a Nord del mondo in cui vengono prodotti vini rossi di ottima qualità. Ma cos’è davvero che assicura una così alta qualità della produzione vinicola? Senza dubbio le fresche condizioni climatiche, che assicurano risultati ottimali in entrambi i vitigni. E se questo, da un lato, garantisce la produzione di prodotti di alta qualità, dall’altro comporta svantaggi non indifferenti, dato che le condizioni meteorologiche avverse possono causare annate sfavorevoli e di conseguenza vini di qualità mediocre. Questo significa che i vini variano a seconda delle annate, il che rende ancora più affascinante l’intera produzione enologica del territorio francese. Come già detto, la Borgogna è una delle regioni francesi più note quanto a produzione di vini.

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Moscato pane burroeacciughe D’altronde, questa tradizione enologica è qui particolarmente antica, tanto da affondare le sue radici addirittura nei tempi dei Romani. Sono stati poi i monaci a preservare i segreti di questa produzione, permettendole così di arrivare fino ai giorni nostri. L’unico vero grande cambiamento storico sembra essere stato rappresentato dalla Rivoluzione Francese, al termine della quale i beni terrieri di nobiltà e clero furono espropriati così da portare alla completa parcellizzazione dei terreni, vigneti inclusi. Si tratta di un cambiamento davvero importante per la produzione del vino Borgogna, soprattutto considerando che questa è fortemente legata al concetto di terroir. Nella regione si distinguono infatti i cosiddetti domaines, ossia un insieme di vigneti, alcuni anche di piccole e piccolissime dimensioni, dislocati in zone diverse e lontane tra loro, in alcuni casi anche con denominazioni differenti. Tutti questi vigneti appartengono in genere a un’unica azienda, che accetta però di vinificare le uve separatamente, così da produrre vini che esprimano al meglio le caratteristiche della zona a cui appartengono. E già questo basta a dimostrare il forte attaccamento dei vignaioli francesi al territorio di nascita. A differenza del Bordeaux, dove i vini sono classificati sulla base delle aziende produttrici, in Borgogna questa differenziazione è invece legata al singolo vigneto di produzione. Qualcuno sostiene che dipenda dal fatto che i francesi siano partiti per primi, qualche secolo fa, a selezionare i vigneti, i vitigni e le tecniche di cantina per ottenere la massima qualità dei vini. Altri dicono che siano bravissimi nel marketing, sfruttando anche la loro mania di grandeur con l’uso di parole incantevoli come Première Cru e Grand Cru nemmeno paragonabili, per grado di seduzione, alle nostre Doc e Docg. In Borgogna è addirittura possibile annotare varie distinzione tra: • Premier Cru: denominazione riservata a ben 562 vigneti della zona, pari circa all’11% della produzione vinicola totale. In questo caso, vi sarà facile distinguere questi vini grazie all’etichetta, dove il nome del vigneto compare direttamente dopo quello del villaggio. • Grand Cru: considerata la categoria più alta e pregiata. Questa è riservata a soli 33 vigneti del territorio, pari appena al 2% della produzione totale, il che dimostra l’esclusività dei vini che appartengono a questa particolare denominazione. In questo caso, l’etichetta del vino porta esclusivamente il nome del vigneto (Bonnes Mares, Clos de Vougeot, Griotte-Chambertin, La Tâche, Richebourg e altri).

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Un discorso a parte è da fare per la Côte d’Or, considerata la zona più prestigiosa dell’intera Borgogna. Da qui arrivano i grandi bianchi che prediligo e che si possono distinguere in diverse categorie: • le Appellations Regional, ossia il Bourgogne Rouge e il Bourgogne Blanc, generalmente prodotti con uve che provengono da villaggi diversi e spesso anche assemblando vini che sono prodotti in diverse zone della stessa regione. • le Appellations Comunal, ossia i Villages, riservate invece a vini che sono prodotti in un luogo specifico dal disciplinare. In questo caso, l’etichetta della bottiglia riporta sempre il nome del villaggio di appartenenza (Beaune, Chambolle-Musigny, Chassagne-Montrachet, GevreyChambertin, Meursault, Nuits-St.Georges, Pommard, Puligny-Montrachet, Volnay, VosneRomanée e altri). Un esempio da prendere infatti è quello del nostro presidente Simone Cerruti, di Emanuele Contino e di pochi altri produttori al di fuori della nostra Associazione, che hanno deciso di rivendicare in etichetta l’esatta provenienza delle uve con menzione vigna sul proprio Moscato d’Asti Docg. Toh proprio come nostri cugini d’oltralpe... Bravi! Veniamo dunque a noi, al Montrachet... il Re degli Chardonnay. Non è esagerato definirlo così. Tra i tantissimi vini prodotti con queste uve adatte a terreni molto diversi tra loro, quello originario di questa zona è di gran lunga il migliore. Con la complicità del terreno calcareo in cui crescono queste preziose vigne, dalla speciale esposizione delle dolci colline e del clima perfetto per la crescita dei grappoli d’uva, questo vino è sicuramente il più prezioso e costoso al mondo. C’è una leggenda che avvolge il passato di questa collina: si dice infatti che molti anni fa il proprietario di questo terreno fosse uno solo e che al momento di lasciare l’eredità ai figli, divise l’area in due: una parte venne data al figlio legittimo, il Cavaliere, e, contrariamente agli usi dell’epoca, anche il figlio illegittimo, il Bastardo, ricevette del terreno. Questa singolare storia si ritrova ancora oggi nelle sue denominazioni dove nascono 5 Cru da leggenda. Chevalier Montrachet, Batard Montrachet, Bienvenues. Batard Montrachet, Criots Batard Montrachet e Le Montrachet. Detto anche nel passato Mont Rachaz, Mont Rachat, Montrachat. Ogni qualche centinaio di anni la denominazione si affinò fino ad arrivare a noi come Montrachet, senza grosse differenze e con una continuità di pronuncia che non vuole che si percepisca la “t”. Per capirci va benissimo “Monrascè” il vino bianco secco da uve Chardonnay

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Moscato pane burroeacciughe migliore al mondo, forse paragonabile o avvicinabile nel bicchiere solo dal suo vicino (una dozzina di chilometri), Le Corton Charlemagne, sull’altra collina, quella di Corton. Forse il più bel vigneto di Borgogna nell’aspetto. Otto ettari piantati a Chardonnay su un pendio condiviso tra i Comuni di Puligny e Chassagne, così vicini, così diversi. Proprio come i Moscati della nostra Associazione: otto vini prodotti con la stessa uva, ma con risultati organolettici differenti, dovuti soprattutto al tipo di terreno e all’esposizione dei vigneti. Sulla collina del Montrachet, su terreni ordinatamente sbriciolati a strisce circoscritti da muretti a secco, una ventina di produttori coltivano e imbottigliano. Altri affittano, altri ancora vendono le uve. Chi le compra vive nello status di Negociant. In Italia direbbero: «Hai fatto il vino con l’uva di un altro? Oppure gli hai addirittura comprato mosto o vino finito e te lo sei imbottigliato a tuo nome?». Eh! Che classe i francesi a vendersi bene. In Italia un imbottigliatore resta sempre e solo un imbottigliatore. Per ogni grande Maison di Borgogna avere in listino Le Montrachet è parecchio importante. Il suo prestigio fa da traino per tutte le altre denominazioni. Se non ce l’hai diventa un’operazione di marketing acquistarlo. Difficile districarsi nella vasta scelta di un Montrachet. Berlo sì, ma di chi? Di che anno? Quando? Un bel dilemma, perché questo è un vino capriccioso come il clima primaverile sul Monte Calvo, quello decisivo. Bisogna innanzitutto conoscere gli stili di vinificazione dei vari produttori, poi individuare un’annata “pronta” e, infine, farsi il segno della croce sperando che il vino non sia troppo acerbo ma neppure in fase di declino, soprattutto se ci hai scommesso sopra una “fiche” da 1000 euro. Mentre tiri il collo alla bottiglia con cautela già t’immagini di calarti in atmosfere esotiche inebrianti che sanno di saturanti fiori e frutti bianchi e poi magari ti arriva sotto il naso del legno vanigliato in eccesso, oppure una fastidiosa punta di ossidazione. È un mondo difficile quello del Montrachet. Per il neofita sarà saggio partire da quelli dal costo più equilibrato, che non è il più basso. Ho bevuto Montrachet da 200 euro che non valevano un Puligny o uno Chassagne village da 20/30 euro di un produttore di alta qualità. La scala dei valori non sempre è rispettata in Borgogna. È bene prima scegliere il produttore, poi la denominazione e infine l’annata, consapevolmente. Cinquemila euro per un Montrachet de La Romanée Conti o del Domaine Leflaive rappresentano una cifra difficile da buttare giù, anche se i vini se lo potrebbero meritare.

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Ma come hanno fatto? Perché loro sì e noi no? Il Montrachet è sicuramente un grande vino al quale i Moscati della nostra Associazione s’ispirano. Diventare come loro è sicuramente una grande sfida e ci vuole coraggio. Un po’ come quando salgo in macchina nelle gare di rally, la mia passione sportiva. Certo, l’importante è partecipare, ma vincere rimane pur sempre la più grande soddisfazione. Per vincere, però, bisogna possedere coraggio, ambizione, determinazione, fortuna, mezzi, audacia. Sono le doti di ogni condottiero, di ogni atleta, di ogni persona che aspiri a essere proclamato vincitore, non importa in che settore, in che battaglia, sia essa politica, commerciale o combattuta su di un fronte di guerra. Chi vuole assolutamente dominare lo fa non solo per sé stesso, ma anche e soprattutto per la propria squadra, la propria associazione, il proprio esercito, per dividere con loro gloria, prestigio, soddisfazioni. Per alzare le braccia al cielo e gridare a tutti i propri ideali e per osannare un sogno realizzato. Ogni sfida presuppone preparazione, organizzazione, strategie: le stesse attuate da Giulio Cesare spintosi fino in Scozia conquistando l’intera Gallia o come Alessandro Magno che arrivò con il suo esercito fino alle sponde dell’Indo, non per distruggere, ma per portare nuove ideologie, per creare, grazie alla propria superiorità e consapevolezza, i presupposti di una nuova cultura e della storia moderna. In questo senso noi crediamo di poter essere il futuro del Moscato. Veni. Vidi. Vici. L’Associazione Aroma di un Territorio ha potuto sintetizzare con questi tre semplici verbi la propria “Campagna di Moscato”. “FINALMENTE”, “ALMA”, “NICCHIA”, “MOSCA BIANCA”, “INSOLITO”, “TEMPERSS”, “NIVURE” ed “ENIGMA”: questi sono i nomi delle sue sfide, combattute non a colpi di gladio per sconfiggere i propri avversari, ma per contrastare le leggi e per inebriarsi nella massa, sfruttando le doti di questi vini, la qualità delle proprie uve e, appunto anche da grandi condottieri, la propria determinazione e volontà. Aroma di un Territorio vuole essere una pedina importante nel variegato e ingarbugliato mondo del Moscato. Il condottiero alzerebbe la spada al cielo in segno di vittoria, noi ci accontenteremmo di elevare in alto le nostre bottiglie e gridare: Veni. Vidi. Vici. Giulio Cesare non si sarebbe minimamente scomposto, perché i veri combattenti sanno riconoscere anche negli altri il loro giusto valore. Fabio Grimaldi, Cossano Belbo, 2020

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capitolo VII Enologia del Moscato secco

T

utto è iniziato da mio nonno Giovanni, che dopo aver sposato una ragazza di San Marzano Oliveto, Franca (mia nonna) ed essere andati a vivere in quella che tuttora è la sede aziendale, nei primi anni ’60 iniziò a trasformare un po’ dell’uva che era prodotta dai vigneti che lavorava con suo padre, in un momento storico in cui le aziende agricole della zona non erano ancora legate alla monocoltura, ma si produceva di tutto: dalla frutta alla carne allevando bovini e maiali. Il vino prodotto da mio nonno fu destinato principalmente al commercio in damigiana, con il tempo riuscì a crearsi un buon mercato in Lombardia e nella città di Torino, arrivando ad acquistare un camion per andare a consegnare direttamente i suoi vini a casa dei clienti, erano gli anni in cui il vino era visto come un alimento. Con il passare degli anni le superfici vitate aumentano, per vari motivi: l’aumento della meccanizzazione e della capacità di lavorare più terreni con lo stesso numero di persone in primis, ma anche per l’acquisto di nuovi vigneti e per l’estirpo delle piante di mele lasciando spazio a vari vitigni, piemontesi e non. Nel frattempo, una volta terminate le scuole, si inserirono in azienda mio padre e mio zio, Domenico ed Enzo, nati nel ’64 e nel ‘61, portando avanti sia la produzione di vino che di frutta (mele nello specifico), smettendo gradualmente di allevare gli animali da carne. Il 20 luglio 1995, mio padre stava trattando la vigna sotto la cascina, girando ruppe un palo di testata della vigna vicino, in quel momento però arrivò una chiamata dall’ospedale di Nizza Monferrato e dovette correre nella cittadina in provincia di Asti, stavo nascendo io. L’anno successivo, mio nonno decise di lasciare più spazio alle nuove leve; cedendo il bastone del comando e la partita Iva con annessi e connessi ai due figli che, di comune accordo decisero di portare l’azienda all’essere totalmente ad indirizzo Vitivinicolo, espandendo i canali di vendita del vino ed estirpando gli ultimi meleti all’inizio del millennio. Un aneddoto divertente è che proprio durante queste operazioni ho i primi ricordi alla guida di un trattore, ovviamente in braccio a papà, e

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Moscato pane burroeacciughe ciò probabilmente mi ha condizionato la vita, infatti, ricordando solo la fase dell’estirpo, non ho mai avuto molto interesse nella coltivazione di piante da frutto. Si può dire che io sia cresciuto in mezzo ad una vigna, perché anche se da bambino non mi fosse permesso svolgere molti lavori, mi appassionava il contesto, qualunque mezzo agricolo e non (pur che dotato di motore) e soprattutto la produzione del vino. Tant’è che nel 2009, finite le scuole medie, l’unico istituto preso in considerazione è stata la scuola enologica di Alba; quest’ultima ha accresciuto in me ancor di più la passione per questo mondo e talvolta mi ha quasi portato ad odiarlo, per poi tornare sempre sui miei passi. La voglia di studiare non era troppa, ma sono riuscito comunque a terminare i sei anni di superiori senza grossi intoppi, dunque era necessario decidere cosa fare “da grandi”. Con lo scopo di fare esperienza, nel 2015 svolgo una vendemmia in un laboratorio analisi e negozio di prodotti enologici; quel lavoro (dopo i primi scogli) mi piaceva parecchio, ma quasi controvoglia e “per provare” mi ritrovo a fare il test d’ingresso per la facoltà di Viticoltura ed Enologia dell’Università di Torino (anche qui senza considerare altri corsi). Chiamiamolo destino, chiamiamola fortuna, chiamiamola bravura.... Ma riesco ad entrare come 75° su 75 posti, dunque la decisione di lasciare il lavoro e tentare di proseguire gli studi viene presa quasi istantaneamente, seppur con la giusta dose di paura. Intanto inizio a seguire qualche vinificazione in cantina, con la Barbera quell’anno, mentre con il Moscato la scintilla è scattata la vendemmia successiva, nel 2016. Moscato, a questo nome viene ormai associato in maniera automatica un vino dolce, da sempre prodotto a cavallo tra le province di Asti, Cuneo e Alessandria. Si tratta di un prodotto che storicamente ha dato da “tribolare” per mantenere il residuo zuccherino: nelle cantine spesso sono ancora presenti i filtri a sacchi olandesi attraverso cui veniva filtrato non appena si “Rompeva la cuerta” (cioè si notava un principio di fermentazione spontanea); questi filtri si intasavano di frequente, perciò bisognava andare velocemente al fiume più vicino (unica fonte di acqua corrente) per lavarli. Questo è uno dei motivi per cui le storiche case spumantiere di Canelli si trovano in città e non sulle colline. In seguito la tecnica enologica (per fortuna) si è evoluta, comunque è rimasto un vino molto complesso da lavorare e che richiede elevato utilizzo di tecnologia. Di questi argomenti ne parlerà sicuramente meglio Guido nel suo capitolo; il mio è dedicato alla

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tecnica enologica del Moscato vinificato secco, di cui ci sarebbe poco da dire, perché rispetto a un vino dolce è molto più semplice da lavorare, paradossalmente viene da chiedermi il perché nessuno ci abbia pensato prima dell’avvento dell’Asti D.O.C.G. secco oppure del nostro Escamotage. Benché molti lo producessero già molti anni fa, ma ciò è sempre passato in sordina per un motivo o per l’altro. Voglio partire da una credenza popolare: che il Moscato vinificato secco sia eccessivamente amaro, ciò è vero se esso viene prodotto senza particolare cura. Spesso mi è capitato di sentire Walter Massa dire che il Timorasso non va trattato come una comune uva bianca in vinificazione. Per il Moscato vale esattamente lo stesso principio, non va vinificato come un’uva bianca generica (nonostante al momento sia commercializzabile solamente come vino bianco generico, ndr) ma va vinificato come MOSCATO, partendo fin dal principio con l’intenzione di portare a secco la fermentazione alcolica per non lasciare residuo zuccherino al vino. Prima di raccontare quella che è una vinificazione tipo di un Moscato secco (o meglio di un ESCAMOTAGE) occorre fare un piccolo excursus sulle componenti aromatiche del Moscato, che normalmente sono associate grossolanamente al solo Linalolo, ma così non è. Il Moscato è la principale uva aromatica presente in Piemonte, assieme al Brachetto: ciò che le rende tali è appunto la presenza di aromi varietali già nell’uva, tant’è che il professor Luigi Moio nel suo libro “Il respiro del vino” li definisce “grappoli profumati”. Questi composti prendono il nome di Terpeni e comprendono: linalolo, geraniolo, citronellolo, nerolo e altri. I nomi e le loro formule non saranno belli da vedere ma sono sicuramente gradevoli da percepire, avendo azione sinergica l’un l’altro permettendo di rendere inconfondibile il profumo del Moscato. La sintesi dei composti che caratterizzano “l’aroma Moscato” (i Terpeni) inizia già nel fiore per poi progredire maggiormente durante l’invaiatura, momento in cui l’uva cambia colore e negli acini iniziano ad accumularsi: acqua, zuccheri e altre sostanze. In questa fase, fondamentale per la qualità dell’uva, i composti terpenici si trovano: • In forma libera, cioè di molecola “da sola”, percepibile dal nostro olfatto, • In forma glicosilata, legati ad una molecola di zucchero, rendendo il composto pesante e non percepibile dall’olfatto.

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Moscato pane burroeacciughe Con il progredire della maturazione si accumulano in parallelo sia la forma libera sia la forma glicosilata, quest’ultima prende il nome di precursore d’aroma, che per farla semplice funge da “riserva di aromi”; la progressione continua fino a circa due settimane dopo l’invaiatura, momento in cui la concentrazione della forma libera non cresce più mentre continua l’accumulo della forma legata, fino alla sovra maturazione, momento in cui si arresta la sintesi. Gli aromi legati agli zuccheri possono essere liberati attraverso degli enzimi, naturalmente contenuti nell’uva, ma che nel mosto non trovano le condizioni ideali per svolgere il loro compito; per questo motivo si utilizzano lieviti specifici per uve Moscato, inoltre, anche per i motivi menzionati, si fa svolgere la fermentazione a ridosso dell’imbottigliamento, in maniera da non perdere il contenuto in aromi e per sfruttare il gas che si produce durante la fermentazione alcolica. Tutto ciò costringe le aziende a mantenere il mosto a 0°C (per evitare che i lieviti si attivino) sino a quel momento, con un dispendio energetico enorme; quanto detto finora vale per i vini dolci a base Moscato. Per la versione secca del Moscato, e con ciò intendo un vino bianco fermo e secco, la situazione è un po’ diversa: la base di uva è quasi la stessa, poi è a discrezione delle aziende l’epoca di vendemmia in base ai dati analitici. La fermentazione del mosto avviene subito dopo la vendemmia (nel classico periodo delle fermentazioni) quindi gli aromi “legati” vengono liberati subito e in toto , in questa versione la concentrazione di Terpeni nel vino finito sarà, naturalmente, inferiore rispetto ad un Moscato d’Asti (che conserva un residuo zuccherino, quindi una riserva di precursori), ciò è anche conseguenza del fatto che l’imbottigliamento di questo tipo di vino non avviene mai a ridosso della fermentazione ma dopo un periodo che va da 9 a 12 mesi, quello che normalmente è chiamato affinamento. Durante l‘affinamento il vino cambia molto, questa fase in sostanza consiste nell’aspettare il momento giusto per imbottigliarlo; se lo si sa ascoltare il vino è in grado di dirci quando è il momento di svolgere ogni operazione, dunque occorre assecondarlo. Uno dei fattori che accomuna noi 8 produttori di Escamotage, in questa fase della produzione del vino è l’utilizzo delle fecce, seppur in maniera diversa. Fino a non molti anni fa durante l’autunno/inverno si faceva una vera e propria corsa per avere il vino pulito: chiarifiche, filtrazioni, travasi; demonizzando quasi la feccia, a tal punto che in piemontese era chiamata in maniera dispregiativa “fundas”; esiste ancora la feccia cattiva, che comprende: gomme,

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mucillagini, frammenti di terra, raspi e bucce... questa si che è dannosa per il vino! Le fecce fini, invece, non sono altro che le cellule di lievito, che una volta terminato il loro compito di trasformazione degli zuccheri in alcol e numerose altre sostanze, muoiono e vanno in autolisi, quindi si autodistruggono rilasciando altre sostanze contenute al loro interno. Un esempio sono le mannoproteine, che arricchiscono il vino per quel che riguarda l’aspetto organolettico arrotondandolo, ammorbidendolo e rendendo i profumi più puliti e netti; inoltre inducono la stabilità del vino riducendo o addirittura evitando la formazione di cristalli di tartati, derivati dal legame tra una parte di acido tartarico (acido tipico dell’uva) e il potassio; che la vite assorbe dal terreno ed è naturalmente presente nell’uva. Per fare un paragone, si può dire che i lieviti siano come il maiale, sono materia ricca e non se ne butta via niente. Con l’affinamento sulle fecce, oltre ad estrarre le sostanze contenute nelle cellule, è possibile proteggere il vino dall’ossidazione consentendo l’utilizzo di una dose più bassa di solfiti; inoltre si proteggono gli aromi, liberati durante la fermentazione, perciò noi tutti siamo accomunati da questo procedimento: sia per quel che riguarda i vini affinati in legno che per quelli affinati in acciaio. L’affinamento riesce ad essere allo stesso tempo la fase che ci accomuna e la fase che ci differenzia di più, poiché ognuno di noi lo svolge in maniera differente, con i vini che hanno compiuto un passaggio in legno che si staccano ulteriormente dagli altri, in quanto questo materiale comporta delle variabili in più come: il tipo di legno, il grado di tostatura e la durata della sosta in questi contenitori. In ogni caso, tra le prime cose che abbiamo notato, c’è sicuramente la versatilità del Moscato vinificato secco, riuscendo a prestarsi bene sia ad affinamenti in acciaio, ma anche a fermentazione ed affinamento in legno, anche in barrique costruite e tostate sullo stile degli Chardonnay di Borgogna di cui parla Fabio, nel suo capitolo. C’è un aspetto fondamentale per produrre questo tipo di vino... anzi, mi correggo, non uno soltanto ma sono due: il tempo e le fecce fini; senza dimenticare la base di partenza, un’uva eccellente. “Il tempo è amico dell’artigiano ma nemico dell’industria, perché non si può controllare.” Cit. Walter Massa Una volta che il vino è giudicato pronto per essere imbottigliato questo delicato processo viene

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Moscato pane burroeacciughe eseguito e inizia l’ultima fase prima del consumo, l’affinamento in bottiglia. Nei primi 6 mesi dopo l’imbottigliamento si dice che il vino soffra il “mal del vetro”, si può facilmente notare come esso sia squilibrato, disarmonico e con i profumi poco definiti; personalmente ho notato che i vini secchi a base Moscato accentuano questo difetto, che poi un vero e proprio difetto non è, ma durante questo periodo sembra quasi di non riconoscere il vino che era in vasca, quasi a pensare ad un sabotaggio! Più volte, in diverse degustazioni, abbiamo constatato come questo tipo di vino dia il suo meglio superati i 12 mesi dall’imbottigliamento, per sfatare ulteriormente il mito secondo cui il Moscato va consumato entro Pasqua. In questo capitolo parlo di tecnica enologica nella produzione di un vino bianco a base di uva Moscato non come una realtà assoluta, ma per ciò che ho potuto studiare durante il mio percorso e per le sperimentazioni che ho fatto. In me l’idea di questo tipo di vino è nata esattamente come una valanga. Una valanga si scatena da una massa di neve che, improvvisamente, si mette in moto su un pendio e precipitando verso valle porta con sé altra neve, aumentando il suo volume sempre di più. Perché una valanga si formi, devono verificarsi 3 fattori: • Una massa sufficientemente elevata di neve; • Un movimento; • La rottura di uno status quo. Un caro amico di mio padre, nel 2016, aveva 10 quintali d’uva in più e piuttosto di portarla all’industria come uva aromatica mi propose di vinificarla come meglio credessi, lanciandomi l’idea di portare a secco la fermentazione, ecco il movimento. Fin da subito, come in qualunque cartone animato, mi si è accesa la lampadina, e il giorno dopo avevo già l’uva in cortile per pressarla e produrre un vino bianco secco a base di Moscato. In qualche giorno è dunque arrivata anche la rottura dello status quo, ma per la valanga bisogna aspettare Giugno 2019, quando conosco il gruppo di ragazzi che lavorava su questo progetto già da un anno, e con cui ho scritto questo libro. La mia prima annata è stata una classica vinificazione in bianco, pressando l’uva in maniera soffice per non estrarre composti che darebbero gusto amaro al vino, successivamente il mosto è stato

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flottato per ripulirlo da gomme, mucillagini, pezzi di buccia e terra che lo rendevano opaco. Il giorno dopo è iniziata la fermentazione con l’inoculo dei lieviti, è durata una decina di giorni, senza badare troppo alla temperatura, controllando solamente che rimanesse sotto i 20 gradi. La fase successiva è stata quella di pulizia del vino, e qui l’errore è stato il non capire l’importanza delle fecce fini, quell’anno sono andato a chiarificare e in seguito filtrare il vino troppo prematuramente; tra dicembre e gennaio. Il prodotto ottenuto era un buon vino bianco, ma non mi piaceva, sembra impossibile ma poteva essere stato ottenuto da qualunque uva, a parer mio non rappresentava a dovere il vitigno di partenza; la decisione quindi è stata di non imbottigliarlo. Nel 2018 la seconda esperienza, questa volta con un obiettivo preciso: fare un vino riconoscibile. La vinificazione è stata molto simile alla precedente ma questa volta ponendo attenzione maniacale ai dettagli. La pressatura dell’uva e la pulizia del mosto ottenuto da sostanze estranee sono avvenute come in una qualunque vinificazione in bianco, (quindi nulla di nuovo finora); ma questa volta, dopo aver fatto partire la fermentazione con l’inoculo dei lieviti, ho abbassato progressivamente la temperatura in maniera da rallentare la trasformazione degli zuccheri in alcol e non far “correre” troppo i lieviti. Uno degli aspetti fondamentali per produrre un Moscato secco di qualità è proprio questo, il controllo della temperatura, ho provato a variarla anche solo di 1-2°C cercando di capire in che maniera cambiava il processo fermentativo. Dunque nel 2018 la mia vinificazione è stata legata all’affinamento sulle fecce, che richiede una periodica agitazione del vino in vasca, per facilitare il contatto con le cellule. Confrontandomi con gli altri dell’associazione ho realizzato come questa, a parer nostro sia la strada giusta per il Moscato secco, andando a sfruttare i benefici delle sostanze rilasciate dalle cellule di lievito per fissare i profumi e aumentare la stabilità del vino. Arrivando all’annata 2019, ho constatato che le bucce delle mie uve erano più spesse rispetto a quelle degli altri vigneti di Moscato, per cui, cercando di imparare dai produttori di Timorasso e confrontandomi con Guido ho compreso che un’altra via possibile è quella della macerazione (lui svolge questa operazione da qualche anno), per ora breve e limitata a 24 ore, ma questa permette di estrarre anche sostanze differenti dal solo linalolo contenuto nella polpa, come ad esempio il

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Moscato pane burroeacciughe geraniolo, un altro terpene accumulato prevalentemente nella buccia, anche se è meno odoroso rispetto al linalolo. A oggi (gennaio 2020) il vino è ancora in affinamento sulle fecce e prima di stabilire il periodo d’imbottigliamento voglio seguire l’evoluzione del vino. Fin qui ho raccontato quella che è stata la mia esperienza personale con il Moscato, perché mi è sempre apparso limitativo vedere quest’uva destinata alla sola produzione di un vino dolce. Vorrei dimostrare e far pensare come destinando l’uva Moscato alla produzione di un vino dolce, che richiede un grande impiego di tecnologia e investimenti enormi per l’acquisto di attrezzature, ci si sia autolimitati negli anni: avendo in mano un’uva che si presta ai più diversi processi produttivi e che può avere una vita molto più lunga rispetto al consumo con una fetta di panettone o di colomba. Questo mio capitolo, così come tutto il nostro libro, può essere percepito in due maniere a parer mio: - Come una polemica, fine a se stessa - Come una polemica, ma di quelle che a mente fredda fanno ragionare e magari stimolano qualcuno; a provarci portando a secco la fermentazione con l’annata 2020, magari anziché vendere le uve all’industria. In quest’ultimo caso potremmo dire di aver raggiunto il nostro obiettivo e potremmo ritenerci soddisfatti, perché con il ragionamento e la giusta dose di apertura mentale è possibile mandare avanti una tradizione e la storia di un territorio che si merita di più, molto di più. Luca Amerio, Moasca, 2020

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capitolo VIIIProfumo di Moscato, profumo di cambiamento

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nrico Cerutti, nato a fine 1800, è il mio bisnonno: il parente più lontano al quale possiamo attribuire la coltivazione di Moscato a Castiglione Tinella, originario di Calosso d’Asti. Diversi furono i figli nati, tra cui mio nonno Ermenegildo Cerruti, classe 1907. Avete letto bene: Cerruti, figlio di un Cerutti. Padri e fratelli con cognomi diversi, non erano rari infatti gli errori all’anagrafe a quei tempi. Fu proprio Enrico a iniziare l’attività di vinificazione in famiglia, a cui seguirono i figli ma ognuno per proprio conto. Mio nonno, insieme a mia nonna Luigia, classe 1914 continuò a vinificare oltre a coltivare Moscato e ad allevare e vendere bestiame; un tempo infatti in campagna nessun lavoro era abbastanza redditizio da consentire di mantenere le famiglie numerose, quindi si diversificava: ricordate bene questa frase, perché ne riparleremo in seguito. Nacque poi mio papà Enrico che invece non amava il lavoro di cantina: infatti lo abbandonò continuando a coltivare Moscato. Era il Luglio del 1987 quando arrivai io. Era l’anno in cui nacquero “I Simpson”, Marco Simoncelli e Jorghe Lorenzo, Leonilde Iotti, la prima donna presidente della Camera dei deputati venne rieletta per la terza volta, morirono Andy Warhol, Primo Levi e Frad Astaire. Asilo e classi elementari rigorosamente a Castiglione Tinella. I primi miei ricordi legati al Moscato sono sicuramente quelli della vendemmia. Fino a qualche anno fa era ancora quasi una festa! In quei giorni si radunavano tutti gli amici ed i parenti e se non bastavano, qualche manovale trovato qua e là con il passaparola; ricordo ancora quando si passava per le case a chiedere “Avete mica qualcuno per la vendemmia?”. Tutto rigorosamente “in amicizia”, oggi diremmo “in nero”, a rischio della galera: sembra di parlare di un secolo fa, ma sono passati 20 anni, anno più, anno meno. Ci si aiutava ancora uno con l’altro, la burocrazia sembrava cosa lontana (e invece ahimè arrivò presto), si facevano le cose in buona fede… Non erano ancora arrivati il DVR, il DUVRI, l’ RSPP, i corsi per il pronto soccorso, l’antincendio, la patente per i trattori…il trattore ho imparato a guidarlo a 12 anni ed ero già in ritardo: cose che oggi porterebbero tanti guai. Il profumo del Moscato riempiva le case, le strade, ogni cosa profumava di Moscato! Ricordo ancora Teresa e Ugo che intrattenevano tutti i manovali con le loro barzellette, Ivana, e gli zii che venivano al pomeriggio perché al mattino facevano i mercati, ma

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Moscato pane burroeacciughe al giovedì potevano venire tutto il giorno. Mio zio una volta cadde in un tombino, facendo segno a mio papà per vuotare il brentone dell’uva nel rimorchio e si ruppe un ginocchio…se capitasse oggi arriverebbe subito lo SPRESAL, sequestrerebbero tutto in attesa di un processo, bisognerebbe pagare danni, avvocati e un medico per curare i mali che verrebbero a noi per lo stress che ne deriva. Ricordo la nonna Luigia, la chiamavano tutti Vigiota, che verso le 11 andava a casa a preparare da mangiare per tutti…ogni giorno un pranzo da sposi e poi via di nuovo in vigna. Poi un giorno, arrivò Attilio. Attilio era il precursore delle cooperative. I primi manovali iniziavano a invecchiare e a non venire più, gente se ne trovava sempre meno e allora si andava da Attilio che te la trovava: studenti, pensionati che volevano arrotondare ma che non avevano mai visto un grappolo d’uva e quindi se ne cambiavano una marea…quasi ogni giorno gente diversa. Il clima iniziava a cambiare, non era più come prima, la nonna non aveva più voglia di fare da mangiare per 10/12 persone tutti i giorni e allora ci pensava la mamma. Passò anche il tempo di Attilio e arrivarono le cooperative vere e proprie con tutte le regole e la burocrazia: questo fu l’evento che segnò la fine dei tempi sereni in campagna. La vendemmia non era più una festa ma diventò un peso, non c’erano più Ugo e Teresa con le loro barzellette: li sostituirono gli elicotteri e le retate dei carabinieri con l’ispettorato del lavoro che correva per le colline. Dopo le scuole medie dovetti decidere cosa fare, non amavo studiare seppur andassi bene a scuola e volevo fare una scuola professionale ma i professori fecero di tutto per convincere i miei genitori:”signori vostro figlio è bravo ma non si impegna, non ha voglia! Però in una scuola professionale è sprecato, deve fare il liceo!” e ci riuscirono. Odiavo la matematica proprio grazie al professore delle medie ma alla fine per un breve periodo mi convinsi anche io, non avendone voglia un liceo valeva l’altro e optai per quello in cui si erano iscritti due miei amici: liceo scientifico, indirizzo Brocca, il più difficile…ed io, odiavo la matematica. La mia avventura durò infatti 2 mesi, dopo di che mi iscrissi all’Arte Bianca di Neive perché amavo cucinare. La passione della cucina me l’ha trasmessa mia nonna Luigia che ammiravo cucinare da piccolo. Oggi la nonna non c’è più, ha sfiorato i 105 anni e ci ha lasciati una settimana prima di compierli, fino a 96 ha zappato ancora tutto l’orto a mano. Sicuramente un grandissimo esempio nel lavoro, nella vita, sempre una parola buona ed un sorriso per tutti, una memoria che aveva dell’incredibile e una forza di volontà fuori dal comune. Finiti gli studi iniziai a lavorare in pasticcerie e ristoranti della zona per fare esperienza, il mio obbiettivo era quello di aprire un locale tutto mio. Ma dopo qualche

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anno decisi di tornare a casa, proprio non riuscivo a stare sotto padrone, me ne convinsi quando un pasticcere mi tirò una teglia di ferro addosso perché avevo eseguito correttamente una ricetta che lui aveva sbagliato a scrivere. Quando dissi ai miei genitori che volevo tornare a casa e lavorare la terra, ricordo ancora le parole di mio papà: “Simone, ti avevo detto di studiare perché Giovanni ed Ettore hanno studiato da geometri e sono pieni di soldi e di case, io ho fatto il contadino e mi sto spaccando la schiena ma non mi hai ascoltato. Fai tutto nella vita ma non il contadino perché la terra è bassa! Ma non venderla mai perché nella vita non puoi sapere: avrai sempre qualcosa che ti da almeno da mangiare… ma ripensaci, ci sono mille lavori ma non fare il contadino! Lavori finchè muori!” e purtroppo cosi accadde: fu proprio questo lavoro a portarselo via troppo presto in un incidente. Avevo 18 anni e avevo iniziato a lavorare la terra da 2 mesi, fatto la festa di leva da una settimana: fino ad allora ero solo un ragazzino con la passione per la musica, i cavalli e le moto. Imparai in fretta, cosi dovevo fare se volevo continuare con questo lavoro. A 24 anni poi arrivò l’opportunità di unire due delle mie passioni: il vino e la cucina. Fu così che rilevai l’agriturismo che oggi ho trasformato in Moscateria, che mi ha fatto innamorare ancora di più del Moscato e che mi ha permesso di iniziare a vinificare. Negli anni non sono mancati gli impegni nel sociale e in agricoltura: sono stato vicepresidente e poi presidente dell’Associazione Contessa di Castiglione, volontario e consigliere dell’Associazione Ambulanza Vallebelbo, vicepresidente provinciale e regionale dell’Associazione Nazionale Giovani di Confagricoltura ed oggi sono presidente dell’Associazione Bottega del vino Moscato e dell’Associazione Aroma di un Territorio. Ma tornando al lavoro ed al Moscato, partì tutto da una frase… “Non si offenda, ma abbiamo assaggiato un Moscato comprato al supermercato anni fa e lo abbiamo usato per lavare il lavandino”. E’ partito tutto da qui. Questa frase infatti, mi venne detta da due clienti nel mio agriturismo qualche anno fa quando proposi loro un calice di Moscato d’ Asti Docg per accompagnare il dessert, peraltro omaggiato; questa fu la loro risposta. Ricordo ancora il tavolo in cui erano seduti. Potete immaginare cosa possa significare una frase del genere per un produttore di Moscato, nato e cresciuto in terra di Moscato, a Castiglione Tinella che è il secondo paese produttore di questo vino, nel quale si possono trovare alcune tra le vigne più vocate in assoluto. Quella frase per me era inaccettabile e mi fece arrabbiare tantissimo. Passata la fase iniziale di rabbia che durò pochi attimi, non mi diedi per vinto e mi permisi di insistere, divenne una vera e

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Moscato pane burroeacciughe propria sfida per me. Esclusivamente per darmi il “contentino” i due accettarono dubbiosi e sorseggiarono il mio Moscato d’Asti. La reazione fu di stupore, mi dissero che mai avevano bevuto un Moscato così piacevole, si scusarono e ne comprarono dodici bottiglie da portare a casa. Fu quella la sera in cui capii che c’era ancora tanto, troppo lavoro da fare: tutti i pensieri negativi sull’ altrui conoscenza del Moscato che avevo avuto fino ad allora, divennero conferme. Le persone avevano un’idea sbagliata di quello che per me era ed è un vino eccezionale, o almeno sbagliata in parte. E’ infatti vero che in questa partita, ha giocato un ruolo fondamentale l’industria, nel bene e nel male. Se da una parte è stata proprio l’industria a far conoscere il Moscato, o meglio l’Asti spumante in tutto il mondo, con centinaia di milioni di bottiglie vendute garantendo quindi ai contadini un reddito che per decenni è stato piuttosto remunerativo (forse anche troppo), per le generazioni passate, è altrettanto vero che le grandi quantità diedero al consumatore una percezione negativa di questo vino e spesso era una giusta percezione. Troppe bottiglie sono finite sugli scaffali a prezzi ridicoli: ancora oggi troviamo Moscato d’Asti e Asti spumante sotto i 3 euro. Ma se il solo costo dell’uva che troviamo in quella bottiglia supera 1 euro, e nella rimanenza dobbiamo farci entrare il costo del vetro, del tappo, della capsula, dell’etichetta, nel caso di Asti spumante della gabbietta, della scatola, della fascetta, della promozione, del trasporto, delle tasse, delle spese aziendali ed un margine netto per il produttore…come possiamo pensare che quello sia un prodotto di qualità? Che tra tutte le cose elencate, quella che costa meno, su cui risparmiare, sia proprio l’uva? Questo ha creato molta confusione e il risultato è stato che il consumatore finale, quando si trova davanti ad uno scaffale con diversi vini dolci, i classici vini “degli auguri” generici nei quali potrebbe esserci qualsiasi uva (tutto legale s’intende), venduti al prezzo delle patate e accostati all’ Asti spumante o ad un Moscato d’ Asti, generalizza per comodità o per non conoscenza e mette tutti i vini sullo stesso piano. Anche perché certi Asti spumante, vengono venduti ad un prezzo ancora inferiore a quello dei generici. Era chiaro che qualcosa andava fatto ed anche in fretta: quello che non mi era chiaro quella sera, era cosa avrei potuto fare nel mio piccolo. Dovevo trovare il modo di informare le persone che il Moscato non è solo quello da 3 euro ma che esistono tante piccole aziende che del Moscato hanno fatto la loro bandiera. E’ vero, in quegli anni avevo iniziato a vinificare le mie prime bottiglie, pochissime; era già qualcosa ma non mi bastava più. Non mi bastava più proporre il mio Moscato sulla carta dei vini e servirlo ai clienti. Dovevo trovare il modo di spiegare

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alla gente che il Moscato è un vino eccezionale, un vino naturalmente dolce senza bisogno di aggiunte, che con le dovute attenzioni partendo dalla vigna, i risultati potevano essere sorprendenti. Volevo che la gente toccasse con mano quello che io pensavo e dicevo loro, che vedessero quanto lavoro e quanta fatica c’è dietro una singola bottiglia perché quella frase, quella del lavandino, era una bestemmia, un insulto al sudore di mio papà a cui avevo dedicato proprio il mio primo Moscato chiamandolo Matot, a quello ancora più greve di mia nonna che è arrivata all’ età di 105 anni, che fino a 85 è sempre andata in vigna e fino a 96 zappava ancora l’orto a mano. Perché mia nonna me le raccontava le fatiche che aveva fatto nella sua vita, per tutta la vita, dall’ età di 5 anni: ai tempi a 5/6 anni, si portavano già le bestie al pascolo prima di andare a scuola a piedi. Volevo poi che la gente venisse a conoscenza del fatto che dal vitigno Moscato nascono grandissimi vini oltre ai due più conosciuti e non importa se hanno la Docg o meno. Volevo parlare loro di Moscato d’Asti, di Asti spumante, di Asti metodo classico, di Asti secco, di Moscato secco, Moscato Passito, di rifermentati in bottiglia, di Moscati affinati e bevuti anche dopo 10 anni. Come potevo fare? Ne parlai con un amico e mi rispose che per aver successo bisogna saper fare due cose: quello che gli altri non fanno più e quello che gli altri non fanno ancora. Io ho la fortuna di poter raggiungere un numero considerevole di persone grazie al mio lavoro, senza dovermi muovere di un metro da casa, di avere una struttura nella quale accogliere persone che arrivano da tutto il mondo e quindi pensai di sfruttare questa fortuna. Fu cosi che decisi di dedicare la mia azienda al Moscato, stavolta al 100% e creai la prima Moscateria d’Italia (e credo del mondo). Il mio non doveva più essere il solito agriturismo dove dormire e mangiare ma doveva diventare un punto di riferimento sul Moscato, un qualcosa da cui i turisti se ne andavano con un piccolo bagaglio di conoscenza in più, nel quale potevano provare una nuova esperienza, che in nessun altro posto potevano provare. Il primo passo fu quello di creare un vero e proprio percorso in sostituzione del classico pasto: le persone arrivano e vengono in vigna: da li parte il percorso del vino e da li deve partire il percorso dei turisti, perché il vino buono si fa in vigna! Qui si spiega il territorio, la nostra filosofia, la storia e si prosegue poi con la visita nella vecchia cantina, ora piccolo museo agricolo e finalmente si arriva a tavola dove il semplice ma tradizionale menù accompagna i vini. Ma anche questo non mi bastava perché i Moscati buoni sono tanti ed io non li produco tutti: decisi di creare una carta dei vini con tutte le tipologie di Moscato, di altri produttori, perché qua serve fare squadra, finchè non si guarda oltre al proprio cortile non si

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Moscato pane burroeacciughe va da nessuna parte: è cosi infatti che è iniziata una lunga serie di eventi con decine di produttori, per promuovere il Moscato tutti insieme, che hanno avuto un grande successo. Ma mancava ancora qualcosa…per completare il tutto decisi di valorizzare ancora di più il mio vino ed il mio territorio: nacque così la menzione Vigna Manzotti (ma dell’ importanza delle menzioni farò cenno dopo) e in più decisi di cercare di trarre tutto il buono dal mio vino non imbottigliandolo a ottobre come è consueto fare, ma lasciandolo circa sei mesi sulle fecce nobili: queste ultime due cose se parliamo di Moscato, sono quasi un’eresia per molti produttori. Sono passati ormai circa 40 anni da quando i Barolo boys fecero la rivoluzione del vino nelle Langhe. Ma andiamo per gradi, chi sono i Barolo boys? Dopo 40 anni non possiamo più definirli propriamente “boys”, alcuni di loro purtroppo non ci sono più, ma erano un gruppo di produttori che cambiarono la storia del vino di Langa portando una enorme innovazione: fino ad allora i vini rossi piemontesi affinavano in botte grande, mentre alcuni giovani produttori decisero di girare la Francia alla scoperta dei grandi Vigneron che usavano invece le barriques. Al loro ritorno provarono a portare questa innovazione nelle aziende di famiglia e si crearono due filosofie di pensiero: gli innovatori e i tradizionalisti. Alcuni di loro lo fecero in maniera molto forte, penso ad esempio ad Elio Altare che con una motosega entrò nella cantina del padre e tagliò le botti per sostituirle con le barriques, con la conseguenza di essere “diseredato”. Pensiamo al coraggio di questo gesto fatto in quegli anni: erano gli anni in cui grossomodo nacqui io. Questi ragazzi fecero squadra, volevano fare il vino più buono del mondo ed insieme, girarono il mondo per farlo conoscere. Innovatori e tradizionalisti, c’è un vincitore tra i due? Il vincitore lo decretò Angelo Gaja in un incontro tra le due scuole di pensiero: a vincere, non fu né uno né l’altro, fu infatti il Nebbiolo. Non sta a noi dirlo e non è questo il punto. Il punto è che il Barolo fino a pochi anni prima valeva poco e niente, veniva regalato per vendere il Dolcetto oppure veniva estirpato. Oggi un ettaro di Barolo può raggiungere il valore di 4 milioni di euro. A Barolo, ma anche a Barbaresco, hanno capito 40 anni prima di noi, che solo vendendo uva non si va da nessuna parte, non si cambia l’economia di un territorio e che prima o poi le aziende solo vendendo uva, chiudono. Aumenteranno sempre di più le grandi aziende a discapito delle piccole che spariranno, si tornerà al latifondismo ed alla mezzadria. Sta già succedendo. Perché “uma sempre fò parei” (abbiamo sempre fatto cosi e allora continuiamo cosi), la frase più pericolosa che si possa dire. Per questo motivo in quelle zone moltissimi produttori di uva diventarono produttori di vino, al contrario della nostra zona, nella quale

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le industrie crescono a dismisura aumentando terreni e vendite, ed i piccoli vendono, proprio alle industrie o simili. E’ fondamentale che almeno i giovani capiscano che se vogliamo salvaguardare le nostre realtà, dobbiamo iniziare a diversificare, a vinificare, magari anche altre varietà e non rimanere fissi su una monocoltura. Le possibilità ci sono, non è indispensabile avere una cantina, all’inizio e per qualche anno ci sono altre strade meno onerose. Certo, serve coraggio, voglia di fare, intraprendenza, ma soprattutto amore per se stessi e per il proprio territorio: anziché spendere centinaia di migliaia di euro per comprare della terra e crescere sempre più per poi vendere uva al prezzo delle patate, i giovani dovrebbero investire cifre anche molto più basse, per iniziare a vinificare e vendere il proprio vino. Se ci fossero più piccoli produttori, si produrrebbero più bottiglie, vendute al giusto prezzo e si creerebbe un mercato in grado di sostenersi da se e di avere un ruolo ben definito, indipendente da quello dell’industria. Ora invece chi produce mille bottiglie eccellenti, si scontra con chi ne produce trecento milioni: è concorrenza questa? E’ una battaglia persa. Come possono poi due aziende cosi essere sotto lo stesso cappello ed essere tutelate dallo stesso ente? Ma questo è un altro discorso… Dopo tutte queste premesse, è inutile dire che sono davvero convinto che il nostro sia uno dei luoghi più belli del mondo. Purtroppo non ho ancora viaggiato molto, ma ogni volta che torno a casa, ogni singola volta, mi convinco sempre di più di questa cosa. La conformazione delle nostre colline, i colori bellissimi e diversi nelle varie stagioni, la diversità dei vari vitigni rendono le Langhe un qualcosa di unico al mondo, se ne è accorto anche l’ Unesco facendoci diventare Patrimonio dell’Umanità: quando ce ne renderemo conto noi? Forse non tutti sanno che la candidatura Unesco è partita proprio da Canelli, dove è nato il primo spumante italiano, dove ci sono le cattedrali sotterranee, che solo noi abbiamo. Abbiamo il cibo più buono del mondo, il vino più buono del mondo, i produttori e gli chef (e gli agriturismi, le piole, le vinerie, le osterie) migliori al mondo. Nelle Langhe c’è una concentrazione di ristoranti stellati tra le più alte in assoluto. Se ne sono accorti ad Alba, a Neive, a Barolo: e noi? Proprio non riusciamo a vederlo o peggio lo vediamo ma facciamo spallucce. Ce ne freghiamo. Queste cose le vedono anche i turisti che ci fanno visita per la prima volta, ma noi no. Vedono anche la nostra incapacità di fare squadra, la nostra indisposizione al turismo, all’enoturismo. Troppo spesso trovano cantine chiuse nel weekend. Quanti altri luoghi hanno la fortuna di accogliere così tanti turisti che vengono apposta per i nostri vini oltre che per il territorio? In Italia pochi. Il nostro potenziale è enorme: abbiamo le vigne, le cantine, la

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Moscato pane burroeacciughe competenza, la capacità, ma diciamocela tutta: forse manca la voglia. A onor del vero va detto che le cose sono già migliorate molto negli ultimi 10 anni ma è ancora troppo poco, certo non bisogna generalizzare, non tutte le aziende sono cosi, ma sono ancora troppo poche. Sono ancora troppo poche proprio le piccole aziende nel senso stretto del termine. E’ forse questo il passo fondamentale che manca al territorio del Moscato per avere una svolta. Manca la voglia di credere nel Moscato e di valorizzarlo, ad esempio con le menzioni vigna, con i cru, valorizzando i sorì ed altre cose, che hanno fatto gli amici barolisti quarant’anni fa. QUARANTA. Eppure le nostre vigne, le nostre cantine, i nostri produttori non hanno nulla da invidiare a loro…o quasi. Rapportando questi due mondi, un altro grande problema è la mancanza di equilibrio tra le varie parti che giocano la partita: nel Barolo esiste l’industria che occupa una parte ma esistono tante piccole aziende che ne occupano un’altra, c’è equilibrio. Nel Moscato invece c’è troppa disparità tra le aziende, l’industria occupa una fetta troppo grande della torta e questo fa si che ne derivi tutto quello di cui abbiamo parlato finora. Una cosa che mi fa piacere e che ho notato negli ultimi anni è che a differenza di prima, i turisti iniziano a venire in questa parte delle Langhe volutamente, venendo qui per più giorni per poi muoversi nel resto del Piemonte, a differenza di prima che la permanenza era nettamente inferiore e di “passaggio”. La domanda è: cosa abbiamo noi da offrire ai turisti? Alba è la capitale delle Langhe, Barolo e Barbaresco quelle del vino….e noi? Soffermiamoci per un attimo a pensare. E’ molto semplice: Canelli è la capitale del Moscato, vi è nato il primo spumante italiano, abbiamo le cattedrali sotterranee, a Santo Stefano abbiamo la Fondazione Cesare Pavese (e stiamo parlando di uno tra i più grandi scrittori del 1900), a Camo abbiamo il Museo a Cielo Aperto, a Mango uno dei castelli più belli delle Langhe, a Castiglione Tinella oltre al Santuario della Madonna del Buon Consiglio che è meta di pellegrinaggio di migliaia di fedeli, abbiamo dei percorsi per il trekking spettacolari, è il paese delle vigne scritte: in quale altro paese possiamo leggere versi di poesie appesi ai filari di Moscato semplicemente camminando per i sentieri o per le nostre strade? E cosi via per tutti gli altri paesi con le chiesette campestri, i centri storici e tutto il resto. La domanda vera non è cosa abbiamo da offrire ma piuttosto se siamo pronti ad offrire quello che abbiamo e se noi per primi crediamo in queste cose abbastanza per farle conoscere al mondo. A questo riguardo mi sento di aprire una piccolissima parentesi. Possiamo avere i vini più buoni del mondo, i paesaggi più belli, ma se non lo comunichiamo o se lo facciamo nella maniera sbagliata, è come se non li avessimo. Il marketing sta

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diventando sempre più importante non solo per le aziende ma anche per le amministrazioni, una comunicazione efficace ormai è indispensabile per attirare turisti. La concorrenza è altissima, e l’ unico modo per vincere è distinguersi, anche e soprattutto nella comunicazione: la stessa cosa proposta in un modo piuttosto che in un altro, può fare la differenza. Il Moscato ad esempio è da sempre legato ad un consumo con i dessert, durante le feste. Ma lo avete mai bevuto con pane, burro e acciughe? E con le ostriche? Anche con i salumi o con il foie gras è fantastico! Questo è solo uno dei mille esempi che prova quello che ho detto prima: il Moscato è sempre lo stesso, ma troviamo un modo diverso di proporlo e vedrete che lo apprezzeranno più persone! Voglio concludere questo capitolo con un appello ai giovani, da giovane quale sono ancora, che crede tantissimo nel Moscato come uva, come vino, come persone e come territorio. Qualche anno fa, ad un bel convegno a Santo Stefano Belbo, intitolato “Sorì, la fatica del sorriso”, partecipò proprio Elio Altare di cui vi parlai prima e disse una frase che mi è rimasta impressa. “Mi rivolgo ai giovani: sognate e siate ambiziosi. L’ambizione vi porta alla competizione, perché se uno è ambizioso vuol competere col migliore, questo ti porta ad andare avanti! Se il mondo ha sempre fatto progressi è perché i figli han fatto meglio dei genitori, e se una generazione non fa più di quella precedente, il mondo sta fermo, non va avanti. “Ma gli autri e morciu, van avanti, curu! (ma gli altri camminano, vanno avanti, corrono) Quindi gambe in spalla, non dormite, non fossilizzatevi su degli stipendi perché triste cul dì che tsoi l’ un che et ciopi.” Triste il giorno in cui sai quanto guadagni.” Simone Cerruti, Castiglione Tinella, 2020

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postfazione uando gli “escamotage” chiesero di incontrami per parlare del loro “escamoscato” accettai, accogliendoli dopo pochissimi giorni dalla richiesta a casa mia con entusiasmo, ma onestamente non ricordo più quale fu la ragione che mi spinse ad accettare. Dopo aver letto le loro storie, continuo a non districare dalla memoria quale fu la “molla scatenante” perché a quelle riflessioni, o a quelle del primo momento, se ne sono aggiunte altre. L’unico lato negativo di questa richiesta, riflettendo sulla loro proposta è stato “il contrappasso di Dantesca memoria” ossia che dopo aver per lustri io “rotto le scatole” a colleghi illustri di tutta Italia, Cote du Rhone e Borgogna, qualcuno, pur gratificandomi, “rompeva a sua volta al sottoscritto” facendomi toccare con mano che ho un percorso di vendemmie iniziato nel 1978 e che pur continuando ad affrontarle con la grinta , con la fame e con l’apprensione della prima, sono oltre 40: vince la consapevolezza che forse è giunta l’ora di dare, e che forse ho fatto qualche cosa di buono. Di grande imbarazzo, forse motivo di orgoglio, sicuramente significativo è che la richiesta venga da aziende radicate su un territorio, (quello dell’Asti e del Moscato d’Asti Docg) e legate in maniera viscerale ad un vitigno (Moscato bianco di Canelli) che agli inizi della mia carriera era il vino DOC italiano più venduto nel mondo. Quella era una delle zone agricole a più alta redditività d’Italia. In quegli anni ad Alessandria non si sapeva se Timorasso fosse un vitigno, una marca di scarpe, o un giocatore di pallanuoto. A dipanare tutti gli intrecci personali e di percorso mi ha aiutato il fatto che la vendemmia 2019 è stata la prima vendemmia in cui “volere o volare” i miei due nipoti (all’incirca coevi degli Escamotati) figli di mia sorella Paola, gemelli del 1999, dovevano affrontare la cantina: questa opportunità mi avrebbe aiutato a coinvolgerli non solo lavorativamente, ma anche ad affrontare eventuali criticità. Il giorno dopo il nostro incontro, ricevo telefonicamente una chiara richiesta: “Walter, ci faresti la postfazione del libro? Ne abbiamo parlato con Angelo Gaja e ne è stato entusiasta!” Gli Escamotati non si rendevano conto che erano loro a farmi un dono: d’incanto mi hanno fatto tornare a quel pomeriggio dell’ottobre 1973 quando con il IV corso della scuola enologica di Alba,

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Moscato pane burroeacciughe visitammo a Barbaresco la storica cantina di via Torino e il discorso di circa un’ora e mezza di Angelo mi folgorò portando in quegli anni bui per l’agricoltura italiana la terra e la vigna al centro di tutto. “Questa è una delle poche, se non l’unica cantina in Piemonte che imbottiglia esclusivamente vini ottenuti da uve prodotte in vigne di proprietà”, Angelo Gaja 1973. E, nel mio cervello si affrancò: “Io farò cosi: la terra al centro, la cantina per accogliere l’uva delle vigne e catturare il riflesso della mente dell’uomo. Il vino si sposerà con la bottiglia.” Quasi mezzo secolo dopo, questi pensieri emergono e vengono familiarizzati in tutti i capitoli. Walter Massa, Monleale, 2020

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ringraziamenti

I

l primo ringraziamento va a Mario Saffirio, prosindaco di Camo, frazione di Santo Stefano Belbo per aver da subito visto del potenziale nella nostra Associazione, per averci spronati a continuare e per aver contribuito a concederci l’utilizzo della nostra sede nell’ ex palazzo comunale. A Walter Massa che per primo ci ha accolti nella sua cantina a braccia aperte per ascoltare le nostre storie, bere i nostri vini, darci preziosi consigli e un grande sostegno mettendo a disposizione la sua esperienza prima, dopo e durante tutta la nostra attività e per aver scritto la conclusione del nostro libro. A Bruno Penna, sindaco di Castiglione Tinella che ha visto nascere la nostra Associazione, collaborando dietro le quinte affinché potessimo ottenere i risultati in cui speravamo, correggendo i testi di questo libro e scrivendone l’introduzione oltre che per essere il nostro Ufficio Stampa. A Angelo Gaja, Elio Altare, Teo Musso, Ezio Cerruti, Massimo Martinelli per averci accolti nelle loro cantine impreziosendo la nostra attività, donandoci quella forza che solo grandi personaggi possono dare. A Carlo Petrini per aver scritto la prefazione di questo libro. Ad Alberto Cirio, presidente della Regione Piemonte, per averci incontrati nella nostra sede con il Vicepresidente Fabio Carosso e l’Assessore all’agricoltura Marco Protopapa, nonostante le difficoltà di questo periodo dettate dalla grande emergenza che stiamo vivendo. A Luigi Genesio Icardi, ora Assessore Regionale alla sanità, già sindaco di Santo Stefano Belbo per averci concesso l’utilizzo dei locali per la nostra sede. Ad Alessandro Pio e Dino Icardi per averci seguiti ancora prima della nostra fondazione e per continuare a farlo. A Giuseppe Artuffo, già sindaco di Santo Stefano Belbo e consigliere della Cassa di Risparmio di Cuneo per le preziose attenzioni che ci ha dedicato. Senza di loro tutto questo non sarebbe stato possibile. Grazie per ogni singolo aiuto, piccolo o grande che sia stato ma soprattutto per l’entusiasmo con cui avete guardato alla nostra iniziativa.

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Moscato pane burroeacciughe Grazie a voi che avete dedicato un po’ del vostro tempo per conoscere le nostre storie, perché no, magari contribuendo a scriverne il futuro iniziando a credere di più nel nostro Moscato. Un piccolo grazie a tutti noi dell’Associazione Aroma di un Territorio, per aver realizzato in brevissimo tempo un qualcosa che nemmeno pensavamo possibile: creare un’Associazione, fare squadra nella Langa del Moscato, troppo spesso così restia all’unione tra produttori, arrivando a scrivere un libro sul prodotto principe di questa parte di Langa, degno dello stesso rispetto di cui godono i più grandi vini italiani. Tutto il nostro entusiasmo non è stato risparmiato dallo scossone improvviso di questo virus che ha frenato il mondo intero. Sarebbero state molte le novità per noi in questo 2020: avevamo lavorato ad un qualcosa di unico, mai realizzato prima, che avrebbe dato un forte scossone al mondo del Moscato. Purtroppo non potremo ancora renderlo concreto ma lo faremo presto, appena ci sarà possibile tornare alla normalità. Mai avremmo immaginato, iniziando a scrivere questo libro, di ritrovarci nel mezzo di una crisi epocale che cambierà la storia moderna, compresa quella del Moscato. L’emergenza Covid – 19 sarà certamente però solo temporanea e ci piace pensare che aver scritto questo libro in concomitanza con un’evento così eccezionale, sia un segno positivo: che gli auspici scritti in queste pagine siano il punto della ripartenza del nostro comparto, appena l’emergenza sanitaria sarà solo un brutto ricordo e ci troveremo a fare i conti con quella economico/ sociale. Partendo con il piede giusto, con la speranza che anche solo un po’ delle nostre parole vengano ascoltate, siamo sicuri che ci rialzeremo e correremo insieme più forti di prima.

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