2014 selvatico una testa che guarda

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Ma se al contrario si cominciava con l’analizzare un particolare, ad esempio la punta del naso, si era perduti. Avremmo potuto passarci la vita senza ottenere alcun risultato. La forma si scompone, alla fine non è piĂš che qualche particella in movimento sopra un vuoto nero e profondo, la distanza fra le due ali del naso è come il deserto del Sahara, nessun limite, nulla che possa venir fissato, tutto sfugge. Alberto Giacometti


Selvatico.Tre / Una testa che guarda Istituzioni ed Enti patrocinanti Regione Emilia-Romagna, IBC Istituto Beni Culturali, Provincia di Ravenna, Sistema Museale della provincia di Ravenna, Unione dei Comuni della Bassa Romagna, Comuni di Alfonsine, Bagnacavallo, Bagnara di Romagna, Conselice, Cotignola, Fusignano, Lugo, Massa Lombarda, S. Agata sul Santerno

Provincia di Ravenna

Luoghi Alfonsine: Museo della Battaglia del Senio Bagnacavallo: Museo Civico delle Cappuccine Bagnara di Romagna: Rocca Sforzesca Museo del Castello Conselice: Palazzetto dello sport e luoghi vari Cotignola: Museo Civico Luigi Varoli Lugo: Pescherie della Rocca Fusignano: Museo Civico San Rocco – Il Granaio Massa Lombarda: Museo Civico Carlo Venturini – Sala del Carmine S. Agata sul Santerno: Teatro parrocchiale Assessore Cultura Regione Emilia-Romagna Massimo Mezzetti IBC Istituto Beni Culturali – Dirigente musei e beni culturali Laura Carlini Assessore Cultura Provincia di Ravenna Paolo Valenti Sistema Museale Provincia di Ravenna Eloisa Gennaro Servizi educativi per l’infanzia dell’Unione dei Comuni della Bassa Romagna Coordinatrice pedagogica Dina Grandi Mar Museo della Città di Ravenna Sezione didattica Filippo Farneti Mic Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza Direttrice Claudia Casali Sezione didattica “Laboratorio giocare con l’arte” Dario Valli, Daniela Brugnoto, Anna Gaeta Cooperativa Atlantide Fondazione PInAC Pinacoteca Internazionale dell’età evolutiva Aldo Cibaldi, Rezzato (BS) Direttrice Elena Pasetti
 Fondazione Cineteca di Bologna - Archivio Pier Paolo Pasolini Direttore Gian Luca Farinelli Responsabile centro studi Pier Paolo Pasolini Roberto Chiesi Collettivo Cesura Lab Piacenza Collettivo FX e Associazione culturale Whats, Reggio Emilia

Comune di Alfonsine Sindaco Mauro Venturi Assessore Cultura Roberta Contoli Direttore Museo della Battaglia del Senio e Responsabile Area Cultura e Comunicazione Antonietta Di Carluccio Museo della Battaglia del Senio Paolo Secchiari Casa dei due Luigi Mascia Lucci Comune di Bagnacavallo Sindaco Eleonora Proni Assessore Cultura Enrico Sama Museo Civico delle Cappuccine Diego Galizzi Apertura e sorveglianza sedi espositive Marco Mezzofanti Scuola d’arte “B. Ramenghi” Liliana Santandrea, Giulia Ercolani, Margherita Tedaldi Comune di Bagnara di Romagna Sindaco Riccardo Francone Direttore del Museo del Castello Vilma Dal Bosco Cooperativa Il Mosaico Comune di Conselice Sindaco Paola Pula Assessore Cultura Elena Liverani Area territorio Danilo Cesari Ufficio eventi e promozione territoriale, lavori pubblici e patrimonio Elisabetta Gagliardi Biblioteca Tatiana Fabbri Comune di Cotignola Sindaco Luca Piovaccari Assessore Cultura Federico Settembrini Responsabile Area Cultura e Comunicazione Giovanni Barberini Museo Civico Luigi Varoli Massimiliano Fabbri Area Cultura e Comunicazione Michela Fanelli Urp Melissa Stinziani

Scuola Arti e Mestieri Massimiliano Fabbri Associazione Selvatica Pamela Casadio, Cecilia Pirazzini, Alice Iaquinta Apertura e sorveglianza sedi espositive Natale Barisani, Cecilia Pirazzini Comune di Fusignano Sindaco Nicola Pasi Assessore Cultura Lorenza Pirazzoli Responsabile Settore Cultura Tiziana Giangrandi Il Cerchio Laura Tramonti, Elisabetta Merendi Urp Rita Baracca Presidente Pro Loco Lino Costa Apertura e sorveglianza sedi espositive Auser Comune di Lugo Sindaco Davide Ranalli Assessore Cultura Anna Giulia Gallegati Direttore Museo Francesco Baracca e attività espositive Daniele Serafini Apertura e sorveglianza sedi espositive Auser Comune di Massa Lombarda Sindaco Daniele Bassi Assessore Cultura Andrea Bruni Responsabile Area Servizi alla Persona e Direttore Museo Civico Carlo Venturini Francesco Beltrani Responsabile Ufficio Servizi Culturali e Sportivi e Conservatore Museo Civico Carlo Venturini Ivo Scarpetti Responsabile Scuola d’Arte e Mestieri “Umberto Folli” Luigi Valgimigli Apertura e sorveglianza sedi espositive Volontari Museo Civico Carlo Venturini Comune di S. Agata sul Santerno Sindaco Enea Emiliani Vicesindaco e Assessore Cultura Lilia Borghi

In collaborazione con le associazioni cotignolesi Primola presidente Mario Baldini, Selvatica e Centro sociale “Il Cotogno” Sostenitori Coop Adriatica, Hera, La Cassa, Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, Cevico, Nerio colori Lugo, Trattoria Mirola Lugo, B&B Affittacamere Katia Casadio Cotignola, Grafiche Morandi Fusignano, Gagarin magazine


indice Selvatico.tre Una testa che guarda ............................................................... 4

Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa..........5 Testi di Massimiliano Fabbri Andrea Bruni Massimo Pulini Marco Servadei Morgagni Francesco Caggio Claudia Collina Alessandro Giovanardi Diego Galizzi Vittorio D’Augusta Sabrina Foschini Un particolare ringraziamento ai collezionisti privati per l’adesione al progetto e per il generoso prestito e concessione delle molte opere confluite nella quadreria “Cacciatori di teste”, e per le fotografie, fotobuste e altro materiale d’archivio esposto nella mostra “Un volto in forma di rosa” proveniente dalla collezione di Maurizio Baroni e dall’archivio personale del fotografo Elio Ciol Ufficio stampa Unione dei Comuni della Bassa Romagna Assicurazioni AON s.p.a. Bologna Trasporti Ivan Mazzoni Faenza Pullman per visita guidata Coerbus Crediti fotografici Daniele Casadio Ravenna, Cristiano Matulli – Photo Anna Cotignola, Andrea Scardova IBC Grafica catalogo e pieghevoli Marilena Benini Cotignola Stampa Grafiche Morandi Fusignano

Selvatico è fatto dal Museo civico Luigi Varoli di Cotignola insieme ai comuni e musei dell’Unione dei comuni della Bassa Romagna, in collaborazione con l’associazione Primola – Arena delle balle di paglia. www.aem-selvatica.org www.pinterest.com/museovaroli www.museovaroli.blogspot.it

ISBN 000000000000000

Introduzione ...................................................................................................... 6 Galleria ............................................................................................................ 10 La mostra ........................................................................................................ 39 Gli artisti .......................................................................................................... 48

Lo scudo di Perseo.........................................................76 Introduzione .................................................................................................... 77 Fotografia ........................................................................................................ 78 Sezione video ............................................................................................... 104

Un volto in forma di rosa..............................................108 Introduzione .................................................................................................. 109 Immagini ....................................................................................................... 112

Allargare lo sguardo: paesaggio di campagna con muro e ritratto........................................................118 Introduzione .................................................................................................. 119 Immagini ....................................................................................................... 120

Cacciatori di teste.........................................................126 Introduzione .................................................................................................. 127 Quadreria ...................................................................................................... 128

Elzbieta e i suoi compagni ...........................................138 La collezione PInAC ..................................................................................... 139 Immagini ....................................................................................................... 140

Tra occhio e mano ........................................................144 introduzione .................................................................................................. 145 Sezione Didattica MAR Museo d’Arte della Città di Ravenna .......................... 146 Sezione Didattica MIC Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza.......... 148 Scuola Arti e Mestieri Cotignola....................................................................... 149 Il Cerchio Fusignano........................................................................................ 150 Casa dei due Luigi Alfonsine............................................................................ 151 Scuola Arti e Mestieri “Umberto Folli” Massa Lombarda................................... 152 Scuola d’Arte “B. Ramenghi” di Bagnacavallo................................................. 153

Storie del volto dipinto..................................................154

Il Cristo di Perth............................................................................................... 156 Sguardi distanti................................................................................................ 157 Guardare altrove ritrarsi allo sguardo................................................................ 158 Memoria del paesaggio interiore. Mamandia Scandeus................................... 160 Tre teste che non guardano. Una chiosa a Guido Cagnacci............................. 162 Una luce dentro agli occhi / Una luce dietro le spalle....................................... 164 Un angelo quasi mio coetaneo ....................................................................... 166 Mercurio come tagliaborse.............................................................................. 167


Selvatico.tre Una testa che guarda La forma e una certa idea del volto, i sui occhi che rilanciano e restituiscono il nostro sguardo chiamandoci inevitabilmente in causa, questa l’immagine che guida e governa un ramificato percorso espositivo che è vera e propria mappa che collega e congiunge luoghi, storie, memorie e collezioni che caratterizzano e distinguono i nove paesi appartenenti all’Unione dei Comuni della Bassa Romagna che hanno aderito e contribuito al formarsi e precisarsi di questo nuovo episodio di Selvatico. Due le spinte o urgenze alla base del progetto, da una parte, almeno inizialmente, una specie di risposta o reazione a un vuoto, quello legato alle arti visive e agli spazi pubblici e privati a queste dedicati in Romagna, praticamente assenti fino a pochi anni fa; in seconda battuta un cortocircuito e dialogo tra musei e opere contemporanee, con la convinzione che tutta l’arte sia al presente, così come mobile e in continua evoluzione l’identità del museo e le modalità con cui lo raccontiamo e viviamo ancora. Selvatico è una geografia dell’arte che colloca il suo punto di osservazione, e azione anche, in provincia, occupando uno spazio ai margini e facendo di questa sorta di isolamento testardo suo centro e forza propulsiva, forza rispondente a una doppia tensione, centripeta e centrifuga al tempo stesso; un sistema di relazioni, la tessitura di una rete tra artisti che vivono o attraversano temporaneamente questi luoghi e l’innesto costante di sguardi da fuori, la necessità di spingere un po’ più in là l’occhio. La provincia come alternativa possibile e uno sguardo, su e intorno all’arte contemporanea, non omologato, né tanto meno somigliante ad altro. Selvatico traccia un disegno che, per quanto effimero e precario, è capace di pensare e trasformare un territorio marginale e periferico in snodo e panorama vitale, in un articolato museo diffuso dentro al quale favorire e stimolare l’incontro tra le persone e la produzione di idee e, talvolta, cose a venire. Selvatico gioca a scoprire e svelare affinità e incastri, più o meno felici, tra mondi. E si nutre del contrasto per vedere meglio. Per questo si sviluppa sempre in percorsi plurali che si allargano e intrecciano e tengono insieme, in continua oscillazione e alternanza, punti di vista differenti e molteplici. In uno sforzo costante di incontro ed empatia con le cose e le storie che queste trattengono. Una testa che guarda, immagine doppia che rende esplicita la relazione che si instaura nell’atto del vedere e, contemporaneamente, dell’essere visti, è il titolo che abbraccia tutti i movimenti di questo ter6

zo episodio di Selvatico, che presenta molte novità rispetto alle edizioni passate, su tutte l’arco temporale che da novembre si estende sino a febbraio, in un susseguirsi di mostre e appuntamenti differenti per temperatura e tipologia di narrazione, e che, pur aprendosi e ramificandosi in percorsi molto diversi e distanti tra loro, si iscrivono infine tutti dentro al comune paesaggio costituito da questo grande e composito volto plurale. Qui risiede la seconda novità che innerva la struttura di questa proposta, che consiste nelle molteplici modalità con cui abbiamo deciso, contemporaneamente, di guardare al volto attraverso più punti di vista e pratiche: dalle produzioni più attuali di artisti che ci hanno catturato e rapito per come si misurano, con intelligenza, coraggio e sensibilità, con il volto disegnato o dipinto, alla potenza e vitalità non ancora del tutto addomesticata del disegno dei bambini, dai volti ricercati e raccolti dal collezionismo privato presente sul territorio a comporre una grande ed eterogenea quadreria, alle facce dipinte sui muri delle nostre città che, con uno slittamento che è quasi un ritorno a casa, affioreranno su di un panorama di campagna, fino agli esiti contemporanei di quello che è il mezzo per eccellenza del ritratto contemporaneo, il più efficace e diretto e spietato, la fotografia. Una mostra di facce e volti e teste molte, una fitta foresta di sguardi in cui perdersi e riconoscersi. Si potrebbe dire allora, semplificando, che l’umore o il dichiarato fantasma di questo Selvatico sia il ritratto, non tanto o non solo come genere codificato, ma piuttosto come desiderio e ferita, problema aperto riguardante la rappresentazione e i modi con i quali raccontiamo l’altro e noi stessi; qui, attraverso linguaggi e mezzi artigianali che fanno ancora dell’errore e dell’incertezza uno dei punti di vista, non solo possibili, ma fondativi; in questo, in netto contrasto rispetto alle prassi con cui, quotidianamente, comunichiamo il volto. Disegnarlo o dipingerlo, questo volto familiare e sconosciuto al tempo stesso, significa rilanciare e tentare di rinnovare ancora, aggiungendo sempre qualcosa d’altro, una narrazione ininterrotta che riguarda il cuore dell’avventura artistica e dell’uomo in genere, ossia il cercare, tentativo fallimentare di comprendere, o spingere un po’ più in là, la scienza dei sentimenti e delle emozioni, l’ossimoro imprendibile alla base della vicenda artistica. Forse Selvatico è diventato grande e può permettersi ora il tema per eccellenza, quello più impegnativo e rischioso e labirintico, il più affascinante e complesso, il volto e il ritratto, la faccia e la maschera... una testa, una testa che guarda. Massimiliano Fabbri


Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa

Bagnacavallo / Museo Civico delle Cappuccine Fusignano / Museo Civico San Rocco Cotignola / Museo Civico Luigi Varoli 30 novembre 2014 – 25 gennaio 2015 a cura di Massimiliano Fabbri Rocco Lombardi, Denis Riva, Giuliano Guatta, Antonella Piroli, Silvia Argiolas, Rudy Cremonini, Matteo Fato, Francesco Bocchini, Nicola Samorì, Franco Pozzi Massimo Pulini, Domenico Grenci, Erich Turroni, Luca Piovaccari, Verter Turroni, Vittorio D’Augusta, Eldi Veizaj, Silvia Idili, Simone Luschi, Erika Latini Luca Coser, Lorenzo Di Lucido, Giovanni Blanco, Massimiliano Fabbri, Jacopo Casadei, Martina Roberts, Filippo Tappi, Olivia Marani


Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa

«Sul volto desiderato c’è un’espressione che va oltre, molto oltre, l’invito; perché è un riconoscimento di sé, della crudeltà del mondo e dell’unico rifugio, l’unico dono: dormire insieme. Qui. Ora.» John Berger «Ma se al contrario si cominciava con l’analizzare un particolare, ad esempio la punta del naso, si era perduti. Avremmo potuto passarci la vita senza ottenere alcun risultato. La forma si scompone, alla fine non è più che qualche particella in movimento sopra un vuoto nero e profondo, la distanza fra le due ali del naso è come il deserto del Sahara, nessun limite, nulla che possa venir fissato, tutto sfugge.» Alberto Giacometti

La vocazione al contemporaneo e alla costruzione di mondi di Selvatico, si rivela e dichiara attraverso una mostra, divisa in tre sezioni e musei, che coinvolge ventotto autori che indagano su cosa significhi oggi, guardare ancora al volto nel tentativo di restituirlo attraverso il mezzo, la pratica e disciplina della pittura e disegno; mettendo una testa al centro della propria ricerca. E dandogli spazio. Il volto è lo scenario allora, e da qui si parte per inseguire ramificazioni, possibilità e modi di vedere che si misurano tutti con il medesimo tema, il soggetto per eccellenza, una testa, suo tradimento compreso. Un volto intercettato e impigliato sulla superficie come condensazione e residuo, testimonianza dell’occhio più mano e dell’inevitabile tecnica con cui fare i conti; o memoria e mappa degli accadimenti, scrittura del tempo e storie che si depositano sulla pelle, rintracciabili e quasi anticipate dalla conformazione ossea, già leggibili nella forma esatta dell’occhio, nella linea e movimenti e increspature delle labbra, nella misteriosa forma dell’orecchio. Volto sfidato e affrontato come campo di battaglia, entrandogli dentro, calandosi nel suo perimetro sconfinato, occupandolo e sprofondando sempre più in esso, sperdendosi in panorama assai vasto e mai del tutto raccontato pienamente o in maniere e modalità che possano dirsi definitive. Luogo familiare e sconosciuto al tempo stesso. Primo amore. Ossessione a cui tornare. O ancora luogo monotono e del già detto, da forzare abbandonare, insopportabile e anonima quotidianità, presenza che si ripresenta all’infinito alla stregua di incubo e fantasma, nella sua ottusa ripetizione pop e varianti molte, a cui ci è impossibile sfuggire, mutevole e cangiante. Immagine inafferrabile nel suo insieme, e così ci ritroviamo, ancora, perduti nel dettaglio. Il volto è la bellezza indicibile, mai assillante, esaurita o sterile, spesso violata, mistero vergine e genere al tempo stesso, 8

simmetria perfetta, grazia ed equilibrio di tutte le parti, deformazione. Visione imparentata alla divinità, così potente e accusante per la sua capacità di guardare e vederci. Gli occhi delle statue sumere che possono vedere ciò che a noi è interdetto. O rituale accademico e logoro, da assaltare, assediare e ferire con furia iconoclasta, o da consumare con infinite ripetute carezze e tocchi e svolazzi dell’occhio a frugare e posarsi. Maschera e strumento. (Il discorso sul genere in Marlene Dumas, sul volto come spazio politico, paesaggio resistente e ai margini, luogo dell’identità, un’identità incerta e costantemente messa in discussione.) Il titolo che contiene e attraversa le tre sezioni della mostra, sembra voler aprire, da un lato, a questa capacità attrattiva e catturante del volto, dall’altro quasi a suggerire o spostare un po’ più in là il centro dell’attenzione, il punto vitale, fuori da questo profilo codificato a favore di un luogo imprecisato, esterno, distante e lontano dal fulcro e fuoco rappresentati da occhi naso bocca fronte zigomi mento, portando con sé quindi, una potenziale condizione e condanna all’invisibilità. Come se una testa fosse un’imprendibile entità che non possiamo mai vedere con esattezza o completamente, forma che tiene in sé opposti e contrari: profondità che inghiottono come gorghi, sotto la pelle, giù, dentro la notte e cavità interna, attraverso l’imbuto e voragine dell’occhio, rovesciato punto di fuga prospettico, dispositivo quasi estraneo e inspiegabile, membrana che apre e schiude e serra al mondo; e qualcosa che sfugge, che sembra non potersi iscrivere in questa scena collocandosi dietro, fuori, di là, oltre al perimetro e scatola della faccia. (Gerard Richter.) Come se il volto solo non bastasse, oppure fosse troppo, troppo violento da sopportare e sostenere con uno sguardo diretto; e occhio che, inaspettatamente e all’improvviso, scarta e si volge altrove, lasciando l’immagine incompiuta. Chi guarda dritto negli occhi è pazzo.


Questa mostra riparte dallo sguardo dell’artista che prova a riscrivere o a riconoscere o ritrovare infine sul volto, tracce di questa babele di significati e possibilità ed echi, con l’ingenua speranza, forse, di perderli e abbandonarli, o ricucirli e ricomporli come archeologo che riporta e ricostruisce storie perdute. O tentare di dimenticarle per un momento, tutte queste ombre e spettri, a favore di una visione più forte e accecante e nuova. Di esattezza primitiva. E questo Selvatico funziona così come un grande specchio infranto che ci restituisce più modi di vedere e riflessi molteplici di questo volto labirintico; lo fa, ripartendo questa volta, da alcuni nomi già visti nei precedenti episodi del progetto, richiamandoli in causa e innestando su questa lista, una serie di artisti che per la prima volta espongono nei nostri musei, in un dialogo e incontro tra questi “sguardi da fuori” e alcuni tra i più interessanti autori presenti sul territorio che si misurano con il problema del volto e della sua rappresentazione; mescolando e tenendo insieme, com’è consuetudine di Selvatico, percorsi ed esperienze note e di chiara fama, con altre più nascoste o sommerse, ma che reputiamo di pari dignità, valore e interesse. Disegnare o dipingere un volto è misurarsi con il problema dello sguardo, del guardare e, potenzialmente, dell’essere visti in questo ingaggio; o meglio ancora, tutto questo processo si potrebbe iscrivere nella forma esatta dell’occhio, perimetro margine confine, occhio lago e gorgo in cui possiamo sprofondare. Mandorla che si schiude, destinata a far ripiombare il mondo nella tenebra, a farci vedere le cose per lampi e bagliori. Occhio dio bulimico che si nutre di frammenti che sedimentano e si sovrappongono nel buio senza mai saziarlo. Del volto, l’occhio è il centro che irradia, il doppio punto di fuga, da fuori a dentro e viceversa; da qui, forse, la sfasatura, il fuori fuoco cui tendiamo nostro malgrado. L’occhio, nel volto, è un corpo estraneo. Gli occhi vitrei di certe statue, in altre quasi del tutto assenti, in altre ancora cancellati e distrutti per non essere visti nelle intrusioni e furti, o quelli di certe decorazioni nei crani fatte talvolta con conchiglie. In un disegno di Alberto Giacometti, il viso di Annette è praticamente diventato un teschio, a furia di cancellature, solo l’occhio è rimasto, ostinato, a tenere in vita quel che resta della forma spolpata, a rilanciare l’accusa e la facile profezia. E se l’occhio, dipinto o disegnato che sia, ha sempre a che fare con il vedere e l’essere visti, dobbiamo essere disposti a credere che fare o rifare un volto sia qualcosa di sostanzialmente

differente dal misurarsi con altri temi o soggetti, che da questo punto di vista rappresentano, in confronto, una specie di vacanza, nel bene e nel male; il volto ci costringe invece ad un’attenzione maggiore, a una differente tensione, che possiamo chiamare, in maniera un po’ imprecisa e vaga sempre, somiglianza, anche se, e quando, questo volto emerge da una macchia, o è distillato da estrema sintesi che sembra astrarlo o ridurlo a geometria. Dagli occhi poi partono e irradiano fili e traiettorie che ci impigliano come dentro a una ragnatela, e che inspessiscono l’aria collegando punti e gettando continuamente ponti invisibili come i tracciati dei voli e delle rotte degli aerei sulle carte geografiche. Che l’insistenza dello sguardo fa male e può consumare, e da questa cerchiamo di proteggerci; così l’occhio che vede è anche il luogo della sparizione, capace di immobilizzarci ucciderci come lo sguardo di Medusa; o la sua presenza è da evitare come lo specchio e le immagini, quelle guardanti, come succede a Buster Keaton in Film di Beckett, assediato circondato inseguito. Senza questo tipo di relazione, più o meno dolorosa, o empatica o amorosa, senza l’intrusione sconvolgente dello sguardo che ci fa vivi e fruga e stana, che rilancia l’offerta e chiama a sé (Bill Viola) il volto si ridurrebbe a stereotipo e pratica sterile, a genere innocuo nonché fastidioso e, ritornando dentro alla pittura, risospinto dopo esser stato neutralizzato e codificato, perderebbe molto del suo potere sovversivo; che invece, paradossalmente, mantiene proprio per il fatto di essere dipinto. La mostra Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa è la storia di questa contraddizione. L’antiselfie potremmo dire, che questo non è un discorso sulla contemporaneità e attualità, piuttosto sui fantasmi che giungono dal passato a popolare di profezie il presente. Come e perché dipingere un volto allora è problema aperto, che resterà irrisolto, così come problematica sempre la sua rappresentazione, bisogno e tentativo che accompagna e seguirà l’uomo fino all’ultimo dei suoi giorni, pur se cambiando inevitabilmente pelle, modificando e aggiustando incessantemente, con le stagioni, canoni e gusti e parametri e modi di vedere; i pianti straziati di Giotto nella cappella degli Scrovegni a volte sembrano slittare e confondersi quasi in risa sguaiate... possibile che l’anatomia e l’espressione del viso e dei sentimenti, mutino come se fossero anche, o eminentemente, un dato culturale? (Luc Tuymans; i suoi ritratti sono sempre qualcos’altro, a dirci che non dobbiamo fidarci troppo delle immagini, soprattutto di quelle dipinte, dell’inganno insito in loro.) 9


La rappresentazione è destinata ancora a essere la nostra ombra e compagna, la stessa ombra da cui si dice nata la pittura. A sostituire una mancanza. E da questa ombra, dalle sue possibili e molteplici definizioni, da un tentativo di avvicinamento e comprensione di questo riflesso e proiezione che ci inchioda, parte questa mostra; da una testa che guarda. Si potrebbe dire, alla ricerca della giusta distanza, tra noi e l’altro, tra me e il mio doppio. Cos’è appunto che fa in modo che un volto, disegnato o dipinto, non sia clamorosamente inadeguato per il solo fatto di essere un’immagine statica? Cosa congiunge o passa o scorre sotto, tra un volto del Fayum e un ritratto di Lucian Freud? C’è una linea continua che gli artisti ripercorrono incessantemente e che contribuiscono a ingrossare, un alveo a cui attingere, un fiume che scorre accanto, ora accoglie, altre sommerge e immobilizza per troppo guardare. Orfeo che si volge. Due i possibili andamenti o tensioni che prolungano e amplificano questa ossessione della testa, della raffigurazione dell’altro, nostro simile che tiene l’innamoramento e le peggiori paure. (Il viso e il corpo come desiderio in Caravaggio.) Da un lato una pratica che necessità di una disciplina che consiste, facile a dirsi, in una specie di azzeramento del pensiero, nulla deve esistere se non il guardare, nessun giudizio o conoscenza o sapere devono mettersi in mezzo tra noi e il volto che abbiamo di fronte; oppure il volto è dentro, nella mente, ed eccolo magari affiorare casualmente mentre draghiamo la nostra memoria, pescando più o meno involontariamente nell’archivio delle immagini che ci compone, all’apparenza dimenticato e perduto. Fiducia incondizionata, tentativo di trattenere e tradurre ciò che si è visto o, al contrario, attingere all’atlante sterminato che ci forma e che continuiamo a incrementare comunque nostro malgrado e senza sosta. Il disegno dal vero: la sua disciplina è l’esempio estremo di questo atteggiamento che non può fare a meno dell’errore e del tradimento; quello che resta sulla tela o carta o altra superficie, sarà sempre un residuo, una piccola parte del processo, resto di combustione, pietra scheggiata e sfaccettata nello scontro. L’altro punto di vista guarda al volto e si muove in esso come vero e proprio campo di battaglia e, all’interno di questo perimetro codificato, ecco che irrompe la narrazione, l’elemento incongruente o l’accadimento: che siano assalti, scavi, sovrapposizioni, inserimenti vari, schizofrenie tecniche, perdite o evoluzioni, regressioni, il volto diventa il paesaggio o meglio, la scena dell’accadimento per la sua capacità di collegare tutti i tempi e le 10

memorie e i fantasmi e gli altri volti precedenti e a venire, che ogni volto dipinto dialoga con tutti quelli già esistenti e, che lo si voglia o meno, succede che questa platea, o coro di volti e sguardi, finisca spesso per sommergerlo annichilirlo ricacciarlo indietro e giudicarlo. Questo, che piaccia o no, significa credere ancora all’inganno della pittura, a un’immagine fatta di pelli e strati e notti interne. O al disegno, insieme di tracce punti linee segni, architettura precaria nel e sul vuoto che scompone e ricompone e riedifica senza sosta il mondo e che, attraverso il suo farsi stesso, nel mentre, è capace di farci crescere attraverso una sorta di metabolismo e processo di acquisizione e ricomposizione. Che non serve qui la nostra intelligenza, anzi, la signora è di ostacolo e assai, semmai un occhio belva, animale, capace di fare rapporto, un rapporto il più dettagliato e intenso e preciso e lineare possibile. Affidato ai sensi. Una sensibilità che equivale ad ascolto, a capacità e istinto di sopravvivenza che mette all’erta il sistema nervoso. (Francis Bacon.) La maschera verrà dopo, certo, che camuffata e in varianti molte c’è sempre e non le si sfugge quasi mai; importante, per quanto improbabile, adesso, lo sforzo d’ingenuità, la sfida inutile e non produttiva. E se l’occhio è una soglia, è come se il significato del volto, la sua struttura ossea e di pelle e muscoli, l’anatomia più o meno lombrosiana o romantica che ci porta a riconoscerlo e riconoscerci, si situasse altrove, in un punto non raggiungibile, dentro, dietro, fuori, oltre. E in questo, il volto, è ancora forma inafferrabile e resistente, per quanto si cerchi di omologarlo negarlo addomesticarlo. L’acido sul volto delle donne. La cancellazione dei volti portata anche nelle fotografie, per azzerare totalmente qualsiasi identità, bisogno e libertà individuale, per poter pensare alle persone come cose. E quando il carnefice riesce a farle diventare ai suoi e nostri occhi cose, la negazione e azzeramento anche burocratico dell’individuo è completo. E a una cosa, puoi fargli davvero di tutto. Violenta densità quella del volto, possiamo più o meno raccontarla, tentare di descriverla e catturarla, di toccarla e abbracciarla tutta con lo sguardo... il nostro è sempre una specie di orientamento geografico e mappa destinata all’inesattezza. Mettere la testa nel sacco e portare via, vittoriosi, il trofeo; trofeo di sciamano che infonde forze ed energie nuove. Ferita aperta il volto in cui il mondo là fuori entra sempre; bocca e orecchie e narici e occhi le porte. Poi, la faccia, in tutto questo, oscilla e diventa vaga, come per


troppa osservazione o estrema vicinanza che la rende fluttuante, sfuocata, immensa. Le teste dei nemici rimpicciolite. Paesaggio incerto e mobile con buchi e amnesie di luce, macchie di luce bianca su grigio e marrone. Fare un volto è allora una sorta di prima linea, è la trincea, l’attacco e la difesa, l’avanzare e arretrare, il sonno, l’assedio alle mura. E questa mostra, se da un lato prova a rifare luce su di una pratica rappresentativa che non potrà mai esaurirsi, al di là di proclami o dettati che fino a pochi anni fa ne decretavano inevitabilmente la fine e/o il clamoroso ritardo, collegando modi di vedere diversi tra loro, sperimenta al tempo stesso, inevitabilmente, quell’esplosione frustrante del dettaglio che si cerca sempre, a fatica e soprattutto nel contemporaneo, di ricondurre a un insieme. In un momento in cui il volto sembra riaffiorare con nuova forza da più parti e distanze e percorsi differenti rintracciabili nella ricerca di molti artisti. Tutta la mostra è allora, idealmente e potenzialmente, un unico volto, una grande testa non finita e aperta, composta da un insieme di cellule e dettagli autosufficienti a cui tornare in ogni momento, come singole avventure e scoperte, punti della medesima costellazione. Come torniamo del resto ai volti di altre epoche che meglio ci aiutano a comprendere e orientarci nel presente, che ci servono come guida nell’intrico della foresta, mentre altri che ci parevano vitali ed eterni fino a poco fa, sono risospinti indietro, nel grande cono d’ombra dove si arenano e incagliano le navi alla deriva e gli oggetti sparsi. Che il nostro modo di guardare e guardarci cambia, e com’è logico e giusto che sia, si adatta, e il modo in cui i pittori rilanciano questa necessità o urgenza, anche drammatica, è forse ancora la bellezza, bellezza racchiusa e iscritta nel volto, volto più meno intatto e vergine, panorama in cui ancora vogliamo e possiamo perderci. E se qualcosa insomma ancora sfugge, questa mostra è la storia parziale, arbitraria e incompleta di questo desiderio, il racconto di una mancanza fatta attraverso una galleria di sguardi, teste e presenze mute che sembrano interrogarci; l’ombra tracciata sulla parete si diceva, l’ossessione dello sguardo che si sofferma e ruba nella speranza di trattenere più informazioni possibili e dati e ricordi e bagliori del volto amato, e il viso che sbiadisce, ahimè, nei labirinti della mente. Nella mostra ventotto autori rilanciano questa narrazione, chi mettendo al centro il volto, in maniera dichiarata e lampante, il

volto è la scena, contenitore e contenuto, chi velando lo sguardo quasi per pudore o delicatezza, come per una sorta di indicibilità, partendo o giungendo infine, a una condizione di perdita, sparizione e allontanamento rispetto alla densità e rumore basso continuo della faccia e maschera. Una specie di silenzio o vuoto ottenuti e raggiunti spesso attraverso la modalità della sovrapittura, ripensamenti e cancellature che sono l’esatto contrario del non finito, anche se sembrano lambirlo e avvicinarcisi negli esiti più superficiali. Il non finito che è figlio di sguardo e gesto sprezzante che decide di non portare a compimento l’immagine lasciandola aperta e incompleta. Il volto è forse, così, l’immagine culturale per eccellenza, contro natura, eppure continua pure a essere la forma dell’aspirazione e struggimento, specchio nel quale ci vediamo e riconosciamo, paesaggio infinito capace di sperderci. L’altro, il me capovolto; il conturbante e il ritorno a casa. Qual’è, dov’è risiede questo centro e gorgo che ci chiama e attira, che sembra condensare altri mille volti e memorie e forme e occhi, cosa ancora possiamo scoprire che già non sappiamo guardando un viso, cosa sempre rinnova il mistero e fa che una faccia sia sempre una sorpresa, una testa mai vista e perfetta, insieme delle parti che attraversa e contiene spazio e tempo, tutti i luoghi e i tempi e le storie. Sapienza animale inscritta nel volto e non ancora del tutto perduta pienamente, saggezza superiore rispondente a regole segrete e canoni sconosciuti capaci di annullare il pensiero e di sospenderlo come accade nel flusso mentale del pittore che si lascia attraversare e scorrere per riuscire ad ascoltare occhio e visione, solo quelli, per inseguire e guidare e assecondare la mano e mente dove ancora non sa. La pittura sembra sempre più intelligente di noi. Che forse ci vuole coraggio nel dipingere ancora un volto o, più probabilmente, è l’unica cosa che possiamo ancora fare per cercare di evitare la decorazione. E abbandonarlo, e cancellarlo anche questo volto, con assalti e morsi e pentimenti che ributtano indietro... e poi spostare l’attenzione un po’ in più in la, fuori, dietro, oltre la finestra e le foglie tremanti e trasparenti, foglie con ombre belle, verso l’orizzonte e il cielo, finalmente; quasi una sconfitta. Massimiliano Fabbri 11































Bagnacavallo Museo civico delle Cappuccine

Si comincia dal nero, un nero fertile e carico di promesse, quello che Rocco Lombardi stende sulla superficie, un nero che cala come notte per poi essere inciso e graffiato da disegno che scava e porta alla luce, con un procedimento che sta un po’ tra la x ilografia e la scultura per via di levare; disegno che non lascia spazio a ripensamenti e indecisioni se non la coltre scura a ricoprire e inghiottire di nuovo, e risospingere ancora l’immagine nell’oscurità da cui proviene. Un volto che sembra giungere dalla notte dei tempi, tremante, come se visto attraverso la luce instabile e mobile della fiamma. Il fuoco a rischiarare e illuminare la grotta, a creare aloni di luce come in visione di esploratore che si trova di fronte al ritrovamento di civiltà inseguite e perdute, e popoli e vite e facce che appaiono all’improvviso, irrompendo nel presente, e che, probabilmente, con lo spegnersi della fiaccola, sono destinate a svanire come miraggio e illusione, come se fossero incise nella materia imprendibile dei sogni. E nero è pure l’inchiostro da cui parte Denis Riva, il lievito madre che ha dentro l’ombra e permette le scoperte, ombra ancora informe che viene versata sulla carta a espandersi e formare macchie; macchie che poi generano figure e volti tanti, estratti e trovati dentro a questa instabile e mobile liquidità, pigmento sfuggente e vivo, impastato con residui e polveri e altre impurità galleggianti, e cellule e peli e microscopici frammenti di pelle e abiti che fluttuano nell’aria e poi cadono dentro, a sedimentarsi nel bicchiere,

Rocco Lombardi Denis Riva Giuliano Guatta Antonella Piroli Silvia Argiolas Rudy Cremonini Matteo Fato Francesco Bocchini Nicola Samorì Franco Pozzi

nel vaso che respira e contiene una specie di brodo biologico sempre in grado di rinnovarsi. Capace, attraverso procedimenti casuali e alchemici, di far affiorare mondi e mostri e storie che si definiscono e precisano nella pozza, nel ristagno e prosciugo e coagulo; teste come resti di combustione, tracce indurite seccate di fango fossile un tempo umido. Faccia che, come il lievito madre di cui è composta, si alimenta e ingrossa, assumendo su di sé la memoria e le cicatrici di tutte le facce precedenti, facce sorelle, preannunciandone e presagendone di nuove. Addomesticare la belva, aspettare come cacciatore la preda, per catturala e trattenerla. Un disegno questo che si imparenta alla magia primitiva e alla pittura delle caverne, allo stupore acquattato nell’ombra che suggerisce e intravede presenze e metamorfosi. Uomini e animali non ancora del tutto disgiunti. Disegno che è anche la cifra primigenia e irrinunciabile di Giuliano Guatta, un disegno sempre messo alla prova attraverso la disciplina, e che continuamente viene usato come strumento e arma per forzare e alterare il vedere; per raggiungere un grado maggiore di verità e sensibilità, ora disegno dal vero, esatto e ottenuto con matite dure che fanno il segno chiaro e metallico, ora gesto e traccia più grassa, morbida e scura, di segno che si imparenta alla ginnastica e allo sforzo fisico, un sottosforzo imposto come esercizio del corpo e della mente, condizione quasi atletica dello sguardo e dell’atto di tradurre e riportare sulla carta ciò che Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 41


si è veduto. Il disegno come mantra quotidiano per raggiungere stadi più profondi della percezione, come nei disegni presentati qui, dove il segno colorato del pastello a olio è fatto contemporaneamente dalle due mani, a creare una simmetria che riconduciamo subito al volto, volto speculare, disegno faccia in cui convivono i due emisferi del cervello, sovrapponendosi e generando un’immagine che ha a che fare anch’essa con la metamorfosi, un po’ uomo, un po’ animale, un po’ entità aliena. C’è, dentro a questi disegni, una concentrazione estrema, un atteggiamento e pratica performativa che finisce per alterare, forzare e deformare le percezioni e i sensi, disegni tattili questi, che registrano punti nello spazio e ingombri e respiri come sismografo; ci si guarda, ci si tocca, ci si muove. Tutto questo, entra e si riversa sulla carta, e il risultato è così potente da generare ambiguità sempre, e paure. C’era una volta la fedeltà al vero... Guatta sembra invocarla e chiamarla e cercarla ancora oscillando tra la grazia e il grottesco, tra la precisione dell’occhio che registra quasi oggettivo e un gesto segno che impazzisce e scarta e devia diventando furia iconoclasta, sberleffo, disturbando l’immagine e innervandola di tensioni impreviste, di nervi scossi che affiorano come terremoto. Cosa che non sembra avvenire nei disegni e autoritratti di Antonella Piroli, disegno pacificato ed esatto come da ricalco pop, precisione e asciuttezza che non lasciano spazio ad avventure del segno e altre romantiche derive; linea chiara e continua, ombre assenti. Eppure questi disegni rappresentano spesso immagini forti e spiazzanti, situazioni al limite che al contatto con la parola si accendono e innescano proiettando su di noi la loro ombra, collocandosi in una zona di confine tra l’ingenuità e la drammaticità del diario e autobiografia. Titoli parole azioni fili cuciti che addensano l’aria caricandola di significati ambigui, di molteplici sfumature narrative, dal rosa al nero e tutto bianco; disegno che è pagina e memoria, disegno messa in scena di confessioni, dettante istruzioni per azioni più o meno probabili, come se la vita fosse una specie di film da cui estrarre e isolare spezzoni e frammenti muti da replicare all’infinito. Incipit e quasi storie, possibili finali, esercizi e istruzioni di sopravvivenza. La sequenza di celle del museo delle Cappuccine, che funziona davvero come galleria labirintica di mondi, stanze private in cui affacciarsi di volta in volta, di grotte in cui sbirciare, finisce qui; ci aspetta ora una sala più grande, condivisa da cinque autori che hanno invece nella pittura il mezzo di espressione prevalente, 42

| selvatico TRE una testa che guarda

quando invece, fino a qui, era il disegno a farla da padrone. L’ultimo artista, il decimo di questa sezione, lo troveremo e incontreremo poi, più avanti, disperso, con i suoi disegni, nel tempo esploso dei quadri e autori e fantasmi. Il primo sguardo che ci accoglie e accusa è quello dell’autoritratto di tenebra di Silvia Argiolas, autoritratto maschera, con colori e tanti e saturi e acidi negli accostamenti, seminascosto in una selva intricata di piume e serpenti, di foglie e lacrime e capelli, con pennellate violente e neri a cancellare e negare il volto, viso incorniciato da crescite vegetali e notturne e stregonesche; maschera sciamanica di furia e baccante, e pittura come rito magico e primitivo; sopraggiunto a noi come da dentro a una foresta, richiamo ed eco a una selvatichezza disordinata e strabordante. Pittura scaramanzia che serve a esorcizzare incubi e a crearne di nuovi per difendersi e assaltarci. Dea madre sconosciuta che ci guarda, triste cattiva sensuale, e ci vomita addosso meravigliosi mondi, eden perduti e altri esotici flussi. A fare da controcanto a questa cascata anarchica e voluttuosa di pennellate e colori, onda violenta e profetica, ma anche colorata e felice come solo può esserlo un disegno sgrammaticato e potente di bambino o selvaggio, ci aspetta ora un dipinto che ci rituffa e ripiomba nel silenzio opprimente di uno spazio quasi vuoto, in una notte e nebbia diffusa di grigio e marrone che è deposito fangoso del tempo, sparizione delle cose e delle storie, catastrofe che sembra concretizzarsi in una sorta di sordità o impossibilità dell’occhio se non a cogliere ombre o poco più; occhio che si volge su di una quasi apocalisse della memoria, memoria lacunosa, memoria teatro in cui il fatto è già avvenuto e lontano. Nessuna spiegazione. Puro accadimento visivo. Scena del crimine o dell’abbandono. Questo di Rudy Cremonini è il ritratto assente e densissimo di una famiglia, famiglia di fiori con voragine; un tuffo nell’oscurità dove al posto di sguardi incrociati e posture e psicologie varie e abiti più o meno sgualciti o inamidati, sono rimasti solo grumosi fiori neri, anonimi e gocciolanti, abbozzati da un gesto veloce, appunto galleggiante e sospeso, vortice sensuale e carnoso come fresca ferita pulsante. Cuori petali e corolle, ammassi delicati, commoventi e fragili a testimoniare una mancanza. Equilibrio combusto, ultimo incanto prossimo a sbriciolarsi e dissolversi e disperdersi in cenere, in particelle volatili e leggere tenute ancora insieme, per un momento, dallo sguardo sentinella di un piccolo


volto, bruno anch’esso, che sta a fronte e ci guarda le spalle. Un fantasma, certo. Strano davvero come il volto sia così forte e pregante e la sua impronta nello spazio così duratura da risuonare anche in sua assenza e mancanza, come avviene, pure in modalità diverse, nei cavalieri inesistenti di Matteo Fato; l’armatura non è più bianca e immacolata, ma è un tripudio festoso e magmatico di colori e segni, una vacanza cromatica che accende di luci, sbirilucchi, vortici e scintille il freddo metallo, sinfonia infuocata e cortocircuitante che forse, per troppo dispendio di energie, si dimentica di quello che dovrebbe essere il cuore pulsante dell’immagine, volto e corpo a cui spetterebbe invece reggere la pesante impalcatura e darle senso, e sensi. Invece assenti, o avvolti in un buio amniotico, forse risucchiati dentro alla pittura, sotto il peso di casse e armature e corazze e scatole e teche museali a negare la sensuale e oscena nudità. Si narra di un cavaliere valoroso ed eroico, coraggioso, generoso e bellissimo, dipinto splendidamente con viva e sottile psicologia da un artista raffinato e sensibile... quasi una fiaba, un nudo all’antica. Da qui in avanti, divertendoci a trovare e cercare collegamenti, il metallo dell’armatura al posto della pelle, potrebbe quasi diventare un secondo tema che si affianca a quello della testa; metallo che ritroviamo e che ci orienta e guida a partire dall’archivio quasi ottocentesco ed enciclopedico, ordinato in bacheche e scansie, di Francesco Bocchini, dove fanno bella mostra di sé teste e busti in lamiera, fantocci e manichini di uno strano e improbabile emporio o negozio di sarto, automi già musealizzati e risvegliati pittoricamente da una patina colorata, dipinta a olio con grande perizia e precisione di baffi e acconciature, con riga e scriminatura tra i capelli da una parte o al centro, comunque da gran signori. Una pittura che sembra a tratti bambinesca, catalogante tipi e possibilità combinatorie, preparante rivoluzioni: capelli, orecchie, cappelli, pani, scarpe, gelati, pasticcini e altri oggetti facenti parte di una recente archeologia chincaglieria archiviata per ricostruire forse, un giorno, il mondo. Una specie di arca di Noè di tutte cose, riassunto da spedire in orbita nello spazio. Assemblaggi da costruttore che trama e ordisce meraviglie e meccanismi in soffitta, e combina le parti; le cose messe e tenute in ordine, per bene, e catalogate anche con tutti i nomi e i bigliettini giusti, a disorientarci ancor di più.

E in fondo, sull’ultima parete della sala, un muro grigionero di metallo, quello alzato da Nicola Samorì, muro che è approdo e soglia invalicabile, muro tracciato e inciso da segni e disegni perduti, tracce lasciate su parete di caverna o prigione, sulla quale, col tempo, si sono sovrapposte e avvicendate scritture, alfabeti, appunti anatomici e botanici; una parete che ci sovrasta e su cui sbattiamo, e che tentiamo di decifrare leggere tradurre ricomporre come se venuta alla luce improvvisamente da uno spazio tempo a noi estraneo e distante; stele di Rosetta che non potremo mai tradurre. Ma non è finita qui perché su questo mosaico di lastre di zinco, incise e brunite come armature rinascimentali in cui affiorano decori e graziosi ed eleganti motivi floreali e altri ornamenti cesellati, si sovrappongono ulteriori profezie e messaggi, oracoli quasi perduti, inspiegabili rituali dove il volto, diventato trofeo o reliquia, o testa inserita in un andamento e ritmo non troppo dissimile a un’iconostasi, ci viene incontro: il non più volto o il non ancora volto. Testa residuale, volto graffiato, scorticato e inciso da mano iconoclasta, testa ancora a venire e formarsi. In metamorfosi dolorosa. Al posto della faccia un buco o quasi vuoto. Cascate di materia sottile e filamentosa che si arriccia e deposita come in bottega di falegname. Tagli e incisioni. Cascami di carne e pittura. Bianco freddo e accecante di obitorio. Nero e argento. Argento e grafite, punte esatte e diamantine con cui Franco Pozzi cattura e immobilizza come insetti i suoi fantasmi, piccoli e preziosi volti, grandi come miniature: raffigurano, omaggio commosso, santi e scrittori e pittori amati, compagni altrettanto vivi e presenti che distribuisce e colloca temporaneamente tra le sale della pinacoteca, quasi a cercare una sponda, un dialogo e affinità di spirito con i dipinti presenti, con gli spettri giganti che popolano il museo; nel quale, queste presenze silenziose di luce e bava di lumaca, sembrano quasi nascondersi in una sorta di (im) probabile ritorno a casa. Teste e ritratti rimpiccioliti a tal punto da sembrare raffinati, esotici ed estrosi esercizi da wunderkammer, ritratti da viaggio e devozione intima e privata, da conservare tra le pagine di un libro, da osservare e studiare al meglio con una lente, in una relazione diretta che non può che essere quella di uno o a uno, quella del rapporto amoroso; sorpresa che si schiude poi quando scrutiamo attentamente ed entriamo attraverso la quasi invisibilità di questi volti, e ritratti che, lentamente, sembrano dilatarsi e diventare immensi e avvolgerci in un turbinio e ventosità crescente, mentre seguiamo correnti segniche e vortici un attimo prima insospettabili. Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 43


Massimo Pulini Domenico Grenci Erich Turroni Luca Piovaccari Verter Turroni Vittorio D’augusta Eldi Veizaj Silvia Idili Simone Luschi Erika Latini La mostra si apre con un dipinto di Massimo Pulini: è il profilo di un uomo, un vecchio forte e barbuto ed eroico come certi santi e profeti e filosofi della pittura antica, o atletici semidei della scultura greca, o imponente presenza e verità della ritrattistica romana. Guarda avanti a sé, anzi, gli occhi sono chiusi a guardare dentro sé, in ascolto, concentrato assorto sensibile. Un vento gli scuote e scompiglia i lunghi capelli fluenti; la pittura e il gesto lo tratteggiano velocemente, sciogliendosi e coagulandosi in un bianco nero cosmico e notturno, fatto di onde, ventosità e spuma di mare. Tra i capelli si riflette e specchia la notte, e le ciocche scarmigliate impigliano lucette e stelle e punti e filamenti luminosi come i destini rintracciabili nelle scie delle comete e costellazioni. Lucentezza e ultimo guizzo di pesciolino argenteo nella rete. Un volto rimasto sott’acqua che sembra da questa affiorare e alla condizione liquida voler tornare o tendere per via di dolce corrosione del tempo che leviga e porta via, come accade a certe statue sommerse, preservate e consunte al tempo stesso dal fondo marino. Un volto paesaggio, geografia e mappa dei moti e maree dell’anima, una termografia dei sentimenti che si incontra e ritrova con lo scavo interno della visione a raggi x , quello che permette di entrare nella pelle della pittura, nella mente e ripensamenti dell’artista, notte sulla quale Pulini ha realizzato uno dei suoi cicli più affascinanti. Visione scientifica che qui, quasi a imprendibile ossimoro, sembra permettere di scandagliare gli umori e il vissuto, e di rischiarare i recessi interiori e interni persona. 44

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Fusignano Museo civico San Rocco

Un buon inizio che ci porta direttamente a una prima sala tutta al nero, con quattro artisti che tra ombre, terre, scoloriture e perdite parziali dell’immagine sembrano voler ricondurci a una condizione primitiva, magica e ancestrale, più vicina al disegno che non alla pittura, con volti fossili che sembrano fatti di fango, carbone e sangue ormai ossidato marrone. I volti liquidi, corrosi e sbiaditi dal tempo di Domenico Grenci, sempre in bilico tra affioramento e sparizione, come per effetto di luce che slava e brucia qua e là l’immagine, facendo l’aria secca e le cose aride, aggredendo inevitabilmente le cose che resistono a fatica al degrado, perdendo strati e cellule e sfumature belle d’incarnato. Che i colori sono i primi destinati a quest’oblio e non resistono all’assedio lento, umido e costante del tempo e del ricordo, sparendo presto, asciugandosi e lasciando il posto ad altre tonalità, varianti sensibili dell’ocra e bitume, catrame di barche e legno bagnato, muschi e licheni. Superficie di vecchia fotografia, solcata come campo di battaglia da screpolature e crateri, da muffe e aloni che si allargano sempre più. Che questi grandi volti di donna testimoniano su sé stessi il residuo, la sparizione possibile e l’effetto del tempo sulla visione, attraverso il ricorso a un uso sapiente del non finito; ritratti commoventi che sembrano contrastare queste lacune ingiallenti che tentano di ricacciarli indietro, nel nulla. Il tempo è lo specchio e il riflesso di questi volti, non


credo guardino noi. E non c’è rassegnazione, ma struggimento dolcissimo di vanitas. Persona. Qualcosa di molto simile accade anche in Erich Turroni anche se il volto che estrae dal suo processo quasi alchemico è più anonimo, una testa si direbbe, più che un ritratto specifico o una persona in particolare, una certa idea di uomo; e l’immagine, che sembra anch’essa poter subire e formarsi attraverso un analogo processo di degradazione progressiva, come quello visto precedentemente, è qui immobilizzata e protetta dallo sguardo e da altri fattori degenerativi grazie a un sottile e semitrasparente bagno di resina, da una specie di ambra che copre e avvolge e custodisce il volto quasi intatto come se si trattasse di un ritrovamento, impedendogli ulteriori mobilità, spostamenti e mutazioni. Uno schermo lattiginoso e opalescente che serve forse a protegge il volto dai nostri sguardi e respiri, esperimento in vitro che ci permette di osservare forme di vita simili, senza rischi di contagi o contatti; e che preserva il volto, racchiuso sotto questa lastra e bagno, dall’aria e nostro respiro che lo potrebbero far svanire e asciugare e disperdere nel presente. Durevole invece, come corpo e mummia ritrovata tra i ghiacciai montuosi. E sugli altri due lati di questa stanza, a guardarsi vicendevolmente, i piccoli e intensi volti disegnati con il carboncino da Luca Piovaccari, ritratti che, pur se disegnati, sembrano calati e immersi in una condizione quasi dagherrotipica dell’immagine, lastra su cui si palesano fragili e delicati fantasmi, buchi scuri, con l’unico punto bianco circoscritto all’occhio a farne presenza vespertina e luciferina, accennante a ghigni e smorfie lievi. E Verter Turroni che, a partire da una superficie catramosa che scopre e fruga e indaga come paesaggio e ferita, trova su questa, tracce e ombre, intuisce volti fossili e impronte e presenze antropomorfe iscritte dentro, sotto a questo panorama archeologico, arido e desertico. Una parete di grotta, su cui tornano a galla, come per strani effetti di umidità che risale il tempo e le profondità, echi e silenziosi richiami a precedenti abitanti, testimonianze mute di altre genti, macchie che significano vita. Prima di passare nell’altra grande stanza, che è di temperatura esattamente opposta a questa appena incontrata, fatta di notti e fantasmi e patine del tempo a scurire e inspessire la visione, attraversiamo un ambiente intermedio, una camera più piccola dove

i volti e le facce dipinte da Vittorio d’Augusta fanno anche da collante tra le due sale, nel senso che hanno dentro diversi e tanti segni e modi di vedere e gesti molti che possiamo rintracciare anche altrove, prima e dopo, in lavori all’apparenza distanti. Che questa è una stanza della pittura pura, del piacere e gusto della pittura, che significa giocosità e leggerezza, coraggio e scoperte e sperimentazioni continue, e dialogo non intimorito con la storia dell’arte tutta e un dipingere che, non si capisce bene come, ma non è poi del resto così importante, è ancora capace di ingenuità e candori quasi bambineschi, di una vitalità che naturalmente non esclude passaggi e affondi drammatici, ma che non si chiude mai, a priori, strade e possibilità, vie maestre e sentieri secondari, accelerazioni e ritorni anche nei confronti dei propri cicli precedenti e lontani. Pittura che non teme il divagare, anzi. E una grande capacità, questa davvero rara, di capire o sentire quando l’immagine funziona, di fermare in tempo il pennello, e la mano, evitando facili compiacimenti. Che le cose si vedono comunque e meglio nel contrasto, e allora, tornando ai due netti e differenti umori di questa sezione, abbiamo una stanza che possiamo definire, semplificando un po’, del nero e ombra, e un’altra del colore, così come del resto il volto notturno di Pulini in apertura, si incontra, nella distanza, con quelli appena veduti di d’Augusta. Le visionarie di Silvia Idili sono ritratti di donne dipinti prevalentemente con i toni del grigio, un grigio non troppo contrastato e seppiato che è quello delle immagini novecentesche a cui rimanda questa galleria di volti senza nome, volti rispondenti a tutti i canoni e requisiti del ritratto fotografico di un’epoca precisa, quello delle attrici e dive del cinema che si riversa poi nell’anonimato di mille altre donne fotografate, raffigurate e colte nelle medesime pose e inclinazioni della testa e acconciature e luci morbide soffuse. Condizione di apparente normalità, grigio e muto anonimato sul quale Silvia gioca irrompendo con sfasature del racconto, deviazioni e intrusioni un po’ crudeli a cambiare di segno all’immagine, a tramare e capovolgere destini: donne giganti, facce montagne e architetture sulle quali sono stesi panni colorati ad asciugare al vento che li muove, visi che, non si sa come e perché, si sono intrufolati in un minuscolo teatrino dei burattini; eppure, sono dipinte su tavolette abbastanza piccole. Dai loro occhi esplodono e partono e irradiano forme variopinte, cascate di stelle filanti e nastri colorati, fuochi d’artificio e agglomerati geometrici che ricordano la conformazione e crescita del cristallo, strutture più o Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 45


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meno effimere e precarie che contrastano con il viso, prima di tutto cromaticamente, e poi per dimensioni e rapporti e, infine, per estraniamento anche, come se il volto fosse massa inerte, faccia di enorme statua di cemento e senza vita di cui la rivoluzione e primavera si sono appropriate. Siamo poi certi di quest’aridità e inverno? Che questi volti sembrano mostrarci, magicamente, la loro visione interna, ciò che essi vedono o sentono o immaginano o ricordano o desiderano, o quello che i popoli proiettano su di loro; al tempo stesso, queste forme colorate e geometriche che si sovrappongono ai volti occultandoceli parzialmente, ci impediscono a pieno la visione, la complicano e la rimandano altrove rendendola più intrigante, sottoponendo, noi e il volto dipinto, a una doppia tensione o contraddizione che fatichiamo a definire e mettere a fuoco; c’è un insolito e ironico sguardo iconoclasta che si concretizza nella messa in scena di un intervento smaccatamente posticcio, quasi dada e, al tempo stesso estremamente credibile, che deturpa solo lievemente e che però cambia decisamente di senso al ritratto; e che, con un capogiro, sembra permettere di vedere meglio, a noi e al viso stesso che intuiamo dietro la tenda svolazzante.

E poi Simone Luschi, e una volta ancora ritroviamo la quasi poetica del frammento, il rischio di perdersi nel dettaglio, con tentativo sempre, di ricomposizione, decifrazione e chiusura di questa babele intricata di linee e colori e forme geometriche e incastri combinatori tra tutti questi elementi, specie di alfabeto infinito di cellule e molecole e scarti e frammenti del mondo, ricondotti e tenuti insieme a formare e suggerire una testa; testa architettura fatta di assemblaggio più o meno precario che si imparenta al collage, qui, in una sorta di polifonia o concerto a più voci: il recupero di materiali che sembrano dare il là al lavoro, il disegno e la pittura, la tecnica mista come pratica anarchica di attraversamento, congiunzione e ricostruzione di mondi. Faccia scatola, faccia maschera.

Stessa impostazione di partenza, per certi versi, quella di Eldi Veizaj, anch’egli si volge a fantasmi, anche se si direbbe siano più antichi, provenienti come sembra dalla storia dell’arte, fantasmi che popolano i musei e che sembrano uscire e prendere vita come in un’arca russa; ma è successo qualcosa che sembra ostacolare questo sogno ad occhi aperti, e il processo di trasfusione dal quadro alla vita ha rilevato e subito sostanziali perdite: restano solo tracce sparse, labili segni e bave e impronte del volto quasi da sindone, o di frottage bambinesco che registra, strofinando un pastello, le ruvidità e le sporgenze delle cose, la te x ture della pelle e la struttura ossea. Che questi disegni sono impronte del volto, verrebbe quasi da dire dell’anima, come accadeva nel velo della Veronica, viso che resta impresso per contatto e sfregamento. Disegno che registra i rilievi e i picchi del ricordo, che lotta incessantemente contro la perdita e per questo dissemina di indizi e dettagli sparsi e fluttuanti l’immagine, deriva di segni contenuta e trattenuta nel perimetro esatto del volto, volto lago in

E per chiudere questo secondo percorso si scende infine al piano terra, dentro al museo di targhe devozionali che accoglie e ospita i ritratti di amici e conoscenti fatti con il filo e il cucito da Erika Latini, filo che talvolta compare anche nei lavori di Simone Luschi; racconti intimi del volto e della relazione che si instaura con il soggetto ritratto, ma anche immagine e scrittura nel tempo, un tempo lento che è quello del disegno con il filo, del cucire, mezzo artigianale e domestico che si imparenta alla preghiera, e al rovesciare e tramare mondi, cambiando ancora il punto di vista a una pratica, prima relegata alla quotidianità privata e domestica del mondo femminile, ora strumento usato da più parti come linguaggio vitale e arma contemporanea; e che qui trova un corrispettivo ulteriore nelle immagini di santi e madonne, nate anch’esse come esemplari per una devozione privata, per un senso religioso che si imparenta talvolta al pagano e animismo, alle stagioni e alla natura, qualcosa di abbastanza diverso dalla chiesa e liturgie più uffciali.

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cui galleggiano tracce, macchie e sedimenti; e Eldi che sembra quasi cercare una nostra collaborazione nella speranza di riuscire a ricomporre il viso perduto, somiglianza intuita attraverso alcuni i dettagli che emergono e affiorano più chiaramente: un’acconciatura o onda giovane dei capelli, la curva morbida di una mascella, la linea sinuosa del collo, un occhio che guarda, ancora.


Cotignola Museo civico Luigi Varoli

Il grigio è la temperatura, la condizione pompeiana che sembra sommerge e fissare molte delle teste dipinte di questa sezione, come se il grigio fosse l’approdo inevitabile di un discorso su e intorno al volto, un grigio infinito e sensibile che si sfuma e impasta in mille toni e variazioni, che oscilla tra polveri, nebbie, specchi e superfici metalliche, tra pietra e cenere. Come nelle sovrapitture, cancellature e ripensamenti che minano e mettono in discussione la visione di Lorenzo di Lucido, visione che si traduce in immagini instabili, fondate su secondi sguardi che ne negano progressivamente porzioni, a restituirci un volto nuvola, con amnesie dentro e fuori ad assediarlo. Pratica che sembra interrompere e spezzettare la narrazione, e arrotolare il tempo, a complicare la figura e farla esplodere in frammenti e lacerti alla deriva, con galleggiamenti e ristagni sparsi sulla tela. Sovrapitture spesso fatte con il bianco, ma che si portano e trascinano a galla polveri e parti di quel che sta sotto, impastandosi nuovamente di materie non ancora del tutto fissate; pittura che andrebbe guardata, se fosse possibile, in trasparenza, spellandola e scorticandola, per un viaggio geologico nel tempo e nello spazio, giù in profondità, sotto, scendendo e ripercorrendo a ritroso il sovrapporsi di sguardi e strati e veli dipinti. Così come grigi sono i volti di Giovanni Blanco, anche se di un grigio sbiadito e sottile che sembra frantumarsi e parcellizzarsi in miriadi di preziosi e fragili frammenti microscopici di pittura, molecole dipinte che stanno per slegarsi, sgretolarsi e disperdersi nel vento, destinate a ritornare sabbia a contatto con l’aria. Un grigio ottenuto da procedimenti opposti rispetto a quelli di Di Lucido, là

Luca Coser Lorenzo Di Lucido Giovanni Blanco Massimiliano Fabbri Jacopo Casadei Martina Roberts Filippo Tappi Olivia Marani raggiunto per strati e spessori sovrapposti di materia, qui invece rimasto da scavo e asportazione che lasciano tracce e residui minimi sulla superficie: volti spesso estratti da un procedimento a monotipo, contatto e pressione anche ripetute, che costringono l’immagine ad assottigliarsi e trattenere solo l’indispensabile e originario, ultima traccia e impronta di somiglianza, confine e margine sottile prima della sparizione. Viso sull’orlo del baratro, sempre. Un passaggio di troppo che significherebbe ritrovarsi a guardare un quasi nulla o, al contrario, paura che porta a fermarsi prima del rischio imminente, che equivale a ridondanza; ecco, in questo spazio esiguo e incerto tra volto e non più volto, si trova forse l’imprendibile esattezza e verosimiglianza. Che non ci può essere metodo e sempre si rischia il fallimento, e ogni volta è lotta, e stupore talvolta. Affidarsi a una meccanica allora, come se questa potesse infondere al processo un che di oggettivo o parzialmente prevedibile e governabile: rulli tra cui stritolare e passare il viso ritratto, a testarne possibilità e durata, a trattenere solo quel che, proprio perché resistente, è buono e utile e significativo e bello; residuo ancora una volta, sindone e veronica, sguardo archeologico che si volge al presente, come bifronte. Sulla carta, resta impresso l’ectoplasma, il ricordo dell’immagine che è già perdita e mancanza. Grigio che in Luca Coser si stempera e scivola via sulla superficie metallica che liscia non facilita l’aggrapparsi della materia, a favore di una luce che si scioglie e riflette in trasparenze, pozze e aloni, macchie bianche espanse e velature; in coperture che sembrano di neve e occultano parzialmente, e proteggono e preIl buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 47


servano le cose e gli sguardi. E da questa specie di coltre invernale, dalle amnesie e lacune dell’immagine dipinta, bagnata da una nebbia lattiginosa che tende al silenzio e dilatarsi dello spazio per farsi imprendibile monocromo, affiorano poi indizi e colori e forme che, forse per reggere questa sorta di grado zero e freddo atmosferico, si riducono a sagoma, a perimetro e silhouette, a proiezioni; stratagemmi ed espedienti di sopravvivenza per evitare la dispersione di calore e vita. Economia di corpi che si traduce in economia di gesti e cose. Così, come in pellicola cinematografica esposta al sole e bruciata in alcuni punti da troppa luce, ci troviamo al cospetto di storie incomplete, narrazioni perdute o ancora da compiersi, inspiegabili rebus da risolvere cucendo gli strappi, le ferite e i buchi del tempo e della pelle pittorica, congiungendo punti e quasi indizi disseminati sulla superficie. E in questa incertezza vaga e stadio intermedio di figure e paesaggio che slittano e si confondono vicendevolmente, possiamo finalmente fidarci e affidarci a ciò che vediamo, e farci portare via dall’immagine, pura, che è cifra di questi dipinti non finiti, come abbandonati misteriosamente prima del tempo. Le parole, e i tentativi di comprensione, o orientamento, non servono più, che questo è racconto del mondo affidato al solo sentire dell’occhio, sguardo che sorvola e disegna geografie e mappe, che congiunge e collega ombre e architetture, geometrie e minerali, andamenti vegetali e panorami e pezzi, come in un grande collage e teatro della memoria. E storie sono forse anche quelle di Massimiliano Fabbri, non tanto per un tentativo di narrazione implicito e iscritto nel volto, quanto piuttosto per l’impigliarsi e aprirsi di pieghe del tempo nelle molte stratificazioni di una pittura che si imparenta al disegno, disciplina senza memoria che continuamente sovrappone e aggiunge e riprende e sommerge l’immagine, e i suoi umori, nel tentativo di aggiustare e precisare la visione, di spingerla un po’ più in là. Tensione all’esattezza e precisione che altera e tradisce, avanzando e indietreggiando senza sosta nel processo ostinato e testardo di avvicinamento alla testa. La linea che cerca costantemente di ridefinire i contorni inseguendo il mutare dei modi di vedere e dei ripensamenti, il grigio a stratificarsi e formarsi impastandosi nel residuo di colore e tempo sedimentato sulla tavolozza, tonalità incerta che copre quel che sta sotto, dietro; pittura perduta, pittura ritrovata. Cercare di bloccare l’immagine, comunque, anche fino a cancellarla, e rifarla incessantemente in un processo che, da e su questa perdita, si basa, e che riparte ogni volta da queste rovine e macerie sepolte. E un allestimento 48

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come quadreria che tiene insieme questo tempo espanso di visioni e giorni, a cercare collegamenti più o meno segreti o imprevisti, e rimpalli e congiunzioni e slittamenti tra i volti e gli sguardi, quasi a sovrapporli e infondere loro movimento, e ulteriori possibilità. Salendo al museo, dove sono raccolte le produzioni di Luigi Varoli, la presenza di due artisti molto differenti tra loro sembra voler sottolineare e seguire come possibili piste binarie le due anime o direzioni interne della pittura del maestro cotignolese: una, costruita su di una tessitura veloce fatta di pennellate nervose e quasi stenografate, con colore terroso e pennello scarico a lasciare segni e buchi scoperti che fanno le immagini vibranti e non finite come impressioni fugaci o ricordi; l’altro che si posa sui volti con maggior precisione, ritratti che sono spesso testimonianza empatica di affetti familiari, amicizie, amori e persone care, viste e trattenute con intimo calore e velocità abbozzata e intensa a cui non sfuggono tracce di questa relazione commovente, quasi a creare un archivio e diario quotidiano degli sguardi. In Jacopo Casadei il volto è disperso nei suoi elementi e parti, esploso in direzioni e distanze siderali, in favore di immagini all’apparenza astratte e informali, dense e magmatiche come galassie, attiranti e calamitanti come buchi neri; finestre ottenute da una pittura che sembra casuale appunto, residuo di tavolozza e pennellata soprappensiero. E forse, questo benedetto volto, nemmeno c’è, e sbagliamo a cercarlo dentro a questa visione microscopica e, al tempo stesso, vasta come spazio astrale; e pittura che è labirinto e cortocircuitante inganno, trabocchetto che ci porta a ricercare momentanei approdi, ad ancorarci e aggrapparci a fisionomie intraviste, a ricomporre a fatica la faccia alla deriva, partendo da quello che ci sembra un sopracciglio fluttuante, inseguendo una pennellata aderente a un profilo, catturati da un gesto come di fiamma che è ciocca e onda di capelli. Un volto come paesaggio, non finito. E Martina Roberts che, al contrario, si muove sicura e fluida su di una pittura distesa e lineare, fatta di velature leggere e colore piatto steso per campiture; figurazione che oscilla e danza tra sintesi e decorazione, tra descrizione minuziosa e quella che a primo acchito può sembrare urgenza e rapidità bambinesca, quando invece è, più probabilmente, rarefazione lenta e malinconica distillazione del tempo e del ricordo. Non più magmi e lave e grumi e bave filamentose di colore, ma pennellate esatte e quasi di sapore


orientale per il silenzio e movimento che riescono a imprimere e trattenere sulla tela. E un autoritratto come visto attraverso uno specchio d’acqua, notturno, appena mosso e increspato, lievemente deformato, e tutto si sposta e ondeggia dolcemente, bosco compreso, cullandoci in una sottile inquietudine e mistero che pervade e scuote l’immagine. Tutto concentrato e riflesso negli occhi fissi immobili che ci guardano, chiamano e oltrepassano. L’ultima tappa di questo percorso ci porta a casa Varoli, dove Filippo Tappi e Olivia Marani, come di fronte a uno specchio, dialogano con le molte facce e maschere e sguardi e fantasmi che popolano la casa dell’artista. Una volta ancora, il contrasto ricercato tra due autori affiancati, è abbastanza lampante e dissonante, eppure, all’interno del museo, entrambi trovano sponde ed echi e riflessi con ciò che li circonda, amplificando per empatia e affinità le presenze della casa e gli sguardi trattenuti nelle loro carte. Quello di Filippo Tappi è un disegno che serve a vedere meglio, processo faticoso di comprensione e crescita che si riversa sulla carta e scuote il sistema nervoso, disciplina e atto che non fanno sconti. Sul volto che resta impigliato e tracciato sulla superficie, come nido e architettura non finita, composta da una miriade brulicante di segni e tratti e punti che si muovono nella piccola testa come traiettorie di insetti in un sacco, si scarica un peso specifico insospettato che sembra indurire il volto fino a ridurlo a nucleo o sasso, imparentandolo con la scultura. Concentrazione possibile ancora di mutazioni, occhio che, nel tentativo di restituire ciò che vede, non può che tradire e deformare. Aderire alla

visione che apre e schiude ad altri mondi e dimensioni, sempre alterate dall’ossessione che scava, e fisiognomiche all’apparenza spaventose, quasi involontarie, già dentro la conformazione e le possibilità anatomiche del volto e che, solitamente, tendiamo a non vedere; deformazione violenta e insidiosa, che ci arriva in faccia come pugno, come di fronte a uno specchio inatteso o grazie ai sensi resi particolarmente sensibili o alterati dalla stanchezza. Problematicità dello sguardo e rappresentazione, e crescita tumorale dell’immagine. Olivia Marani parte invece da immagini del volto già esistenti, da un suo personale archivio e atlante che passa attraverso il filtro e procedimento di scelta, cattura e registrazione all’apparenza più oggettivo, quello rappresentato del mezzo fotografico; lente che permette la giusta distanza, proprio per sfuggire alle deformazioni e imprevisti non produttivi del disegno dal vero e occhio più mano. Matrice fotografica che viene poi trasferita sulla carta, ibridandosi e imbastardendosi con il disegno, attraverso un bagno minerale e battesimale di grafite, con una pratica molto simile, concettualmente, a quello che avviene quando facciamo un calco di un volto con il gesso o lattice. Disegno che prende e trasferisce su di sé quindi, quasi per osmosi e alchemicamente, l’impronta della persona, e faccia che attraversa più passaggi e tempi, che sono registro e archivio che sembra già inglobare, in questo processo di transfer, un discorso sulla distanza e ricordo. Sul fantasma che combacia e coincide con l’immagine ottenuta; e ritratto che subisce tutti i logorii e i piccoli sfregi del tempo, e luce e muffe e umidità. E carezze.

Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 49


Yanomamo, child 2014, acrilico su plexiglass, 40 x 50 cm Julia Hill, earth activist 2014, acrilico su plexiglass, 40 x 50 cm

Rocco Lombardi

nasce nel 1973 a Formia. È illustratore e fumettista e predilige evocare le figure partendo dal nero, così per il suo Alberico come per Campana per arrivare all’antologico bestiario Fieranera. Con Marina Girardi anima Nomadisegni, un progetto di storie e disegni ispirato al paesaggio. www.lalberosfregiato.blogspot.com I miei ritratti sono strati di rughe. Sono costretto a scavare, più incrocio i solchi più diventa difficile tornare indietro. Ho messo insieme nove personaggi, sei dei quali hanno nome e cognome e più di qualcuno potrebbe conoscerli. Gli altri tre personaggi sono sconosciuti ma rappresentano l’essenza stessa della vita degli altri sei. Ora mi restano tra le mani i trucioli del nero che ho tirato via rischiando che la luce non lasciasse niente di riconoscibile... 50

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Denis Riva

Teste dopo il fuoco, detto Deriva, ha esplorato a fondo il Ganzamonio, sua terra di origine, usandolo come atomizzatore 2014, china, pastello e lievito madre su carta, di idee. Perennemente impegnato nella propria ricerca personale, adora sperimentare e fondere cm 30 x 30 tecniche artistiche diverse. Deriva lavora con la precisione dello scienziato, la semplicità del bambino e la produttività della formica, affidandosi anche all’intervento del caso. Riporta l’equilibrio nel caos degli elementi, o lo sconvolge Teste infuocate, teste infuocate, teste infuocate! provocando reazioni imprevedibili, in un’oscillazione continua tra ironia e riflessione profonda. Addentrarsi nel Ganzamonio non è un’impresa semplice, date le dimensioni e la varietà della Teste sacre, teste di roccia, teste carbonizzate. produzione dal 1997 ad oggi, ma chi ne avrà il coraggio o l’interesse sappia che ne trarrà sicuramente beneficio. Restano soltanto i buchi. Nato nel 1979 a Cento ( FE ), vive e lavora a Follina ( TV ) www.denisriva.com

Dopo. Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 51


Giuliano Guatta

Nato nel 1967, a San Felice del Benaco (Bs) vive a Birbesi di Guidizzolo (Mn) Dal blog DOPPIO ZERO Sull’atelier. Dialogo tra Yves e John Berger

Emmanuel Sempre in “Passi verso una piccola teoria del visibile” scrivi che dipingere è un’affermazione dell’esistente, “Del mondo fisico nel quale l’umanità è gettata”. Ho l’impressione che questo esistente finisca sempre per assumere l’aspetto di un volto, che il pittore cerca di captare un viso dietro qualsiasi oggetto. Yves È molto giusto. In generale è difficile sapere quando una tela è compiuta. Per me lo è quando comincia a guardarmi, quando comincio ad avvertire la presenza di un viso che mi osserva. E hai ragione, lo si può provare davanti al volto di una persona, ma anche davanti a un fiore, una montagna o una tela di Rothko. John Non hai la sensazione di cercare uno sguardo quando cominci un dipinto? Anche se non sei sicuro di riconoscerlo? 52

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Oscillante di viso sfacciato, cm 70 x 50, pastelli a olio su carta, 2014, courtesy D406, Modena – Antonio Colombo Arte Contemporanea Milano Oscillante di viso sfacciato, cm 50 x 35 pastelli a olio su carta, 2014 courtesy D406, Modena – Antonio Colombo Arte Contemporanea Milano


Antonella Piroli

nata nel 1966 vive a Ravenna Tornano leggere a me Una folata improvvisa di vento e le orecchie mi volano via. Si uniscono insieme, formando le ali di una farfalla. Impietrita, le seguo con lo sguardo nel loro volo. In un istante diventano un punto tremolante nel cielo. Accelero il passo per cercare di raggiungerle: “Accelerometro!” avverto gli altri che sono con me, chiedendomi mentalmente perché mai ho detto così. Mi fermo infine a riprendere fiato, con le lacrime agli occhi, mentre mi sembra che le parole in testa si stiano mescolando tra loro, impazzite. “Dove sono le mieore?” “Mierda recchie?” “Là! Vorticolassero!” “Ehi voi, spennacolatemi!” Le vedo volare sotto una grande betulla che accoglie un geroglifico di passerotti. Mimetizzate tra loro, come una farfalla posata su un ramo, eccole là le fuggitive, accolte con indifferenza dal congestionato coro di pennuti. Per un momento, cerco di immedesimarmi totalmente in loro. Devo immaginare tutto il mio essere come un flusso che esce da me, svuotata, per dirigersi verso le orecchie. In un attimo, ecco, ci sono. Sono sul ramo. E posso vedere me stessa ai piedi dell’albero, intenta a guardarmi. Cambio ripido di prospettiva che si ripercuote sulla coscienza dell’essere: sono un’indocile farfallecchia. Muovo appena le ali solo quando sono sul punto di perdere l’equilibrio. I cinguettii, da qui, tagliano come vetri rotti. Cerco di isolarmi un po’ascoltando dei piccoli gruppi per volta. E allora, così come in mezzo ad una folla di persone spesso mi sorprendo a catturare, dal brusio, frammenti di dialoghi, conversazioni isolate che trasformano l’ascoltare in una forma inesorabile e golosa di voyeurismo, allo stesso modo mi rendo conto che comincio a rubare i discorsi degli uccelli. Sono discorsi fatti di ritmo. Ho per la prima volta l’impressione che gli uccelli lascino cadere i cinguettii nel vuoto al preciso scopo di toccarne la profondità. Mi sembra per un attimo che nessun uomo sulla terra abbia mai detto niente di più importante di questo bucare. Rivolgo ora il mio sguardo farfallesco verso la me stessa che avevo temporaneamente abbandonata a favore di orecchialla: laggiù sul prato, assopita, molle, con il corpo un po’ all’ombra delle foglie, un po’ al sole. Immagino di poter osservare i suoimiei pensieri del momento, come se stessi guardando un’ estranea che si è addormentata in un parco. L’interno della testa lo vedo come un alveare ricoperto di fango. E dentro c’è un’ ape, che cerca di uscire, aprendosi un pertugio in cima alla testa. Vola via. Ora decido di abbandonare il punto di vista delle orecchie, per tornare definitivamente alla sensazione di essere me. Percepisco allora chiaramente quest’apertura del cranio, attraverso cui entra il sole, rendendo tutto il corpo traslucente, come carta. Non sento nessun desiderio di muovermi. Mi sento letteralmente pensata dal sole, il cui calore cresce poco a poco, e ingrossa un fiume dorato che mi trascina dentro un sogno, mentre le orecchie, come due foglioline, si lasciano finalmente cadere dall’albero e tornano leggere a me. Francesca Proia, dedicato ad Antonella e ai suoi lavori

Subtle dissociation, 2014, matita, acquarello e cristalli di plastica su carta, cm 70X100 Seal ratio, 2014, matita, acrilico e cristalli di plastica su carta, cm 70X100 Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 53


Self-portrait with tears, 2014, acrilico e smalto su tavola, 39 x 50 cm, courtesy: AmC Collezione Coppola

Silvia Argiolas

Nata a Cagliari nel 1977 vive e lavora a Milano Il lavoro di Silvia Argiolas si configura, da sempre, come una metabolizzazione pittorica del suo vissuto psicologico ed emotivo, attraverso la reiterazione ossessiva di figure autoreferenziali e autobiografiche. Metamorfiche trasfigurazioni di un corpo martirizzato dalle vicende esistenziali, gli autoritratti dell’artista assumono, di volta in volta, le sembianze di personaggi archetipici, come madonne, madri, amanti, vittime e carnefici di una commedia di quotidiani orrori e infernali delizie. Anche il paesaggio, costellato di striature dai colori chimici, e popolato d’alberi quasi liquidi e gocciolanti, contribuisce a esasperare la temperie emotiva dei suoi dipinti, enfatizzando il clima di strisciante inquietudine, che è, in fondo, uno dei marchi distintivi del suo stile. Ivan Quaroni 54

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Senza titolo, 2014, tecnica mista su tavola, 30 x 40 cm, courtesy: AmC Collezione Coppola


Famiglia di fiori, 2014, olio su lino, 190 x 160 cm

Rudy Cremonini

Nato nel 1981 a Bologna, dove vive e lavora. …quando l’immagine ha una sua autonomia nella realtà, quando ha un senso di verità non è più solo immagine. Ha un’identità, uno spazio fisico oltre la tela, una presenza che altre immagini non hanno. Come avere un ospite o ritrovare un amico. Immagini courtesy Galleria L’Ariete Arte Contemporanea.

In front of 2013, olio su tela, 120 x 160 cm Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 55


Nudo all’antica (1) 2014, olio su lino, cassa da trasporto in multistrato, 127 x 103 cm, courtesy dell’artista foto Matteo Fato

Nudo all’antica (2) 2014, olio su lino, cassa da trasporto in multistrato, 50 x 40 cm, courtesy dell’artista foto Matteo Fato

Matteo Fato

È nato a Pescara (Italia), nel 1979, dove attualmente vive e lavora Il volto è l’essere irreparabilmente esposto dell’uomo e, insieme, il suo restare nascosto proprio in quest’ apertura. E il volto è il solo luogo della comunità, l’unica città possibile. Poichè ciò che, in ogni singolo, apre al politico, è la tragicommedia della verità in cui egli cade già sempre e di cui deve venire a capo. Ciò che il volto espone e rivela non è qualcosa 56

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che possa essere formulato in questa o quella proposizione significante e non è neppure un segreto destinato a restare per sempre incomunicabile. La rivelazione del volto è rivelazione del linguaggio stesso. Essa non ha, perciò, alcun contenuto reale, non dice il vero su questo o quello stato d’animo o di fatto, su questo o quell’ aspetto dell’uomo o del mondo: è soltanto apertura, soltanto comunicabilità. Camminare nella luce del volto significa essere questa apertura, patirla.

Il volto non coincide col viso. Dovunque qualcosa giunge all’esposizione e tenta di afferrare il proprio essere esposto, dovunque un essere che appare sprofonda nell’apparenza e deve venirne a capo, si ha un volto. (Così l’arte può dare un volto anche a un oggetto inanimato, a una natura morta…) Estratti da Giorgio Agamben, “Il volto”, da “Mezzi senza fine - note sulla politica” Torino: Bollati Boringhieri, 1996


Francesco Bocchini Nato a Cesena nel 1969, vive e lavora a Gambettola

Domatore Alfabetico, 2005, installazione di 176 elementi, struttura di ferro, lamiera e colore a olio, 600 x 35 x 280 cm

Mi chiedo cosa sia una testa! È un punto tanto definito quanto il più vago possibile, è l’abisso, l’origine di ogni fraintendimento e allo stesso tempo di ogni chiarezza, è l’enigma che non ha soluzione è il centro di ogni conciliazione ed è la sede di ogni conflitto. È lo sfintere di Dio nella grandezza del uomo.

Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 57


Nicola Samorì

Nato a Forlì nel 1977. Vive a Bagnacavallo Il volto è ciò che si sporge verso di noi nudo, indifeso, inerme, e che è, per questo, sacro. Samorì muove contro questa sacertà, oppure la porta al suo senso opposto che pure è contenuto nel suo significato. Sacro è ciò che è intoccabile, ma al tempo stesso secrabile, e dunque uccidibile, come ha detto Agamben in Homo sacer. Franco Rella Provavo orrore a vedere dal di dentro un volto, ma ancora di più temevo di levare gli occhi su una testa piagata a nudo, senza volto. Rainer Maria Rilke I quaderni di Malte Laurids Brigge Al centro del quadro occidentale c’è un volto che ci fissa, anche quando gli occhi sono scomparsi e la testa è stata scacciata. Uno specchio continua a guardarci quando il mercurio è finito.

Erupted Smile, 2014, olio su tavola, 31 x 21 cm

Senza titolo, 2014, olio su tavola, 50 x 50 cm 58

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Calor bianco (Orsola), 2009, punta d’argento su carta, mm 27 x 23

Franco Pozzi,

Nato nel 1966. Vive a Rimini. Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto. J. L. Borges Vedere è chiudere gli occhi. Calor bianco (Teresa), 2009, punta d’argento su carta, mm 27 x 23

Wols

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Ippocampo, 2014, smalto su laminato, cm 115 x 100

Massimo Pulini Nato a Cesena nel 1958

Scissura limbica, 2008, resina, cm 100 x 90

Dopo aver frequentato visi e teste per più di trent’anni ora dipingo meduse e visioni subacquee. Così, nel ritornare sui miei passi, ho pensato a un volto d’acqua. Il cervello poi è molle come una medusa e l’Ippocampo è la sua parte radicale, depositaria dei processi legati alla memoria di lungo termine. 60

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Bradamante, 2014, bitume e carboncino su tela,120 x 180 cm

Marine, 2014, bitume, sanguigna e carboncini su tela, 152 x 240 cm

Visage en noir Sophie, 2013, bitume e carboncino su tela, 71 x 101 cm

Domenico Grenci Nasce nel 1981 ad Ardore RC. Vive e lavora a Bologna. Udiamo l’indicibile,contempliamo l’invisibile Okakura Il Volto fa parte dell’anatomia dell’essere umano ed in quanto tale ha a che fare con l’umanità tutta ma è anche parte di quella sacralità del corpo che si identifica con il concetto di trascendenza, esso è venerazione, compassione, amore, distruzione. Il Volto è in qualche modo un simbolo che più di altri congiunge due mondi, una soglia sulla quale l’uomo intravede se, l’altro da se, l’opposto ed il simile. L’impossibilità di afferrarne la totalità del senso, poiché il Volto muta col mutare dell’uomo, crea personalmente una costante, ossessiva attrazione. Ecco che la possibilità di dipingere volti, nella totalità femminili, si tramuta in esigenza. Il femminile viene da me preso come pretesto per una analisi più approfondita oltre che sullo studio imprescindibile del concetto di bellezza, soprattutto, su una questione estetica dell’oggi, sui significati e sulle interpretazioni odierne che gravitano intorno all’idea di bellezza, dunque non è uno studio

sull’identità ma sull’iconografia. Sono alla costante ricerca di qualcosa e quel qualcosa lo ritrovo nel collezionare volti, ovviamente femminili poichè vi è un gioco antico. La donna assolve di fatto l’umanità dall’idea di incompiutezza che Dio ha dettato. Le immagini delle odierne modelle coi loro abiti ed i volti poco segnati dalla vita e truccati, diventano dunque simboli che si prestano ad interpretazioni, come fossero Madonne Fiamminghe dell’oggi conservano delle doti magiche e soprannaturali. I volti di donne, tra di loro più o meno somiglianti secondo il grado di poesia o di volgarità che le contrassegna, obbediscono al continuo imperativo della novità, esse mostrano la capacità del presente di assumere valore simbolico, facendosi rappresentazione e quindi proponendosi come eterno: il volto truccato “reso più bello dai lustri dell’artificio”, perde infatti ogni naturalezza e svela il suo lato totemico, per farsi adorare come idolo. Così, come avviene nella totalità delle rappresentazioni del ritratto, anche in queste mie operazioni di costruzioni iconografiche, ci possiamo ritrovare

una appartenenza e questa voglio che sia credibile, genuina, con i pregi ed i difetti di chiunque, sottolineando peculiarità nascoste, stati d’animo, atteggiamenti mentali, e concezioni morali che ognuno possiede, appartengono al mondo interiore per nulla o vagamente accessibile e ad un tempo indefinito. L’idea dell’immediata vicinanza e familiarità che il volto da sempre esercita con innegabile fascino, dipende dalla nostra inconscia attribuzione di autenticità, di per sé garante di realismo. La rappresentazione mira ad ottenere la massima fusione tra somiglianza superficiale e caratteri unici, obiettivo che può essere raggiunto qualificando il volto secondo l’età, la moda, l’azione ed altri dati accessori ma anche mediante la tecnica pittorica scelta ed ecco che, in questo, l’uso del bitume acquista un valore imprescindibile. Questa perenne messa in scena, archetipo ed immagine, idealizzazione e somiglianza, voglia di vivere e transitorietà, bellezza e caducità, sarà destinata ad essere un eterno rincorrere, un fare teso a raffigurare una illusione perpetua. Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 61


Senza titolo (particolare), 2014, tecnica mista e poliestere su tavola, 187 x 252 cm

Erich Turroni

Miocardio, 2014 tecnica mista e poliestere su tavola, 21 x 29 cm

Nato a Cesena nel 1976, vive e lavora a Gambettola

Nell’epifania del volto dell’Altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro .E l’assoluto si gioca nel faccia a faccia, nella prossimità alla portata del mio sguardo, alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto. Emmanuel Lévinas 62

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Ritrovare lo sguardo, 2014, inchiostro su carta, filo, cm 9 x 11 su foglio 30 x 42 Celare, 2013, inchiostro su carta, foglia, cm 10 x 15,5 su foglio 21 x 30 Volto, 2014, inchiostro su carta, cm 9 x 11,5 su foglio 26 x 33 Volto, 2013, inchiostro su carta, cm 9 x 11,5 su foglio 21 x 30

Luca Piovaccari

Nato nel 1965, vive a Cesena FC Ritrovare lo sguardo sul volto quindi negli occhi medesimi, all’incontro con l’altro diverso da noi che inaspettatamente rivediamo, un viso dipinto ma archiviato che andiamo a riscoprire dopo tanto... o la nostra figura che si riflette nello specchio. Queste sono facce disegnate di piccole dimensioni, che emergono da zone d’ombra in maniera inaspettata, come se si fossero create da sole, fuoriescono ponendosi davanti allo sguardo mimeticamente. Volti che a volte sono raggiunti da intrusioni e accadimenti, e hanno bisogno di spazio. Ha ragione Claudie Lorrain, i primi piani di un quadro fanno sempre schifo, e l’arte vuole che quel che interessa in un quadro venga collocato sullo sfondo, nell’inafferrabile, là dove si rifugia la menzogna, questo sogno colto sul fatto, unico amore degli uomini. Louis-Ferdinand Céline Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 63


Una testa, 2014, cemento su feltro, 192 x 200 cm

La punta del naso, 2014, cemento su feltro, 200 x 200 cm

Verter Turroni

Nato a Cesena nel 1965

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Fu questo il viso che fece salpare mille navi ? Christopher Marlowe


Autoritratto 2008, pittura su tela, cm 30x24

Vittorio D’Augusta

Nato nel 1937 a Fiume, vive a Rimini

Ogni pittore si macchia di preterintenzionali autoritratti  Tsu Uda Ga

Autoritratto da giardino, 2014, installazione con sedia e pittura su cartone Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 65


Elisa, 2014, pastelli a cera su carta, 70 x 50 cm

Valentina M., 2014, pastelli a cera su carta 70 x 50 cm Mariateresa C., 2014, pastelli a cera su carta, 70 x 50 cm fotografie di Enrico Benedettelli

Eldi Veizaj

Nato a Fier (Albania) nel 1984, laureato presso l’Accademia di belle arti di Bologna nel 2011. Dal 2004 lavora e vive a Bologna Penso sia possibile che un osservatore possa farsi coinvolgere ancora più profondamente da un dipinto astratto. Ma è anche vero che chiunque può farsi coinvolgere di più da una cosiddetta emozione non disciplinata, perché, in fin dei conti, chi più dello spettatore ama una disastrosa storia d’amore o un malattia? Può farsi prendere da queste cose e sentire di parteciparvi. Ma ciò naturalmente non ha niente a che spartire con quello che è l’arte. Ciò di cui adesso lei sta palando è l’ingresso dello spettatore nel gioco, e credo che nell’arte astratto lo spettatore possa forse spingersi più addentro, perché ciò che gli viene offerto è qualcosa di più debole, qualcosa con cui non deve combattere. Francis Bacon Tratto la libro “David Sylvester intervista a Francis Bacon” 66

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I misteriosi ritratti di Silvia sono caratterizzati dalla presenza di uno sfondo completamente nero. Inoltre, le donne e gli uomini rappresentati hanno tutti gli occhi coperti da panni, stoffe, tessuti oppure da solidi geometrici di metallo, plastica o legno, per cui la realtà esterna è loro preclusa. Questi personaggi sono completamente immersi nel loro mondo interiore. Tuttavia, nonostante queste particolarità che li accomunano, a mio avviso i “Visionari” possono essere percepiti ed interpretati secondo tre accezioni diverse. Alcuni di loro appaiono come degli “Utopisti”. Altri sembrano invece dei “Mistici”. Ritengo poi opportuno identificare un terzo gruppo di “Visionari” con il termine “Sognatori”. Marco Carlotto

Visionaria 22, 2014, olio su tavola, 30 x 30 cm Visionaria 23, 2014, olio su tavola, 30 x 30 cm Visionaria 24, 2014, olio su tavola, 30 x 30 cm Visionaria 26, 2014, olio su tavola, 20 x 20 cm Visionaria 27, 2014, olio su tavola, 20 x 20 cm

Uno sguardo autoriflessivo che viene raffigurato dall’artista soprattutto nei ritratti, nei quali sostituisce gli occhi con delle geometrie solide, protuberanze che non permettono di identificare l’identità della figura, né ad essa di osservare il mondo che ha di fronte. Ciò che la Idili rappresenta è quindi una realtà visionaria, rielaborata dalle emozioni e dalla memoria, immagini filtrate dall’occhio della mente e riproposte ripulite da ridondanze cromatiche e formali, in un nuovo equilibrio visivo composto da pochi elementi e da una grande chiarezza di idee. Visioni che hanno origine dal reale ma che da esso si ritraggono per assumere una propria autonomia espressiva, diventando pure proiezioni mentali. Alessandro Trabucco

Silvia Idili

Nasce a Cagliari nel 1982, consegue la maturità presso il Liceo Artistico di Cagliari. Nel 2007 si trasferisce a Milano, dove vive e lavora. La sua ricerca artistica rievoca la formula oraziana «ut pictura poesis», per esprimere con colori e forme una tensione spirituale e mistica di fronte all’ inquietudine della contemporaneità. La riflessione e la pratica pittorica orbitano attorno ad una sorta di poetica “dell’ingenuo”, fatta di una realtà semplice, ordinaria ed attorno a un geometrismo di sapore lirico e magico. Elementi che creano profondità e unitarietà attorno alle superfici bidimensionali del cielo e della terra; lo spazio della coscienza, dove la dimensione simbolica del colore si coniuga ai principi di armonia e di proporzione della forma.

Visionaria 22, 2014, olio su tavola, 30 x 30 cm Visionaria 23, 2014, olio su tavola, 30 x 30 cm Visionaria 27, 2014, olio su tavola, 20 x 20 cm Visionaria 24, 2014, olio su tavola, 30 x 30 cm Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 67


Senza titolo 2012, tecnica mista su legno, 116 x 76 cm

Simone Luschi

Nato nel 1975 a Cecina vive a Faenza La rappresentazione del volto mi accompagna da sempre, spesso arriva senza chiedere il permesso.

Senza titolo 2013, tecnica mista su legno 43 x 23 x 20 cm

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Erika Latini

È nata nel 1975 a Chiaravalle in provincia di Ancona. Si è laureata nel 1999 all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel Corso di Pittura. Nel 2000 partecipa al corso “Esperto in sistemi integrati di comunicazione dell’arte” realizzando Progetto Grey con Manuela Corti e Franco Berardi (Bifo). Ha conseguito, nel giugno 2006, l’abilitazione all’insegnamento per Discipline Pittoriche. Inno a Iside Rinvenuto a Nag Hammadi, Egitto. Risalente al III-IV secolo a.C. Perché io sono colei che è prima e ultima Io sono colei che è venerata e disprezzata, Io sono colei che è prostituta e santa, Io sono sposa e vergine, Io sono madre e figlia, Io sono le braccia di mia madre, Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli, Io sono donna sposata e nubile, Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito, Io sono colei che consola dei dolori del parto. Io sono sposa e sposo, E il mio uomo nutrì la mia fertilità, Io sono Madre di mio padre, Io sono sorella di mio marito, Ed egli è il figlio che ho respinto. Rispettatemi sempre, Poiché io sono colei che da Scandalo e colei che Santifica. Volti di donne che narrano destini comuni, racconti che parlano di ricerca interiore, di lenta metamorfosi.

Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 69


Massimiliano Fabbri È nato a Cotignola nel 1972. Vive a Bagnacavallo

Dopo una serie di disegni di vegetazioni labirintiche, che rappresentano una specie di raffigurazione interna del cervello e dei suoi meccanismi, ho fatto in quest’ultimo periodo quattro volti dipinti, due di questi copiati da ritratti del Fayum, gli altri due ripresi da una santa di Antonello da Messina; sono partito quindi, per questa sorta di ritorno a casa, che per me coincide con e nella testa, da fantasmi e sguardi già esistenti, ai quali però si sono sovrapposti dettagli e particolari e ombre provenienti da altre immagini, a creare una sfasatura e sovrapposizione di tempi, umori e modi di vedere. Per questa mostra ho pensato poi ad una piccola quadreria in cui questi nuovi volti si vengono a ri-trovare insieme ad alcune teste più vecchie che ho ridipinto parzialmente per l’occasione, come a riprendere, anche fisicamente, un discorso che si era interrotto o sommerso con il lavoro sulle nature, e che ora riaffiora e ritorna condensandosi in una galleria che funziona un po’ come flusso di pensiero, tentativo di comprensione e congiunzione declinato al presente, scavo e stratificazione, e perdite necessarie all’immagine per crescere e progredire. Amore mio infinito, 2014, olio su tela, cm 90 x 90 Le quattro volte, 2013-14, olio su tela, cm 80 x 80 Le quattro volte, 2013-14, olio su tela, cm 120 x 100 Amore mio infinito, 2014, olio su tela, cm 120 x 100

Io devo farti, vedo, caro io mio parziale, un po’ di storia (o promemoria, dato che tu, mia faccia o foglia o strato, c’eri in quella storia). Quando ho sentito parlare di neuroni specchio sono, siamo, andati a vedere di cosa si trattasse, e ce ne siamo innamorati. Rubina Giorgi 70

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Mi libero di tutto questo nei primi strati, che distruggo, strato per strato, finché la ritardataggine non se ne è andata. Non c’è bisogno di dire che non posso prendere scorciatoie: non si può cominciare un lavoro direttamente dalla fine.

Ogni conferma o smentita vi porta più vicini all’oggetto, finché non siete, per così dire, al suo interno: i contorni che avete disegnato non indicano più il margine di quel che avete visto, ma il margine di quel che siete diventati.

Se dipingo il suo viso, questo vuol dire fare il primo passo nel mondo ignoto che nessuno ha mai tentato di esplorare. Non pensa che sia un’avventura ben più pericolosa, ben più curiosa di un viaggio in Egitto?

Gerard Richter

John Berger

Alberto Giacometti


Luca Coser

Nato a Trento nel 1965, insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma. Vive a Trento e a Roma

Con me corrono i fantasmi M. Il mostro di Dusseldorf, di Fritz Lang Vedere è per noi una necessità Michelangelo Antonioni

Derwatt, 2014, tecnica mista su alluminio, cm 190 x 190

Tutte le facce subito rosse, 2014, tecnica mista su alluminio, cm 190 x 190

La ricerca di Luca Coser si realizza attraverso dipinti, disegni, collages, sculture e installazioni caratterizzati da una tensione verso quella che potremmo definire come una dimensione di lateralità, che diviene la cifra costante del suo lavoro, determinandone insieme la condizione psicologica e la scelta linguistica, la dichiarazione poetica e la riflessione formale. Lo sguardo di Coser si posiziona in tal senso a lato dell’immagine, opera per dissolvenza, muovendosi tra simulazione e finzione nel tentativo di aprire tra opera e spettatore uno spazio tanto reale quanto indefinito, come fosse un luogo che porta in sé altri luoghi, come qualcosa che ci passa accanto ma è sempre da un’altra parte, qualcosa che, per citare l’artista, è vicino ma non qui. Alla stratificazione delle immagini e degli elementi del reale, attraverso scarti prospettici, dettagli inattesi, leggeri “strappi” visivi, Coser affida un processo di riscoperta poetica, tra cancellazione, parziale occultamento e riemersione di un visibile inatteso e inattuale, di ciò che si muove dietro il teatro della realtà, di ciò che lentamente si muove, citando Ernst Bloch, “sul dorso delle cose”. Tratto da un testo di Federico Mazzonelli Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 71


Dromos, 2014, olio su tela, 30 x 28 cm Dromos, 2014, olio su tela, 30 x 24 cm Collapse 2014, olio su tela 30 x 24 cm

Lorenzo di Lucido

Nato nel 1983 a Penne (Pe) dove vive e lavora Una testa, come una scultura, un indagine della forma, del suo costituirsi. Dei modi e dei tempi di questa costruzione al rovescio, operata per una serie di collassi, di rinunce. Una natura morta silente. Se si cerca una forma, se dopo un combattimento la si trova, probabilmente il portato poetico è dato da un operazione, dal modo stesso in cui l’ immagine cresce, decresce, come un calanco, una montagna al contrario in cui l’ accumulo ne rovescia il verso e non il senso. 72

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Ritratto di F. L. 2011, olio su tela, 30 x 25 cm

Ritratto di Maricetta, 2006-2014 olio e smalto su tavola, 30 x 20 cm

Giovanni Blanco È nato a Ragusa nel 1980. Vive e lavora a Rosolini e a Bologna Liquido negli occhi Quel che conta è la direzione, la linea che lo sguardo è portato ad amare. Si trattasse pure di un destino, di un piccolo canto che scuce la bocca, quando la luce invade la parola. Del primo appuntamento col tuo ovale ne ho fatto un miraggio; forse l’unico sbocco della carne, l’oggettiva misura della sparizione. In testa ho deposto il pane, dorato nel miele, come a ricordare le pietre antiche. Che bello aver gli occhi quando il volto si fa nudo! Per quella cascata di muschio tra le pupille che il giorno regala, al sorgere muto della mia immagine. Sarà che nella bava della pittura ho raccolto il tuo pudore, arginando, attento, il liquore fresco delle tue labbra. Ancora un altro volto, la ripetizione della nebbia che svapora tra i capelli. Li ho scarmigliati ad uno ad uno, la matematica contro il vento. Così ho sottratto ragioni al nostro tempo, destinandoti al labirinto dell’icona. Lo so che mancano le preghiere, e tu fingi di posare immobile, nel terremoto ingoiato dal respiro. Ho tracciato nuovamente il tuo volto, come fosse un grande paesaggio, tra le radici del naso e il monte della fronte. Al centro, ho solcato la neve: quel bianco immacolato che dimora sulla tua pelle.

Tutti i grigi di Lorenzo, 2014 olio su tela, 30×25 cm

Per l’evento espositivo “Selvatico.Tre/Una testa che guarda”, ho messo in rassegna alcuni volti dipinti dal 2006 al 2014. È il tentativo di inanellare esperienze tra loro eterogenee, finanche contraddittorie, che nel tempo hanno stabilito un dialogo sensibile con la mia ricerca espressiva. In questa rassegna di presenze, mi sono reso conto talvolta di essere inciampato nella parabola infuocata degli affetti, come a scandire i giorni e i mesi che la memoria ha saputo distillare. Alcuni di questi esiti portano il segno antico del ritratto altri, svincolati dal processo della mimesi, si mescolano alle ombre e al diafano furore della luce. Questi volti saturano la superficie, non sono affatto portatori di parole leggere, e fremono silenziosi del contrastato divenire del loro apparire. A Cotignola una piccola parte di essi verrà fatta cortocircuitare con lo spazio, ma anche con i “codici visivi” con i quali, di volta in volta, entreranno in contatto. È ancora il tentativo di ridefinire il rapporto simbolico con l’altro, cancellando ogni gerarchia linguistica, recuperando il rapporto esperienziale che ogni opera stabilisce col proprio autore-fruitore: un gesto moltliplicato all’infinito che ritorna ad essere metafora di un’unica parola. Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 73


Jacopo Casadei Il volto è un elemento imprescindibile di tutti i giorni, ma in senso figurato può essere inteso come il profilo di uno stato d’animo, di una situazione o di una comunità. È comunque una traccia più o meno forte di un ricordo che per piacere e, a volte, per necessità, vogliamo conservare. Lavorare sul volto mi porta ad una ricerca più ampia su una grammatica strutturale del linguaggio pittorico stesso. Questo tentativo mi pone a considerare il risultato come una sorta di “carta d’identità’’ del lato segnico della mia ricerca e a ripetere l’atto cercando di definire maggiormente il corpo della pittura. 74

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A., 2014, olio su tela, 50 x 40 cm s.t., 2013, olio su tela, 70 x 60 cm s.t., 2013, olio su tela, 70 x 60 cm


Autoritratto, 2011-2014, olio e acrilico su legno 50 x 50 cm

Ritratto dello scultore A. Violetta, 2011, olio su legno, 50 x 50 cm

Martina Roberts

Nata a Torbay (UK) nel 1970, vive a Bologna

I volti non hanno confini, c’è un mistero che li avvolge. Un ritratto è quasi un’apparizione, gli occhi, il naso, la bocca, mi parlano della complessa macchina umana. Da sempre cerco di cogliere quel mistero oltre la forma, ne faccio una sintesi, e so che qualcosa è sfuggito. Quel volto è uno, solo una faccia di quell’identità mutevole, solo una sfumatura… e una leggera inquietudine mi attraversa.

L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo, io studio questo mistero perchè voglio essere un uomo. Fëdor Dostoevskij

Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 75


Filippo Tappi

(Cesena, 1985) ha studiato Geologia e Storia dell’arte affiancandovi una ricerca pratica sugli stati fisiologici estremi della visione, sviluppata in installazioni, disegni, video e tramite il teatro. È parte del nucleo di Un’ottima lettera e cofondatore di Tipografia Testamento. Da una mediocre distanza umana ci versiamo goccia a goccia nell’autentica origine, nel pieno riposo a cui le nostre azioni, i nostri alfabeti ci preparano. La consapevolezza - quasi la vera e propria vista - di questo scarso crescere verso un traguardo che è già dato, conferisce, al tempo stesso, una acuta lucidità e un senso di «buio logico» e di vertigine che ossessiona tutto. Estratto dalla presentazione scritta da Maurizio Cucchi per la raccolta di poesie Distante un padre di Milo De Angelis Oppure sorta di epifenomeno del pensiero ... quasi che in noi si formasse costantemente un volto fluido, idealmente plastico e malleabile, si formasse e si deformasse in corrispondenza con le idee e con le impressioni, automaticamente, in una sintesi istantanea, per tutta la giornata e in un certo qual modo cinematograficamente. Folla infinita: il nostro clan. Henri Michau x - Passaggi Esercizio 2014 matita copiativa su carta 297 x 210 mm

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Transfer(t) 1, 2012 transfer su carta da matrice fotografica, matite, colori a olio, veli giapponesi su forex, 60 x 49,5 cm Transfer(t) 3, 2012 transfer su carta da matrice fotografica, matite, colori a olio, veli giapponesi su forex, 60 x 49,5 cm Transfer(t) 4, 2012 transfer su carta da matrice fotografica, matite, colori a olio, veli giapponesi su forex, 60 x 49,5 cm

Olivia Marani

Nasce a Cesena nel 1978, dove attualmente vive e lavora. Nel 2007 si diploma presso il dipartimento di Pittura dell’ Accademia di Belle Arti di Bologna, successivamente nel 2012 frequenta il corso di Fotografia analogica e digitale presso il cfp Bauer di Milano; da quel momento in poi incentra la sua ricerca prettamente sul corpo; una ricerca per la quale si avvale di linguaggi e supporti tecnici intesi ad indurre una dialettica tra pittura e fotografia. Nel progetto T r a n s f e r (t) comincia una riflessione sul concetto di volto inteso come luogo di esposizione, difatti, il volto è l’essere irreparabilmente esposto dell’uomo e al contempo il suo restare nascosto in bilico perpetuo tra realtà e finzione.

“Tutti gli esseri viventi sono nell’aperto, si manifestano e splendono nell’apparenza. Ma solo l’uomo vuole appropriarsi di quest’apertura, afferrare la propria apparenza, il proprio essere manifesto. Il linguaggio è quest’appropriazione, che trasforma la natura in volto. Per questo l’apparenza diventa per l’uomo un problema, il luogo di una lotta per la verità (…) Io guardo qualcuno negli occhi: questi si abbassano – è il pudore, che è il pudore che c’è dietro il vuoto del nostro sguardo – oppure mi guardano a loro volta. E guardarmi essi possono sfrontatamente, esibendo il loro vuoto come se vi fosse dietro un altro occhio abissale che conosce quel vuoto e lo usa come nascondiglio impenetrabile; oppure con una spudoratezza casta e senza riserve, lasciando che nel vuoto dei nostri sguardi avvengano amore e parola.” G. Agamben

Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 77


Lo scudo di Perseo

Massa Lombarda / Sala del Carmine 23 gennaio – 15 febbraio 2015

A cura di Michele Buda e Daniele Casadio Arianna Arcara, Michele Buda, Daniele Casadio, Marcello Galvani, Alex Majoli, Gabriele Micalizzi, Bärbel Reinhard, Andy Rocchelli, Alessandro Sala, Luca Santese, Marco Signorini, Marco Vincenzi, Marco Zanella David Loom, Carloni-Franceschetti, Mauro Santini


Se questo Selvatico rappresenta una ricognizione sul volto come ferita e ossessione, e bellezza anche, e tutto quello che guardare una faccia può comportare, il vedere ma anche l’essere visti, un progetto che si volge al ritratto come pratica ancora potente per un discorso ininterrotto sulla condizione umana, non poteva non confrontarsi con quello che avviene nella ricerca fotografica contemporanea. Forse, l’unica situazione in cui l’essere visti nell’atto del vedere è schermato impedito rimandato, è della fotografia, del dispositivo tecnologico: il fotografo si nasconde e sparisce dietro la lente, o occhio meccanico o digitale che sia. Ma se le guerre contemporanee hanno imparato bene a utilizzare questo sguardo che fruga e stana da una distanza ormai imprendibile e astratta, negli scatti in mostra il fotografo è ancora, se così si può dire, dentro alla scena, calato nel campo di battaglia, in un rapporto o relazione con il soggetto più o meno empatico, alla ricerca sempre di una giusta distanza, variabile questa, niente affatto prevedibile. Come Perseo che, per poter guardare Medusa senza essere pietrificato dal suo sguardo, ha bisogno di uno stratagemma, di

uno strumento o arma che appunto gli permette di vedere; e lo trova nello scudo di Atena, specchio levigato e lucente, arma o protesi dell’occhio che gli permette la visione indiretta e di poter così tagliare la testa del mostro, e tornare infine con il trofeo infilato nel sacco.
Ecco, quest’immagine metaforica del rapimento del volto e testa (forse la stessa anima che per alcuni poteva essere trattenuta nella notte della scatola e lastra e fotografia) si estende abbastanza facilmente all’atto di fotografare e, in particolare, a quello di fotografare un volto.

Selvatico è un progetto collettivo e, anche per questo, i curatori e fotografi Michele Buda e Daniele Casadio hanno pensato a una forma di allestimento che metta al centro quest’idea aperta e incompiuta di laboratorio, idea che si condensa e concretizza in un grande tavolo allestito al centro della sala, come una sorta di quadreria orizzontale o, meglio ancora, piano di lavoro dove si stratificano e accumulano, come in un diario esploso o atlante o mappa, immagini, appunti e molteplici rimandi interni, e collegamenti tra modi di vedere e mondi.
 Massimiliano Fabbri


Alessandro Sala Dalla serie Top of Africa, 2011 South Africa. Johannesburg. 2011. View of Johannesburg city center from the top of Carlton Center, the highest building in Africa. 80

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Lo scudo di Perseo | 81


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Andy Rocchelli Dalla serie Russian Interiors Lo scudo di Perseo | 83


Arianna Arcara Dalla serie Post Focum – Sardegna 84

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Dalla serie Po, the River – Polesine Lo scudo di Perseo | 85


B채rbel Reinhard Senza titolo 5, dalla serie against the decisive moment, 2014 86

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Senza titolo 6, dalla serie against the decisive moment, 2014 Lo scudo di Perseo | 87


Marco Zanella

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Lo scudo di Perseo | 89


Luca Santese Dalla serie Donne di Napoli, 2013. 90

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Lo scudo di Perseo | 91


Gabriele Micalizzi CAIRO.EGYPT.22/11/2011. A man tries to protect themselves from tear gas with the bow jacket in Mohamed Mahmoud st. Protesters during clashes with the Egyptian riot police near Tahrir square in Cairo. Egypt’s civilian Cabinet has offered to resign after three days of violent clashes in many cities between demonstrators and security forces, but the action failed to satisfy protesters deeply frustrated with the new military rulers. 92

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Grece.Athens.3/7/2011 A body of a junky found dead in the middle of the road. The presence of heroin addicts in central Athens is very high, the drug addictsis usually injectad in the middle of the road at any hours of the day. Lo scudo di Perseo | 93


Marcello Galvani Piermarco Turchetti, Masiera, 2006

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Lo scudo di Perseo | 95


Marco Signorini Senza titolo, da Anagram, 2014� 96

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Lo scudo di Perseo | 97


Marco Vincenzi

O povo de Lisboa, 2013_65 98

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O povo de Lisboa, 2013_76 Lo scudo di Perseo | 99


Michele Buda

Autoritratto I 1993 100

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Autoritratto II 1993 Lo scudo di Perseo | 101


Daniele Casadio

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Lo scudo di Perseo | 103


Alex Majoli Brasile 2014, San Paolo. Dalla serie Requiem in samba 104

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Lo scudo di Perseo | 105


Lo scudo di Perseo Sezione video

Massa Lombarda / Sala del Carmine 23 gennaio – 15 febbraio 2015 A cura di Massimiliano Fabbri Mauro Santini David Loom Carloni-Franceschetti


Mauro Santini

Filmmaker indipendente, è nato a Fano nel 1965; dal 2000 realizza film sperimentali senza sceneggiatura, in forma diaristica.

Fermi del tempo Lo scudo di Perseo | 107


Carloni-Franceschetti La fase dello specchio (progetto speciale per Selvatico 3)

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Parte I EMERGENZA LIMBO video, suono e animazione Cristiano Carloni Stefano Franceschetti

Parte II SPECTROGRAPHY II video Cristiano Carloni Stefano Franceschetti suono Scott Gibbons produzione SocĂŹetas Raffaello Sanzio


David Loom Thin ceiling (fotogrammi) Lo scudo di Perseo | 109


Un volto in forma di rosa

Massa Lombarda / Museo Civico Carlo Venturini 23 gennaio – 15 febbraio 2015

A cura di Andrea Bruni In collaborazione con Fondazione Cineteca di Bologna Archivio Pier Paolo Pasolini, collezione Maurizio Baroni e il fotografo Elio Ciol Una mostra sul volto di Pasolini, visto attraverso alcuni scatti realizzati sia sui set cinematografici che in momenti di vita privata, e poi locandine di film, scritti, articoli e altri materiali d’archivio a comporre questo volto in forma di rosa; volto che Pasolini ha spesso messo in scena, anche narcisisticamente, talvolta a farne maschera, ora campo di battaglia, ora, anche ironicamente nella sua ripetizione o presenza, ad assurgere a icona quasi pop, presenza resistente e non allineata. La mostra, ripartendo dalla grande empatia e amore di Pasolini nei confronti dei volti non ancora omologati e portatori di bellezza violenta, rovescia questo sguardo per concentrarsi, in un cortocircuito e intimo capogiro, sulla faccia stessa del grande regista, scrittore e poeta. MF


Un volto in forma di rosa

“Giravo con lui per certi quartieri immersi in un silenzio inquietante, certe borgate infernali dai nomi suggestivi, da Cina medievale: Infernetto, Tiburtino III, Cessati Spiriti. Mi conduceva come Virgilio e Caronte insieme, di entrambi aveva l’aspetto: ma anche di uno sceriffo…Si divertiva ai miei allarmi, era lì col sorriso di chi ha visto di più, di peggio, anzi, si augura che il peggio possa accadere, da un momento all’altro, soprattutto per compiacere l’amico ospite e turista. Tanto c’era lui lì a piegare e a difenderti, sceriffo conosciuto. Ogni tanto sbucavano da certe finestre, da certe porte, da angoli bui, imprevedibili presenze, ragazzetti che lui si compiaceva di presentare come se fossimo in Amazzonia, tra esseri fantastici, selvaggi, antichi.” (Federico Fellini) “Io sono una forza del Passato./ Solo nella tradizione è il mio amore./ Vengo dai ruderi, dalle chiese,/ dalle pale d’altare, dai borghi/ abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/ dove sono vissuti i fratelli./ Giro per la Tuscolana come un pazzo,/ per l’Appia come un cane senza padrone./ O guardo i crepuscoli, le mattine/ su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,/ come i primi atti della Dopostoria,/ cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,/ dall’orlo estremo di qualche età/ sepolta. Mostruoso è chi è nato/ dalle viscere di una donna morta/ E io, feto adulto, mi aggiro/ più moderno di ogni moderno/ a cercare fratelli che non sono più.” (Pier Paolo Pasolini)

Il Professore e Moraldo in città Nella babele concitata, dionisiaca, dei preparativi per La dolce vita, un Fellini stremato e confuso, si trovò con un dubbio amletico, legato all’insostenibile, dolorosissimo, ruolo del professor Steiner: farlo interpretare ad Enrico Maria Salerno o ad Alain Cuny? Il regista aveva fatto un lunghissimo provino ad entrambi gli attori, ma egualmente non sapeva decidersi… Salvifico fu l’intervento dell’amico Pasolini, sodale silente e fidatissimo sin dai tempi de Le notti di Cabiria: l’amico indicò una foto dell’imponente, marmoreo, Cluny dicendo: “Prendi lui. Non vedi: sembra una cattedrale gotica!”. E ciò bastò.

Arcaica Bellezza, vista dalla luna Fellini provava nei confronti del colto amico, un cocktail di sentimenti ove stima ed ammirazione si fondevano in egual misura assieme ad un pizzico di timore reverenziale, e non certo per una qualsivoglia affettazione da parte di Pasolini: gli capitava, col suo semplice diploma liceale, con tutti gli eruditi. Nel caso specifico, comunque, e non in difesa di colui che sarebbe poi stato bollato dallo stesso poeta (dopo il doloroso affaire Accattone) come Il Grande Mistificatore, Pasolini poteva incutere una certa qual soggezione: non certo per i motivi di un Alain Cuny, per la sua scabra possanza. L’autore de L’usignolo della Chiesa Cattolica evocava, piuttosto, una pala d’altare, una icona sacra forgiata, su sfondo dorato, in un Impero tristemente rassegnato alla propria decadenza (nella accezione forgiata da Paul Verlaine). Un volto aspro e severo, quello di Pasolini, la cui bocca sottile, quasi una ferita da arma bianca, è eredità del padre, Carlo Alberto, pencolante uffi111


ciale di cavalleria che trascinava le nobili origini ravennati (in una sorta di stream of consciousness, nel 1951, lo stesso Pasolini, in una rara pagina da memoriale, riesumerà- nella placenta di un salotto rosso sangue a Porto Corsini- una propria ava, una contessa avvizzita che confabula col Carducci) come una condanna a vita. Gli zigomi “triangolati” (definizione del biografo Enzo Siciliano) e l’ombra di un timido, impalpabile, sorriso derivano dai Colussi, la famiglia friulana della madre, l’amatissima Susanna, silente complice di una vita intera. A queste caratteristiche il poeta aggiunge un corpo scattante, nodoso, conquistato negli anni vissuti all’ombra della Capitale, costantemente tatuato di tempeste. Storia e genetica, in Pasolini, si fanno nervo scoperto, perennemente esposto, come in un “Ecce Homo” del Grünewald. Ogni suo scritto, o fotogramma, è qui per ricordarcelo.

Un Calvario che assottiglia “Ma se Pasolini vivesse/ E lottasse tuttora con noi,/ illustre come Tolstoj,/ quanti dei suoi celebratori/ e attuali commentatori/ gli chiederebbero “solo una battuta/ in meno di minuto!”/ non sulla letteratura/ o sull’ideologia,/ ma sulla pedofilia?” (Alberto Arbasino) Il 18 novembre del 1961, a San Felice Circeo, dopo un pranzo a casa dell’attrice Elsa De Giorgi, assieme al sodale Sergio Citti (i due stanno già lavorando alla sceneggiatura di Mamma Roma) un Pasolini all’apice dell’entusiasmo creativo, si ferma ad un distributore, con barettino annesso. A servirlo “un ragazzo torvo/ col grembiule credo di ricordare, i cappelli/ fitti, da donna/ la pelle pallida, tirata, una certa folle innocenza negli occhi/ di santo ostinato, di figlio che si vuole uguale alla buona madre”. ll ragazzo, che di nome fa Bernardino de Santis, e si rivelerà poi un patetico mitomane, forse per dispetto nei confronti del frocio con la bella macchina, denuncia Er Pasola per aggressione. Il quotidiano “Il Tempo”, che si dichiara indipendente, ma guarda platealmente a destra, dà ai suoi lettori la notizia con un titolo che equivale ad un rullo di tamburi che anticipa una esecuzione capitale: “DENUNCIATO PER TENTATA RAPINA PIER PAOLO PASOLINI AI DANNI DELL’ADDETTO A UN DISTRIBUTORE DI BENZINA”. Non pago, l’anonimo redattore, sottolinea queste parole la vetriolo con una torva immagine del poeta che imbraccia un mitra… Peccato (ma solo per l’onore dell’Ordine dei Giornalisti) che l’infamante immagine sia un fotogramma de Il gobbo (1960), crudo ritratto della 112

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Capitale dopo la liberazione, ove il Nostro interpreta il ruolo del feroce ladro Leandro, detto “Er monco”…Esempio plateale di una vera e propria persecuzione (anche mediatica) che accompagnerà Pasolini per tutta la vita, e che egli indosserà- come un perenne cappotto nero- con silente, nobilissima, rassegnazione. Anzi, è lecito dire- pensando ai procedimenti giudiziari successivi all’uscita postuma di Salò- l’accanimento di protrarrà pure su quel corpo straziato, brutalmente accartocciato, abbandonato sulla spiaggia di Ostia. Il 6 novembre 1975, il gesuita Antonio Dalla Vedova viene scoperto ad imbrattare con parole infamanti, veri e propri sputi di fiele, i cartelli funebri di Pasolini. Una oscena rievocazione fuori tempo massimo del Sinodo del Cadavere, cioè quando nell’897, Papa Stefano VI fece riesumare la salma del proprio predecessore, Papa Formoso, per il solo gusto di una atroce “scomunica” post-mortem…

Morale: essere morti o essere vivi è la stessa cosa Giulietta stava portando in tavola le lasagne, quando alla televisione diedero la notizia della morte di Pasolini. Federico rimase con la forchetta a mezz’aria, come paralizzato, col volto contratto in una maschera di muto stupore. Con un movimento secco, Giulietta si sedette, sibilando a labbra serrate: ‘Lo sapevo che andava a finire così...’, poi cominciò a servire il marito mentre sullo schermo della televisione passavan immagini slabbrate e grigie della spiaggia di Ostia. ‘Spegni, ti prego’, mormorò Federico senza alzare il volto dal piatto e per alcuni minuti l’unico rumore che echeggiò nella stanza fu il mesto clangore delle posate. Svolte, di malavoglia, un paio di tediose incombenze domestiche, i due si ritrovarono a letto: Giulietta con la compagnia di un romanzo della Delly e Federico con l’immancabile quaderno di appunti. Nel giro di cinque minuti, in un fruscio di lenzuola e pagine spiegazzate, Giulietta spense la propria abat-jour cercando rifugio sotto lo coperte. Federico cercò di dire qualcosa ma desistette, preferendo sprofondare nell’ampio cuscino concentrandosi sulle ombra che si proiettavan nel soffitto. Rimase in quella posizione per un tempo difficilmente calcolabile, fino a quando un picchiettare dispettoso non risvegliò la sua attenzione. Tic...tic...tic... Feredico, col cuore in gola, cominciò a guardarsi attorno con aria da segugio, cercando con la coda dell’occhio l’origine di quell’inopportuno clangore e quasi cadde dal letto quando comprese la sua origine: qualcuno stava lanciando minuscoli sassi sulla sua finestra. Ince-


spicando goffamente sul tappeto, Federico si precipitò verso la parete di fronte, e, aperti gli stipiti, mise il naso fuori, indifferente alla zaffata di gelo che lo colpì. ‘Chi c’è là fuori?’ ‘Dai, patacca, sono io...’ Federico abbassò lo sguardo e, ritto sul marciapiede, col suo trench scientemente cincischiato, vide Pier Paolo Pasolini che gli faceva ‘ciao ciao’ con la mano’, fiero e bellissimo come Tiresia: ‘Dai, patacca,mettiti qualcosa addosso che andiamo a Pietralata a cercar la Bomba!’ ‘La Bomba? Ma quanti anni avrà quella donna? Vuoi che ancora...’ ‘Dai, muoviti, che se stai lì ti prendi un malanno...’ Federico, come in trance, si rivestì, cercò il cappotto, lanciò un bacio distratto a Giuletta e si precipitò giù per le scale. Pasolini lo stava aspettando, comodamente appog-

giato ad una fiammate bicicletta. ‘Ah, c’andiamo in bicicletta?...’ ‘M’han rubato la macchina...’ Federico montò sul sellino della sua bici, sollevando i lembi del cappotto: guardò il compagno di tante scorribande, perse nella notte dei tempi, e, senza pensarci troppo, gli disse, sputando le parole come colpi di mitraglia: ‘Ascolta, ma al Telegiornale dicono che sei morto...’ ‘Morto...’, sussurrò Pasolini aggiustandosi la montatura degli occhiali, ‘Son paroloni...Diciamo che non ho più paura del buio, va bene? Dai, dacci dell’olio, che poi va finire che la Bomba non la troviamo neanche stanotte...’ ‘Ah, dai pure...Vai avanti te che a me mi tremano un po’ le gambe...’ Andrea Bruni

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Elio Ciol Pier Paolo Pasolini alla Pro Civitate Christiana. Assisi, settembre 1963 114

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Pier Paolo Pasolini all’eremo delle carceri. C. Assisi, settembre 1963 Un volto in forma di rosa | 115


Fotobusta di “Comizi d’amore” Cineteca di Bologna – Archivio Pier Paolo Pasolini – collezione Maurizio Baroni 116

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Bozzetto per “Il Decameron” del cartellonista Tino Avelli Cineteca di Bologna – Archivio Pier Paolo Pasolini – collezione Maurizio Baroni Un volto in forma di rosa | 117


Fotobuste de “Il Decameron” Cineteca di Bologna – Archivio Pier Paolo Pasolini – collezione Maurizio Baroni 118

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Allargare lo sguardo: paesaggio di campagna con muro e ritratto Conselice A cura del collettivo F x e Associazione culturale Whats/Sagra della street art con Reve Pi첫 Julieta Fxl Astro Naut James Kalinda Dissenso Cognitivo Lady Groove Mr Dada Fotografie di Daniele Casadio


Un’invasione e discesa pacifica quella del collettivo reggiano FX per una mostra esplosa e diffusa che affiorerà e prenderà corpo su di alcuni muri ed edifici di Conselice; lo sguardo dipinto dove non te l’aspetti o non dovrebbe essere, un’intrusione a cui siamo più abituati in contesti urbani e metropolitani, qui invece calato in una dimensione di campagna, decisamente ai margini e fuori contesto per certi versi; in dialogo fertile e felice con gli abitanti e con alcuni luoghi e architetture spesso brutte o abbandonate, a riqualificare spazi incerti e indecisi, a punteggiare il paesaggio di approdi momentanei e soste e cacce da farsi e piccole meraviglie in attesa che, proprio per via del contesto periferico, pensiamo risuonino con ancora più forza e urgenza e stupore anche. Una mappa in divenire, una sorta di preludio o primo movimento di “Una testa che guarda”. Una presenza o corpo estraneo forse, il Collettivo F x e gli altri artisti che dipingeranno a Conselice, una specie di colonizzazione in ascolto o, molto più probabilmente, il luogo più adatto questo, per accogliere immagini che diventano, da un lato quasi profezie o memorie concrete, dall’altro sorelle, estensioni e prolungamenti ideali di un progetto sui muri e le immagini che il comune aveva avviato anni fa con lo scenografo Gino Pellegrini, chiamato a ripensare e svegliare ironicamente angoli e scorci del paese. Il volto anche qui, come in tutti gli altri percorsi attivati da questo nuovo episodio di Selvatico, è la forma sulla quale si posa e sofferma lo sguardo, la testimonianza di una presenza che si moltiplicherà in una sorta di imprevedibile museo all’aperto, disegnando una geografia incompiuta forse destinata a crescere ed espandersi e precisarsi nel tempo, da scoprire camminando quasi errabondi, allargando lo sguardo, talvolta con il naso all’insù, a guardare che cosa sono le nuvole, in un posto dove la bassa è ancora più piatta e sconfinata che mai. Il ritratto di un paesaggio, un presidio simile a quello dell’associazione Primola e della sua Arena delle balle di paglia sul fiume Senio, che aveva già portato lo scorso anno, in collaborazione con il museo Varoli, il collettivo F x a Cotignola.

FX è un collettivo che ha come obiettivo inquinare il cemento armato. Le incursioni sono realizzate direttamente dal Collettivo o in modo Collettivo cioè coinvolgendo numerose persone che agiscono utilizzando il materiale del collettivo. Il principio che regola le incursioni by f x è l’Articolo 9 della Costituzione Italiana: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Nasce nel 2010 in provincia di Reggio Emilia da un gruppo di formatori e un gruppo di pittori. I primi ne determina il metodo e i secondi il linguaggio.

Collettivo F x /Associazione Whats, sono gli ideatori e organizzatori della Sagra della Street Art, pacifica invasione con muri dipinti in paesi di provincia e in dialogo con il territorio. www.facebook.com/Sagradellastreetart Astro Naut (Madrid): proveniente fisicamente dalla Spagna, ma artisticamente dalla spazio, trasforma i luoghi su cui interviene con grandi e piccoli astronauti muniti di energia propria. Dissenso Cognitivo (Ravenna): si autodefinisce agricoltore; dipinge forme mutanti quasi o non più umane o animali... ospiti da un futuro remoto che hanno il compito di trasformare la realtà, o di farsi trasformare da essa. James Kalinda (Appennino Emiliano): artista, disegnatore, tatuatore e molto altro; firma le sue immagini in strada con un fumetto nero; le atmosfere e presenze dei luoghi sono la principale suggestione da cui nascono i suoi soggetti, uomini e animali spesso dipinti in bianconerorosa. Julieta Xlf (Valencia): si è formata in Spagna e Cile; riempie di forme vorticose, colori sgargianti e fiabe i muri che dipinge, con immagini che raccontano di fantastici incontri e turbinose metamorfosi tra bambine e animali e regni vegetali. Lady Groove (Forlì): crea figure spiazzanti utilizzando il metodo del punto-croce e ingigantendolo pittoricamente fino a farlo diventare monito e profezia. Reve Più (Reggio Emilia): i suoi murales, spesso di grandi dimensioni, fanno comparire animali ovunque, come in una specie di invasione o rivincita selvatica. Un bestiario dove questi animali sono custodi e guardiani silenziosi del paesaggio. 121


Collettivo FX

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Lady Groove

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Alice Jaquinta Allargare lo sguardo: paesaggio di campagna con muro e ritratto | 127


Cacciatori di teste

Lugo / Pescherie della Rocca 8 dicembre 2014 – 6 gennaio 2015

A cura di Massimiliano Fabbri Con la collaborazione di Daniele Serafini, Aldo Savini e dei collezionisti privati del territorio Valerio Adami, Marco Astorri, Giulio Avveduti, Lucia Baldini, Paolo Barbieri, Mercede Barisani, Giuseppe Bartoli, Cesare Baracca, Riccardo Baruzzi, Vittoriana Benini, Luigi Bergamini, Massimo Brancaleoni, Violetta Branzanti, Remo Brindisi, Ezio Camorani, Giovanni Cappelli, Sauro Cardinali, Roberto Casadio, Felice Casorati, Bruno Ceccobelli, Sandro Chia, Carlo Cicognani, Primo Costa, Dioscoride, Piero Dosi, Massimiliano Fabbri, Tano Festa, Umberto Folli, Giovanni Frangi, Mimmo Germanà, Andrea Ghetti, Gaetano Giangrandi, Alberto Giunchi, Virgilio Guidi, Francesco Izzo, Maurizio Lanzillotta, Bengt Lindstrom, Anna Liverani Barberini, Arialdo Magnani, Piero Manai, GianRuggero Manzoni, Anacleto Margotti, Pierina Martelli, Pasquale Martini, Giuseppe Mazzotti, Giorgio Merli, Enzo Morelli, Mattia Moreni, Claudio Neri, Ettore Panighi, Domenico Panighi, Velda Ponti, Franco Pozzi, Esodo Pratelli, Arturo Prins, Massimo Pulini, Giovanni Romagnoli, Giulio Ruffini, Nicola Samorì, Germano Sartelli, Giannetto Savini, Roberto Sella, Olga Settembrini, Vanni Spazzoli, Lorenzo Tornabuoni, Ermanno Toschi, Luigi Varoli, Francesco Verlicchi, Federico Zanzi, Giuseppina Zardi


Cacciatori di teste è il progetto e la storia di una chiamata che si concretizzerà in un esteso museo temporaneo composto da una moltitudine di ritratti e teste provenienti da diverse ed eterogenee raccolte private; a partire infatti da alcune tra le più ricche e interessanti collezioni presenti sul territorio, si allestirà una grande quadreria capace di condensare il meglio del volto dipinto, ricercato, inseguito e raccolto dal collezionismo locale, a partire dall’inizio del Novecento fino ai giorni nostri. Un vero e proprio mosaico di sguardi, uno specchio che non si limiterà a riflettere un punto di vista univoco o a rilanciare esclusivamente la narrazione sui più importanti autori romagnoli della prima parte del secolo scorso, ma che terrà conto di un arco cronologico più ampio, per meglio rendere giustizia ai diversi sguardi e percorsi dei collezionisti coinvolti; raccontando, per lampi e bagliori, curiosità, innamoramenti, ossessioni e traiettorie di chi ha effettivamente costruito negli anni queste preziose raccolte, veri e propri musei privati che conservano, non solo opere ovviamente, ma anche, alla stregua di diari e intimi archivi, testimonianze affettive e pezzi e storie di vita e incontri, crescendo, sviluppandosi e precisandosi nel tempo con un andamento quasi vegetale, come guidato da un segreto e silenzioso ordine interno che le muove e governa. La quadreria vivrà così, inevitabilmente, anche di scarti non ortodossi e presenze talvolta incongruenti, sguardi plurali, quelli dei molti artisti presenti nonché quelli, altrettanto ricercati e fondamentali in questo disegno, dei proprietari dei dipinti; da Varoli e Folli a Avveduti, Ruffini, Verlicchi e Panighi, e naturalmente Moreni e Sartelli, e poi Manai, fino a giungere e toccare le più significative esperienze contempo-

ranee locali come nel caso di Piero Dosi, Francesco Izzo, Nicola Samorì, Vanni Spazzoli, Lucia Baldini, Riccardo Baruzzi, Cesare Baracca... Capogiri: i maestri pericolosamente insieme ad autori meno noti, personalità di chiara fama accostate, fianco a fianco, ad artisti talvolta minori, o oscuri o dimenticati e spariti col tempo; una platea o fitta schiera capace di azzerare le gerarchie a favore di una ricca, brulicante, labirintica e inattesa polifonia di sguardi. Cacciatori di teste è il pensiero e architettura di un articolato museo immaginario e nascosto che si apre e svela, concedendo e schiudendo sorprese e visioni; un museo parziale, arbitrario e imperfetto, effimero, incompiuto, non rispondente tanto a criteri scientifici ma piuttosto governato da suggestioni, sensibilità, affinità elettive e problemi di natura puramente estetica, svelante connessioni e contrasti, rimandi interni e fughe. Eppure crediamo che questa operazione, che parte dallo sguardo privato e personale dei collezionisti, e dalle visite alle case che questo sguardo custodiscono gelosamente, tratteggiando e trattenendo personali geografie sentimentali, e collegandole, sia capace di raccontare, integrare, estendere e completare la narrazione, ricerca e studio sui luoghi, memorie e presenze portata avanti dai nostri musei e istituzioni, creando un’imperdibile mappatura, aperta e non finita, di ciò che è stato e continua a essere e cresce e si accumula e stratifica tuttora; storie e tempi che si alimentano, fiumi carsici che scorrono sotto, pronti, prima o poi, a riemergere. MF

Germano Sartelli Senza titolo, 2001, rame lavorato, 75 x 60 x 10 cm (Collezione privata, Lugo) 129


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1 Mattia Moreni Autoritratto n.94 1993, olio su tela, cm 85x85 (Collezione privata, Lugo) 2 Nicola SamorĂŹ S.t. 2013, olio su tavola, cm 31x21x6,5 (Collezione privata, Lugo) 3 Piero Manai Testa, 1982, olio su tela, cm 35x20 (Collezione privata, Bagnara) 4 Cesare Baracca Mania Likes all Drugs 2010, olio su tela, cm 100x90 (Collezione privata, Lugo) 5 Velda Ponti Testa verde 1989, olio su tela, cm 30x30 (Collezione privata, Lugo) 6 Vanni Spazzoli Testa 2010, acrilico su carta, cm 55x45 (Collezione privata, Bagnara) 7 Massimiliano Fabbri Testa bianca 1994, olio su tela, cm 52,5x47 (Collezione privata, Lugo) 8 Piero Dosi Volto 1985, inchiostro su carta su tela, cm 100x70 (Collezione privata, Lugo)

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9 Piero Dosi Autoritratto 1981, olio su tela, cm 100x80 (Collezione privata, Bagnara) 10 Velda Ponti Florindo e Florinda sono insieme 1989, olio su tela, cm 100x100 (Collezione privata, Bagnara) 11 Bengt Lindstrom Les ivrognes 1972, olio su tela, cm 160x130 (Collezione privata, Bagnara) 12 Umberto Folli S.t. 1976 olio su masonite, cm 30x25 (Collezione privata, Lugo) 13 Virgilio Guidi Figura di donna 1943, olio su tela, cm 60x70 (Collezione privata, Lugo) 14 Mattia Moreni Figura con fazzoletto rosso 1944, olio su tela, cm 73x54 (Collezione privata, Lugo) 15 Giulio Ruffini La madre 1972, olio su tela, cm 40x50 (Collezione privata, Lugo) 16 Ettore Panighi Ragazza in verde 1989, olio su tela, cm 80x100 (Collezione privata, Lugo)

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17 Sandro Chia Gazza ladra 2009, olio su tela, cm 92x73 (Collezione privata, Lugo) 18 Riccardo Baruzzi Blow up 2013, acrilico su alluminio, cm 51x39 cm (Collezione privata, Lugo) 19 Esodo Pratelli Ritratto della sig.na Antonia Venturi 1922, olio su tela, cm 69x49 (Collezione privata, Lugo) 20 Luigi Varoli Canto di araba (Olga) 1931, olio su tavola, cm 66;5x58 (Collezione privata, Bagnara) 21 Massimo Pulini Benedetta 2008, smalto su tavola, cm 90x80 (Collezione privata, Lugo) 22 Giovanni Frangi Assunta Taylor Figure 1992, olio su tela, cm 120x150 (Collezione privata, Lugo) 23 Primo Costa Testa 1964, olio su tela cm 34x46 (Collezione privata, Lugo) 24 Primo Costa Ritratto di Barbara (Collezione privata, Bagnacavallo)

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25 Sauro Cardinali Volto 2002, pigmenti su legno, cm 29x21 (Collezione privata, Lugo) 26 Vanni Spazzoli Testa 1990, tempera su carta telata, cm 100x85 (Collezione privata, Lugo) 27 Riccardo Baruzzi Blow up 2013, acrilico su alluminio, cm 51x39 (Collezione privata, Lugo) 28 Francesco Izzo Memoria e materia (particolare) 1998, olio su tela, cm 53x45 (Collezione privata, Lugo) 29 Vanni Spazzoli Donnaccia 1995, tecnica mista su carta su tela, cm 140x100 (Collezione privata, Lugo) 30 Massimo Brancaleoni La vergine dal garofano 1994-98, olio su tela, cm 134x66 (Collezione privata, Lugo) 31 Lucia Baldini Carnevale 1973 2003, olio su tela, cm 120x80 (Collezione privata, Lugo)


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32 Andrea Ghetti Nedo che pensa 1995, olio su tela, cm 120x80 (Collezione privata, Lugo) 33 Ezio Camorani Autoritratto con le mosche 1986, olio su tela, cm 125x130 (Collezione privata, Lugo) 34 Paolo Barbieri L’amico 1957, olio su tela, cm 100x70 (Collezione privata, Bagnara) 35 Piero Dosi Autoritratto 2005, olio su tela, cm 70x50 (Collezione privata, Lugo) 36 Roberto Casadio Autoritratto 1983, olio su tela, cm 60x50 (Collezione privata, Lugo) 37 Giulio Ruffini Ritratto di Anna 1955, olio su tela, cm 100x70 (Collezione privata, Lugo) 38 Roberto Sella Ragazza dalla giacca rossa s.d, olio su tavola, cm 42,5x29,5 (Collezione privata, Lugo) 39 Giovanni Cappelli Ritratto di Sughi 1986, olio su tavola, cm 30x35 (Collezione privata, Lugo)

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40 Luigi Varoli Ritratto d’uomo 1927, olio su tela, cm 50x42 (Collezione privata) 41 Giulio Avveduti Ritratto della moglie di Lino Guerra 1963, olio su tela, cm 50x40 (Collezione privata, Lugo) 42 Ermanno Toschi Ritratto S.d., olio su tavola, cm 61x50 (Collezione privata, Lugo) 43 Luigi Varoli Testa di donna (Olga) S.d., acquerello su carta, cm 13x10 (Collezione privata, Lugo) 44 Luigi Varoli Testa di ragazzo S.d., acquerello su carta, cm 16x11 (Collezione privata, Lugo) 45 Franco Pozzi Ignoto a me stesso, l’aleph 2012, matita su carta, mm 35x25 (Collezione privata, Lugo) 46 Massimo Pulini Aspettando 2001, olio su lastra fotografica vitrea, cm 20x26 (Collezione privata, Lugo) 47 Umberto Folli S.t. 1976, olio su masonite, cm 30x25 (Collezione privata, Lugo)

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48 Francesco Verlicchi Uomo seduto 1970, olio su tela, cm 33x43 (Collezione privata, Lugo) 49 Giulio Ruffini Autoritratto 1994, olio su tavola, cm 40x30 (Collezione privata, Lugo) 50 Cesare Baracca Autoritratto 1994, olio su tela, cm 30x30 (Collezione privata, Lugo) 51 Francesco Verlicchi Autoritratto 1936, acquarello su carta, cm 69x46 (Collezione privata, Lugo) 52 Luigi Varoli Testa di uomo 1921, olio su cartoncino, cm 17x24 (Collezione privata, Lugo) 53 Luigi Varoli Testa di donna 1921, olio su tela, cm 15;5x21 (Collezione privata, Lugo) 54 Luigi Varoli Ritratto del padre s.d., olio su tela, cm 23x18 (Collezione privata, Lugo) 55 Massimiliano Fabbri Ritratto di Claudia 1995, olio su tela, cm 35x25 (Collezione privata, Lugo)

56 Massimiliano Fabbri Testa (N.2 di un trittico) 2002, olio su tela, cm 100x100 (Collezione privata, Lugo) 57 Luigi Varoli Ritratto di Giacomo Matteotti 1945, olio su tela, cm 188x155 (Collezione privata, Lugo) 58 Giulio Ruffini Ritratto della madre 1969, tempera su carta, cm 100x75 (Collezione privata, Lugo) 59 Piero Dosi Autoritratto S.d., olio su carta, cm 105x75 (Collezione privata, Lugo) 60 Giulio Ruffini Ritratto di vecchia S.d., tempera su carta, cm 70x50 (Collezione privata, Lugo)

Cacciatori di teste | 139


Elzbieta e i suoi compagni Ritratti e autoritratti delle bambine e dei bambini del mondo nelle opere della collezione PInAC Alfonsine / Museo della Battaglia del Senio 6 dicembre 2014 – 18 gennaio 2015

A cura di Elena Pasetti, Fondazione PInAC Pinacoteca Internazionale dell’età evolutiva Aldo Cibaldi, Rezzato (BS)

www.pinac.it


Elzbieta e i suoi compagni, mostra realizzata da Fondazione PInAC per la manifestazione Selvatico 3, è un album di ritratti e autoritratti provenienti dal tempo e dallo spazio: il tempo in cui sono stati realizzati, dagli anni Sessanta ai giorni nostri, lo spazio che è il mondo intero. Infatti, se il linguaggio pittorico è matrice comune alle opere esposte, le lingue degli autori rimandano alla Francia e al Perù, al Giappone come all’Australia, al Kenia e alla Polonia, alla Russia, all’Italia come alla Spagna, alla Romania o agli Usa. Come Elzbieta nel suo Ritratto della compagna, tutti gli autori presenti raccontano di sé, dei propri amici e dei loro affetti. Oltre alle tecniche tradizionali la mostra presenta la recente raccolta di videoritratti realizzati in PInAC nel laboratorio Pennelli elettronici. La Pinacoteca Internazionale dell’età evolutiva Aldo Cibaldi, nata a metà degli anni ’50 a Rezzato, formalmente istituita nel 1969 come Esposizione internazionale permanente dell’espressività infantile, diviene poi Pinacoteca civica di Rezzato nel 1974 e nel 2009 si trasforma in Fondazione PInAC. PInAC è un prezioso bene di Rezzato, del territorio bresciano e nazionale. Unica nel suo genere anche in Europa è una collezione fortemente segnata dal carattere internazionale. La Raccolta museale, riconosciuta dalla Regione Lombardia, raccoglie, cataloga e studia l’espressività infantile rappresentata da oltre 7.000 opere provenienti da 68 Paesi del mondo. PInAC si fa conoscere attraverso mostre, esposizioni e promozione di convegni e rappresenta una concreta testimonianza del diritto all’espressione e all’approccio all’arte per tutti. Centro di studi sul segno infantile, si avvale della collaborazione di artisti italiani e stranieri di comprovata sensibilità pedagogica e con consolidata esperienza nel campo dell’arte visiva per la realizzazione dei suoi atelier e workshop. Ha inoltre ideato un percorso sull’immagine sonora denominato “Pennelli elettronici”, che utilizza gli strumenti offerti dalle nuove tecnologie. PInAC educa alla conoscenza e al rispetto dei diritti di tutti i popoli, ciascuno nelle proprie diversità artistico-culturali. Collabora e si confronta con enti locali, scuole di ogni ordine e grado, università e centri di ricerca, organizzazioni no profit del settore, imprese sensibili al tema. Nel luglio 2012 PInAC ha firmato un Protocollo d’Intesa per le pratiche interculturali attraverso i linguaggi dell’arte e dell’espressività infantile e giovanile con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Il compagno di Nomura 5 anni, Kobe GIAPPONE 1967, acquarello cm 54 x 38 141


Ritratto della compagna di Elzbieta Cyrnaska 9 anni, Beazin, Polonia 1973, tempera cm 29,5X41,5 142

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Autoritratto di Charles Meunier 5 anni, Metz, Francia 1970, pastelli cm 59 x 45 Elzbieta e i suoi compagni 143


La ragazza col mandolino, di Francesca Ambrosini 11 anni, Brescia 1967,tempera cm 34 x 24 144

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Sguardi in macchina, laboratorio di videoritratti coi bambini e le bambine di 9 anni di Rezzato, Progetto Metissakana 2013 Elzbieta e i suoi compagni | 145


Tra occhio e mano Fusignano / Il Granaio

6 dicembre 2014 – 18 gennaio 2015 A cura della scuola Arti e Mestieri di Cotignola con la partecipazione delle scuole di Arti e mestieri della Bassa Romagna (Fusignano, Bagnacavallo, Massa Lombarda, Alfonsine e Cotignola) e delle sezioni didattiche dei musei MAR Ravenna e MIC Faenza


La mostra parte dalla volontà di valorizzare l’importante tessuto, presente da oltre un secolo nella Bassa Romagna, costituito e punteggiato dalla presenza delle scuole di Arti e mestieri, centri con vocazione popolare tuttora attivi e vivaci e operanti, in varie forme e modalità, nei comuni di Bagnacavallo, Cotignola, Fusignano, Massa Lombarda e Alfonsine; a questa rete si aggiungono, come controcanto, le due più importanti realtà museali presenti nella provincia di Ravenna, il Mar di Ravenna e il Mic di Faenza, con le rispettive sezioni didattiche, laboratori che fanno della scoperta, sperimentazione, conoscenza e gioco impegnato sull’arte, uno degli snodi che ha permesso loro un costante rinnovamento della proposta e delle modalità di lavoro con e insieme ai bambini. Oltre a far luce su queste realtà, che negli anni si sono specializzate nella didattica dell’arte senza dimenticare l’importanza, del fare e sperimentare sporcandosi le mani e incontrando i materiali e le cose, come ben testimoniato anche dallo sguardo plurale del maestro Luigi Varoli, uno dei nostri punti di riferimento, maestro ed educatore, tra i primi in Italia a dare spazio ed emancipare il disegno infantile, questa mostra vuole anche essere un momento di condivisione, dialogo e aggiornamento tra operatori del settore e animatori di queste scuole e centri e sezioni, qui chiamati a un lavoro in rete e a un confronto fertile e a più voci, a partire dal medesimo tema: come si vedono e rappresentano i bambini oggi, e quali

i sensi nel farlo attraverso procedimenti artigianali, modi di vedere e tecniche rubate agli artisti. Questa mostra è allora un cuore numeroso, una fitta galleria di sguardi fatta dai molti volti e compagni di questi bambini, un vero e proprio flusso e archivio di facce e maschere e modi di fare legati alla potenza evocativa e urgenza della pittura, manipolazione e disegno infantile, pratiche e linguaggi che ci restituiranno una platea di sguardi potente e ancora non del tutto neutralizzata e addomesticata dall’omologazione. Che in fondo, il nostro compito come adulti ed educatori, è quello di fornire gli strumenti e preparare il terreno a questa fioritura; per essere complici e soprattutto spettatori stupiti di questa indispensabile ricchezza. A noi la coltivazione e l’ascolto, ai bambini lo scarto, la sorpresa e il capogiro che scompiglia le carte in tavola e apre ad altri mondi e modi di vedere. Questa mostra, è anche la storia di questa relazione fragile e preziosa tra mondi. MF

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Sezione Didattica MAR Museo d’Arte della Città di Ravenna

Da quando il museo non è più solamente un luogo pensato per studiosi ed esperti ma si è aperto al grande pubblico, anche a coloro che per entrare e godere delle collezioni non devono possedere una formazione specifica, le Sezioni didattiche sono diventate componenti indispensabili a supporto delle strutture museali. Fin dalla sua nascita, nel 2002, il Museo d’Arte della città di Ravenna si è dotato di una Sezione didattica che si è posta l’obiettivo di sollecitare l’interesse e la curiosità dei visitatori e di ‘tradurre’ il linguaggio, spesso complesso, dell’arte visiva in modo che possa essere accessibile a tutti, in particolar modo ai visitatori più giovani e al mondo sella scuola. Le opere d’arte, infatti, quando entrano all’interno di un museo diventano oggetto di deferenza, sono percepite spesso come misteriose tanto da apparire, a volte, mute e irraggiungibili. È qui che si inserisce la professionalità dell’operatore didattico, 148

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il cui ruolo è quello di dare voce alle opere rendendole accessibili a tutti attraverso visite guidate, laboratori didattici e corsi di formazione per rendere il museo un luogo, non solo ospitale e gradevole, ma disponibile ad essere ‘contaminato’ da pensieri e osservazioni non convenzionali. È in particolare per bambini e ragazzi che vengono sperimentate nuove letture e percorsi con l’obiettivo che possano essere loro stessi a a far parlare e vivere dipinti, sculture e installazioni mentre le osservano con occhi nuovi e curiosi. Chi accompagna i piccoli visitatori in quest’avventura deve condividere lo stesso interesse, lo stesso sguardo attento nello scorgere qualcosa di nuovo nelle opere d’arte come se queste ultime fossero in progressiva crescita,nutrite dall’attenzione degli sguardi, e non immobili, cristallizzate per sempre dentro una teca o dietro un vetro. Per i visitatori più giovani è anche molto importante poter sperimentare direttamente in laboratorio le tecniche artistiche per sviluppare le intuizioni suscitate dalla visita al museo perché, come diceva Bruno Munari, ‘se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio comprendo’. È per questo che il laboratorio del MAR è concepito come un vero e proprio atelier d’artista, un luogo pensato per permettere a tutti di mettersi all’opera e sperimentare l’arte con le modalità proprie degli artisti, lasciando fuori dalla porta inibizioni o pregiudizi. Le sale che ospitano i laboratori didattici del MAR non sono solo ospitali, spaziose e ricche di spunti e materiali, ma sono ideali e molto adatte a questo scopo perché erano le aule dove veniva insegnata Pittura quando l’edificio della Loggetta Lombardesca ospitava ancora l’Accademia di Belle Arti di Ravenna. Le sale sono state adattate e adeguate all’esigenza di ospitare numerose scolaresche e famiglie ma al contempo, entrandovi, si percepisce ancora tutta la vitalità e la creatività alimentata dall’energia e dalla fantasia di migliaia di ragazzi che, nel corso del tempo, hanno disegnato, cancellato, dipinto, creato e pensato all’arte tra quelle mura; mura che continuano ad assistere ancora oggi al lavoro creativo di bambini e ragazzi di ogni età. Filippo Farneti


Filippo Farneti Klee Dubuffet Ligabue Basquiat

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Sezione Didattica MIC Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza La Sezione Didattica del MIC propone diverse attività legate “laboratorio giocare con l’Arte” e a percorsi storici e tematici sul patrimonio del museo (visite guidate, laboratori ceramici e grafico-pittorici, itinerari didattici sul territorio). Il primo, più noto, fu inaugurato nel 1979 da Bruno Munari e dall’allora direttore Gian Carlo Bojani e ancora oggi è un punto di riferimento organizzativo per molte scuole, e collabora anche alla formazione e all’aggiornamento di colleghi e collaboratori che animano i servizi educativi museali. Le altre attività, avviate già nel 2003/2004, sono seguite da collaboratori del MIC con, da quest’anno, il supporto della Cooperativa Atlantide. Se il 2009 aveva visto una forte maturazione e radicamento delle proposte di visite animate, attività-gioco e laboratori non ceramici rivolti essenzialmente alle scuole, è dal 2011 che tutti i servizi didattici del Museo riescono ad integrarsi e coordinarsi tra loro, per offrire un panorama piuttosto completo di attività calibrate sulle diverse fasce di pubblico che già frequentano il Museo, affinché ciascuno, bambino o adulto, possa giocare, sperimentare, stimolando la propria creatività, traendo le suggestioni dal patrimonio ceramico esposto e dagli eventi temporanei. Dal 2012 è stata avviata una programmazione, da ottobre a maggio, sui weekend con un discreto successo. Se il sabato mattina è destinato all’attività dei piccoli (di età 4-6 anni), la domenica invece genitori e bambini lavorano assieme in percorsi vari, ceramici e non.

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Scuola Arti e mestieri Cotignola

La scuola di Arti e mestieri di Cotignola è una scuola di quasi arte, qualcosa che sta a metà tra una casa e una sezione didattica del museo, un po’ bottega in cui sperimentare modi di fare e incontrare le cose e i materiali, un po’ palestra per gli occhi e modi di vedere tanti e divergenti. Un laboratorio dove si disegna e dipinge, si costruiscono libri artigianali e si fanno maschere e burattini con la cartapesta, e poi sculture e feticci con i materiali di recupero e animali protostorici e altre cose sciamanesche e animiste con la creta; dove si lavora con gli artisti, si ascoltano storie, si guardano film, si dorme, si mangia, si fanno feste, e da cui si parte anche, per parate, scorribande, esplorazioni, scoperte e viste al museo; il museo è quello dedicato a Luigi Varoli (una specie di nostro babbo o fratello più grande) pittore, scultore, musicista, collezionista, maestro e uomo giusto e, la scuola arti e mestieri, non solo è luogo di congiunzione e collegamento tra questo e i bambini e ragazzi, ma è anche sua espansione e prolungamento quotidiano. Tra le molte proposte e percorsi attivati c’è Saluti da Cotignyork, settimana di occupazioni felici e rivoluzioni gentili fatta per i bambini e i loro adulti.

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Il Cerchio Fusignano Il Cerchio nasce nel 1981 come centro di animazione del Comune di Fusignano. Dopo molte metamorfosi si è configurato sempre di più come laboratorio creativo rivolto ai bambini e ai ragazzi di Fusignano dai 2 ai 14 anni. Assieme ai loro insegnanti durante l’anno scolastico si sperimentano tantissime tecniche espressive (grafiche, pittoriche, plastiche) utilizzando anche materiali poveri e di recupero che vengono regalati da cittadini e aziende del paese. Molte delle attività svolte sono ideate e proposte in sinergia con le iniziative culturali del paese (mostre, feste, animazione). Il Cerchio è organizzato e condotto da Betty (Elisabetta Merendi) e Laura (Laura Tramonti).

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Casa dei due Luigi Alfonsine Il Laboratorio “I due Luigi” è una piccola fabbrica delle idee nel Comune di Alfonsine, aperta nel 2009 ed attualmente gestita dalla Cooperativa Sociale Il Cerchio. Le attività sono curate dall’atelierista Mascia Lucci che realizza laboratori ludico-artistici per i bambini dell’Asilo nido, della Scuola dell’Infanzia e della Scuola Primaria di Alfonsine. Il laboratorio svolge inoltre attività espressive insieme ai disabili del Centro socio-occupazionale L’Inchiostro, corsi di formazione per educatori ed insegnanti, laboratori serali per genitori e bambini , giochi ed animazioni durante La Città dei Ragazzi di Alfonsine. “I due Luigi” è un luogo dove “è vietato non toccare”, dove tutti i materiali possono essere usati e trasformati, dove è possibile sperimentare diverse tecniche artistiche per stimolare la curiosità dei bambini a provare ed imparare attraverso il gioco e la creatività.

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Scuola Arti e mestieri “Umberto Folli” Massa Lombarda

“Sforzasi bene spesso la benigna Natura infondere tanta grazia ne’ nostri artefici con tanta divinità nel maneggiare de’ colori, che, se e’ fussero accompagnati da profondissimo disegno, ben farebbono stupire il cielo come egli empiono la terra di maraviglia”, scrive il Vasari, parlando del Correggio, nel suo straordinario “Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori”, libro che, da solo, batte qualsiasi polveroso e grigio tomo di storia dell’arte. Già 32.000 anni fa (come dimostrano i dipinti rupestri delle grotte Chauvet, in Francia) i nostri antenati avevano compreso che “l’arte” è l’unica arma che noi possediamo per “stupire il cielo”. Le botteghe dei pittori rinascimentali, gli atelier degli impressionisti e poi dei più astrusi adepti delle Avanguardie, han forgiato cavalli di razza per il Parnaso: dagli anni Cinquanta, con le “scuole di Arti e mestieri” (quanta Bellezza ed Umiltà in queste 2 parole), pionieri come il cotignolese Luigi Varoli han fatto sì che chiunque, armato di sana, viva, inquietudine, abbia modo di manovrare una bella lampara nella notte, ed aiutare a riempir “la terra di maraviglia”. E chi, in questa modernità imperfetta, sa cogliere “la maraviglia” se non un bambino?

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Scuola d’Arte “Bartolomeo Ramenghi” di Bagnacavallo Fondata a Bagnacavallo nel 1895 come Scuola d’Arte e Mestieri, per migliorare la qualità del lavoro degli artigiani locali, la scuola d’Arte “B. Ramenghi” si è modificata nel tempo, in sintonia con i cambiamenti sociali, fino a diventare un punto di riferimento per quanti vogliono approfondire la conoscenza dell’arte e delle sue modalità di espressioni. Ogni anno, quasi duecento persone di tutte le età: bambini, ragazzi e adulti affrontano insieme i percorsi d’arte proposti dalla scuola, intraprendendo “un’avventura della mente”, una sorta di viaggio dentro se stessi e le proprie capacità creative per arrivare a esprimerle al meglio, in un processo di ricerca continuo di miglioramento della conoscenza delle proprie potenzialità dei materiali e delle tecniche. La Scuola d’Arte B. Ramenghi è diretta da Liliana Santandrea, i corsi sono gestiti dall’amministrazione comunale in collaborazione con l’associazione Cercare la Luna. Le attività della Scuola d’Arte sono varie: dai corsi pomeridiani per bambini e ragazzi che coinvolgono bambini e ragazzi dai cinque ai tredici anni, ai corsi per adolescenti e adulti dove si affrontano varie tecniche artistiche come disegno, pittura, incisione, figura dal vero, modellato e attività plastiche, ai progetti tematici svolti all’interno dell’Istituto scolastico comprensivo di Bagnacavallo. A questi progetti permanenti si aggiungono progetti particolari che variano di anno in anno, come Città dei Bambini, mostre ed esposizioni collettive, celebrazioni come il 25 aprile e il 21 dicembre, allestimento delle vetrine del centro storico.

Tra occhio e mano | 155


Storie del volto dipinto Bagnara / Rocca Sforzesca domenica 11 gennaio 2015

Massimo Pulini, Marco Servadei Morgagni, Francesco Caggio, Claudia Collina Alessandro Giovanardi, Diego Galizzi, Vittorio D’Augusta, Sabrina Foschini Un momento o una stagione della storia dell’arte visti attraverso una singola testa, impressi in un unico volto dipinto scelto e raccontato da storici dell’arte, artisti e direttori di musei; ciascuno di essi ha descritto un ritratto, isolando un viso tra i molti amati e contribuendo a un racconto dove la storia delle immagini sembra procedere per lampi e bagliori capaci di sospendere il tempo e restituircelo come un percorso tutto al presente


Nicolò Musso, Cristo mostra la ferita del costato, Perth, Museo Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa | 157


Il Cristo di Perth Massimo Pulini La fronte corrugata in onde turgide, quasi tessili, il capo reclinato in avanti col mento aderente al petto, sospeso un attimo dopo essersi guardato dentro la ferita. In quell’istante infinito lui si rivolge a noi, ancora fermo sul gesto col quale ha divaricato i lembi carnosi dello squarcio. Questo Cristo tratta la propria pelle come una scarpa rotta in mano a un calzolaio. Sembra quasi chiedersi se debba ricucirla o lasciare la sorgente aperta per la prossima ondata di sangue. Il suo volto non ha nulla di ieratico, di distante. Non sta redarguendo Tommaso per aver dubitato, non alza la veste agli increduli come in altri quadri, con la sufficienza di chi merita più fiducia, pur concedendo di accedere alla prova. È invece il viso di chi per primo si stupisce di essere ancora vivo, di star vivendo un sogno che non svanisce al tatto, ma che apre a una nuova stagione, oltre la morte. La bocca dischiusa, sospirante, è ancora più attonita degli occhi sgranati. Nella mia vita credo di aver guardato in faccia molti più quadri che persone e se un volto affiora sopra la folla sterminata dei dipinti osservati, se uno sguardo rimane a interrogare, inaspettato e ancora non veramente compreso, è quello del “Cristo che mostra la ferita del costato” del museo di Perth (Australia Occidentale), che pur non avendolo mai incontrato di persona, conoscendolo solo attraverso una fotografia, cionondimeno mi ritorna in mente come ne fossi al cospetto, e fortunato mi sento per averne ritrovato il nome del padre, l’autore. Era comprensibilmente attribuito a Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, un senese che a Roma fu tra i primi apostoli di Caravaggio e per un certo periodo dipinse quadri a lui talmente vicini nello spirito da venir confusi, fino ad oggi. Suo è, per fare un esempio, il famoso “Narciso” di Palazzo Barberini, ma anche i “Tre martiri bambini” di Attingham Park, inarrivabile sintesi di bellezza. Anche quest’ultimo quadro meriterebbe un posto di rilievo nella migliore antologia dei volti usciti da un pennello, tanta è la naturale grazia ricavata da un succinto repertorio d’insolita mestizia infantile, ma l’artefice del Cristo di Perth è un altro e meno noto seguace del Merisi. Del piemontese Nicolò Musso, nato a Casale Monferrato intorno al 1590 e morto prima del 1627, si conosce si e no una manciata di opere, ma sono testi eloquenti di un 158

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Spadarino, Tre martiri bambini, Attingham Park, Museo Nicolò Musso, Autoritratto, Casale Monferrato, Museo

giovane genio che a non più di quindici anni sapeva dipingere da adulto come ci dimostra il suo “Autoritratto” conservato nella cittadina natale. Anche in quel piccolo dipinto, in cui il ragazzo è diviso tra specchio e tela, si distilla una preziosa tensione emotiva che la glassa cromatica ha saputo trattenere intatta. Senza distogliere lo sguardo, dal cavalletto ma nemmeno dall’anima, il precoce artista sembra estrarre il suo spirito più nero e determinato. Sono occhi che non stanno solo osservando i dettagli da riprodurre, l’andamento ricurvo delle ciocche di capelli, i passaggi repentini tra ombra e luce, ma scrutano i nostri pensieri, sono in procinto di dipingerli. Un viso fermato in un’immagine ha lo straordinario potere di essere sempre e comunque la cuspide di un racconto emotivo, quel mistero acuto del presente che viene da un prima e un dopo a noi sconosciuti. È da quel presente eterno, costituito dai volti dipinti, che siamo interrogati su quel che abbiamo fatto e sui nostri propositi. Sul senso del nostro vivere il tempo. In nessuna altra parte del corpo, se non nel viso, abitano insieme i cinque sensi, nel volto sono concentrate le loro porte regali, ma è sempre lì, in quel paesaggio di piccoli vulcani, di colline e gorghi, di pareti rugose e folte siepi, di gelatinosi bulbi dalle saracinesche cigliate, di anfratti pelosi e caverne voraci, che trovano espressione tutti i sentimenti dell’uomo. La domanda che risuona muta e perenne nel volto del Cristo di Perth è tutta racchiusa nell’incredulità sensoriale del divino. Intuiamo che il suo corpo non riesce più ad avvertire il dolore, ma sappiamo dalla sua espressione che ha conservato tutto il sentimento umano.


Sguardi distanti Marco Servadei Morgagni Non possiamo guardare i volti così detti “del Fayum”1 come si guarda qualsiasi altro ritratto; non possiamo perché non ci riusciamo. Una volta entrato il nostro sguardo nell’orbita “gravitazionale” di quegli sguardi, non possiamo più sottrarci a una relazione emozionale, a un impatto magnetico con quelle identità effigiate. L’aspetto probabilmente più affascinante e misterioso che accompagna questo gruppo di pitture è una specie di cortocircuito percettivo che si genera per un’alterazione dei parametri con i quali siamo soliti guardare e valutare l’altro da noi: l’empatia è tanto più forte quanto più vengono distorti i concetti di vicinanza e distanza. Uomini e donne vissuti due millenni fa appaiono vicinissimi e assumono una prossimità quasi fisica con chi li osserva per la scelta accattivante di una rappresentazione in primo piano, per l’assenza di qualsiasi dettaglio ambientale e per l’elisione verticale e stretta dell’immagine. Nonostante questa “contemporaneità”, nonostante l’intesa immediata che si genera tra simili quando incrociano i loro sguardi, non può sfuggire che rimane allo stesso tempo una distanza invalicabile a separarci da questi simulacri: distanza esistenziale e dimensionale, più ancora che temporale, radicata nella loro destinazione funeraria. Anche oggi che li vediamo nei musei e decontestualizzati dalle mummie per le quali erano stati concepiti, rimane fortissima in questi volti un’aura di trapasso, qualcosa di già consumato e spento. Affiora poco a poco la contraddittorietà di queste figure; esse vivono al contempo due dimensioni: la morte già presente come orizzonte lungo l’intero arco della vita e la (nuova) vita come condizione ontologica oltre la morte. La contraddizione però si salda indissolubilmente nell’espressione degli occhi, sicura e spaventata insieme, e l’immagine stessa della vita, forse del suo rimpianto, traspare con una immediatezza sconvolgente da questi individui che mentre erano raffigurati prendevano coscienza della propria morte.

La potenza di questi ritratti risiederebbe allora nella capacità straordinaria di essere strumenti concreti, fisici, per traghettare l’essenza dell’effigiato tra questi due mondi, quello dei vivi e quello dei morti, ma ancora tra la dimensione dell’attesa e quella del ricordo, tra quella dell’eternità e quella del transeunte. Nasce addirittura il dubbio, fissando quei grandi occhi che catturano tutta la nostra attenzione, che essi non stiano guardando noi, ma che scrutino un punto all’infinito; che un istante di provvisorietà abbia trovato un varco per traguardare l’immortalità. 1. Sono detti ritratti del Fayum una serie di ritratti funerari, circa 700 oggi sparsi in musei di tutto il mondo, realizzati a completamento di mummie dell’Egitto ellenizzato, in un arco cronologico che va dal I al III secolo d. C. Nonostante siano stati scoperti già a partire dal XVII secolo, l’interesse per il loro significato e la loro origine si è sviluppato soprattutto presso gli archeologi alla fine del Novecento. Per una trattazione più estesa si veda, in italiano: Jean-Christophe Bailly, L’aposrofe muta. Saggio sui ritratti del Fayum, Macerata, Quodlibet, 1998. Storie del volto dipinto | 159


Guardare altrove ritrarsi allo sguardo Francesco Caggio

Il lavandino è arrotondato e contenuto, ben definito, rassicurante e nel traslucido delle sue rotondità si disegnano mobili e di un grigio gentile le sagome di chi vi è appresso, non si vedono altro che sagome, contorni che oscillano; acconcata nel suo fondo dell’acqua raccolta e tiepida che è proprio azzurra, circoscritta e definita. Il mezzo busto del bambino sta fra l’orlo bianco della concavità del lavandino e l’orlo azzurro dell’acqua che, pur mossa dall’indaffarare, della madre è immota. La testa del bambino è invece tutta contenuta lì dentro, confina appena con i bordi del cerchio azzurro dell’acqua, si svaga appena un pò, ma è tutta lì; non è visibile alcunché del volto, tranne la sua ombra e la sua forma. Si rispecchia un’ombra del piccolo che attende impaziente che la madre finisca di pettinarlo: ben lisciato, in ordine, buono, bravo, ricomposto. Il bambino guarda i gesti precisi, netti e decisi che gli rassettano i capelli: guarda il pettine che veloce si muove nelle mani compiute, precise e armoniose della madre. E resterà con questo fascino per le mani che sempre osserva a lungo, a volte così assorte nella loro precisione da essere inguardabili; si meraviglia spesso delle sue (c’è un Van Dyck genovese inguardabile – ma non è il solo – che lo artiglia con le sue mani): se guarda altro evita così di farsi prendere dagli occhi che arrivano sempre dopo, li evita dapprima; è cauto e circospetto il suo e già ritirato e pavido guardare. Ma, certo, è solo viltà. Nessun coraggio nell’esporsi e nell’interpellanza). Intanto guarda la sua fronte 160

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liberata dai ciuffi ribelli, ma non guarda e neanche vede il suo viso, si ferma ai contorni, nei contorni in cui viene fatto su di lui e per lui qualcosa, ma non guarda lui. Sfugge, come: possiamo ipotizzare un lieve timore, un’insorgenza di tremore per il cambiamento che va subendo ogni mattina. Stupito che qualcosa cambi, che può cambiare: teme forse il cambiamento? Il suo proprio cambiamento? Ma non ricorda mai bene com’era prima. Si dimentica di sé. È impegnato altrove. Oltre i contorni. Teme il confronto? Pare che dicano che sia sfuggente, per fatti suoi, che sia nascosto, che sia doppio, forse stanno dicendo che è dislocato, che non è con loro; egli li osserva; si chiede spesso se parlano di lui; di quale lui. A chi si rivolgono? Chi stanno interpellando? Timore della risposta, timore dell’impegno, timore del rispondere, timore di guardare negli occhi: chissà mai! Chi pensa di incontrare il bambino? Lo dicono timido, sarà: forse si è occultato nei suoi anfratti e resta così quieto come la conca d’acqua (forse dentro la stessa conca d’acqua), inaccessibile. Sa che ha un segreto, sa che ha dei segreti, sa che sono suoi e di nessun altro e così sorride appena un pò, accenna a una lieve increspatura di risposta e di presenza. Così gli altri stanno al di là, oltre il suo confine. Si potrebbe parlare di dolore di una perdita, del dolore di aver perso qualcosa, del dolore di essersi perso ma, in tempi remoti, laddove c’è il grigio chiaro e lattigginoso dell’acqua immota ma non riflettente. Nel grigio di uno specchio di altri tempi, degli specchi che si macchiano con il tempo; li sfiora spesso. Spesso cerca di togliere loro il panno dell’opacità e si diverte a non vedersi tanto bene. Vanità della presenza che gioca con la sua possibile evanescenza; colpevole compiacimento dell’esserci. Se la perdita e il dolore sono di altri tempi – tempi che sono quindi passati – non vale certo la pena tornare a ricercarli; non è il passato che importa, è il futuro. Invece lo specchio è troppo presente, è il presente. E se si è perso non si può certo ritrovare, libero proprio perché perso. Perso? Quindi libero.


Solo dolore? O anche, in cambio, libertà? Fremiti di libertà, di essere per sé, di essere sciolto e svincolato dal tempo della crescita, dal tempo dei legami, dal tempo della commedia; può guardare fuori scena, può vedere ciò che accade nella scena a cui sta accostato, a cui si approssima. Un’ombra sul palcoscenico degli altri: la sua ombra è come quella di quando da bambino fuggiva all’interrogazione dello specchio e sostava nella riflettenza azzurra e grigia della sua sagoma. Un fremere di impazienza per distogliersi dal dover dialogare con se stesso: ma cosa chiederà mai costui? Libero di non rispondere e libero dal dover render conto; per altro cosa dirsi? Noia della conferma.Un bambino è un bambino: si sa che un bambino è solo un bambino, non altro. Paura, rischio e sufficienza insieme rispetto al rischio di rimanere dentro allo specchio in compagnia di chissà chi, se non di se medesimo bambino; paura, rischio e sufficienza di essere interpellato, ma poi da chi? Dall’altro bambino che non è altro che il bambino impaziente e fremente davanti a lui stesso medesimo? Certo è che non si ferma davanti all’altro bambino così simile a lui stesso medesimo bambino. E per fare cosa, per dirsi cosa? Mica vuol perdere il suo tempo, giorno dopo giorno, a segnare le ore e l’accumularsi degli anni sul suo volto! Ma non è il caso: sa già che si muore. Non si può che morire. Quindi ha fretta, urge uscire per andare oltre la conca dell’acqua, oltre il bordo del lavandino, oltre i confini del suo volto che conosce perché sa che è lì, che lo inerisce, se l’è trovato. Ebbrezza della dimenticanza e possibilità di essere nuovo. Un nuovo bambino ogni giorno, dimentico del tempo. Sa che se sta fermo davanti allo specchio muore prima, lo sa bene. Nessuna posa. Allora è bene uscire, ha sempre fretta. È di fretta, così arriva prima a chiudere il giorno e i giorni; se c’è da arrivare a sera e poi alla notte tanto vale fare prima possibile. Irrequietezza alla posa: i barbieri lo insoffrono. Poco dopo sentono che sta per andare via, che dice sempre che va bene tutto – distratto – mentre sta già scendendo dalla poltrona; sta al gioco dello specchio che dovrebbe acclarare il lavoro di rifinitura del suo capo; non guarda e non vede; deve andare, c’è altro da fare. Per altro il volto lo si presta agli altri, per rimanere soli con se stessi, per rimanere salvi dagli imbrigli, per tenere le distanze; da sempre ogni tanto rieccheggia in lui il “noli me conspicere”. Liberamente sceglie, euforia della consapevole libertà, di non stare negli occhi degli altri; guarda altrove, anche in ascensore, davanti al grande specchio, riesce a guardare altrove, al di là della sua parvenza. Se è solo parvenza merita forse di essere osservata? È solo un accidente.

Sta per sé, sta bene se solo e concentrato in sé e quindi forse non ha bisogno di alcuno specchio, sa che c’è. C’è come buono, bravo, ordinato, ricomposto ma, in realtà, sa di non essere mai a posto, è sempre un po’ fuori posto. Eh, si! Fa fatica a provare gli abiti da acquistare, spesso sbaglia, anzi quasi sempre. È casuale. È sicuramente presentabile, senza assicurare di essere presente, forse sorride. C’è una foto del bambino – una delle poche – in cui è in primo piano, ma è ritratto (nel senso di contratto), sorridente, intimidito e come preso d’improvviso. Non concede nulla al fotografo, sta sulle sue: ride rappreso. È un Narciso etico, più avanti con l’età sarà accigliato e irritato: cosa vuole questo da me che mi riprende? Come penserà per altro di F.D. che lo ha ritratto due volte via fotografia. C’è solo un ritratto che riesce a incrociare: lui, chi altro lui?, è evanescente e perso nel contorno degli occhiali e della barba, per il resto ombra. Dell’altro guarda solo il lato di un azzurro teso e vuoto. Un vuoto, un’assenza. Un azzurro segreto. Chi ritrae che cosa vuol svelare di colui che si presta ad essere ritratto? E chi si fa ritrarre cosa chiede che sia svelato? O ancora cosa reclamano in dono e cosa credono di poter reclamare l’uno e gli altri? Presuntuosi, arroganti, impertinenti, impudichi, certo incapaci di star con sé e con la propria casualità mortale, con la vanitas del proprio teschio. Perché essi, coloro che si sono fatti ritrarre e sono ritratto e ritratti, al di là del silenzio mortale in cui sprofondano, chiamano continuamente, chiamano a colloquio chi per altro, osa guardarli. Ogni ritratto chiede di osare: la domanda del volto dell’altro turba e inquieta. Resterà poi un uomo che è fra quelli della famiglia che fa toilette il più veloce. E quando da ragazzo andava al Poldi Pezzoli amava sostare davanti ai Fra’ Galgario, andando poi a Bergamo all’Accademia Carrara.

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Memoria del paesaggio interiore. Mamandia Scandeus Claudia Collina

Maurizio Calvesi, nel catalogo Tempestas de memoriae ruinis del 1997, presentava così l’artista e storico dell’arte cesenate Massimo Pulini: “in termini concettuali, dipingere sulle radiografie può avere anche un altro significato: regredire dal risultato pittorico al suo processo di formazione, ripercorrere la scelta dell’immagine iterando il gesto dell’antico pittore. Le radiografie di corpi umani lasciano intravedere poco più che macchie indistinte, talvolta un teschio, un arto, un costato, tracce di “interiorità” e di dolore, come se la pittura fosse a sua volta un corpo scrutato dentro; e del resto l’analisi radiografica si esercita anche proprio sui dipinti, che in questo caso rispondono come per un incantesimo, rivelando da tali slumacature il transito sofferto, su quella pagina dell’uomo”. La ricerca di Pulini, pittore partecipe negli anni Ottanta della corrente degli Anacronisti e della Pittura colta, è sintetizzata acutamente da Calvesi con espressioni che indicano la radice filologica del suo operato artistico quale base di sviluppo per l’attuale lavoro. Da un percorso che ha tratto linfa con originalità dagli studi anatomici, dalle tracce delle strutture ossee dei corpi radiografati quale metafora di una percezione interna dell’architettura dell’organismo sulla quale si sono avvicendati con pathos e ragione, come sulla scena di un rivisitato Tintoretto suggestionato dalla poetica poverista di Giulio Paolini, i ricordi affettivi della sua memoria di studioso d’arte, egli è poi passato, dal 2002, a sommare alle radiografie un’indagine pittorica omologa a quella termografica, con risutanze più fisicamente percettivo-emozionali, ma sempre sottilmente concettuali. Da Tempestas de memoriae ruinis alle attuali Diacronie e Diacromie: stratificando con coerenza un mutamento di fase, da lu162

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nare a solare, che porta dalle evocazioni ectoplasmatiche delle radiografie da cui emergevano, lacerati ed evanescenti, baluginìi della struttura di un passato di vestigia iconografiche - sofferto e riattualizzato dall’amore del pittore e storico dell’arte posseduto da una sorta d’intellettualismo neoclassico in cui s’intersecano, in osmosi, razionalismo illuminista ed emotività romantica - ad un’indagine tassonomica e termografica del volto umano, della sua psicologia, del suo potenziale espressivo dettato dalle emozioni dell’interiorità riflessa dagli sguardi pensanti. La termografia è un metodo basato sulla rappresentazione della distribuzione di temperatura del soggetto, tarato sulla rilevazione di energia elettromagnetica irradiata nella banda infrarossa, comunemente definibile come calore; ed usata per il rilevamento delle strutture orografiche. Allora, volti come luoghi dell’anima, paesaggi geografici la cui energia, addensata da cromie fredde e calde, incontra la materia pittorica; la massa fluida stabilizzata che genera la pellicola cromatica delinea l’involucro dei visi, sovrastanti i supporti traslucidi delle radiografie e i neri opachi plasticati. Un naturalismo tecnologico flocculato da un nuovo espressionismo cromatico acceso dalla luce, coagulatrice di forme che modellano la nebulosa incandescente del ritratto e narratrice di malinconici atteggiamenti psicologici dettati da sguardi, creatori di una nuova “fisiognomica” catalogata con titolatura da erbario fantastico e personale. Tali sottigliezze riportano nuovamente al passato neoclassico: agli studi sulla fisiognomica aperti dal Lavater, tra il 1781 e il 1803, con Essai sur la physiognomonie destiné à faire connoitre l’Homme & à le faire aimer e la loro ripercussione sulla pittura contemporanea dell’Ottocento con Il Lavater Portatile, o sia Compendio dell’arte di conoscere gli uomini dai tratti del volto, resumé della fisionomi-


ca, adottato nell’indagine psicologica, anche con i mezzi artistici e visivi, dell’espressione esterna e manifesta delle sfumature emotive e psicologiche interiori dell’essere umano, che affascinavano i più grandi uomini di pensiero europei dell’illuminismo, del secolo successivo sino al XX: da Goethe a Novalis, da Kant a Hegel, da Schelling a Schopenauer sino ad arrivare alle grandi intuizioni di Sigmund Freud e al ritratto come metafora del grande e sterminato paesaggio interiore, più o meno inconscio, della psiche umana. Georg Simmel (1985) s’interrogava come possa “un accostamento di macchie di colore […] fenomeno di superficie, questa astrazione, evocare ugualmente l’idea di una vita interiore, di una spiritualità e del suo carattere determinato” che si riflette nella memoria di chi lo osserva. E allora, forse, il significato più profondo del ritratto è proprio quello del ricordo, di ciò che dev’essere essenzialmente “tratto” dal soggetto e ri/portato dall’autore in altra forma, sia essa letteraria, visiva o meramente verbale, come fa Pulini nelle sue Diacromie a cui abbina nomi esoterici di piante

immaginarie, evocativi e criptati nella magia affettiva che lega l’autore ai suoi soggetti. Mamandia Scandeus, è parte del ciclo Derive, dove “la deriva del colore incontra quella della forma per disporsi ad un destino comune” (Pulini, 2006); e la forma è quella della scatola prospettica, di una stanza ideale della memoria albergata da strutturali anamòrfosi, in cui s’incrociano il passato ed il presente di un umanesimo espressionista ai raggi infrarossi, che registra fasce di sensorialità, movimenti viscerali di energia sottocutanea, palpitazioni interne della carne sommossa, perturbata, dai moti intimi, da pensose affezioni dipinte, parafrasando Remo Bodei, all’interno di un’inesauribile e fantasmagorica “geometria delle passioni”. Testo pubblicato nella mostra virtuale “10 artisti per i Beni Culturali”, a cura di Carmela Baldino e Claudia Collina, 2007, al sito ibc.regione.emilia-romagna.it. Massimo Pulini (Cesena, 1958), Mamandia Scandeus, 2005 smalto su materiale plastico e matita su intonaco, cm 65 x 188, Bologna, Istituto Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna (foto Andrea Scardova, 2014)

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Tre teste che non guardano. Una chiosa a Guido Cagnacci Alessandro Giovanardi Tutti i sensi di Guido sono racchiusi in una testa Massimo Pulini

Una testa senz’occhi non è una testa che non vede. Uno sguardo negato può essere, anzi, la forma più compiuta di veggenza. Esiste un ribaltamento – lo ha insegnato Mino Bergamo – per cui la visione interna ha meno vincoli e limiti di quella esterna. La mistica della Controriforma insiste su questo paradosso; e la pittura, tra la fine del Cinque e la prima metà del Settecento, esonda di trasalimenti luminosi, d’improvvisi squarci celesti, di visioni terribili o consolanti, di tenebre densissime. La tela suggerisce agli occhi profani quello spazio illimitato dell’interiorità redenta che supera i vincoli della spazialità feriale, contraddicendone il giogo delle norme. La stoltezza della croce, meditata nell’ascesi, diviene la scienza dei Santi. A volte la visione si raccoglie nel bulbo oculare, lì dove si schiude alla visione estatica e, uscendo da sé, si rovescia verso il cielo, fino a consumarsi nel deliquio. Le Madonne, i Beati, gli eroi biblici e classici di Guido Reni condensano fino alla più squisita perfezione formale questa teologia della visio. Il divino Guido la ha appresa dal Perugino, da Raffaello, dal Barocci; l’ha ponderata sulle prediche francescane nutrite dalla teologia mistica di san Bonaventura, dove balugina il Sole ultrasensibile di Platone e Plotino, Agostino e Dionigi. Soprattutto la lascia in eredità a tutto il secolo del Barocco, e non solo alla sua scuola diretta, ma anche al Sassoferrato, a Guido Cagnacci. Sì, proprio a quell’altro Guido che l’ha riaccesa nelle Lucrezie e nelle Cleopatre, non meno che nelle Marie vergini e nelle Maddalene, la cui morbida, vellutata carnalità si espande di pari passo con la potenza della loro santificazione, eroica o mistica. Ma il pittore di Santarcangelo, proprio mentre apprende le potenzialità estetiche ed estatiche di Reni, sceglie a volte una via scabra e difficile, quasi un ritorno alle ruvidezze veristiche degli esordi. 164

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Agli anni tra il 1640 e il 1645, risalirebbero infatti alcune piccole tele che si aggirano intorno alla vista impedita dei fanciulli ciechi. La soffusa tenerezza del Mendico, proveniente dalla Walpole Gallery di Londra (fig. 1), così come la commovente versione appartenente a una raccolta privata (fig. 2), indagano il buco nero dello sguardo, il taglio oculare simile a una ferita cauterizzata. Il pennello si avventura su quelle incerte, chiuse esistenze con estrema delicatezza e commozione: non ci è risparmiata nessuna tenebra, nessuna lacrima. L’ultimo Reni che si appressa alla fine o forse già morto trasfonde direttamente in Cagnacci un ultimo sentimento baroccesco, benché votato al pianto autunnale, mentre, per reazione, si riscopre quell’antica radice naturalista che nel Guido santarcangiolese si dice – forse troppo sbrigativamente – caravaggesca o romana. Ma le teste senza sguardo di Cagnacci diventano archetipi di un pensiero implicito e più profondo, splendidamente declinato nella pittura sacra; lì dove il volto del bimbo cieco s’invecchia fino ad assumere i connotati del sacerdote di Diana/Artemide nella grande pala del Miracolo di san Giovanni evangelista ad Efeso. Intento a versare il veleno nella coppa il suo sguardo abbassato, quasi annullato, è, in contrasto con quello dell’Apostolo, rapito nella visione “reniana” dei tre cherubini, un simbolo di cecità spirituale e morale. Vera e falsa fede, cristianesimo iconico e paganesimo idolatrico, luce e tenebre sono poste in scena nella muta eloquentia del teatro sacro pittorico. Ancora più anziano diviene il sembiante del fanciullo senz’occhi, nella commovente teletta devozionale con San Bernardino, di collezione privata londinese (fig. 3): i tratti del giovane mendico, colti da una realtà senza speranza e prestati al maestro cristiano


che ha nel Poverello d’Assisi il suo modello di vita, riemergono consumati dall’eroismo ascetico e dalla preghiera e per questo nobilitati come il veleno nel medicamento. Con la bocca semichiusa il Santo sembra invocare in un mormorio «il nome che è al di sopra di ogni altro nome», secondo l’insegnamento paolino: «perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil. 2,9-11). Bernardino regge il simbolo del trigramma «IHS», il nome epigrafico latino del Salvatore circondato da un sole raggiante, Verbo e Luce, unione di Parola e Immagine. Gli occhi del Beato non contemplano più, hanno interiorizzato la figura raggiante, il Sole è offerto a noi vedenti ma ciechi perché non veggenti, mentre il silenzio proclama il Nome nei nostri orecchi sordi. Il culto del Signum Christi, approvato nel 1450, inserito regolarmente negli uffici liturgici francescani nel 1530, fu esteso a tutta la Chiesa nel 1721: nel frattempo i Gesuiti l’avevano accolto e diffuso nell’età in cui Cagnacci può ancora unire, in un solo sguardo, l’attenzione verso i miseri alla visio mystica. In una serie di variazioni sul tema il pittore romagnolo contempla prima il male fisico

dei bambini mendici, immersi in quel malheur, che per Simone Weil è la sofferenza inspiegabile degli sventurati, poi il male morale dell’incredulità di Aristodemo e, infine, il bene supremo della visio che annienta lo sguardo esteriore di Bernardino perché tutti i sensi siano ricondotti al sesto, quello interno e invisibile. Come già anni prima, nella pala riminese dei Santi carmelitani, aveva esposto le palpebre sigillate, ma dischiuse all’estasi, di Teresa d’Avila e quelle abbassate di Maria Maddalena de’ Pazzi in contemplazione di un cuore fuori sede. Le Litanie al Santissimo Nome di Gesù, attribuite tradizionalmente allo stesso Bernardino, si rivolgono al Redentore con elogi visivi: «splendor Patris», «candor lucis aeternae», «vera lu x ». Epiteti che si contrappongono alla cecità intellettuale e spirituale più che a quella corporea: chi è abbagliato dal Sol iustitiae possiede il vero sguardo, come Bernardino, come Paolo, folgorato sulla via di Damasco dalla Luce-Voce (At. 9, 1-9) che lo porterà poi a esaltare il Nomen. E, infine, come la più celebre tra le martiri accecate di cui scrive Maria Zambrano: «La luce la fissò, dice la Messa di Santa Lucia».

D. Benati e A. Paolucci (a cura di), Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni, catalogo della mostra, Silvana, Milano 2008, pp. 8284, 236-237, 244-245 (scritti di G. Palloni, G. Viroli, D. Benati). M. Pulini, I sensi del volto. Disegni e dipinti inediti di Guido Cagnacci, «L’Arco», Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, V, 1-2 (2007), pp. 30-39. M. Pulini, Sulla giovinezza di Guido Cagnacci, in Id. (a cura di), La «Madonna col Bambino» di Guido Cagnacci. Un dipinto per Santarcangelo dalla collezione Koelliker, catalogo della mostra, IMC, Santarcangelo di Romagna (Rimini) 2006, pp. [7-26]. M. Fumaroli, Visione e preghiera, in Id., La Scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo, tr. it. di M. Botto, Adelphi, Milano 1994, pp. 291-458. M. Bergamo, L’anatomia dell’anima. Da François de Sales a Fénélon, Il Mulino, Bologna 1991. M. Zambrano, La fiamma, «Conoscenza Religiosa», IX, 4 (1977), pp. 382-385.

Fig. 1 Gudo Cagnacci (1601-1663), Testa di ragazzo mendico, olio su tela, 1640-45 ca., già Londra, Walpole Gallery Fig. 2 Guido Cagnacci (1601-1663), Testa di ragazzo cieco, olio su tela, 1640-45 ca., collezione privata Fig. 3 Guido Cagnacci (1601-1663), San Bernardino da Siena, olio su tela, 1640-45 ca., collezione privata Storie del volto dipinto | 165


Una luce dentro agli occhi / Una luce dietro le spalle Diego Galizzi

anche per la sua vicenda critica, per lungo Quante volte ci siamo soffermati a ritempo rimasta in una sorta di cono d’ombra flettere davanti a uno sguardo dipinto? fino al 2010, quando la sua figura è stata Quello del ritratto è senza dubbio un gerecuperata grazie a una mostra antologica nere molto particolare. A volte ci respindel Museo Civico di Bagnacavallo. ge, ci risulta intollerabile, perché d’istinDicevo, di Saporetti i contemporanei apto sappiamo di non poterlo decodificare prezzarono particolarmente l’attività ritratsufficientemente, perché avvertiamo che tistica. Formatosi prima col Moradei a Rala distanza è insuperabile, lo scambio imvenna e poi all’insegna della più rigorosa praticabile. Oppure ci cattura, generando pittura accademica a Roma presso Cesare un sottile dialogo a tre fra chi osserva, chi Mariani, uno dei “pittori ufficiali” della Roma è ritratto e chi dipinge. sabauda (e precedentemente papalina), SaLa nostra tradizione della fruizione delporetti fece del ritratto “di posa” il cardine le immagini ci insegna che un volto che della propria carriera, almeno nella sua parte guarda deve innanzitutto trasmetterci iniziale. Meticoloso e prezioso, con un’abilità qualcosa. Sappiamo anche che questo tecnico-pittorica degna della migliore pittuqualcosa dipende essenzialmente dalla ra accademica dell’Ottocento, già poco più capacità del pittore di infondere densità che ventenne l’artista bagnacavallese aveva psicologica a quello sguardo. Ma quanto acquisito una certa notorietà negli ambienti di un volto dipinto ci parla davvero dell’earistocratici romagnoli. Più tardi, durante la sistenza che vi è ritratta? E quanto di cosua permanenza a Napoli, grazie proprio alla lui che l’ha dipinta? Naturalmente le due Edgardo Saporetti, Ritratto di nobiluomo, 1892, spiccata disinvoltura con la quale sapeva ricose si condizionano vicendevolmente. Il olio su tela cm 50 x 40 spondere, in pittura, alle più esigenti richieconfronto tra due brani pittorici di Edgardo Saporetti può essere interessante per capire questa dinamica. ste di questo genere di committenza gli si presentarono nuove e Saporetti è stato un pittore che ha conosciuto e attraversa- prestigiose occasioni di lavoro presso alcune tra le più importanti to la grande pittura di fine Ottocento, e soprattutto, è stato un casate nobiliari e dell’alta borghesia partenopea. grande ritrattista. Artista sfortunato il bagnacavallese, non solo Un pregevole brano di questa attività di ritrattista “ufficiale” è perché nel corso della sua breve vita è stato costretto a migrare senz’altro il Ritratto di nobiluomo datato 1892, che in quest’occacontinuamente per cercare un terreno fertile per la sua arte, ma sione viene reso noto e pubblicato per la prima volta. Del giovane 166

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uomo qui rappresentato non sappiamo Ancora un ritratto, ma questa volta quasi nulla, se non che doveva far parte siamo già nel Novecento: il Ritratto di Tedi una famiglia comitale residente in via resa Galassi. È il 1908, l’anno prima delCaracciolo. La sua figura è immersa in la morte del pittore, e le cose sembrano una luce diffusa e lattiginosa, l’atmosfeessere cambiate, e di parecchio. Ritrora è pacata, l’espressione rassicurante. viamo Saporetti con un’opera inattesa, Anche l’abito non lascia spazio ad alcucostruita con una pennellata che sfalda no sfarzo che possa disturbare il clima i contorni in una luminescenza contrasobrio, ma allo stesso tempo eleganstata e tutta incentrata sul virtuosismo tissimo, di questa immagine. Nessuna degli effetti cromatici. L’artista rivela un stravaganza, nessun vezzo, a parte i fare più libero, veloce, sicuramente più baffi arricciati che subito catalizzano lo moderno nella sua sinteticità; il ritratto sguardo dello spettatore (ma che solo a ufficiale, codificato, “di maniera”, semnoi possono risultare un “vezzo”, mentre bra lontano anni luce. Quando realizza allora dovevano sembrare molto meno quest’opera Saporetti è già a Firenze da appariscenti) e la piccola spilla d’oro e qualche anno, dove insegna all’Accadebrillanti puntata sulla cravatta che crea mia di Belle Arti e lavora a stretto contatquel punto luce tanto amato da Sapoto con le locali correnti post-macchiaioretti e che nella sua ritrattistica è quasi le; precedentemente era transitato per una firma. Ma al di là della cifra stilistica Londra, dove aveva conosciuto la pittudel pittore, potremmo giurare che qui la ra simbolista. Un percorso intenso, ducommittenza abbia voluto affidare all’arrante il quale avrà certamente raccolto tista il compito di tramandare sulla tela molte occasioni di aggiornamento, ma l’indole magnanima del nobiluomo, oltre basta questo per spiegare un così radiEdgardo Saporetti, Ritratto della madre Teresa Galassi, che significarne l’integrità morale e l’acale cambio di registro? Per rispondere 1908, olio su tela cm 55 x 40 cume che così bene traspaiono da quela questa domanda è necessario conolo sguardo luminoso. scere un altro paio di tasselli: il primo, il Sta proprio nello sguardo la chiave di volta di questo quadro. mutato stato d’animo dell’artista, ora più riflessivo e introverso, C’è un che di irreale in quegli occhi con la luce dentro. Anche se provocato dalle sue condizioni di salute sempre più precarie. L’alappena percettibilmente, essi ci appaiono insolitamente grandi. tro: Teresa Galassi è la mamma di Saporetti. Il legame forte che È una caratteristica assai frequente nei volti dipinti da Saporetti unisce il pittore all’anziana madre è attestato in molti suoi scritti e quella degli occhi grandi e acquosi che ricordano da vicino quelli non poteva che emergere anche da questo splendido documento dei bambini o, se vogliamo, delle bambole. Più che una caratteri- pittorico. Qui tante convenzioni sono saltate, lasciando spazio a stica è un espediente, di certo molto apprezzato dalle committen- un dialogo diretto, non mediato, tra artista e soggetto ritratto. Gli ze, perché mira ad una velata idealizzazione dei volti, elevandoli occhi tristi della donna e il tono generale del dipinto rivelano nel così leggermente dalla realtà. L’idea non era nuova, anzi, è un’evi- modo più drammatico la sofferenza interiore (sua e insieme del dente (inconsapevole?) riproposizione dei codici estetici tardoan- pittore) per un mondo che appare sull’orlo del baratro, e la paura tichi di matrice neoplatonica per i quali dagli occhi dilatati passa il reciproca della perdita. Solo una fiammata di luce alle spalle della messaggio di una bellezza non terrena ma interiore, una bellezza, Galassi irrompe nel dipinto, accendendo bruscamente di calore insomma, fatta di qualità morali ed etiche. Subito il pensiero va a l’intera scena. Una luce esterna, violenta, un esuberante scarto Ravenna, al volto di Giustiniano nei mosaici di San Vitale; è forse pittorico che è un genuino slancio di empatia, e insieme, la rapquesto l’imprinting più riconoscibile che Saporetti si è portato die- presentazione visiva di un affetto che non può tramontare. tro dalla sua infanzia ravennate? Storie del volto dipinto | 167


Un angelo quasi mio coetaneo di Vittorio D’Augusta “Angelo della morte”, Paul Klee, cm46 x 44, olio su lino, 1940. La seconda guerra mondiale era iniziata da meno di un anno, e nello stesso anno il pittore moriva. Il quadro è dipinto in uno stile regressivo, apparentemente infantile, in realtà frutto di profonda sapienza coltivata in decenni di sperimentazioni e riflessioni, tra le più acute del ‘900, sull’arte, sull’essenzialità dei segni, sui significati, sul senso o sul mistero del vivere, sull’enigma della morte. Sull’equilibrio tra la ragione e la magia estetica della rappresentazione fantastica. Io, nel 1940, avevo tre anni: posso dire di essere quasi coetaneo di quel quadro. Col passare degli anni, scopro di avere una specie di benevolenza per tutto ciò che mi è coetaneo, deve essere una forma di nostalgia, di indecente seppure perdonabile amore di sé. (Per dire, nel 1937 è uscito “Incontrarsi e dirsi addio”, dello scrittore ungherese Ferenc Kërmendi, di immediato successo, poi dimenticato. Quando, recentemente, è ricomparso nella riedizione Bompiani, ho avuto un moto di soddisfazione come se, anch’io, potessi usufruire di quella imprevista resurrezione). Anche per queste ragioni anagrafiche, quell’angelo della morte mi è familiare. In fondo, a tre anni, come tutti i bambini a quell’età, con i pastelli Giotto nella scadente confezione di guerra a sei colori, disegnavo ghirigori ovali con occhi naso e bocca, che erano sicuramente autoritratti, o forse angeli. Ancor oggi dipingo così. Nella mia vita, quel quadro di Klee ogni tanto ricompare, mi accompagna nelle ossessioni di pittura e nei pensieri. Se lo dimentico, l’amnesia è solo momentanea. Si dice di solito che la pittura sia lo specchio dell’epoca, ed è vero. Ma la frase, troppe volte ripetuta, ha finito per perdere efficacia, e poi spesso la cronaca è più forte della pittura: nel 1945, per esempio, il dripping di Pollock era senza dubbio dirompente, ma le bombe su Hiroshima e Nagasaki erano di gran lunga più esplosive. Altri quadri, più che specchio del presente, sono presagi del futuro, lungimiranti antenne capaci di profetizzare. Così quell’opera di Klee, maschera irregolare bianca su fondo rosso - bianco/ calce e rossofuoco - è appunto una di quelle visioni preveggenti: con poco, e insieme con profondo mistero, e con un velo di angosciata ironia, fa capire ciò che il futuro ci avrebbe riservato. Anche i corvi neri di Van Gogh annunciano la morte del pittore e le future macerie di una civiltà che, provvisoriamente, aveva il nome fasci168

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noso e ingannevole di Belle Époque. L’Urlo di Munch squarcia quell’epoca e anticipa le angosce del secolo che sta per iniziare; quasi cinquant’anni dopo, l’Angelo di Klee conferma che quelle profezie erano fondate e le rilancia. Altri artisti e in modi diversi le raccoglieranno - Giacometti, Bacon, Kiefer, Cucchi, - in un continuo sondare il futuro con occhi di pittura. Gli occhi, in quella maschera di Klee, sono orbite vuote e la maschera è mortuaria: volto di una umanità senza speranza; immagine o simbolo di quella tragedia collettiva che è stata la seconda guerra mondiale; presagio dei lager o immaginata impronta della morte atomica sui muri di Hiroshima; il pensiero dignitosamente privato e doloroso della morte imminente del pittore; un sogno tra incubo e cenno di un gioco. Un autoritratto? Non ho visto quell’opera dal vero, c’è tempo e mi piace rimandare, solo nei libri, più o meno fedelmente riprodotta. L’ho fotografata e proiettata nelle lezioni d’Accademia, l’altro secolo, quando ancora si usavano diapositive e proiettore. Oggi, con Google, quella maschera rimbalza tra immagini eterogenee, pubblicitarie, di variegata informazione, in un caos tecnologico che tende ad omologare, che informa senza troppo approfondire. Eppure, quando sullo schermo del computer compare l’Angelo della Morte, si blocca ogni altra informazione, si azzera ogni banalità mediatica: l’Angelo afferma la sua forza di simbolo, fantasma di pittura e lapide di marmo.


Mercurio come tagliaborse Sabrina Foschini

Con questo cappello sono un dio. Ho preso le ali di una merla che è morta stecchita per il freddo. Adesso si sta bene, ma d’inverno avevo le mani piene di bolle viola, come quando coglievo i lamponi. Quando avevo un po’ di pane glielo davo, ma mica sempre, che poi io, molte volte c’avevo fame più di lei. Era bellina però, a volte cantava, mi dispiace che non c’è più. Ho cucito le ali nel fustagno del cappello. Quando arriva la tempesta loro fanno il vento sopra le orecchie. Alla mia merla gli sembrerà di stare ancora sopra gli alberi. Quel dio vecchio che si chiama come me, se le metteva anche ai piedi per andare più veloce. Io veloce ci vado lo stesso. Lui faceva un grande casino tra tutti gli altri dei e si metteva in mezzo nei mercati e portava i messaggi segreti. Non lo so se gli rubava le borse, comunque andava così veloce che non ce la facevano a prenderlo. Io faccio come lui, ma siccome sono piccolo, sono più bravo. La storia di Mercurio che viveva in un paese lontano dove sono nate tutte le storie e però non sanno neanche l’inglese, me l’ha raccontata il maestro. Io non ci vado a scuola, ma a volte il maestro si siede sul muretto della nostra strada quando ci vede giocare a noi bambini, o contare i soldi per fare le divisioni e dice che è la scuola che viene da noi. Ci racconta di tutti quegli dei che vivevano molto felici su un monte perché non dovevano neanche mangiare e siccome non avevano niente da fare si innamoravano sempre tra loro. Io invece non c’ho tempo per queste cose con i baci. Io di lavoro faccio il tagliaborse. Il mio lavoro si chiama così ma io non le taglio sempre. Anzi se vengono via dalle tasche con i soldi e tutto, mi piacciono di più intere, che a volte è un peccato sciuparle. Quelle più brutte le posso anche usare al posto di quelle piene, ci metto dentro i sassi e le scambio come un mago, così

Joshua Reynolds Mercurio borsaiolo 1774 ca; Buscot Park, The Faringdon Collection Trust

i signori, se sentono che gli pesano nei vestiti, ci mettono un po’ a preoccuparsi e a darmi dietro. Ma con questo cappello, ve lo dicevo che sto da dio. Adesso che sono magico posso anche smettere di fare il lavoro. Faccio venire un carro giù dal cielo pieno di panini e di mele rosse. Se a me non mi viene più fame li do agli altri, che loro sono rimasti normali e vogliono mangiare quasi sempre. Però un ladro come me è anche difficile da trovarlo, non ci sono nemmeno a Londra, che è più grande del monte degli dei e se mi ci metto ti rubo la borsa anche a te che mi fai il ritratto. Anzi va là te la ridò, tieni, che te l’avevo già fregata e invece mi stai simpatico. Storie del volto dipinto | 169


Ricomincerò a disegnare e a dipingere per conto mio, è proprio questo che farò. E contemporaneamente io voglio vivere, io voglio vedere, essere leggero, potente e anche felice. Alberto Giacometti




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