Odissea Aldrovandiana tesi AS2 Metodi di rappresentazione

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Metodi di rappresentazione

In questo capitolo considero sia i metodi descrittivi utilizzati nel progetto che l’evoluzione nel tempo delle teorie geometriche sottese ai metodi stessi. Senza pretendere di compilare una trattazione, storica o teorica, mi limito ad accennare a talune costruzioni geometriche. In particolare intendo mettere l’accento su quelle entità matematiche che potrebbero essere considerate mostruose, in quanto lontane dall’intuizione comune. Anche indagando in modo lucido e razionale il mondo della geometria si può giungere a risultati insoliti e sorprendenti, come accade nel campo delle scienze fisiche e naturali. Di conseguenza è possibile fondare una forma di collezionismo anche nel campo delle matematiche, dove i reperti di maggior valore non saranno elementi fisici, ma quelle dimostrazioni più complesse ed elaborate che talvolta richiedono secoli di sforzi. Il progetto utilizza in modo diretto diversi metodi rappresentativi ed accenna indirettamente ad altri. Tali metodi comprendono le proiezioni ortogonali (piante, alzato, sezioni), la costruzione assonometrica (non utilizzata direttamente nelle tavole, ma inserita nella ambiguità percettiva della pavimentazione a losanghe), la prospettiva centrale frontale (utilizzata nella riduzione prospettica della galleria colonnata, scorciata secondo i principi della "scenoplastica"), la prospettiva accidentale (nella versione detta "dolcemente obliqua" per i pannelli trasparenti disposti in sfuggita), la prospettiva razionale (cioè a tre punti di fuga, utilizzata in modo intuitivo per la visione di insieme di facciata e scheletro strutturale), la prospettiva sintetica (cioè la prospettiva curvilinea o sferoidale, applicata in modo intuitivo nelle vedute degli interni), la prospettiva solida applicata all’iperspazio (nella struttura a proiezione centrale dell’ipercubo che pende dalla cupola ellissoidale). Se si esclude l’ultimo caso, tutte queste tipologie rappresentative erano già note all’epoca di Aldrovandi, anche se non tutte erano sistemate all’interno di una trattazione organica. 1


Erano stati fatti diversi tentativi in questo senso, ma più ad opera di pittori ed architetti, pertanto con intenti sempre legati alla prassi, piuttosto che ad opera di matematici. Non erano comunque ancora chiare le implicazioni teoriche che scaturiscono da tali metodi, in particolare quelle che derivano dalle proiezioni, implicazioni talmente rivoluzionare da mettere in crisi la geometria euclidea e quindi il concetto di spazio tradizionale. Soltanto nel XIX secolo i matematici cominciarono a rendersi conto delle “mostruosità”, a livello di concezioni spaziali, sottintese in alcune costruzioni applicate comunemente dai pittori. Comincio con un esempio classico della costruzione prospettica: il reticolo di un piano orizzontale in prospettiva centrale frontale, eseguito con l’ausilio delle diagonali, ovvero sfruttando i punti di distanza. A livello applicativo sembra che tale costruzione fosse già nota a Giotto e, solo parzialmente, ai Lorenzetti. A livello metodologico, invece, il procedimento fu messo a punto solo nel XV secolo. Questo reticolo, a livello teorico si estende indefinitamente lungo un semipiano. Immaginiamo di inserire detto reticolo entro un campo rettangolare, dove il bordo superiore si sovrapponga alla linea di orizzonte, mentre l’inferiore cada sopra la linea di terra. I bordi laterali del campo, che appaiono verticali all’osservatore, corrispondono a due rette oggettive orizzontali che si aprono a ventaglio, a partire dal punto di stazione, e la cui inclinazione è funzione del valore parametrico della distanza, oltre che della larghezza del rettangolo (su tale costruzione si basa il procedimento detto "dei raggi visuali"). Si crea così una corrispondenza tra i punti del piano oggettivo orizzontale, situati oltre il quadro e compresi entro tali rette oblique, ed il rettangolo stesso situato sul quadro. Tale corrispondenza è biunivoca se si esclude il lato superiore del rettangolo che comprende i punti di fuga. Nessun punto del piano può infatti essere proiettato dal punto di vista in tale posizione. Viene così introdotta la lontani o punti impropri.

nozione 2

di

punti

infinitamente


Questa nozione nasce dall’esigenza di considerare come effettivi entro lo spazio anche gli enti corrispondenti ai punti di fuga che altrimenti non avrebbero un corrispettivo. Ma tale concetto è una eresia, se si rimane all’interno della geometria euclidea. Per di più, secondo le concezioni degli antichi greci, l’infinito è un concetto potenziale, nel senso che una quantità può essere aumentata a piacere e proprio per tale motivo non ha un limite superiore, mentre in tale costruzione prospettica l’infinito diventa attuale, cioè assume una valenza ontologica. Soltanto nel XIX secolo Poncelet chiarirà teoricamente il concetto di punto improprio che corrisponde a quello di direzione comune, relativo a un fascio di rette. Attraverso l’introduzione delle coordinate omogenee, che rappresentano i valori parametrici delle rette di una stella con sostegno esterno al piano, verrà esteso il concetto di piano euclideo a quello di piano proiettivo. Questo si ricava intersecando con il piano la stella di rette. Le rette della stella parallele al piano generano i punti impropri, cioè le infinite direzioni pertinenti al piano stesso. Queste direzioni, nel loro insieme, formano la retta impropria, cioè la giacitura od orizzonte del piano. Il piano proiettivo non è una semplice estensione del piano ordinario euclideo, ma un ente dalle proprietà topologiche inaspettate. La topologia è una branca della geometria che studia quelle proprietà delle figure che rimangono inalterate in una deformazione continua, cioè senza strappi e senza parti che vanno a incollarsi o a sovrapporsi, dove gli enti vengono trattati come fossero oggetti di gomma. A differenza del piano ordinario, che presenta due facce, la pagina inferiore e quella superiore, il piano proiettivo, saldandosi all’infinito, presenta una faccia sola ed è una superficie chiusa. Anche la sfera è una superficie chiusa, ma presenta due facce, una interna e l’altra esterna. Nello spazio ordinario non è possibile costruire una superficie chiusa con una sola banda, senza che detta superficie si auto-intersechi. 3


Il piano proiettivo, invece, è chiuso, non si auto-interseca e possiede una sola banda, in modo che ogni forma che attraversasse il suo confine improprio riapparirebbe, ruotata specularmente, dalla parte opposta. Prendendo a prestito concetti dalla fisica potremmo dire che un oggetto, varcato il confine dell’universo, riapparirebbe nel punto opposto dell’orizzonte, ma composto di antimateria. Un altro concetto matematico moderno implicito nella costruzione prospettica basata sul punto di fuga è quello di punto di accumulazione. Evidenziamo la retta verticale che attraversa il punto di fuga principale (corrispondente alla retta ortogonale oggettiva per il punto di stazione): tale linea interseca tutte le trasversali, segnando punti che in prossimità della fuga si addensano sempre di più, ma rimangono comunque separati uno dall’altro. Consideriamo ora uno spazio limitatissimo, circostante il punto di fuga stesso, che matematicamente è detto intorno: per quanto piccolo si prenda, esso dovrà contenere al suo interno sempre infiniti punti. Possiamo, cioè, affermare che gli infiniti punti tagliati dalle trasversali si addensano nelle adiacenze del punto di fuga. In altre parole l’infinitesimo, cioè una grandezza tendente allo zero l’ intorno), può contenere una quantità infinita di punti. E’ un concetto molto vicino a quello di frattale, quale la polvere di Cantor. Questo insieme è ricavato a partire da un segmento cui si asporta un terzo entro la parte mediana e si prosegue nello stesso modo con i segmenti rimanenti, immaginando di frammentarli all’infinito iterando indefinitamente la asportazione e ricavando parti sempre più piccole. Questa idea, considerata inizialmente folle, è alla base del fiocco di neve di Koch e della spugna di Menger, insiemi di punti anomali che non sono né linee, né superfici, né volumi e quindi presentano dimensioni non intere. Supponiamo ora di campire i riquadri di un reticolo prospettico frontale secondo una scacchiera, immaginandoli suddivisi in vuoti e pieni: i pieni adiacenti ad una trasversale ad essi sottostante segneranno degli intervalli equidistanti, che ci forniscono anche il modulo per misurare, secondo le unità prospettiche, il piano frontale ivi posizionato. 4


Immaginando di inoltrarci con lo sguardo verso la linea di orizzonte, possiamo osservare che si alternano con suddivisioni sempre più fini. Sull’orizzonte diverranno, inspiegabilmente, non più intervalli separati, ma punti contigui, mentre dovremmo aspettarci infiniti punti "pieni" adiacenti alternativamente ad infiniti punti "vuoti". I paradossi che incontreranno i matematici nello studio delle grandezze infinite ed infinitesime sono dunque già contenute nella costruzione prospettica. Anche il concetto di frattale, inteso come figura infinitamente ripiegata che riproduce se stessa in scala sempre piu’ piccola, può essere estrapolata dal reticolo prospettico. Basta evidenziare una linea zig-zagante che segna i contorni dei riquadri della scacchiera: essa riprodurrà se stessa in scala sempre più ridotta man mano che si avvicina al punto di fuga. Per quanto riguarda la prospettiva sintetica, pur essendo stata utilizzata, seppur in modo intuitivo, già agli albori della scoperta, o forse riscoperta, della costruzione lineare con punto di fuga, non è stata sistemata come questa secondo procedure canoniche, come quella albertiana. Alcuni autori, come Leonardo, se ne sono occupati, ma più al fine di chiarire il meccanismo della visione, dato che la retina è sferoidale, che per costruire rigorosi metodi di costruzione. La prospettiva curvilinea non è comunque teoricamente distinta da quella lineare, dato che si tratta di casi particolari di un unico procedimento: quello della intersezione dei raggi visivi con il quadro o superficie di proiezione. Per la prospettiva lineare si considera un piano, per quella curva, invece, una superficie non piana, come accade per gli affreschi su volte. Soltanto se la superficie viene riproiettata da un punto distinto dal punto di vista originario scomparirà l’effetto illusivo e non sarà possibile compensare le distorsioni. Occorre anche osservare che è la configurazione dei raggi visivi a caratterizzare una visione prospettica, non la forma della superficie che li interseca.

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La vera differenza tra prospettiva curva e prospettiva lineare è una differenza percettiva, non concettuale. Infatti la prospettiva lineare trasforma le rette in rette, mentre quella sintetica le trasforma in curve. Ora, visivamente, il nostro modo di percepire le forme è caratterizzato appunto dal distinguere le linee in diritte o curve, anche se oggettivamente il nostro occhio percepisce le rette come curve. Nello stesso modo percepiamo le figure circolari come ellissi e viceversa; sono i meccanismi mentali che valutano le percezioni, anche in modo inconscio, a darci il risultato corretto: il vedere, in realtà, è un sapere non sempre coincidente con il dato retinico. Dal punto di vista teorico, dunque, la prospettiva ordinaria e quella sintetica non sono distinte e possono essere trasformate una nell’altra mediante opportune anamorfosi. La differenza tra le diverse tipologie è simbolica: in tal senso esistono delle analogie tra specifiche prospettive sintetiche e differenti concezioni di spazi non euclidei. Come è noto, furono fatti svariati tentativi per cercare di dimostrare il postulato delle parallele di Euclide, deducendolo dai precedenti. Questo postulato prevede che sul piano data una retta e un punto esterno ad essa, da questo è possibile tracciare una sola parallela. Soltanto nel XIX secolo ci si rese conto che tale postulato è indipendente dagli altri. Ammettendo che si possa tracciare più di una parallela si fonda la geometria iperbolica, mentre non ammettendone alcuna quella ellittica. Tali geometrie acquistano un senso, che non sia solo quello astratto di una serie di teoremi e dimostrazioni fini a se stesse, quando si applicano a superfici curve: a curvatura positiva come la sfera o l’ellissoide nel caso della geometria ellittica, a curvatura negativa, come la iperboloide a una falda o la tromba di Lobacevskij nel caso della geometria iperbolica. Naturalmente tali superfici si considerano immerse nello spazio ordinario, cioè euclideo, il quale rimane dunque come una sorta di contenitore necessario per definire ogni altro tipo di spazialità. In effetti anche gli spazi tridimensionali curvi non hanno senso se non si intendono come sottoinsiemi di uno spazio a quattro dimensioni lineari. Einstein, nel considerare l’ipotesi della curvatura dello spazio a causa della massa, presuppone un iperspazio lineare fondato su quattro parametri: le coordinate cartesiane più il tempo. 6


Il quinto postulato di Euclide, pur rimanendo indimostrato, non può dunque essere eliminato, perché fonda il presupposto geometrico di altri sistemi, all’interno dei quali può essere contraddetto per singoli sotto-insiemi che vengono in geometria definiti varietà non lineari, se curvi. Come avviene nella teoria degli insiemi, dove esiste una gerarchia, per cui un ente non può essere contemporaneamente elemento e contenitore, così esiste una gerarchia degli spazi basata sulle dimensioni: lo spazio al vertice deve essere euclideo, gli altri ivi contenuti dipenderanno da questo e potranno essere non euclidei. Ogni configurazione curva presuppone quindi l’esistenza della linearità : la sfera e la tromba di Lobacevskij, superfici a curvatura totale costante rispettivamente positiva e negativa, possono essere studiate soltanto nello spazio tridimensionale ordinario, cioè a sua volta non incurvato, mentre l’ipotesi di spazi curvi, con proprietà inaspettate e stravaganti, ha senso soltanto se si presuppone l’esistenza di un iperspazio pluridimensionale di tipo lineare. In un ipotetico spazio curvo, le linee che appaiono diritte ai possibili abitatori, non lo sono realmente se si osserva la situazione dal mondo degli "dei" superiori, provvisti di almeno una dimensione in più: relazioni logiche che in quel mondo non hanno senso, lo acquistano aumentando le dimensioni. Così le radici dei numeri negativi, che non hanno alcun senso sulla retta (detta dei punti reali), acquistano senso sul piano (detto piano dei numeri complessi), ma occorre introdurre, oltre alla retta dei punti ordinari, una retta nuova, quella dei numeri detti immaginari. Ovvero ciò che in un mondo inferiore appare assurdo, può acquistare senso in una dimensione più ampia. Anche Aldrovandi presupponeva una realtà più vasta di quella ordinaria per spiegare l’origine di mostri che sembravano sfuggire ad ogni causa naturale o finale, in modo analogo ci comportiamo un po’ tutti noi quando non riusciamo a spiegare il motivo di certi eventi. Il problema è che, concettualmente, una eventuale realtà superiore è inaccessibile a chi vive in un mondo inferiore: dovendo essere espressa con i mezzi di quest’ultima realtà, essa finisce per sfaccettarsi in una infinità di punti di vista soggettivi, dove assume una configurazione sempre diversa. 7


Nel sua totalità una realtà superiore, trascendente, non potrà mai essere compresa, salvo che non ci sia un salto dimensionale, cioè che si passi ad un piano esistenziale differente. Noi possiamo intuire soltanto le configurazioni tridimensionali e in modo parziale, data la loro complessità. Sulle superfici non è possibile, generalmente, tracciare rette: anche se si tratta di superfici rigate o sviluppabili, per ogni punto passerà soltanto un numero limitato di rette, solitamente una o due. Per unire due punti appartenenti al una superficie curva con una traiettoria su essa giacente occorre pertanto, di norma, seguire una linea curva. Tra gli infiniti percorsi possibili, ne esiste uno più breve: questo è detto geodetica e, per chi vive vincolato alla superficie, appare come una linea diritta. La rotta di una nave, per andare diritta, dovrebbe seguire una geodetica, cioè un cerchio di raggio massimo relativo alla sfera terrestre. Sulla sfera le geodetiche sono infatti le circonferenze tagliate da un piano che ne attraversa il centro. Non è possibile tracciare archi di tale tipo senza che si intersechino. Pertanto sulla sfera non è possibile tracciare parallele: i cosiddetti paralleli del mappamondo non appaiono,a chi si muove sulla sfera, come linee diritte, ma come curve (ad esclusione della linea equatoriale). Le superfici e gli spazi che non ammettono parallele sono detti ellittici, prendendo ad esempio la superficie dell’ellissoide, che ha la forma di un sigaro o di un disco. Il termine ellittico nasce dalla forma che assume una sezione molto vicina a un piano tangente che ne segue la giacitura. Ad esempio se si considera un ellissoide, tale piano secante taglierà una piccola ellisse, che tende a ridursi a un punto avvicinando il piano a quello tangente di riferimento. Una superficie a forma di tromba, come la base di un calice o la "scozia" delle colonne, presenta un andamento concavo in un contesto convesso, dovuto alla rotazione di una curva attorno a un asse situato dalla parte convessa, cioè in opposizione alla concavità. Una forma di questo tipo, come avviene per gli spazi multi-dimensionali ad essa analoghi, è detta a curvatura negativa o iperbolica.

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Se si intersecano tali strutture con un piano tangente si otterranno due linee curve opposte che si intersecano nel punto di tangenza, con andamento simile a due rami di iperboli, da cui prende il nome questa tipologia. In questi casi, data una geodetica, è possibile tracciare per un unico punto esterno ad essa infinite altre geodetiche che non la toccano, cioè più di una parallela. Sulla tromba di Lobacevskij, ottenuta facendo ruotare la linea generatrice, detta trattrice, attorno al suo asintoto, le geodetiche sono le circonferenze di rotazione, oppure le generatrici o ancora determinate linee intermedie tra queste due. Se estendiamo per analogia il concetto di superficie curva immersa nello spazio euclideo a quello di spazio curvo, o varietà tridimensionale, entro l’iperspazio quadridimensionale, avremo cosmi incurvati: ellittici o iperbolici. La prima eventualità corrisponde ad un cosmo che, dopo il "Big-Bang", si dilata per poi ricomprimersi, secondo il movimento circolare che un’onda compie su una sfera. Il secondo caso, invece, crea situazioni più complesse, per cui seguendo certe direzioni si torna al punto di partenza, mentre seguendo altre ci si perde nell’infinito. Ci sono poi forme che presentano sia parti a curvatura ellittica che iperbolica, come il toro ottenuto ruotando un cerchio attorno a un asse esterno. Non si possono dunque escludere cosmi composti di parti ellittiche ed iperboliche e nemmeno escludere situazioni ad una "faccia" sola, come ci insegna la topologia, per cui compiuto un giro ci si ritrova in un mondo speculare, che è poi quello di partenza, mentre l’"eternauta" ritorna composto di antimateria, in quanto gli “spin” atomici ruotano in senso inverso a motivo della riflessione. Vediamo ora come la prospettiva sferica di tipo convesso, cioè ad effetto fish-eye, sia analoga agli spazi ellittici, mentre la prospettiva sferica di tipo concavo, cioè con distorsione "a fazzoletto", sia analoga agli spazi iperbolici.

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Per illustrare il primo caso consideriamo la rappresentazione in prospettiva sferica ortografica di un reticolo posto frontalmente: la sua raffigurazione consiste in due schiere di ellissi, aventi rispettivamente in comune l’asse maggiore costituito da uno dei due diametri ortogonali, orizzontale e verticale, del campo circolare di definizione. Le ellissi si addensano sui bordi del campo che costituisce l’ immagine della retta impropria del piano dato.

Ogni singola retta è dunque rappresentata da una semiellisse, i cui vertici corrispondono al punto infinitamente lontano, o punto improprio, che appare sdoppiato. Data una "retta" r di questo tipo non è evidentemente possibile condurre da un punto esterno alcuna parallela. Infatti se costruiamo una semiellisse s con un asse distinto da quello di r, s ed r si intersecano in un punto interno al cerchio (in tal caso dal punto di vista descrittivo si tratta delle immagini di due rette secanti). Se invece costruiamo una semiellisse s con asse coincidente con quello di r, le due ellissi si toccheranno sul bordo del cerchio (nel qual caso si tratta di immagini di rette oggettivamente parallele). In quest’ultimo caso le linee "rette" del campo si toccano in due punti invece che in uno: se però considerassimo non semiellissi, ma ellissi intere, avremmo sempre due punti di intersezione. In effetti le ellissi sono immagini delle geodetiche della sfera, che si tagliano sempre in due punti.

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Esaminiamo ora il caso della prospettiva di tipo concavo che, a causa della sua distorsione, non può rappresentare sul piano, anche se immaginato nella sua infinita estensione, tutta la porzione di semispazio posto di fronte all’osservatore. In altre parole l’ angolo di visuale è ristretto e comunque inferiore all’angolo piatto, valore che assume la prospettiva lineare quando si immagina, al limite, un quadro di estensione infinita. In questo caso di prospettiva curva distorta, il reticolo frontale si trasforma in un sistema di iperboli coassiali, formato da due schiere con assi ortogonali. Con tale metodo descrittivo, a differenza di quello precedente, non è idealmente possibile rappresentare tutte le infinite rette del reticolo di partenza. Infatti le iperboli delle schiere ortogonali possono rappresentare soltanto quei segmenti che cadono entro il cerchio intercettato dal cono visuale.

Il cono visuale ha come base il piano che attraversa il secondo punto di proiezione, questo secondo fuoco serve per proiettare sul quadro la configurazione tracciata sulla sfera. Nel centro di questa è situato il punto di vista. Si noti che, paradossalmente, man mano che ci si allontana dal centro, e quindi dal punto di vista, gli intervalli del reticolo aumentano, apparentemente, di dimensione. E’ complesso visualizzare un reticolo proiettato sulla sfera prima con raggi uscenti dal suo centro, poi dalla sfera al piano con raggi uscenti da un fuoco distinto dal centro. Per comprendere intuitivamente il meccanismo conviene immaginare una deformazione continua del reticolo di partenza. Consideriamo una porzione di reticolo contornata da un cerchio. Immaginando di portare all’infinito il contorno del cerchio, mantenendone fisso il centro, si otterrà la configurazione descritta. Data una di tali iperboli r é evidente che possiamo tracciarne più di una che non la tocchi a partire da un punto esterno ad essa. 11


A dimostrazione basta considerare la porzione circolare di reticolo da cui ha avuto origine la configurazione di iperboli e che ora si trova dilatato all’infinito.

Nel progetto architettonico non ho utilizzato alcun riferimento diretto alla spazialità di tipo iperbolico, analoga alla prospettiva deformata con effetto concavo. Questa concezione spaziale è simboleggiata dalla tassellatura della cupola che richiama un altro modello del piano iperbolico, quello di Poincarè. In questo modello le rette sono rappresentate da archi che prendono inizio da un punto appartenente ad un orizzonte circolare e che su questo terminano in un punto distinto, riducendosi ed addensandosi in prossimità di questo orizzonte. Infine accenno al significato della struttura ad ipercubo, sospesa al centro della Wunderkammer. La concezione del teatro delle meraviglie si basa su un complesso di scatole cinesi, dove il contenitore è estrinsecazione del contenuto che a sua volta lo racchiude. Si tratta di una riduzione e parallelamente di una espansione delle dimensioni. Lo spazio in definitiva ridotto dell’interno viene amplificato dal gioco di specchi e di effetti scenotecnici, la tipologia dell’espositore viene riproposta sulla facciata e contrapposta in negativo all’interno, in un gioco di continui rimandi. Mentre la sfera armillare sospesa sull’atrio vuole rappresentare la globalità dell’universo fisico che, in epoca aldrovandiana, era costituito dalle sfere concentriche attorniate dall’empireo, la struttura ad ipercubo vuole rimandare ali’universo geometrico pluridimensionale.

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Lo spazio fisico, eventualmente deformato, sarà dunque una semplice proiezione, fra le infinite possibili, di una realtà iperdimensionale, irraggiungibile ed inafferrabile. L’operazione di proiezione applicata a un ente geometrico ne riduce le dimensioni. Questo permette di renderne leggibile la struttura, ad esempio in geometria descrittiva un oggetto tridimensionale viene ridotto al piano mediante le proiezioni. Un ente a quattro dimensioni può allora essere rappresentato mediante una configurazione tridimensionale. Nel fare ciò, però, si introduce un forte elemento di ambiguità, dato che la relazione tra oggetto e immagine è univoca, ma non sempre biunivoca, potendo essere infinite quelle configurazioni sovra-dimensionali che possono produrre quell’unica immagine di dimensione ridotta. Da una sola immagine, cioè da un fenomeno ovvero dall’apparenza, non è consentito giungere direttamente al noumeno, ovvero alla causa o essenza, e ciò contraddice la profonda aspirazione aldrovandiana ad un sapere completo e conchiuso, di tipo quantitativo. Le lunghe elencazioni del dottore, le sue dotte verbosità, il suo gusto per un enciclopedismo paratattico, dove gli intenti di mimesi della natura si sovrappongono ad immagini mitiche e favolose, finiscono per perdersi in un gioco di specchi, in un vano rincorrersi di immagini, dove il termine di fuga finale si intravede, ma rimane inaccessibile. Il convergere delle parallele ci suggerisce che il punto di fuga, seppure evanescente, deve avere un suo valore ontologico, una sua esistenza, ma ci è negato il raggiungerlo. Questo succede anche in astronomia. Le stelle sono talmente lontane da ridursi a un punto, in quanto i raggi che giungono sulla terra sono praticamente paralleli. Tuttavia si fantastica di viaggi interstellari o si sognano visite di esseri mostruosi, seppure antropomorfi, che giungerebbero sulla terra a partire dalle stelle. Ma le distanze che separano le stelle sono abissi insormontabili e nessun essere corporeo è in grado di superarli, se non con tempi assolutamente fuori scala rispetto quelli biologici. Ma oggi, come un tempo, l’uomo ha bisogno di raccontarsi favole. Allora Aldrovandi scovava piccoli draghi in un fosso, oggi c’è che chi incontra sulla via marziani ed extra-terrestri. 13


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