Tennis world italia n 47

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I PARADOSSI DI FEDERER Roger Federer è diventato una materia difficile da trattare. Cadere nei tranelli della retorica è fin troppo facile parlando dei suoi successi, in particolar modo dell’evoluzione 3.0 che sta facendo inattese scorpacciate di titoli, francamente incredibili se ponderate con la testa di un anno proprio in questi giorni.

allora si intende un decennio fa quando si è soliti interrompere quel quadriennio di quasi intoccabilità per lo svizzero. Dal 2004 al 2007 Roger ha intascato 11 Slam sui 16 disponibili riuscendo in tre occasioni nella tripletta annuale. Il Federer di oggi ha un tennis più avvolgente, brillante, completo, anche pratico oltreché sontuoso. Il che, tuttavia, non equivale a dire che questo Federer sia più forte di quello di dieci anni fa, anzi. È semplicemente una versione migliore per qualità, ma inevitabilmente peggiore per sostanza.

Con l’eleganza di sempre l’elvetico sta trascinando gli appassionati in una serie di paradossi. Il primo, quello più evidente perché slegato dalle discussioni inerenti alla concorrenza e amenità correlate, riguarda puramente il gioco. Federer gioca meglio oggi di allora, dove per

Il secondo paradosso, invece, riguarda in modo ravvicinato l’edizione dei Championships – la numero 131 – appena trasmessa agli archivi. È giusto sorprendersi per il diciannovesimo successo Slam di Federer, l’ottavo a Wimbledon e il secondo all’interno di uno

Federico Mariani


stesso anno come non capitava dal 2009. Dall’altra parte, tuttavia, le circostanze suggerivano che difficilmente si sarebbe potuto assistere a una conclusione diversa dal successo di Federer. Appunto paradossalmente, è una vittoria quasi scontata, banale. Così come è stata banale la marcia trionfale dello svizzero dal primo turno fino alla finale: zero set persi in tutto il torneo – particolare statistico che si ripete appena per la seconda volta nel curriculum Slam di Roger dopo gli Australian Open 2007 – accompagnati da una netta sensazione di

Questo 2017 ricalca sempre più un moto rivoluzionario ma, anziché la transizione da moltissimi auspicata, si ritorna al passato coi vecchi reggenti che tornano a ruggire. Federer e Nadal, probabilmente il duopolio più feroce e forte della storia del Gioco, hanno fagocitato da soli tutto ciò che contava in calendario, eccezion fatta per gli Internazionali romani, incamerati da Sascha Zverev. Due Slam e altrettanti Masters 1000 per lo svizzero, le Dècime a Parigi, Monte-Carlo e Barcellona a cui si somma il titolo a Madrid per Rafa. Tutto loro. È anche vero che ormai Federer

totale supremazia pre e durante i match. infortunio a parte che sicuramente ne ha pregiudicato molto, era abbastanza folle attendersi che Marin Cilic potesse impensierire il basilese in una finale Slam.

gode di uno status che gli consente di bypassare a pie’ pari la stagione sul rosso senza alcuna conseguenza e ripresentarsi per l’assalto ai prati. Un piano studiato minuziosamente a tavolino e perfettamente centrato


nell’applicazione. Ancora più sconvolgente fare la conta del 2017 di Federer: 32 vittorie, 2 sconfitte, 5 titoli in bacheca sui 7 tornei ai quali ha preso parte. Due sconfitte, peraltro, arrivate al termine di partite rocambolesche perse entrambe dopo aver mancato matchpoint e aver totalizzato più punti degli avversari (Donskoy a Dubai, Haas a Stoccarda). E così anche il ranking dal secondo semestre dell’anno comincia a riconoscere i meriti di Federer e Nadal, tanto che sarà uno dei due – se non entrambi – a detronizzare Murray prossimamente. Lo scozzese ha una

valanga di punti da difendere e non sembra per nulla attrezzato per riuscire in un’impresa improba. Sarà probabilmente la maggior costanza e presenza del maiorchino a venire premiata col trono del tennis a discapito del centellinarsi di Federer. Certo è che a 36 anni inerpicarsi in una sola stagione dalla diciassettesima piazza fino al numero uno sarebbe un qualcosa di impensabile. Ma, in fondo, a chiunque domandassero chi è oggi il giocatore più forte del mondo, quale sarebbe la risposta?



ROGER FEDERER CONTRO RAFAEL NADAL: TRE CURIOSITAʼ UNICHE SULLA LORO RIVALITAʼ Akshay

La rivalità fra il perfezionista Roger Federer e il bulldozer spagnolo Rafael Nadal, la più grande di tutti i tempi, si è alimentata, esaltata attraverso i colpi potenti che si sono scambiati dal loro primo incontro, ai trentaduesimi di finale nella scenica cornice del Miami Masters nel 2004. TennisWorldUSA traccia il viaggio unico dei due contendenti e vi potra tre illuminanti curiosità sulla loro fiera rivalità. Guardiamo alcuni dei dati essenziali della loro storia.

Federer è l'unico giocatore ad aver dato 6-0 a Nadal su tutte le tre superfici Il mago svizzero è l'unico giocatore sul circuito che abbia vinto un set per 6-0 contro il maiorchino su tutte le superfici – sul duro, sull'erba e sulla terra battuta. L'affascinante impresa è iniziata in quella ce Federer considera “la sua prima casa”, i sacri prati del Centrale dell'All England Club nel 2006. Dopo aver perso la finale del Roland Garros contro Nadal, Federer ha avuto

l'immediata occasione di rivincita contro il muscoloso spagnolo che portava i pantaloni a pinocchietto e ha sorpreso tutti ai Championships. Roger ha giocato un tennis perfetto nel primo set e ha dimostrato di essere l'imperatore dell'erba vincendo sei game di fila in 25 minuti. Il 18 volte campione Slam poi ha sorpreso il re della terra sulla superficie preferita del suo avversario, in finale ad Amburgo, battendo l'allora numero 2 del mondo per conquistare il suo tredicesimo Masters 1000. Il maestro svizzero ha completato la sua tripletta di bagel quando ha dominato Nadal 6-3 6-0 alle Barclays World Tour Finals di Londra nel 2011.

Federer è l'unico che abbia


sconfitto Nadal almeno due volte su terra, erba e duro Il re del tennis rimane l'unico giocatore che abbia sconfitto il 26enne almeno due volte sulle tre superfici su cui attualmente si gioca a tennis. L'ha battuto due volte consecutive in finale all'SW19 sull'erba, l'ha piegato sulla terra nelle sfide per il titolo ad Amburgo nel 2006 e di fronte ai tifosi di Rafa a Madrid nel 2009. Gli altri otto successi di Federer sull'attuale numero 2 sono arrivati sul duro, gran parte dei quali alla Masters Cup di fine stagione in Cina o a Londra. Quest'anno Federer è riuscito per la prima volta a battere Federer per tre volte di fila. Altre due volte, nel 2006 e nel 2007, era arrivato a due successi consecutivi. Ma dopo la vittoria a Basilea

nel 2015 e all'Australian Open a inizio anno, ha proseguito la sua striscia migliore contro Nadal a Indian Wells e Miami.

Si sono affrontati solo 3 volte su 37 prima dei quarti di finale Nadal e Federer si sono affrontati per la prima volta a Miami nel 2004 (lo spagnolo vinse quel match, al terzo turno, 6-3 6-3). Non hanno più giocato prima dei quarti fino alle ATP World Tour Finals del 2011, con il 6-3 6-0 dello svizzero. Il più recente di questi tre incontri è arrivato quest'anno a Indian Wells, negli ottavi di finale, con la vittoria di Federer 6-2 6-3.




Federer e Nadal allo specchio: servono davvero paragoni? Giorgio Perri Scindere la bellezza dall'efficacia può risultare scomodo. Scomodo e assolutamente controproducente. Una delicata premessa che ha anche l'infausto compito di mettere in contrapposizione modelli e storie. Mondi che cercano disperatamente di vivere di vita propria e mondi che senza volerlo danno origine a sensazioni in antitesi con il mero materialismo. Un esercizio di stile appunto - che trova la sua massima espressione nella diversità: nella brutalità, nell'eleganza, nella forza, nella grazia. In tutto

quello che ha bisogno di riprodursi e di rinascere. In tutto quello che non può in maniera alcuna sopravvivere senza stimoli. In Federer, in Nadal: nell'infinita lotta tra il sole e la luna, tra le lacrime e i sorrisi, tra gli alti e i bassi. Ricostruire il mito, o nella migliore delle ipotesi ripercorrerne le tracce, non riesce senza affidarsi a un continuo ed esasperato dualismo. Nell’epoca del nonritorno, dove quella che ha assunto i tratti della più grande rivalità della

storia continua a infiammare un mondo a caccia di nuovi protagonisti. Nell’epoca della retorica, dove le uniche certezze sono di stampo prettamente storico. E la storia dice che nel 2017, nell'anno che avrebbe dovuto consacrare Murray e porre le basi per la redenzione di Djokovic, Federer e Nadal sono gli assoluti protagonisti. Senza addentrarsi troppo nella genesi, e senza nemmeno spulciare affannosamente tra una finale e l'altra, per trovare


le chiavi della rinascita è sufficiente analizzare in maniera lucida i due principali indiziati. Non Federer e Nadal, ma i prati di Church Road e i manti rossi di Bois de Boulogne. I rispettivi Regni, ritornati tanto di moda nel 2017. Sembrava impossibile e impensabile che qualcuno potesse impedire l’ascesa dei due Re. E la realtà, una volta tanto, ha mantenuto il passo delle premesse. Rafa ha macchiato un percorso praticamente perfetto sul rosso con un singolo passo falso, a

Roma. Sotto il cielo di Parigi ha avuto bisogno del minimo indispensabile, delle sadiche pratiche cannibalistiche testate durante tutta la primavera. E il risveglio della tigre - certificato dagli appena 35 giochi lasciati per strada in sette incontri (abbattendo il precedenti record di 41 risalente al 2008) – non ha raccontato solo dell’estrema longevità, ma anche e soprattutto della straordinaria combattività. Anche per Federer la marcia sul verde ha previsto un

unico intoppo – a Stoccarda – circondato da 12 piccoli capolavori. Un dominio di implacabile bellezza che non ha trovato un vero e proprio punto di svolta, ma che poco alla volta ha consacrato l’ottava perla del Maestro sui prati di casa. Una storia di ordinaria follia. Eppure, sembra quasi di ritrovarsi di fronte a due personaggi completamente diversi. I risultati del maiorchino – che tra i quattro al vertice ha le chance più concrete di finire l’anno al numero uno – hanno fatto poca presa. Finiti nel dimenticatoio, o meglio, catalogati come normali. Il clamore mediatico suscitato dalle imprese di Federer, al contrario, ha completamente rovesciato il torpore di uno sport vincolata dai fasti del passato. Non che sia un male. Ma non può diventare solamente una questione di gusti e simpatie, non se


l’immagine di Nadal rischia di essere travolta dalla normalità. La normalità non potrà mai essere un concetto associabile a Federer e Nadal, non potrà mai far parte delle vicende storiche dei due. E se sia stato più difficile fare 10 a Parigi oppure 8 a Wimbledon, diventa un quesito futile: tra tutti i paragoni possibili, quello di natura numerica rischiano di destabilizzare e di travisare la realtà. Basti pensare alla differenza Slam, al saldo negli scontri diretti, alle vittorie su una determinata superficie, alla costanza di risultanti nel lungo periodo. Niente che possa trovare una netta e certa corrispondenza nei numeri.



Nadal e un tabù chiamato Wimbledon

Melbourne e Pouille agli US Open non sono paragonabili al rendimento attuale di Nadal, battuto anche in finale in Australia a inizio anno da Federer.

Rafael Nadal e i quarti di finale a Wimbledon, un traguardo che dal 2012 a oggi equivale a un tabù. Mai come quest'anno sembrava essere la volta buona per vederlo arrivare in fondo nello Slam londinese che lo ha visto raggiungere solo due ottavi di finale come miglior risultato degli ultimi cinque anni. È stata una partita strana quella contro Gilles Muller per Rafa, almeno dal punto di vista delle statistiche, avendo chiuso

Proprio la finale contro lo svizzero ha delle analogie con la settima sconfitta dell'anno subita sul Campo 1 dei Championships. Nadal basa le sue forze sul gioco da fondo, ma tentare di rispondere più vicino al campo dando meno angoli, sicurezze e punti di riferimento a Muller sarebbe stata probabilmente la carta vincente. Questa è una delle abilità principali di Murray, e

con sette punti in più del suo avversario e appena 17 errori gratuiti in totale. È mancato inaspettatamente il killer instinct nei momenti importanti, dove invece si è fatto sopraffare da un'improvvisa rigidità, quella stessa rigidità che negli ultimi 21 mesi lo ha visto perdere cinque partite su sei giocate al quinto set. Le tre contro Fognini a New York, Verdasco a

non a caso contro i grandi battitori lo scozzese, quando al meglio, prevale praticamente sempre. Vi proponiamo di seguito un confronto interessante: la posizione di Nadal in risposta contro Muller, e quella contro Rosol nel 2012, Kyrgios nel 2014 e Brown nel 2015. Se contro il lussemburgese Rafa non ha mai provato a impattare la palla davanti al

Gatto Luigi


corpo, contro gli altri grandi battitori, nonostante abbia perso ha risposto quasi sempre attaccato alla riga di fondo. Eppure tutti e tre non hanno un servizio peggiore di quello di Muller. Le 14 palle break su 16 salvate da Muller, di cui quattro sul 9-9 del quinto set, unico game in cui Nadal ha avuto delle possibilità concrete di mettere il naso avanti, pesano come un macigno nell'esito finale dell'incontro. Ci sono però anche delle notizie positive, seppur marginali: Nadal ha ritrovato una chiara identità di gioco e non solo sulla terra rossa, lo dimostrano i 23 ace (record personale che batte i 19 del 2012 contro Rosol), un'ottima pesantezza di palla e soprattutto una condizione fisica solida e stabile. Avrà tempo di digerire questa sconfitta Rafa, che approccia sicuramente la seconda parte di stagione con più certezze e meno dubbi della prima dove partiva con tanti punti interrogativi, ansie e speranze.

Le motivazioni non mancheranno: da qui a fine anno il maiorchino dovrà difendere soltanto 405 punti, una cifra praticamente nulla che gli permette di strizzare l'occhio alla prima posizione mondiale, una motivazione in più ma non un motivo per stravolgere la programmazione: ecco perché ripartirà soltanto dal cemento nordamericano di Montreal con "un obiettivo chiaro in mente", ha detto proiettandosi a un futuro che mai come ora può regalargli ancora tante soddisfazioni. Se prima il gap da colmare con il miglior Nadal sembrava quasi insanabile, ora le uniche pecche stagionali vengono decise da alcuni dettagli o circostanze e contro avversari in giornata di grazia: tre sconfitte contro una delle versioni migliori di sempre di Federer, una contro un Querrey indemoniato ad Acapulco, e altre due contro Thiem e Raonic. 46 vittorie su 53 partite giocate, quattro titoli, tre finali e un 2017 ancora tutto da scrivere, deve ripartire da qui Rafael Nadal.


I MIGLIORI MOMENTI DI ANDY MURRAY Akshay Andy Murray è stato uno dei giocatori più costanti negli ultimi due anni diventando con pieno merito numero 1 del mondo. Ecco alcuni dei momenti migliori della sua carriera. Oro Olimpico, 2012 La prima grande vittoria di Murray! Anche se non è uno Slam, ha la stessa importanza per Murray che ha vinto l'oro a Londra davanti al suo pubblico. Si gioca a Wimbledon, batte Novak Djokovic in semifinale e Roger Federer in finale, sempre senza perdere un set. Il traguardo arriva solo poche settimane dopo un'altra di quelle sconfitte dolorose, da mal di stomaco, in finale Slam su quello stesso campo, a Wimbledon, e contro lo stesso avversario. Finiscono anche I dubbi sulle effettive possibilità di

Murray di arrivare ai più grandi allori del tennis mondiale. US Open 2012 Il primo Slam è sempre speciale. Anche se non è Wimbledon, il successo a Flushing Meadows segue, rinforza l'oro olimpico di Londra. Dopo l'epoca vittoria su Novak Djokovic, Andy Murray pone fine all'attesa durata 76 anni per rivedere un giocatore britannico conquistare un titolo Slam nel singolare maschile. Murray ripete l'impresa di Fred Perry

nel 1936 e si impone 7-6 (12-10) 7-5 2-6 3-6 6-2 in 4 ore e 54 minuti sull'Arthur Ashe Stadium. “Ero un po' scioccato quando ho realizzato di aver vinto, molto scosso e decisamente sollevato” ha detto Murray. C'è da capirlo dopo le quattro dolorosissime sconfitte nelle prime quattro finali Slam! Wimbledon, 2013 Settantasette anni sono passati dall'ultimo trionfo britannico al maschile a Wimbledon. Nel setimo giorno del settimo mese,


in una gloriosa domenica di sole, Murray finalmente caccia il fantasma di Fred Perry dall'All England Club! Un anno prima, aveva perso in finale contro Roger Federer. Da allora, ha vinto l'oro olimpico e il primo Slam, allo Us Open, sotto l'occhio attento del nuovo coach Ivan Lendl. Djokovic salva diversi match point, ma sull'ultimo il suo rovescio finisce in rete. Il Centrale esplode in un boato mai sentito prima mentre Murray lascia scivolare la

racchetta sull'erba. Coppa Davis, 2015 Per la sua nazione, a Murray resta da vincere la Coppa Davis. Murray guida la Gran Bretagna, non solo in singolare ma anche in doppio. James Ward completa una miracolosa vittoria su John Isner e regala alla Gran Bretagna il successo sugli Usa al primo turno. Poi in semifinale arrivano gli australiani. Murray gioca un ruolo da protagonista. Con il fratello Jamie, battono Lleyton Hewitt e

Sam Groth in un match epico al quinto set. Andy poi suggella la vittoria il giorno dopo. La finale si gioca a Gent, in Belgio, con misure di sicurezza ancora piÚ strette mentre continua la caccia ai terroristi responsabili degli attacchi di Parigi. Il tennis però non si ferma. I fratelli Murray vincono ancora il doppio, preludio alla prima Coppa Davis per la Gran Bretagna dal 1936, consegnata alla storia dal miglior britannico che si sia mai visto da allora.


SAM QUERREY, THE QUIET AMERICAN

Alessandro Mastroluca “E' stata un'avventura divertente”. Una di quelle cose divertenti che magari vorrebbe rifare ancora. Sam Querrey, che ha approvato anche l'ebbrezza di aspettare un giorno per giocare un game, è diventato il primo statunitense in semifinale in uno Slam dai tempi di Andy Roddick nel 2009. Ha battuto al quinto Tsonga, Anderson e Murray, ha

centrato il secondo successo in due anni ai Championships contro un numero 1 del mondo ma, ha detto, la stanchezza non ha avuto un peso in semifinale. “Anche i match al quinto non sono stati lunghi, si è scambiato poco”.

Boynton, che ha preso velocità col titolo di Acapulco su Rafa Nadal e lo porta ad avvicinare il best ranking, quel numero 17 toccato dopo l'Australian Open 2011, e a pensare di migliorarlo nella stagione sul duro in vista dello Us Open.

Ha aspettato 42 tornei, come David Ferrer, per giocare la prima semifinale Slam, l'attesa più lunga nell'era Open. Si è fermato contro Cilic, in un match con 212 punti su 271 chiusi entro i quattro colpi. Ha portato ancora più avanti il progetto con coach Craig

“Sono numero 26 del mondo e un giocatore piuttosto valido sull'erba”. Si è raccontato così Querrey, passato professionista rinunciando a una borsa di studio per la USC perché suo padre Mike si era pentito di aver rifiutato l'offerta dei


questa mia semifinale, e magari così potremo avere sempre più tennisti in semifinale negli Slam”.

Detroit Tigers per finire l'università. È il ritratto di un campione senza aspirazioni particolari, con le passioni normali di chi incarna la forza tranquilla. Di chi comunque ha scritto un pezzo di storia del tennis Usa: è pur sempre l'unico “yankee” in attività a giocare più di un quarto di finale in uno Slam. “Il tennis americano non sta così male” ha detto. “Abbiamo quattro giocatori nei primi 30 (e Johnson è appena fuori, al numero 31) e un gran gruppo di giovani. Spero che i ragazzi possano guadagnare fiducia da

Un discorso che si può estendere anche alle donne. A cominciare dalla campionessa junior di Wimbledon, Claire Liu, che ha vinto la terza finale tutta americana nella storia, si allena come lui allo StubHub Center, alla California State University, appena fuori Los Angeles, e lo considera un modello di riferimento. Ma la questione, per una nazione che ha dominato questo sport, rimane aperta. Gli Stati Uniti stanno perdendo centralità nello scenario dello sport globale quanto nessun altro. “Penso che in altre nazioni, i migliori atleti giocano a tennis prima di quanto accade qui” diceva John McEnroe alla CNN. “Dobbiamo riuscire ad attirare ragazzini che magari stanno giocando a basket o a football. Dobbiamo rendere questo sport più

accessibile e meno costoso”. Una sfida non facile. “Nella high school, se giochi a basket o a baseball, l'università paga le trasferte e le spese a fine stagione. Se giochi a tennis devi vedertela da solo” raccontava Nick Bollettieri., che offre un numero limitato di borse di studio in base ai voti, alla personalità, al potenziale e alle possibilità economiche della famiglia. “Oggi c'è molta più gente che gioca a tennis” spiegava, “ma non basta per creare campioni. Quando i ragazzi arrivano a 13, 14 anni e dimostrano un elevato potenziale, il fattore costi entra in gioco e molti sono accecati da quello che vedono tutti i giorni”. Con un tennis che sta diventando sempre più sport di resistenza atletica, in cui i particolari da cui si giudica un giocatore si avvicinano a quelli che permettono di individuare prospetti


interessanti per gli sport di squadra, uno sport che consente solo a poco più di 150 professionisti di finire la stagione in pari tra spese e guadagni, la decisione delle famiglie porta facilmente lontano dalle racchette. Oggi per emergere servono forza fisica, velocità negli spostamenti e poi il talento, condizione necessaria ma in gran parte sufficiente nel tennis maschile almeno fino alla rivoluzione firmata Ivan Lendl. L'internazionalizzazione si accompagna a nuove direzioni e a un necessario cambio di prospettiva. “Negli anni Settanta, Ottanta e Novanta, i tifosi americani si sono abituati a vedere questi grandi campioni” ammetteva John Isner qualche tempo fa. “Oggi il tennis però è uno sport molto duro, con tanti giocatori europei forti e dal grande fisico che dominano il gioco”. Il futuro, però, non appare così negativo. Certo, i tempi dell'ultimo Slam made in Usa, l'unico Us Open di Roddick, sembrano ormai

lontani. E lo scenario di fine 1990, con 23 giocatrici e 27 giocatrici Usa in top 10 oggi sarebbe ai limiti della fantascienza. Gli Stati Uniti, però, restano la terza nazione con tre giocatori nella top 30 ATP insieme alla Francia e alla Spagna. E possono vantare uno dei due teenager in top 100, Frances Tiafoe, figlio del custode del Junior Tennis Champions Center a College Park, nel Maryland. Suo padre, Constant, immigrato dalla Sierra Leone, nel 1998 ha avuto due gemelli, lui e Franklin, dalla moglie Alphina. Un anno dopo, trova lavoro nell’impresa edilizia che sta costruendo il centro. Una

volta terminata la costruzione, Constant viene assunto con un salario iniziale di 21 mila dollari l’anno. Per cinque giorni la settimana, dorme in ufficio insieme ai due figli, che passano i weekend con la madre e altri parenti in un appartamento nella vicina Hyattsville. Tiafoe vince l'Orange Bowl del 2013, ma non si monta la testa. “Ci sono giocatori che hanno vinto l’Orange Bowl e poi sono scomparsi, non si è mai più sentito parlare di loro. Io non vorrei essere uno di quelli. Non mi sopravvaluto, perchè niente mi infastidisce quanto l’arroganza”. Ha


lavorato con Juan Todero, si è fatto seguire da Jose Higueras, che ha trasformato Michael Chang nel più giovane campione Slam di sempre, per portare il suo percorso di sviluppo nella direzione della completezza. Un percorso che si rispecchia nella volontà della federazione di far allenare di più i giocatori Usa sulla terra rossa, preludio al successo al Roland Garros junior di Whitney Osuigwe lo scorso giugno, talento già nella “scuderia” Bollettieri, e di Tommy Paul nel 2015. Paul,

grande amico di Reilly Opelka, alto come Karlovic, e Taylor Fritz, ha sperimentato gli effetti della diversa risposta che la USTA sta provando a dare alla globalizzazione: ritornare alla centralizzazione. Nessuna analogia con le politiche protezioniste dell'America First di Donald Trump che stonerebbe con la presenza in top 100 di Ernesto Escobedo, nato a Jerez, una zia che giocò per il Messico a Seoul 1988, che si sente ancora più messicano e non accetterebbe un invito alla Casa Bianca se dovesse vincere lo Us Open prima

della fine dell'attuale presidenza. Soltanto la volontà di creare squadra, di far allenare insieme i migliori prospetti, tra melting pot e spirito di gruppo, che è un po' il segreto del successo del modello spagnolo e francese, e della crescita dei giovani canadesi. “L'amicizia e lo spirito di squadra in questo gruppo di giocatori sembra avere un effetto positivo” ha detto Brian Boland, uno dei migliori coach a livello di college di tutti i tempi, chiamato a capo del tennis maschile dello USTA Player Development, il programma di sviluppo giocatori della federazione Usa che ha spostato il quartier generale al National Campus di Lake Nona a Orlando. “Vorrei che diventasse la seconda casa di tutti i giocatori, dove poter lavorare insieme con i nostri coach nazionali e valorizzare al massimo il potenziale dei nostri giocatori”. Le avventure divertenti negli Slam nascono anche così.


VENUS WILLIAMS: DAL POSSIBILE RITIRO ALL'INGRESSO DEFINITIVO NELLA STORIA Marco Di Nardo E' il 31 agosto 2011. Venus Williams si ritira prima di scendere in campo per il suo match di secondo turno degli U.S. Open, che avrebbe dovuto giocare contro Sabine Lisicki. La causa è una malattia autoimmune, la Sindrome di Sjogren, che le toglie energie, impedendole di allenarsi con continuità, e di esprimersi al 100% in campo. Nella stessa stagione, la più grande delle sorelle Williams aveva anche sofferto per un infortunio all'anca, e in totale, prima dell'Open degli Stati Uniti, aveva preso parte ad appena tre tornei. Così, quella annata si chiuderà con appena 4 apparizioni nei tornei per la statunitense ex numero 1 del mondo. Ma ciò che preoccupa di più, è una malattia che "non passerà mai", come Venus stessa dichiara in una intervista. E' la prima volta nella sua carriera che chiude una stagione senza aver conquistato alcun quarto di finale Slam. L'ultimo trionfo Major risale all'ormai non

troppo vicino 2008, con il quinto successo sull'erba di Wimbledon, e i tempi di gloria sembrano essere finiti. A 31 anni, sembra ormai una giocatrice prossima al ritiro. Ma Venus non si arrende. Nel 2012 torna in campo a Miami, dove ottiene immediatamente un buon quarto di finale, e a fine stagione torna a vincere un titolo WTA, in Lussemburgo, a quasi 3 anni di distanza dall'ultimo trionfo (Acapulco 2010). Ciò che manca, è sempre la continuità: la vincitrice di 7 titoli dello Slam alterna periodi in cui riesce a giocare ed allenarsi con continuità, a periodi in cui la mancanza di energie le crea problemi anche nello svolgere le semplici azioni della vita quotidiana. L'anno dopo non arriva nemmeno una finale, mentre nel 2014 la situazione sembra finalmente migliorare in maniera


piuttosto convincente, con 4 finali, tra cui quella nel Premier 5 di Montreal, anche se l'unico successo arriva a Dubai. Il 2015 è l'anno in cui il ritorno di Venus ad alti livelli diventa ufficiale. La tennista americana torna a giocare i quarti di finale a livello Slam, e lo fa in ben due occasioni, ossia all'Australian Open e agli U.S. Open. Vince inoltre il cosiddetto "Master B", il WTA Elite Trophy, superando in finale Karolina Pliskova. Ma soprattutto, torna nella Top-10 WTA, chiudendo l'anno al numero 7 della classifica mondiale. L'anno successivo manca l'ultimo passo, che puntualmente arriva: Venus non si conferma a Melbourne e New York, ma a Wimbledon torna a giocare un grande tennis, eliminando due teste di serie nella sua corsa verso le semifinali, in cui viene

stoppata solo da Angelique Kerber, che chiuderà poi la stagione al numero 1 del mondo. Era dagli U.S. Open 2010 che la statunitense non si spingeva così avanti in un evento Major. Un grande risultato, ottenuto a 36 anni, che per molti rappresenta l'ultimo acuto di una campionessa ormai a fine carriera. Nessuno può aspettarsi quello che succederà la stagione seguente. L'Australian Open 2017 è un torneo speciale, in cui in qualche modo si torna indietro di un decennio. Nel torneo maschile, a raggiungere la finale sono Roger Federer e Rafael Nadal, che ben 12 anni prima (2005) erano il numero 1 e 2 del mondo nel Ranking di fine anno. Ma ciò che succede nell'evento femminile, è qualcosa di ancora più incredibile. Nel 2003 Serena e Venus Williams avevano


disputato la loro prima (e fino a quel momento unica) finale all'Australian Open, e a distanza di 14 anni tornano a giocarsi l'ultimo atto dello Slam australiano. Vincendo il titolo, la più grande delle sorelle diventerebbe la tennista più anziana a vincere un Major, ed è comunque la seconda, dietro a Martina Navratilova, finalista a Wimbledon 1994 all'età di 37 anni, a raggiungere una finale Slam. Alla fine vince Serena, e il record non arriva, ma l'impresa resta incredibile. E non è ancora finita.

Martina Navratilova resta la più anziana finalista Slam e a Wimbledon nell'Era Open, avendo conquistato la sua ultima finale nell'anno del compimento dei 38; ma Venus, nell'anno dei 37, compiuti poco prima dell'inizio dei Championships, diventa la giocatrice più anziana a conquistare due volte l'ultimo atto di un Major nella stessa annata. Considerati tutti i problemi riscontrati in passato, si può parlare solo di miracolo.

Pochi mesi dopo, infatti, Venus ci prende gusto, e a Wimbledon gioca un altro torneo pazzesco, conquistando un'altra finale, la sedicesima a livello Slam, e la nona a Wimbledon. Questa volta è Garbine Muguruza a fermarla, ma il record è comunque messo a segno:

una giocatrice che ha superato ostacoli enormi, ed è stata in grado di tornare ad ottenere risultati che per il 90% delle tenniste, sarebbe un successo anche ottenere all'apice della carriera.

E a questo punto, non possiamo che aspettarci altre grandi imprese da parte di



KAROLINA PLISKOVA, LA NUOVA GLACIALE REGINA WTA Valerio Carriero

“L'inverno sta arrivando”. No, non si tratta della stagione piu ̀ fredda dell'anno, anche perche ́ siamo nel bel mezzo di una torrida estate. Prendiamo in prestito, per i pochi non a conoscenza, una delle piu ̀ celebri citazioni del fenomeno planetario “Game of Thrones”usata per descrivere tempi duri e di grandissima incertezza. Una frase che calza a pennello per il circuito Wta: nel “Gioco del Trono” orfano della regina Serena Williams, la lotta alla successione e ̀ piu ̀ accesa che mai. Le contendenti annusano l'opportunita ̀, falliscono occasioni e non incantano sul campo, ma i freddi calcoli aritmetici hanno eletto una nuova padrona dopo Wimbledon: Karolina Pliskova e ̀ la ventitreesima ad accomodarsi sulla poltrona della numero 1 nonostante una pretesa al trono, mettiamola cosi ̀, poco solida. La ceca, classe 1992 nata a Louny, non ha ancora vinto alcuno Slam proprio come Safina, Wozniacki e Jankovic, altre colleghe del passato recente. Di piu ̀, la certezza matematica e ̀ arrivata nonostante un'eliminazione al secondo turno ai Championships e l'ennesima grande

opportunita ̀ mancata dalla Halep: la romena, dopo aver fallito in finale al Roland Garros, si ferma anche ad un passo dalla vota cedendo ai quarti di finale alla Konta. Non proprio il massimo. Tutto sommato, il numero 1 al mondo di Karolina e ̀ stato costruito nell'arco delle 52 settimane precedenti: prima della prematura sconfitta a Church Road, la ceca aveva raggiunto la finale agli Us Open, i quarti agli Australian Open e la semi al Roland Garros, oltre a ben quattro successi a livello Premier (Cincinnati, Brisbane, Doha e Eastbourne). Una crescita importante e certificata anche dal numero 1 della “Race to Singapore” quando stiamo per entrare negli ultimi mesi della stagione: “Ringrazio tutti per questo risultato, anche


chi non ha creduto in me”, ha scritto la Pliskova in un post su Instagram dopo il traguardo raggiunto, “E' una grande responsabilita ̀ e faro ̀ di tutto per non deludere in questo nuovo ruolo”. Una pretesa al trono non cosi ̀ solida ma comunque giustificata da una serie di piazzamenti di prestigio, Karolina non vestira ̀ probabilmente l'abito della cannibale/dominatrice ma ha un'arma in piu ̀ rispetto alla quasi totalita ̀ delle avversarie del circuito: il servizio. Dall'alto dei suoi 186 centimetri, la Pliskova ha chiuso davanti a Serena Williams nel computo degli ace nel 2015 e nel 2016 e conduce al momento la classifica stagionale con 301 servizi senza risposta, sedici in piu ̀ rispetto alla gemella Krystina, sessanta in piu ̀ rispetto alla loro connazionale Safarova.

Un'arma fondamentale, utile per renderla competitiva su ogni superficie, persino sul rosso (dove vanta anche un titolo, tra le mura amiche di Praga nel 2015) sopperendo all'inevitabile carenza negli spostamenti laterali. Poco appariscente dentro e fuori dal campo, Karolina non si candida assolutamente al ruolo di trascinatrice delle folle: “Sono una persona introversa e posata, per questo non mostro mai la mia gioia sul rettangolo di gioco. So come vanno le cose, penso spesso a chi non ha nulla, per questo una vittoria in un match di tennis non mi dara ̀ mai un'immensa gioia ma solo grande soddisfazione. Il mondo non cambiera ̀ grazie a me”. E ̀ questa la filosofia della nuova regina Wta, una ragazza tranquilla che si divide tra allenamenti e relex, senza dimenticare di aggiornare i propri fan con scatti di attimi di pausa in giro tra le citta ̀ visitate sul Tour. E nel mezzo, magari, qualche libro di Pablo Coelho: “Ma non sono affatto una studiosa, anzi. Ho trovato la scuola faticosa e noiosa”, ha confessato la Pliskova, che ha iniziato a giocare a tennis dall'eta ̀ di 4 anni e non ha completato il proprio percorso abbandonando prima degli esami finali. E allora buona fortuna Karolina, libera dall'ingombrante e improbabile paragone con la “connazionale” Martina Navratilova, seppur salita al trono gia ̀ da cittadina americana: adesso anche la Repubblica Ceca ha ufficialmente la sua regina.


MUGURUZA: UN TRIONFO, UN SEGNO DEL DESTINO Alessandro Mastroluca Conchita Martinez e Garbiñe Muguruza sono uscite dalla stessa porta, nello stesso ordine, per due settimane. Perché la storia si scrive, e si ripete, anche con i piccoli gesti. Perché le grandi vittorie sono segni del destino. Non aveva ancora un anno Garbiñe quando Martinez, a 22 anni, batteva Martina Navratilova, che di anni ne aveva 37, a Roma e alla sua ultima partita in singolare a Wimbledon. Piangevano tutti, Martina e l'ambasciatore Usa in Gran Bretagna, con gli occhi rossi e il cappello in mano mentre finiva un capitolo di storia, mentre Martinez diventava la prima spagnola a trionfare ai Championships. Al fianco di Muguruza per l'assenza di Sumyk, rimasto con sua moglie per la nascita del figlio, oggi come allora Martinez è tornata ad allenarsi sul campo 11 dell'All England Club. Ha guidato una nuova campionessa spagnola di 22 anni, l'ha vista battere una leggenda di 37, una



Venus Williams poetica nel superare le 100 partite a Church Road e celebrare la ventesima partecipazione con la nona finale, che aveva sconfitto già al Foro Italico due mesi prima. Così, con accanto una figura che l'ha aiutata a gestire lo stress, Muguruza ha allontanato quei grumi di dubbi, quelle esplosioni di incertezza, nervosismo e confusione che hanno scandito tutti i suoi ultimi dodici mesi, dalla finale del Roland Garros 2016. Ha abbandonato l'abito di giocatrice in mezzo al guado, fra una strada vecchia, conosciuta ma stretta per le sue ambizioni, e un progetto nuovo, verso un'identità di gioco più matura, completa e consapevole, nel quale però non sembrava ancora coltivare la necessaria auto-convinzione. “Sono sempre molto motivata negli Slam, e qui a Wimbledon ogni giorno ho giocato meglio” ha detto dopo essere diventata seconda spagnola nell'albo d'oro dei Championships e la seconda dopo Martina Hingis ad aver affrontato entrambe le sorelle Williams in due finali di uno stesso Slam. “Avevo già provato il sentimento della sconfitta in una finale di Wimbledon due anni fa, e volevo assolutamente non si ripetesse. Volevo il mio nome scritto sul muro insieme agli altri vincitori; fare parte della storia del torneo”. A Wimbledon è diventata la sesta nell'era

Open a infilare un 6-0 in finale, ha fatto la differenza con la fiducia nei colpi forti e la conseguente possibilità di mascherare i punti deboli. Ha tirato quasi il doppio dei vincenti di rovescio rispetto al dritto, ha alimentato un tennis più aggressivo, più verticale. È riuscita a tenere in mano il gioco, si è presa più rischi da fondo ma in questo modo ha fatto in modo che le avversarie restassero sulla difensiva, senza metterle pressione. Il punto che di fatto ha deciso la finale, con cui ha annullato il primo set point nel parziale d'apertura, sintetizza e racchiude lo spirito di un percorso, la direzione di un'evoluzione. In una sfida di potenza e controllo da 19 colpi in cui controbatte alle accelerazioni di dritto di Venus con


tempo e anticipo sulla palla, sempre più profondo, sempre più forte. In questa stagione in transizione fluida fra vecchie appartenenze, nuove famiglie che nascono e gerarchie da ridefinire, Muguruza guarda al numero 1, è l'occhiata gettata al futuro della stagione e del circuito. Un futuro che la vedrà assecondare un intuito naturale nella lettura del gioco e nello spostamento in diagonale, non così comune. La presa del campo non procede solo per spostamenti verticali, ma si snoda fluida, anche nella terra di nessuno, a metà fra riga di fondo e rettangolo di battuta, una qualità che ha scandito anche le fasi migliori della

carriera di Victoria Azarenka. E qui torna Sam Sumyk, che quella stagione ha vissuto e comunque determinato da coach e che adesso si ritrova a dover tracciare un percorso futuro da osservato speciale, con una giocatrice che ha dato il massimo quando il contatto con lui si è limitato a quotidiane telefonate. “Non sono sorpreso del suo livello di gioco” ha detto in un'intervista al Mundo, celebrando anche il lavoro del fisioterapista Alicia Cebrián e del preparatore Laurent Lafitte. “Il lavoro progressivo che stiamo portando avanti da mesi ha generato una evoluzione nel suo gioco e i risultati si stanno vedendo. È cambiata anche la sua disposizione mentale. Adesso si tratta di mantenere un


piano che le permetta di raggiungere gli obiettivi”. La strada, iniziata nel marzo 2012, con la wild card a Miami ottenuta tramite la IMG (la società che aveva in comune sia la gestione del torneo che quella della stessa Garbiñe), e sfruttata con le vittorie sulla numero 9 del mondo Vera Zvonareva e la numero 26 Flavia Pennetta, prima di cedere su Agnieszka Radwanska, ha preso inattese deviazioni e regalato momenti di gloria nemmeno troppo fugaci. “All’inizio giocavo solamente lob, ma dopo il mio fisico è cambiato: le mie braccia sono diventate più lunghe e mi sono adattata” ha spiegato dopo la finale. “E poi si gioca tanto sul cemento, per cui sono dovuta diventare più aggressiva”. Si è scoperta giocatrice da grandi palcoscenici, stimolata dalle sfide che aumentano l'adrenalina, che danno il senso di una vita, di una storia, motivata dalle luci accecanti dei trionfi che possono anche nascondere, ma senza mettere in secondo piano, le ombre dei dubbi, delle sconfitte, della paura della mediocrità da cui solo puà nascere un campione. “Quando sono su un campo importante come il Centre Court mi sento bene” ha spiegato. “Sento di essere dove dovrei essere: è per quello che mi impegno e mi alleno. Per essere lì, giocare bene, e farlo contro le migliori giocatrici”.

E non a caso ha giocato la miglior partita del torneo contro una delle più brillanti versioni attuali di Angelique Kerber, che ha recuperato il meglio del suo vigore difensivo nel timore, poi realizzato, di perdere il posto da numero 1, una responsabilità che pesa ma poi logora se non ce l'hai. Contro la tedesca ha perso l'unico set del torneo, ma non ha mai perso di vista l'obiettiva. È rimasta la stessa Garbiñe di sempre. Ha cambiato la storia.



Quando a Wimbledon si è giocato nella Middle Sunday Akshay

Serena Williams dice che i Championships sono un torneo speciale perché continua a mantenere la prima domenica dell'evento libera da ogni tipo di azione sui campi. Negli ultimi 131 anni a Wimbledon, gli organizzatori sono stati costretti a rompere questa tradizione solo

quattro volte, nel 1991, nel 1997, nel 2004 e nel 2016 quando forti piogge durate per un paio di giorni hanno sconvolto la programmazione, lasciando all'All England Lawn Tennis Committee nessun'altra scelta che aprire i cancelli anche nella Middle Sunday. Il 1991 fu un'edizione unica per Wimbledon non solo perché Andre Agassi, la superstar che attirava folle di tifosi come nessun altro campione di quell'epoca, ritornava sui prati dell'SW19 dopo aver

boicottato il torneo per tre anni di fila, ma anche perché per la prima volta la Middle Sunday venne utilizzata per recuperare il tempo perduto nei primi quattro giorni del torneo. Chris Gorrings, il Chief Executive del club in quel periodo, ha ricordato quella prima Middle Sunday come “il giorno migliore e insieme il peggiore della mia vita” nel suo libro Holding Court. Ha detto: “L'inizio del torneo fu terribile. Non si giocò nemmeno un punto il primo lunedì e ci fu una pioggia


intermittente per tutto martedì”. “Il mercoledì fu ancora peggiore, con appena 18 partite giocate, e il giovedì sera la situazione era davvero terribili, anche per i giocatori. A Stefan Edberg, il campione in carica, servirono 73 ore per completare il match di primo turno. 'Grazie a dio è finita' ha detto, 'non sono riuscito a fare un pranzo decente per quattro giorni'. E fu uno dei più fortunati” ha aggiunto Gorrings, “almeno era sceso in campo. Eravamo a un terzo del torneo e solo 52 partite sulle 240 partite in programma si erano completate. “Non era una sorpresa, dunque, che mi ritrovassi con il presidente John Curry, Michael Hann, a capo del sottocomitato per l'ordine di gioco, il referee Alan Mills e il direttore dei Championships Richard Grier, durante un'altra

interruzione per pioggia, a considerare la possibilità di giocare la domenica, qualcosa che non si era mai fatta prima”.

su tutti I campi, escluso il Centrale e il campo 1, da tradizione fissato a mezzogiorno, venne anticipato di un'ora, alle 11.

Dopo, si è giocato nella Middle Sunday in altre tre occasioni (1997, 2004 e 2016). Nel 2004 giocarono la prima domenica l'ex numero 1 britannico Tim Henman, la testa di serie numero 1 Serena Williams e l'allora numero 1 del mondo Roger Federer. Inoltre, I doppi vennero accorciati e disputati al meglio dei tre set fino ai quarti di finale e l'inizio dei match

L'anno scorso, le piogge persistenti della prima settimana hanno costretto gli organizzatori a completare il programma nella domenica di mezzo, conosciuta anche come “People’s Sunday”, una di quelle giornate speciali che hanno comunque regalato a Wimbledon molte storie interessanti quando si è giocato.


Wimbledon: le statistiche del torneo di tennis più importante dell'anno Marco Di Nardo L'edizione 2017 di Wimbledon si è chiusa come probabilmente la maggior parte degli appassionati avrebbe voluto. Roger Federer, dopo 5 anni, è tornato a vincere il torneo più ambito della stagione

tennistica, superando nella finalissima Marin Cilic, alla sua prima finale ai Championships. Nella giornata precedente, non era andata molto peggio, per quando riguarda la finale femminile: a contendersi il match per il titolo, era stata un'altra giocatrice storica,

Venus Williams, capace di vincere il suo primo titolo addirittura nel 2000, e l'ultimo nel 2008, opposta a Garbine Muguruza, alla sua seconda finale londinese. Nell'evento in gonnella, alla fine è stata la più giovane a trionfare, ma rivedere la più grande delle sorelle Williams in finale, è sicuramente stata una incredibile emozione per gli amanti di questo sport. Un'edizione che ha quindi contribuito ad aggiungere un altro bellissimo tassello di storia a questo torneo. Una storia di cui tutti i più grandi campioni, inclusi Roger e

Venus, vogliono far parte. E' per questo che le statistiche, in un evento di questa importanza, assumono un valore ancora maggiore. Andiamo quindi ad esaminare alcuni numeri e primati relativi al torneo di tennis più


antico e prestigioso al mondo. Edizioni disputate: 131. La prima nel 1877, l'ultima nel 2017. La prima edizione dell'evento femminile si è giocata nel 1884.

RECORD DEL SINGOLARE MASCHILE Maggior numero di titoli: Roger Federer (8). Con il successo di quest'anno, Roger Federer ha raggiunto

quota 8 successi, superando nella graduatoria all-time William Renshaw e Pete Sampras, vincitori a Wimbledon per 7 volte. Seguono Lawrence Doherty e Bjorn Borg, con 5 titoli. Partite vinte consecutivamente: Bjorn

Borg (41). Con 41 vittorie consecutive tra il 1976 e 1981, è di Bjorn Borg la striscia più lunga di partite vinte ai Championships. Federer si era fermato a 40 tra il 2003 e il 2008. Set vinti consecutivamente: Roger Federer (34). Tra il 2005 e il 2006 Re Roger conquistò 34 set consecutivi a Wimbledon. Una striscia incredibile, che comunque non gli bastò per vincere uno dei due titoli senza cedere alcun parziale. E' stato infatti il titolo di quest'anno, il primo vinto da Federer a Wimbledon

senza perdere alcun set. Titoli consecutivi vinti: Williams Renshaw (6). E' di William Renshaw il record assoluto di titoli consecutivi a Wimbledon, con i 6 trionfi tra il 1881 e il 1886, ma in quegli anni era in vigore il


challenge round: il vincitore dell'edizione precedente, era qualificato direttamente per la finale l'anno successivo; gli altri giocatori, si contendevano l'accesso alla finalissima in una sorta di "torneo preliminare". Già in finale senza giocare alcun incontro, le possibilità di conquistare il titolo per più anni successivi erano molto più alte. E' per questo motivo, che il primato è stato sempre considerato quello ottenuto prima da Bjorn Borg, e poi eguagliato da Roger Federer, con 5 titoli consecutivi, ovviamente messo a segno da entrambi

Renshaw e Arthur Gore (8), poi ci sono Boris Becker e Pete Sampras (7).

senza la formula del challenge round.

sottolineato come l'americano abbia vinto i suoi 7 tornei nell'arco di appena 8 stagioni, tra il 1993 e il 2000, perdendo solo nel quarti di finale del 1996 contro Richard Krajicek. Per conquistare i suoi primi 7 titoli, Federer ha invece avuto bisogno di 10 stagioni (2003-2012),

Maggior numero di finali: Roger Federer (11). Con 11 finali conquistate, Federer è nettamente il giocatore più presente nella storia delle finali ai Championships. Lontani William

Finali consecutive: Roger Federer (7). Tra il 2003 e il 2009, Federer ha sempre raggiunto la finale ai Championships, vincendo in 6 occasioni, e perdendo solo nel 2009 contro Rafael Nadal. Anche questo un record. Maggior numero di titoli nell'arco di 8 stagioni: Pete Sampras (7). Se non è più di "Pistol" Pete Sampras il primato di titoli totali vinti a Wimbledon, va


mentre Renshaw ha ottenuto i suoi 7 successi nell'arco di 9 annate tennistiche (1881-1889). Maggior numero di partite vinte: Roger Federer (91). Re Roger è irraggiungibile anche per quanto riguarda il numero di partite vinte a Wimbledon, a quota 91. Ormai lontano Jimmy Connors, fermo a 84. Miglior percentuale di vittorie: Bjorn Borg (92.73%). Grazie a 51 partite vinte ed appena 4 perse, nessuno può vantare

una percentuale di vittorie ai Championships come quella di Borg, vicina al 93%. Finali consecutive senza partecipare ad uno o più eventi durante la serie: Rafael Nadal (5). Nonostante negli ultimi

anni Rafa Nadal non sia riuscito nemmeno a conquistare un quarto di finale a Wimbledon, risultato che gli manca dal 2011, lo spagnolo è riuscito a raggiungere la finale per 5 volte consecutive tra il 2006 e il 2011, vincendo due volte (2008 e 2010) e perdendo in tre circostanze (2006, 2007 e 2011), mentre nel 2009 non aveva preso parte all'evento per infortunio. E' la serie di finali più lunga, tra quelle interrotte da almeno un evento disertato. Maggior numero di game vinti in

finale: Andy Roddick (39). Sconfitto nella finale del 2009 per 5-7 7-6 7-6 3-6 16-14 da Roger Federer, Andy Roddick è comunque riuscito a mettere a segno il record di game vinti in una finale Slam, e quindi anche a Wimbledon, con 39 giochi vinti, contro i 38 di Federer, nonostante


sia stato appunto lo svizzero a conquistare il trionfo finale.

consecutivamente: Helen Wills Moody (50)

RECORD DEL SINGOLARE

Vincitrice col minor Ranking: Venus Williams (numero 31)

FEMMINILE Maggior numero di titoli: Martina Navratilova (9) Maggior numero di titoli consecutivi: Martina Navratilova (6) Maggior numero di finali:

Dorothea Douglass e Martina Navratilova (12) Maggior numero di partite vinte: Martina Navratilova (121) Maggior numero di partite vinte



Perché i tennisti posano nudi? Akshay Quando gli atleti che possono mostrare gli anni di duro lavoro hanno l'occasione di lasciare la comfort zone saltano, un po' esitanti all'inizio, sul treno delle celebrità che l'hanno fatto e non hanno vacillato. Caroline Wozniacki ha recentemente posato nuda per ESPN Magazine e la danese non è certo la prima a farlo. Ma perché un atleta dovrebbe nascondere il suo duro lavoro? Gli atleti, che lavorano per lunghe ore, rigorosamente, per reggere l'impatto del proprio sport, sanno come ci si sente a considerare il proprio fisico come qualcosa di scontato. Spendere ore in palestra con preparatori e fisioterapisti paga sul lungo periodo quando il loro gioco e la loro condizione atletica viene da molti idolatrata. Perciò, quando ce l'hai perché non mostrarla? Il trend, non specificamente negli ultimi anni, dura già da un po' fra star del cinema, modelle, atleti e celebrità che posano nude per riviste, poster e campagne pubblicitarie e così via. Alcuni lo fanno per cause come la promozione


del vegetarianesimo attraverso la PETA (People for the Ethical Treatment of Animals, Persone per l'Etico Trattamento degli Animali), per vendere prodotti come abbigliamento intimo per grandi aziende, per riviste che si occupano di salute. Con le ore passate a forgiare i loro corpi, gli atleti non si ritraggono quando hanno l'occasione di mostrarlo e di posare nudi. Allora, perché questa super-indulgenza verso la sessualità nelle riviste di sport, salute e bellezza come la Body Issue di ESPN, Maxim o Playboy? Tutti gli atleti sono modelli di riferimento per i giovani uomini e le giovani donne, ma posare nudi per le riviste fa diminuire la loro grandezza? La verità è che sono tutti consapevoli di come appaiono e di come vengano oggettivizzati dalla società. Quando gli atleti che possono mostrare gli anni di duro lavoro hanno l'occasione di lasciare la comfort zone saltano, un po' esitanti all'inizio, sul treno delle celebrità che l'hanno fatto e non hanno vacillato. Non essendo la loro immagine scalfita, al contrario ispirano le nuove generazioni, le guidano ad apprezzare quel che i loro corpi sono capaci di fare. Le riviste esaltano gli uomini e le donne che sono non soltanto brillanti in quel che fanno ma anche fieri di quel che i loro corpi possono fare.


Vedere sempre più immagini sessualizzate di uomini e donne può scontentare un po' all'inizio ma un dato rimane: gli atleti che vogliono mostrare il proprio corpo per affernare che hanno lavorato duro per forgiarlo non possono mai provocare reazioni negative nel pubblico. Si potrebbe obiettare che queste riviste non aiutino a migliorare il pensiero che le donne vengano proiettate nella loro totalità come oggetti sessuali, ma finiscano per reiterarlo. Molte grandi tenniste non hanno mai rinunciato a queste buone opportunità. Ana Ivanovic, Serena Williams, Vera Zvonareva, Daniela Hantuchova, James Blake e la star del wheelchair tennis Esther Vergeer hanno tutte posato per l'annuale ESPN’s Body Issue, per Playboy e simili. Nel 2013, Agnieska Radwanska e John Isner hanno mostrato i loro corpi nudi per la Body Issue pubblicata nel 2013. Al picco della carriera, la minuta numero 4 del mondo sapeva come ci si sentiva a non essere grande e grossa come le sue avversarie. Da giovane era piuttosto minuta ma non si è mai fatta intimidire, nemmeno negli anni da junior, dalle ragazze più grandi. Concentrandosi solo sul suo gioco, è diventata una delle migliori giocatrici sul circuito. Sente di essere diventata fisicamente più forte anno dopo anno. Dopo essere stata


cacciata da un gruppo cattolico chiamato “La crociata della gioventù” (Youth Crusade), ha reagito dicendo: “Non mi vergogno di Gesù”. Così ha dimostrato che, al di là di essere una grande atleta, non ha pudore a mostrare il suo corpo e non si preoccupa di come possa reagire la gente. Nemmeno John Isner ha avuto paura di mostrare tutti i suoi 2,08 metri. Essendo già decisamente più alto dei suoi compagni di scuola, Isner è sempre stato consapevole della sua stazza e della sua andatura sgraziata. Ma adesso, consapevole anche del suo gran tennis, l'ex numero 9 del mondo assegna proprio alla sua statura gran parte del merito per il tennista che è diventato. “Non è certo una di quelle cose che mi sarei immaginato di fare” ha detto a proposito della sua decisione di posare nudo, “i tennisti non sono muscolosi come i calciatori ma siamo di sicuro in buona forma e se il mio servizio fotografico riesce in qualche modo a mostrarlo è un bene”. Stare attenti alla propria salute, mangiare sano, lavorare sul proprio fisico è diventato una moda e questi atleti che osano mostrarsi nudi ci ispirano a fare lo stesso. Le critiche ci saranno, ma l'apprezzamento è anche una parte della critica. Questi atleti andrebbero omaggiati perché mostrano al mondo una versione più salutare di noi stessi.


Come Wawrinka ha avuto un attacco di panico e ha vinto gli Us Open Federico Coppini Tendiamo a credere che se riusciamo a controllare la nostra vita interiore (ovvero pensieri, emozioni, sentimenti) abbiamo l'opportunità di ottenere una prestazione migliore. Tendiamo a credere che pensando positivo saremo capaci di affrontare chi ci sta mettendo in difficolta', che mantenendo alta la fiducia in noi stessi potremo usare il nostro dritto come un'arma d'attacco, che con il giusto livello di tensione riusciremo a rimanere coi piedi dentro al campo e togliere tempo al nostro avversario. Non c'è dubbio che è più facile giocare bene quando abbiamo emozioni e e pensieri positivi. Ma ci sono almeno due ragioni per cui la nostra prestazione non può dipendere dall'avere i giusti pensieri, le giuste emozioni. - Primo, perché non sono facilmente controllabili. - Secondo, perché sprecheremmo molta energia semplicemente cercando di riplasmare i pensieri e le sensazioni. Nell'articolo vedremo come il campione

Slam Stanislas Wawrinka descrive I momenti vissuti prima di scendere in campo per la finale dello Us Open, prima di battere il numero 1 del mondo Novak Djokovic e assicurarsi il terzo major in carriera. “Molti mi chiedono come io sia riuscito a entrare in campo se cinque minuti prima della partita avevo avuto un attacco di panico e stavo cercando di trattenere le lacrime, ma senza riuscirci”. “Come ce l'ho fatta? Ve lo dirò. Mi sono fatto male. Ho cercato di allungare gli scambi quanto più possibile, ancora un


Djokovic sotto pressione con i suoi colpi. Si è concentrato sul muovere I piedi quanto più possibile, anche se era in difficoltà, e ha eseguito con successo la strategia nonostante avesse dentro un'immensa quantità di pensieri e di emozioni spiacevoli. In altre parole, anche quando dubitiamo di noi stessi, quando ci manca la fiducia, seguire il nostro piano e i nostri valori porterà spesso emozioni positive. Ma non dovremmo mai andare a cercare quel dritto vincente lungolinea solo per ottenere gratificazioni positive. Agire in accordo con il nostro piano e con I nostri valori vuol dire già fare la cosa giusta.

colpo in più, poi un altro ancora, fino a sentire le gambe infuocate, ma non la testa. Mi sono spinto al limite, fino a rimanere senza fiato”. “Oggi vi dico tutto questo sorridendo, ma non potete immaginare fino a che punto quelle voci in certe occasioni ti possano schiacciare”. La lezione è che a volte dobbiamo semplicemente fare quello che è importante per noi indipendentemente dalla nostra condizione interiore. Stan è riuscito a seguire il suo piano di gioco, a rimanere vicino alla riga e e mettere

È un mito da sfatare che non si possa giocar bene ed essere nervosi allo stesso tempo. Essere nervosi non è un problema in sé, ma lo diventa se, come conseguenza di questa sensazione, cominciamo a comportarci in modo diverso, senza seguire la nostra strategia o senza rispettare I nostri valori. Il punto qui è che dovrete accettare il fatto di essere nervosi. Ma solo finché riuscirete comunque a concentrarvi sull'eseguire il piano di gioco e i colpi necessari a far bene. Come ha dimostrato Wawrinka, si può essere nervosi e fare comunque le scelte giuste massimizzando le opportunità di mantenere un elevato livello di gioco.


Le regole di coach K Federico Coppini

Mike Krzyzewski, il coach più vincente nel basket americano, rivela come essere un leader in campo e nella vita 1. “L'onestà è l'elemento più importante in una leadership” dichiara Krzyzewski. “Per svilupparla, devi necessariamente investire negli altri e in te stesso. Le e-mail, I social network possono creare relazioni virtuali che sono solo di facciata. Perciò, preferite sempre i contatti diretti, cercate di parlare sempre faccia a faccia con i vostri interlocutori. Quanto più riuscirete a farlo, tanto più sarete in grado di rinforzare un legame” dice coach K. Ma soprattutto conta essere onesti con se stessi. Coach K. Rivela di aver rifiutato più volte offerte di squadre dell'NBA o di altre università che gli chiedevano di lasciare l'eminente University of North Carolina. È arrivato a questa conclusione: “Non puoi sempre arrenderti al richiamo dei soldi e della fama”. 2. Per chi ha ottenuto così tanti successi, che differenza fa una vittoria in più? “Fa una grande differenza, afferma Krzyzewski. “Non è questione di collezionare vittorie; l'inizio di ogni

campionato, di ogni partita, è diverso, è una sfida che si rinnova. Non riguarda solo te e la tua esperienza, è una questione di squadra. Ogni giocatore merita di essere condotto alla vittoria. Se non puoi dare ad ognuno di loro quello che si aspettano da un leader, allora non dovresti proprio essere coinvolto in un'avventura del genere”. Coach K. dice anche: “Devo offrire ai miei giocatori, anno dopo anno, la


stessa passione, la stessa competenza, la stessa competitività. Dopo ogni sconfitta, guardo sempre avanti. Nel basket e nella vita, il fallimento non deve mai essere un traguardo”. 3. Punta sempre al meglio e stai vicino ai migliori. Nella sua gloriosa carriera, Mike Krzyzewski ha battuto il record del suo ex coach a West point, Bobby

Knight. “Ho frequentato la scuola migliore del mondo per chi vuole imparare cosa voglia dire essere un leader” ha detto. Da Knight, e da altri ufficiali dell'accademia, ha imparato la disciplina, la determinazione, il carattere, le doti principali di un capo, che l'hanno condotto alla sua grande vittoria personale, nello sport e nella vita.


GIOCARE A ZONE Massimiliano Grancini

La zona arancio In questa zona puoi capitare se il tuo avversario ha giocato un colpo molto "ad uscire" e che ti costringe ad una affannosa È di sicuro una zona non a tuo favore perché lascia praticamente scoperto tutto il campo per il colpo successivo dell'avversario, per cui rimettere semplicemente la palla in gioco… vuol

dire perdere il punto. Le giocate razionali variano a seconda se sei riuscito ad arrivare a colpire nella zona d'impatto ideale (con il braccio non troppo distante dal corpo e quindi ancora capace di produrre energia) oppure se sei in completa distensione col braccio.

Nella prima ipotesi è preferibile un colpo di contrattacco con un topspin teso e veloce incrociato anche stretto a trequarti campo per cercare di ribaltare una situazione altrimenti compromessa. Se sei invece in piena azione difensiva … alza una palla altissima anche piatta e cerca di riprendere posizione in campo, sperando che il tuo colpo risulti profondo e quindi poco attaccabile.

La zona verde brillante L'ho identificata in questa maniera perché è come avere una prateria facile ed

invitante. La palla avversaria rimbalza corta nel campo e tu sei in ottimo equilibrio: la cosa peggiore che puoi fare è … non prendere iniziativa. Da qui devi dominare lo scambio per cui gioca aggressivo e fai correre


l'avversario. Se la palla è molto corta puoi anche tentare il vincente diretto oppure attaccare a rete, l'importante è non sprecare la possibilità che ti ha dato l'avversario con un semplice colpo di attesa.

La zona azzurra Azzurro è il colore della libertà, qui sei sotto rete e devi cogliere i frutti delle tue azioni precendenti per cui cerca la soluzione vincente al volo o con lo smash.

Nota bene Le ultime due zone (verde brillante ed azzurra) sono aree ad altezza variabile e saranno tanto più facili quanto la zona d'impatto sarà sopra l'altezza della rete, se si arriva in ritardo e quindi l'impatto sarà più basso dell'altezza del nastro le

scelte da fare diverranno più prudenti anche se così dentro al campo si potranno avere angoli di gioco molto più stretti. Allenarsi con le zone Una volta comprese le varie zone del campo e le relative giocate razionali, puoi costruire delle esercitazioni da ogni singola area per "interiorizzare" la giocata corretta. Un modo facile per farlo all'inizio è mettersi nella zona e farsi lanciare con la mano una palla da un compagno ed

allenare sistematicamente la giocata ideale con l'effetto e la profondità desiderata. Questo metodo puoi applicarlo in tutte le aree che abbiamo visto, dopo di che potrai passare a rifinirlo in fase di palleggio e punto.


Sono passati appena due mesi dal nostro primo contatto con String-Kong. In quell'occasione avevamo recensito la Gorill-1, monofilamento potente e versatile, le cui prestazioni hanno stimolato la nostra curiosità verso gli altri prodotti dell'azienda romana e ci hanno condotto a questo secondo playtest. La scelta, a nostro avviso, non poteva che cadere sulla Yeti, modello top di gamma in casa String-Kong e corda specificamente dedicata ad un'utenza prettamente agonistica. Questa “ammiraglia” è disponibile in due varianti:

CORDA: YETI DELLA STRING KONG Federico Coppini

1,26 e 1,17. Come vedremo più in dettaglio qui di seguito, entrambe si distinguono rispetto all’attuale offerta del mercato non solo per le prestazioni ma anche per il “carattere”, sempre riconoscibile. Soggetto La Yeti è un monofilamento in copoliestere di ultima generazione, di forma tonda e disponibile solamente nella colorazione bianca e nei calibri 1.26 e 1.17. La particolare miscela compositiva conferisce alla corda un'incredibile resistenza all'usura e una tenuta di


tensione fuori dal comune. Metodo di valutazione TennisWorldItalia ha testato le corde sia sul campo che in “laboratorio”, senza però dare troppo risalto all'esatta composizione chimica degli armeggi o al loro comportamento sotto stress tramite macchine diagnostiche, ma valorizzando essenzialmente un elemento ancora fondamentale per questo gioco: il feedback del giocatore. Resta tuttavia il focus sul controllo qualità che spesso, per alcuni marchi, lascia un po' a desiderare. Controllo qualità 1 (peso) Abbiamo pesato singolarmente 5 matasse da 200m e 12 confezioni da 12.2m per ognuno dei due calibri disponibili. Come per la Gorill-1, anche per la Yeti lo scarto massimo tra la più pesante e la più leggera delle matasse è stato poco meno di 2gr, mentre lo scarto medio è stato di circa 1gr. P le confezioni da 12.2m l’andamento è stato il medesimo: uno scarto massimo di 0,3gr e uno scarto medio di 0,2gr. Da segnalare anche che la corda (in entrambi i calibri) ha un peso leggermente inferiore a quello della media degli altri prodotti presenti sul mercato. Controllo qualità 2 (diametro) Abbiamo preso 4 set per tipo e per


ognuno abbiamo eseguito 10 misurazioni, di entrambi gli assi per ogni punto. Il risultato è stato una tolleranza massima di +/-0,02mm , un'ovalizzazione prossima allo 0. Il calibro medio coincide al centesimo di mm con le specifiche del produttore. Installazione Secondo il parere dei nostri incordatori incaricati di testare il comportamento della corda durante le fasi di installazione, la Yeti è un monofilamento molto piacevole da montare. Sia ricavando l’armeggio da una matassa da 200m, sia “spacchettandolo” da confezione singola, non sono stati registrati fenomeni di “arricciamento” o memoria di forma degni di nota. Ottima anche la scorrevolezza, specialmente nel calibro 1.17. In campo Le valutazioni che seguiranno sono basate sulle prove in campo eseguiti dai nostri 4 tester: Marco 22 anni 2,4; Pietro 28 anni 3,2; Sabrina 19 anni 3,4; Gino 38 anni 4,2. Ogni giocatore ha provato entrambi i calibri mixando vari setup. L’indicazione che il produttore ci aveva fornito prima del test era stata quello di scendere di almeno 1-2kg rispetto alle tensioni impostate per i monofilamenti abitualmente utilizzati dai tester. Avevamo accolto con un certo scetticismo questo suggerimento, poiché su numerose confezioni di armeggi si leggono simili avvisi sull’abbassamento di

tensione del 5-10%... Dobbiamo dire però che dopo i primi palleggi questo consiglio si è rivelato corretto e che addirittura uno dei tester ha trovato il feeling giusto scendendo di 3kg dal suo precedente setup. La Yeti sul campo ha dimostrato di essere dotata di un grandissimo controllo, sia direzionale che di profondità. L'impatto è secco e croccante (crisp) ma con un “retrogusto” pastoso. Il suono che scaturisce dagli impatti ad alta velocità (accelerazioni/prime palle di servizio) è molto caratteristico. Il dwell-time è decisamente ridotto e l'effetto “tavoletta” si raggiunge già a tensioni piuttosto basse. Non si percepisce però la sensazione di avere a che fare con una corda dura: il comfort è sicuramente maggiore se paragonato a quello di altri modelli agonistici famosi di fascia alta,


specialmente nel calibro 1.17. E' una corda molto diretta e “fedele”, poiché trasmette sulla palla quello che il giocatore ha nel suo bagaglio. E, cosa molto importante, lo trasmette con continuità e uniformità lungo tutto l'ovale. Non vi aspettate che possa sopperire però alle vostre eventuali mancanze tecniche o atletiche: bisogna avere un buon braccio! Come abbiamo scritto all'inizio dell'articolo, ognuno dei 2 calibri ha la propria identità. L'1.26 è molto più “spinfriendly”, grazie anche alla maggiore tridimensionalità che conferisce al piatto corde. Il servizio kick è ai massimi livelli e il rovescio tagliato ha una precisione quasi chirurgica. I nostri due tester di 2a e 3a cat., con nostra sorpresa, ci hanno riferito di una facilità ad imprimere

rotazioni alla palla addirittura superiore a quella di altre corde sagomate. Il target di riferimento però è piuttosto alto e non ci sentiamo di consigliare questo calibro a un 4° cat. Per quanto riguarda l'1.17, lo spettro d'azione è molto più ampio: controllo sempre ai massimi livelli, accompagnato però da una discreta potenza, un'ottima sensibilità ed un livello di comfort più alto rispetto a quanto registrato ovviamente con l'1.26. E’ ideale per quei giocatori/ giocatrici che amano colpire forte e piatto. Tenuta di tensione e durata meritano una menzione particolare. Ci avevano informato che la Yeti eccelleva in questi 2 campi, ma onestamente non credevamo di riscontrare prestazioni di livello così alto! Persino per un bombardiere di 2a categoria può risultare difficile rompere o


“sfinire” la Yeti. Anche l'1.17 nelle mani di un semi-professionista può offrire diverse ore di gioco! Per darvi un’idea della particolare tenacità della corda, l'1.26 e l'1.17 potrebbero essere tranquillamente paragonate per durata ad un calibro 1.30 e 1.24 di molte altre corde in commercio. Su questo aspetto è voluto intervenire Ivan Buffoni (proprietario del marchio) per precisare alcuni dettagli tecnici: “Uno degli obiettivi che ci eravamo prefissati in fase di progettazione della Yeti è stato proprio quello dell'estrema tenacità della corda unita ad un peso contenuto. Questo perché, a parità di durata, una corda più sottile trasmette un feeling e una sensibilità migliore, ma anche maggiore potenza, comfort e maneggevolezza. Sì maneggevolezza! Un calibro 1.17 che dura come un 1.25 ha circa 3gr di “vantaggio”! E 3gr di vantaggio sono più o meno 6pt di swingweight in meno! E 6pt in meno permettono una velocità di swing maggiore! E la velocità di swing è tutto!” Sempre su suggerimento di Ivan, abbiamo fatto provare ai nostri tester più avanzati un ibrido 1.26/1.17, che a suo dire sta andando per la maggiore tra i contrattisti e che, sempre secondo le sue indicazioni, è l’unico ibrido mono/mono che possa avere senso, quello cioè con lo stresso modello di corda ma in calibri diversi. I risultati sono stati devastanti. Rispetto ad un full job con Yeti 1.26, è stato come aggiungere una bombola di NOS a una fuoriserie: velocità di palla e

sensibilità molto maggiore, ma rotazioni e durata sempre ai massimi livelli.

Conclusioni La Yeti è una corda molto singolare, francamente sul mercato attuale non abbiamo trovato nulla a cui potesse essere accomunata. Controllo, Controllo e ancora controllo: questo sembra essere il mantra ripetuto dall'armeggio, ma anche uscita di palla molto uniforme, ottime rotazioni, durata e tenuta di tensione assolutamente fuori dal comune. A chi consigliamo la Yeti? Sicuramente nel calibro più spesso è una corda destinata per lo più a buoni agonisti a cui piace picchiare la palla sia piatta che in top, con un occhio ovviamente alla durata. Per il calibro più sottile il target è molto più ampio, perché oltre al controllo si potrà beneficiare anche di una precisione chirurgica e di un'ottima


tennisti di fascia medio-alta, questa made in String-Kong risulta tra le più docili verso le articolazioni in termini di “shock da impatto”. Nelle restanti occasioni di gioco, invece, la Yeti si comporterà proprio come ci si aspetta da un Uomo delle Nevi: sarete in grado di tenergli testa?

sensibilità, a patto comunque di essere già un giocatore piuttosto evoluto. Ci sentiamo di consigliare l'1.17 anche a giocatori old-school, che magari utilizzano ancora telai classici e “pesantucci” e a cui piace tirare “piattoni” con la presa continental, ma anche a giocatrici di alto livello che basano il loro gioco sull’1-2. Da non sottovalutare anche la combo 1.26/1.17, un mix molto equilibrato di due calibri che si completano a vicenda sfruttando la loro straordinaria sinergia. Considerato quanto detto fino ad ora, una menzione merita anche il comfort che la Yeti riesce a garantire. Certo, siamo pur sempre di fronte ad un prodotto destinato ad un'utenza ben preparata sia dal punto tecnico sia dal punto di vista fisico e atletico, ma nel panorama delle corde progettate per soddisfare le esigenze di

Prima di concludere, vorremmo rivolgere un particolare ringraziamento a DNA Tennis Shop & Lab di Milano nella persona Marco Rossani, per averci messo a disposizione (su indicazioni del produttore) tutto il materiale di cui abbiamo avuto bisogno per i nostri test e per averci sistemato alla grande diversi telai prima della sua partenza per Wimbledon, dove anche quest'anno è stato official stringer. (foto)

Per saperne di più: www.string-kong.com www.facebook.com/stringkong info@string-kong.com


UNA PREZIOSA TESTIMONIANZA SULLE NUOVE ERGOPRO AC+ PER IL TENNIS!

Bonacossa. 1. Quali prodotti Noene ha testato? Gli ultimi plantari Noene ErgoPro AC+. 2. Come ha conosciuto le solette e i plantari Noene®? Da una ex allieva.

Le nuove ErgoPro AC+ sono notate per la loro traspirabilità e per l’affidabile sostegno che dona al piede, anche tra chi ha sofferto di problemi all’arco

3. In quale situazione e per quanto tempo ha testato le solette e i plantari Noene®? Gioco regolarmente a tennis presso il TC Bonacossa, a Milano. Li ho provati in

plantare.

allenamento.

Marco Valtorta è atleta e istruttore di tennis. Ha lavorato come tennis coach per Toptenn Tennis Academy a Melbourne. Attualmente gioca nello storico Tennis Club Milano Alberto

4. A livello fisico, che tipo di problemi specifici (se ne aveva) è riuscito a risolvere? Da anni soffro dolori alle ginocchia derivanti da un problema di cedimento


dell'arco plantare. Per questo motivo porto regolarmente delle solette correttive fatte su misura. Utilizzando il plantare ErgoPro AC+, unitamente al mio, ho riscontrato benefici alla schiena e nella zona del tallone. 5. Quali effetti generali ha riscontrato a livello di prestazione e quali benefici pensa apportino al suo sport? Il materiale traspira molto bene, cosa che il mio plantare non fa… e non è un dettaglio da poco quando giochi! Sembra essere anche resistente e

pensato per durare nel tempo, ma questo ve lo saprò dire… 6. In base alle sua esperienza, consiglierebbe le solette e i plantari Noene® a quanti soffrono delle stesse patologie fisiche e/o praticano il suo

sport? Ho avuto modo di confrontarmi con altri giocatori e i riscontri sono stati tutti molto positivi, quindi sì, lo consiglierei.





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