Tennis World Italia n. 32

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La città del tennis by Giulio Nicoletti

Arrivare a Melbourne Park non è complicato. È di lato alla zona più centrale della città, quella del grattacielo Rialto e della Flinders Station, poco dopo il Birrarung Marr Park, a due passi dallo Yarra River, a non più di tre dal Melbourne Cricket Ground, l'enorme Victoria Stadium, dove nei giorni del cricket si consuma una delle feste sportive più tipiche della tradizione aussie. È come una gita fuori porta, la partita di cricket. I centomila che in queste occasioni riempiono lo stadio portano cestini da picnic, prendono il sole sugli spalti distrattamente attratti dal gioco, si dedicano ai bimbi che corrono e fanno il trenino fra le gambe degli spettatori. Non li vedi entrare, e non li vedi uscire. Ma dalle finestre del vicino Hilton, per chi ha avuto la fortuna di esserne ospite, lo stadio appare pieno fino ai gradoni più vicini al tetto, dove i gabbiani dello Yarra


attendono per banchettare con gli avanzi della festa. Si può scegliere di prendere uno dei numerosi mezzi che portano a Federation Square e da lì passeggiare piacevolmente lungo lo Yarra fino all'ingresso di Batman avenue. Oppure salire su uno degli sferraglianti tram che conducono fino alla Rod Laver Arena. Il tennis è lì. Al centro della città. E attende di diventare una parte memorabile di essa. Fra due anni sarà così. Il contratto che lega la città al torneo scade nel 2036. Al momento opportuno altre città australiane si faranno sotto, per strappare a Melbourne uno dei quattro tornei-simbolo del tennis. E non saranno solo città australiane. Proprio com'è accaduto nel 2006, quando accanto a Sydney, i competitors si chiamavano Dubai e Shanghai, le città del nuovo mondo che si affaccia al nostro sport. Melbourne ha resistito, ha vinto, e ha fatto una promessa: in breve, il tennis a Melbourne Park diventerà uno dei salotti della città, un complesso architettonico e sportivo che meriterà ampie segnalazioni sulle mappe turistiche. Da visitare anche se non ci saranno Federer e


Djokovic a fare da chaperon. Curioso… Gli Australian Open già vantano uno degli impianti più moderni del tennis internazionale, di certo il più innovativo fra quelli dello Slam. I due stadi "tettuti", ovverosia muniti di tetto, hanno imposto anche alla concorrenza di porre mano al portafoglio e di ristrutturare gli impianti esistenti. Lo ha fatto Wimbledon, sta per farlo un po' cervelloticamente il Roland Garros, finirà per farlo anche lo Slam americano, seppure fra grandissime difficoltà, dovute alla presenza nelle viscere di Flushing Meadows di ciò che resta di una delle più grandi e antiche discariche di New York, cosa che rende il terreno particolarmente friabile (è probabile dunque che innalzeranno un tetto solo per il secondo stadio, quello dedicato ad Armstrong). Ciò nonostante, i cambiamenti che gli Australian Open hanno deciso sono tanti e rivoluzioneranno drasticamente la struttura esistente. Si lavora a fasi, con la prima in scadenza nel 2015. Le novità saranno introdotte dunque dal torneo del 2016, anno di grazia. I lavori principali riguarderanno la Margaret Court Arena, il piazzale d'ingresso agli stadi, la costruzione dei nuovi campi, il parcheggio multilivello e i due nuovi ingressi della HiSense Arena. Il terzo campo, dedicato a Margaret Court, con buona pace della comunità gay di Melbourne che spesso ha ingaggiato battaglia con la ex campionessa sulla questione dei diritti civili, diventerà il terzo fornito di tetto scorrevole. La capienza, oggi intorno ai 7000 posti aumenterà di 1500 poltrone. Cambierà aspetto anche l'involucro che conterrà il primo (la Laver Arena) e il terzo stadio (la Margaret…), che diverranno un tutt'uno. Nella Eastern Plaza verrano costruiti 21 nuovi campi di cui otto


indoor, che dunque porteranno oltre i 40 campi la dotazione dell'impianto. All'interno di quest'area ne sarà creata una più piccola e appartata, ma comunque aperta al pubblico, per gli allenamenti dei giocatori. Il nuovo ingresso che accoglierà gli spettatori verrà sistemato lungo l'Olympic Boulevard. Sarà questa la parte architettonica più dedicata alla città, un ampio spiazzo aperto tutto l'ano alla cittadinanza. Lì nei pressi il parcheggio multilivello che ospiterà 1000 vetture. Un solo problema, chiaro e visibile a occhio nudo, per chi abbia voglia di immaginare l'immensità della nuova area che conterrà tutte queste novità, costituita dall'attuale impianto e dai suoi ampliamenti. Dal campo più estremo alla destra della HiSense Arena, che sorgerà a un passo dall'incrocio con la grande arteria che porta al mare di Santa Kilda, a quello più estremo in direzione opposta, verso la Batman Avenue, vi sono non meno di due chilometri e mezz'ora di passeggiata. A meno che non mettano un trenino in grado di trasportare velocemente gli spettatori che vogliano andare su un altro campo. Melbourne Park compie quest'anno 25 anni. Se fosse un tennista sarebbe al picco della sua carriera ma come evento è ancora un pulcino in attesa di dispiegare le ali. Le fasi del cambiamento prenderanno complessivamente 12 anni, dunque nel 2016 verranno aperte solo alcune nuove zone. Sarà una faticaccia, perché ogni anno cambieranno ingressi, parcheggi, permessi e percorsi. Ma gli Open devono continuare a crescere. La fase 1 ha visto un investimento di 363 milioni di dollari e altrettanti soldi sono stati messi in budget per la Fase 2. Ma terminati i lavori Melbourne sarà davvero la nuova città del tennis.


Le dieci cose che fanno di Melbourne Park uno Slam diverso dagli altri by Francesca Cicchitti 1) Le grandi piante di eucalipto che si trovano lungo la strada che porta all’ingresso del magnifico impianto di Melbourne Park, emanano un odore così intenso, piacevole e inebriante soprattutto durante le giornate più umide, subito dopo un acquazzone, che fanno diventare piacevole persino la pioggia. 2) Una volta arrivati all’ingresso principale, è impossibile non notare una statua sproporzionata, di un omino con la racchetta in mano. Ci colpisce perché non ce ne sono altre, per fortuna, di così brutte davanti a nessun altro stadio del tennis. Guardandola meglio ci rendiamo conto che l’infedele scultura, di uno scultore del quale preferiamo non svelare il nome, è quella del grande giocatore australiano Rod Laver l’ultimo ad aver ottenuto, 41 anni fa, il “Grande Slam”. La statua è stata eretta nel gennaio del 2000 quando lo stadio centrale, la Rod Laver Arena appunto, gli è stato


dedicato. 3) Inoltrandoci all’interno dell’impianto di dimensioni enormi, come solo in Australia è possibile fare (hanno lo spazio necessario, a tutti gli effetti), vediamo un cartellone con il futuro progetto di Melbourne Park. Qualcosa di “mostruoso” per grandezza e maestosità. L’ampliamento prevede l’aumento di circa sei mila posti e la copertura del campo Margaret Court Arena. Diventerebbe quindi il primo torneo dello Slam ad avere tre campi coperti. Un unico problema… Dall’ultimo campo sulla destra della Rod Laver Arena, all’ultimo dalla parte opposta, sulla sinistra dell’HiSense Arena, corrono due chilometri buoni. Suggerimenti per gli spostamenti? 1) Prendere il trenino che corre accanto all’impianto; 2) Acquistare un monopattino. A voi la scelta… 4) Da quest’anno, già possiamo vedere una delle prime innovazione del futuro ampliamento. C’è una nuova area chiamata “the oval”, l’ovale, che è una specie di immenso villaggio dedicato agli spettatori che dopo aver visto una partita possono divertirsi a comprare un ricordo in uno dei tantissimi stand. Ci sono grandi chioschi che vendono cibo e bevande per tutti i gusti.


Immensi hot-dog ripieni di senape, maionese e ketchup, enormi patate fritte, panini imbottiti, birra e bibite gassate a volontà, il tutto accompagnato da un sottofondo, avvolte anche un po’ assordante, di musica hard-rock. Del resto la musica, in tutte le sue note, è la grande compagna dei giorni tennistici in Australia. C’è il palco, di lato all’ovale dove staziona il pubblico, e il programma prevede quindici giorni di rock con gli artisti più in vista della Melbourne rockettara. Oppure, c’è la soluzione “fai da te”, con tre musicanti ingaggiati direttamente dal torneo (si muovevano infatti tranquillamente fra players lounge e corridoi “privati”), scelti per intrattenere il pubblico con musiche a richiesta. A Melbourne Park pesino il modo di fare la pubblicità ci lascia stupiti e ci fa divertire per l’originalità. Camminando intorno alla Rod Laver Arena di fronte ad una delle entrate, vediamo quattro ragazzi travestiti da pinguini ballare la break dance, mentre cantano il ritornello di una pubblicità di una compagnia telefonica. 6) Durante questo torneo, gli spettatori hanno la fortuna di potersi andare a rilassare allo stand dell’acqua Evian. Delle esperte ragazze praticano un massaggio rilassante al viso, alle tempie e al collo. Per finire applicano un impacco rinfrescante ovviamente a base di acqua Evian.


7) Lo stand più divertente, è quello dove ci si può far pitturare il viso con dei colori che non fanno male alla pelle e che si lavano via facilmente con dell’acqua e sapone. Due abili pittrici, eseguono sul viso un disegno a scelta dei ragazzi e dei bambini che sono disposti a fare file lunghissime, anche di un’ora nella speranza di farsi notare dalle telecamere. Per la maggiore vanno disegni delle bandiere rappresentanti il proprio paese, oppure fiori o animali tipici australiani. 8) Il folclore della gente di Melbourne è unico e raro, non lo si trova in nessun altro torneo. Le ragazze sono le più originali e non lasciano alcun particolare al caso. Le si vede girare in costume da bagno e pantaloncini cortissimi, altre con la bandiera dell’Australia a mo’ di mantello, oppure travestite da hawaiane. 9) Unico è lo stand delle poste dov’è possibile farsi fare i francobolli personalizzati. Un fotografo competente scatta una foto a grandezza di francobollo, simile a quella che si fa per il passaporto ma con la differenza che si può ridere o fare smorfie. Il prezzo è di quindici dollari e novantacinque centesimi per dieci


francobolli. 10) E per finire nessun “bivaccoâ€? è come quello che possiamo trovare a Melbourne Park. Un tappeto di persone, soprattutto ragazzi, che non sono riusciti a trovare un biglietto per il centrale, muniti di bibite e cibo si sdraiano sul prato e guardando la partita sullo schermo gigante, come vuole la tradizione di uno Slam.



Quel genio del mio amico by Francesca Cicchitti Ci siamo fatti raccontare da Martin Mulligan, che lo incontrò nella finale di Wimbledon, i segreti del “piccologrande uomo” Nella sua casa in California, Rod Laver usa l’Anthony Wilding Memorial Trophy, come ferma porta. In quel periodo, quando il tennis era ancora uno sport dilettantesco, si vincevano solo delle belle e grandi coppe, e il “Memorial Trophy”, è uno tanti trofei che Rodney intascò durante quell’indimenticabile 1962, anno in cui “Rocket il razzo”, all’età di 24 anni, vinse il suo primo Grand Slam da dilettante, per poi ripetere l’impresa 7 anni dopo, nel 1969, quella volta però da professionista. Nessuno dopo di lui vi è mai più riuscito. «Rod nel 1962 dominò l’anno, fu incredibile quello che riuscì a fare», racconta Martin Mulligan, suo avversario nella finale a Wimbledon del 1962. Rod era un omino piccolo di appena 68 chili che con una racchetta sapeva fare di

tutto, e lasciava il pubblico incantato. Per capire come riuscisse in ogni colpo, gli misurarono persino avambraccio e polso, fu così che si accorsero che il primo era grande come quello di Rocky Marciano, l’altro delle stesse dimensioni di quello di Floyd Patterson. «Fu lì che si capi tutto!» «Sapeva giocare tutti i colpi» Nessuno meglio di Mulligan, australiano come Laver, poteva riferirci le gesta di quel fenomeno inarrestabile. Ce le racconta col sorriso sulle labbra, con grande ammirazione: «Rod era un esempio per noi che eravamo più giovani, e cercavamo di imparare da

lui. Era davvero bravo, velocissimo, aveva tutti i colpi: il servizio slice, scendeva a rete, poteva giocare da fondo campo e poi fu il primo mancino, a fare il rovescio in top-spin. Fu Charles Hollis il suo primo maestro, a insegnarglielo, ma fu fondamentale il suo successivo allenatore, Harry Hopman. Insomma, Rod ci faceva rimanere tutti a bocca aperta con il suo gioco». La cosa più bella e ammirevole di Laver era la sua semplicità, la sua umanità e la gentilezza con la quale si poneva nei confronti dei compagni, degli avversari, o dei giornalisti. Un uomo rimasto con i piedi per terra, che aveva vinto tutto ma non si era mai


montato la testa. «Davvero un grande uomo Rod», prosegue Mulligan, «l’ho conosciuto quando eravamo nella squadra di Coppa Davis australiana, ed è sempre stato gentile con tutti noi. Poi, è normale, nel tempo è nata un po’ di rivalità, che però finiva in campo. Tutti volevamo vincere, ma fuori dal “court” eravamo amici. Rod è così anche oggi». Marty, ha giocato tante volte contro “Rocket”, ed è riuscito a batterlo un paio di volte. «La prima nei campionati Australiani sulla terra battuta e la seconda a Sydney sull’erba. E pensare che in entrambe quelle due finali “Rocket” aveva avuto il matchball, ma poi ho vinto

io». “Rocket” era il soprannome che gli diede Harry Hoppman, quando lo vide giocare per prima volta a Wimbledon nel ’56. Lo soprannominò così sia per il nome della sua città di provenienza, Rockhampton, sia per la sua velocità, quella di un razzo. Tra i tanti aneddoti che Martin Mulligan ci ha raccontato, il più interessante è quello sulla finale di Wimbledon, dove Martin venne battuto da Rod con un pesante risultato, 62 62 61. Mulligan non era affatto emozionato prima della partita. In quel periodo la finale si giocava di sabato, il giovedì aveva giocato la semifinale e il venerdì si era

allenato. «Le cose allora erano diverse, veniva una Rolls Royce a prenderci in albergo e ci portava al Club». Persino quando si trovò all’interno di quella lussuosissima automobile, Martin rimase tranquillo; oltre tutto quell’anno, per la prima volta, la Regina Elisabetta II sarebbe andata a vedere la finale. L’emozione si fece sentire solo quando mise il piede in campo. «Fu allora che mi mancò il respiro. Sapevo che Rod voleva dimostrare la sua superiorità, e… Devo dire che ci riuscì davvero bene! Lui che era famoso per i lunghi match, mi ha liquidato velocemente in tre set!». Conclude con una simpatica risata. L’ultimo Grand Slam? Secondo Martin Mulligan, non si possono fare dei confronti tra Laver e i campioni odierni, erano epoche troppo differenti. «Tutto è possibile, ma non credo ci sarà mai più un giocatore che possa ottenere per due volte un Grand Slam come lui». A essere d’accordo con Mulligan ci sono due giornalisti italiani, che in quel periodo conobbero bene e divennero amici di Rod Laver. Gianni Clerici lo ricorda come una persona


civilissima, di grande semplicità, e molto simpatico. Un giocatore unico, corretto che aveva raggiunto altissimi livelli ma che era rimasto umano: «La sera si usciva insieme a cena, si chiacchierava di tutto, anche di tattiche, mi ricordo quando Laver mi chiese come giocava Pietrangeli, quali fossero i suoi punti di forza. Erano altri tempi. Non posso dire che nessuno riuscirà a fare un Grand Slam, ma tutto è possibile». Anche Rino Tommasi, dice le stesse cose: «Era un uomo e un giocatore alla mano, una persona che per essere arrivata a dei livelli così alti, non si è mai montata la testa. Era sempre disponibile al dialogo, se lo incontri oggi è ancora così. Pochi anni fa lo incontrai a Sydney, in aeroporto e abbiamo avuto una piacevolissima conversazione. Qualcuno dei campioni attuali, forse, potrebbe fare un Grand Slam… Ma due è davvero difficile». E se lo domandiamo a Rod Laver? Anche lui ci ha risposto che nulla è impossibile, e se nella vita si vuole qualcosa, con il sacrificio la


si può ottenere. «Quando ho vinto il primo Grand Slam nel 1962 è stato molto duro per me, ma guardandomi indietro quello del ‘69 lo è stato ancora di più, perché avevo di fronte avversari forti, dei professionisti, ed è stato per me il Grand Slam che mi ha dato maggiori soddisfazioni».


L’ultimo fighter by Federico Mariani


“Mi sforzo di sorridere, sapendo che la mia ambizione ha superato di gran lunga il mio talento. Ormai non trovo più cavalli bianchi o belle donne alla mia porta”. Non può che sorridere Lleyton Hewitt dopo aver tirato in corridoio l’ultimo passante della sua vita sul circuito Atp. Gli occhi non tradiscono, ed è estremamente affascinante ammirare il volto di un uomo nell’istante che segue la fine di tutto ciò che è stato. E’ un sorriso sincero quello del ragazzo della Gold Coast dopo il matchpoint dell’ultima partita tra i professionisti, nella sua Melbourne, nella sua Rod Laver Arena. Come George Jung ­ protagonista di Blow, cui Johnny Depp presta magistralmente corpo ed arte ­ l’ambizione di Hewitt ha superato ciò che Madre Natura gli ha donato sotto forma di talento. “Non ha il colpo del k.o., l’arma in più che ti lascia fermo, il vincente”. Quante volte addetti ai lavori, appassionati e tifosi hanno ripetuto come un mantra questa frase riferendola al tennis di Lleyton. Ed effettivamente il colpo risolutore, quello che ruba l’occhio e fa innamorare l’anima Hewitt non l’ha mai avuto. Non è

dotato di un dritto fulmineo o di un servizio poderoso, in definitiva non ci sono mai stati punti gratis nell’arsenale di Rusty. Ogni quindici è costruito, ogni situazione premeditata. Al tennis hit&run moderno, Hewitt ha risposto con un saggio di tattica applicata al Gioco, straordinario nella sua complessità. L’australiano ha tratto il massimo da ciò che aveva, forse di più. Quel massimo si traduce in soldoni con due titoli del Grande Slam a New York e Wimbledon, quasi sgraffignati in quell’esile terra di mezzo tra due generazioni di fenomeni. Ha trionfato nei primi anni del nuovo millennio alle Atp Finals per due volte consecutive, cui vanno aggiunte due edizioni della Coppa Davis vinte con l’Australia per un totale di trenta successi. E’ stato il più giovane della storia del tennis maschile a salire sul trono più alto del mondo, restandoci per ottanta settimane. “Non si apprezza mai quello che si ha finché non lo si perde” La vetta del ranking, tuttavia, non ha donato a Hewitt l’amore e la fama degni di un numero uno. Vuoi per un gioco che può


sembrare noioso ad un occhio distratto, vuoi per un atteggiamento da vero fighter che talvolta è scivolato oltre il confine dell’arroganza, è stata impresa difficile scovare tifosi di Rusty al di fuori della cerchia degli storici fanatics o, più in generale, oltre i confini della nativa Australia. Come detto in precedenza, Hewitt s’è cibato principalmente del vuoto generazionale a cavallo tra la fine di Sampras-Agassi (ma non solo ovviamente) e l’avvento dell’Era Federer poi coabitata ed arricchita da Nadal prima e Djokovic poi. Uno spazio temporale ­ quello dell’interregno ­ troppo breve per far innamorare le folle di questo ragazzo biondino un po’ troppo irrequieto, di certo non propriamente in linea coi canoni tradizionalisti del tennista. E, se anche fosse accaduto, l’imminente ascesa di Federer è stata troppo travolgente per evitare che quel ragazzo venga parzialmente messo in disparte, bravo sì, campione sì, ma totalmente scarico d appeal se relazionato all’elvetico, the next big thing, molto big! Gli appassionati di tennis hanno imparato gradualmente ad innamorarsi di Hewitt, anche se pare più opportuno parlare di rispetto più che di amore. Tutti quei “C’mon” eccessivi sbattuti in faccia agli avversari, o l’episodio con James Blake a New York dove Rusty accusò Bernardes di un fantomatico di razzismo invertito, o ancora tutte le bagarre con gli argentini (Coria, Chela, ma anche Nalbandian…), non hanno certo aiutato l’immagine di Lleyton agli occhi del mondo. E’ solo in un secondo momento che lo spettatore ha capito appieno lo spirito del guerriero australiano, forse con eccessivo ritardo. Un uomo ­ ancor prima di un giocatore ­ che subisce tre operazioni, che riemerge sempre, che dona il suo stesso corpo per amore del

Gioco, che pur essendo un campione accetta il fatto di vestire i panni del comprimario prima ed ancora meno poi. Uno che si fa impiantare una placca metallica nel piede sinistro solo per riuscire a fare qualche giro in più, per sentirsi ancora vivo, per sentirsi ancora parte di quello che era (e sarà) il suo tutto. Ecco, davanti ad uno così si deve chinare il capo e dire grazie. E’ strano il tennis. E’ uno sport in cui vige spietata la legge della vittoria, ma che spesso fa innamorare grazie alla sconfitta. E’ questo il caso di Lleyton, troppo spesso odiato per quello status di cattivo cucito sulla pelle, e troppo tardi apprezzato quando i “C’mon” hanno cominciato a superare di gran lunga le


vittorie sul circuito. Negli ultimi sette anni un solo quarto di finale Slam è il magro bottino raccolto da Rusty che, al tempo stesso, ha dovuto subire copiose sconfitte, forse più di quanto l’ego del campione possa sopportare, ma meno di quante l’infinito amore per il tennis possa perdonare. Ed è proprio l’ultima versione ­ quella perdente ­ che è stata in grado di amplificare ed in un certo senso a purificare l’immagine di chi avrà un posto al tavolo delle leggende del Gioco. Dopo l’ultimo incontro che lo ha visto perdere al secondo turno dello Slam di casa contro David Ferrer, Hewitt ha salutato la compagnia

ricevendo il saluto sul maxischermo dei campionissimi di oggi. Anziché cominciare a godersi sin da subito un’agognata (e dorata) pensione lontano dal rettangolo di gioco, tuttavia, quattro giorni dopo Hewitt era nell’angolo di Bernard Tomic durante gli ottavi di finale che vedevano il talento aussie fronteggiare Murray. Questo è Hewitt: un uomo totalmente innamorato del tennis che nel tennis continuerà a stare. L’Australia dopo svariati anni di magra, ha tre potenziali assi nelle maniche, tutti giovani, tutti tremendamente promettenti. Ah se solo avessero metà del furore di quel ragazzo di Adelaide ormai in pensione…


RAFA, ci risiamo! by Marco Di Nardo



Il peggio sembrava essere passato per Rafael Nadal, autore di un 2015, soprattutto nella prima metà , davvero disastroso. Tante sconfitte, anche sulla terra rossa, superficie che anche nelle annate meno positive gli aveva sempre permesso di restare in alto, assicurandogli almeno un paio di Masters 1000 e un titolo dello Slam praticamente in tutte le stagioni dal 2005 in avanti. Dopo la sconfitta subita contro Fabio Fognini agli U.S. Open, in una partita in cui Nadal si era trovato a condurre per due set a zero, prima di essere sorprendentemente rimontato, lo spagnolo era finalmente tornato in buone condizioni - in particolare quella mentale, decisiva per il suo calo di rendimento - a partire dal torneo di Pechino dello scorso anno, in cui aveva dato il via ad una serie di buoni risultati, utile soprattutto a ritrovare fiducia in vista della nuova annata. Il 2016 doveva quindi diventare la stagione della rinascita. D'altronde negli ultimi anni tutti i "Big-4", ad esclusione di Novak Djokovic, hanno avuto un'annata negativa, prima di tornare in alto. Nel 2013 era stata la volta di Roger Federer, che aveva chiuso al numero 6 della classifica mondiale, prima di tornare al numero 2 l'anno successivo; nel 2014 era invece stato Andy Murray a finire addirittura fuori dalla Top-10 per un breve periodo, per poi tornare anch'egli al numero 2 lo scorso anno. Nadal, nelle difficoltà , è stato il giocatore ad aver perso meno terreno, avendo chiuso il 2015 al numero 5 del Ranking ATP, mentre i due giocatori citati precedentemente, nella loro annata di "pausa" non erano andati oltre al numero 6. Anche per questo motivo, aspettarsi un grande ritorno del maiorchino nel 2016 era abbastanza prevedibile, seppur non del tutto scontato.



L'inizio di questo 2016 sembrava dare ragione a chi sosteneva che Nadal potesse tornare ad altissimi livelli. Al Mubadala World Tennis Championship, torneo di esibizione, che però viene giocato da tutti i protagonisti come se fosse un evento ufficiale - anche per l'importante montepremi di 500.000 dollari -, Rafa è infatti tornato a vincere, battendo due Top-10 come David Ferrer e Milos Raonic, conquistando il suo terzo trofeo ad Abu Dhabi ed eguagliando il record di Novak Djokovic. La settimana successiva è quindi arrivato il primo torneo ufficiale, l'ATP 250 di Doha, con un campo di partecipazione più simile a quello di un Masters 1000 che a quello di molti ATP 500, nonostante si tratti di un torneo di categoria inferiore ad entrambi. Lì Rafa ha confermato i suoi progressi, battendo uno dopo l'altro Pablo Carreno Busta, Robin Haase, Andrey Kuznetsov e Illya Marchenko - autore dell'eliminazione del campione uscente David Ferrer al primo turno -, conquistando la finale. Nel match-clou non c'è stata storia, Novak Djokovic ha vinto facilmente per 6-1 6-2, ma Nadal era comunque contento del suo gioco, fiducioso per un Australian Open finalmente da protagonista. E invece proprio in Australia è arrivata una delusione che potrebbe farlo sprofondare nuovamente in quella crisi mentale che lo aveva attanagliato per tutto il 2015. Complice un sorteggio non fortunatissimo, Rafa si è ritrovato ad affrontare al primo turno quel Fernando Verdasco che nel 2009 lo aveva costretto al quinto set nella semifinale dello stesso torneo. Anche questa volta i due sono approdati al parziale decisivo, ma l'esito è stato differente, confermando le difficoltà di Nadal nei momenti decisivi. Sconfitto per 7-6 4-6 3-6 7-6 6-2, Rafa per la seconda volta nella sua

carriera si è trovato a dover abbandonare un Major senza aver vinto nemmeno un match, e ora diventa davvero difficile dimenticare un risultato negativo soprattutto per il momento in cui è arrivato, in un periodo nel quale il numero 1 spagnolo sembrava aver ritrovato un tennis vicino a quello dei migliori tempi. A questo punto diventano decisivi i tornei su terra battuta del mese di febbraio, che anticipano i due Masters 1000 sul cemento americano. Per Nadal potrebbe essere l'ultima spiaggia, perdere sulla sua superficie, come successo lo scorso anno, in un momento importante come questo, potrebbe davvero rivelarsi letale da un punto di vista sportivo.



E finalmente giunse l'ora di Milos Raonic by Giorgio Giannaccini Il suo ultimo Australian Open non ci può lasciare indifferenti: Milos Raonic finalmente è giunto alla maturazione definitiva che da tempo aspettavamo. Il suo è stato sicuramente il caso di un ragazzo già da tempo annunciato come papabile grande giocatore ma che ha dovuto conoscere un processo di maturazione molto ma molto lungo, passando anche per diversi coach che lo hanno migliorato e, ancor più probabilmente, fatto capire cosa fosse in realtà il tennis. Sembra ieri quando Milos era un ragazzo alto e mingherlino dal potente servizio con, ahimè, dei pessimi spostamenti laterali che ne limitavano talvolta i colpi - visto che la ricerca della palla era molto goffa - e lo rendeva praticamente nullo in fase difensiva. Quel ragazzo che aveva due solidi fondamentali, nei quali tra l'altro era impossibile non ammettere una certa naturalezza, aveva bisogno di un serio lavoro fisico, altrimenti sarebbe stato difficile vederlo pienamente realizzato in un tennis, come quello di oggi, così affine ad un forte atletismo. Nonostante un cambio di guida verso fine 2010, quando rimpiazzò coach Frederic Niemeyer con l'ex tennista spagnolo Galo Blanco, la rivoluzione tanto attesa non arriva. Milos deve attendere l'avvento di Ivan Ljubicic, che si sederà sulla sua panchina nel giugno del 2013, per ottenere risultati importanti. La ricetta è semplice, lavorare su quello che il canadese non aveva mai fatto in vita sua: gli spostamenti. Ed è con questo primo principio

che Raonic migliora i colpi stessi; avendo un appoggio più stabile ne consegue anche un notevole miglioramento nell'impattare la palla in ogni colpo, specialmente con quel suo dritto così potente e che fa male a tutti. Non basta però, ci sono ancora tante e troppe lacune da migliorare per formare un tennista veramente forte, come ad esempio quel suo scellerato rovescio bimane. Anche qui la ricetta di Ivan Ljubicic è tanto saggia quanto semplice, quella, cioè, di provare a giocare quando, ce n'è l'opportunità, un approccio a rete col back lungolinea di rovescio e coprire la rete con quella sua immensa copertura alare, data peraltro dai suoi 196 cm. Tutto il gioco bene o male viene rivisto, e anche lo stesso rovescio a due mani migliora, seppur non in modo eclatante, e il dritto, fresco di una condizione fisica ora buona, migliora notevolmente. I risultati cominciano a dare ragione al coach croato, Raonic ottiene nel 2014 diversi risultati non da poco: primo su tutti i quarti sulla terra rossa del Roland Garros, arrendendosi solo all'allora numero 2 del mondo Novak Djokovic.


Poche settimane dopo si riconferma alla grande anche a Wimbledon, arriva in semifinale e anche qui si arrende a chi è quasi imbattile sull'erba, sua altezza reale Roger Federer. Fino ad arrivare a un agrodolce Us Open, dove sarà sconfitto al quarto turno da Kei Nishikori, in una lotta protratta fino al quinto set. Torneo che vedrà, guardo caso, proprio il nipponico in finale. La qualificazione alle Finals di fine anno è certa, sebbene poi perderà, nel girone del torneo, 2 set a 0 sia contro Roger Federer che con Andy Murray. L'anno dopo, prima conquista la finale del torneo di Brisbane, venendo poi sconfitto all'ultimo atto da Roger Federer, in più ottiene nel torneo australiano per eccellenza ­ gli Australian Open ­ i quarti di finale, sconfiggendo Feliciano Lopez, ma trovando successivamente sulla sua strada Novak Djokovic, finendo così sconfitto nuovamente da un altro mostro sacro. Ma lo scalpo grosso lo ottiene a Indian Wells.

Conquista la semifinale del torneo sconfiggendo Rafael Nadal e facendolo in modo pirotecnico: ovvero annullando 3 match point nel tie-break del secondo set e affermandosi per 4-6 7-6(10) 7-5. Aggiungendo a questo risultato anche i prestigiosi quarti ottenuti successivamente a Monte Carlo e poi a Madrid, Raonic migliora così tanto il suo ranking da arrivare nei primi 4 della classifica mondiale, ma sul più bello un infortunio al piede gli fa saltare il torneo di Roma e il Roland Garros, presentandosi a Wimbledon in condizioni fisiche non freschissime, così da perdere al terzo turno dall'ostico Nick Kyrgios. Sebbene il passo falso agli Us Open dello stesso anno con la sconfitta al terzo turno subita per mano di Feliciano Lopez (avversario comunque molto tosto negli Slam e sul veloce) e il passaggio del mago Ivan Ljubicic alla corte di Re Roger, nel 2016 Milos parte fortissimo. Sotto la guida del nuovo coach Carlos Moya (in coppia sempre con Riccardo Piatti) questa volta si riprende la rivincita in finale a Brisbane contro Federer, dominandolo nettamente per 6-4 6-4. E come detto, agli ultimi Australian Open, ha confermato quanto di buono aveva fatto intravedere a Brisbane, mostrando un repertorio nuovamente aggiornato. Un rovescio sì altalenante ma più potente e molto più costante di prima, un gioco iper-offensivo farcito da almeno 40 discese a rete a partita, tra cui annoveriamo anche serve and volley. Il risultato è una semifinale persa contro Andy Murray più per sfortuna, e per i soliti acciacchi fisici, che per demeriti propri. Su queste basi è roseo il futuro di Milos Raonic, e nell'immediato futuro saranno quasi sicuramente lui e Nick Kyrgios a contendere il trono a Novak Djokovic.


La vendetta è un piatto che va servito freddo, ne sa qualcosa Fernando Verdasco che ha aspettato 7 anni prima di potersi vendicare di Rafael Nadal. Erano gli Australian Open del 2009 quando il mancino spagnolo di Madrid si presentava in grande forma. Già prima di quel torneo aveva, per poco, perso la finale di Brisbane contro un Radek Stepanek in discrete condizioni, e per di più al terzo set, ma non c'era da preoccuparsi, Fernando si sentiva comunque in forma. Gli inizi infatti di quegli Australian Open furono fulminanti, Verdasco fa da tritacarne contro gli indifesi transalpini Mannarino prima e Arnauld Clement dopo nei primi due turni. A entrambi

V per Verdasco by Giorgio Giannaccini

concede appena 4 game su tre set giocati e stravinti in fretta. Il gioco sembrava dover diventare serio solo al terzo turno, visto che il caso aveva voluto mettere sul tavolo proprio la rivincita di Brisbane contro Stepanek. Dopo un primo set tirato e finito per 6-4 in favore dell'iberico, ecco che la partita cambia totalmente, e con un incredibile KO tecnico sia il secondo set che il terzo finiscono 6-0 in favore di Verdasco; sembra incredibile ma è vero, aveva di nuovo lasciato la miseria di 4 giochi all'avversario per la terza volta di seguito. La marcia continua, e questa volta ad aspettarlo al quarto turno c'è Andy Murray,


numero 4 del mondo, avversario molto complicato, anzi da impresa, nonostante Verdasco sia comunque il numero 15 del mondo. Dopo un primo set perso 6-2, il secondo vinto 6-1, si trova nuovamente sotto nel terzo e lo perde 6-1. Ma qui c'è la rabbia e lo scatto d'orgoglio dello spagnolo che in un impeto di foga prima intasca il quarta parziale per 6-3 poi completa l'opera con un serrato 6-4 nel set conclusivo. Fernando ora può sognare, ma dall'altra parte della rete ci sarà Jo-Wilfred Tsonga, un peso massimo in tutto e per tutto, ma anche prestigiatore dal tocco fine, e altro top ten, che tra l'altro conobbe fama proprio mettendosi in luce agli Australian Open dell'anno precedente. Dopo un primo set molto lottato nel quale però il transalpino si scioglie proprio nel finale,

perdendo al tie-break per 7 a 2, ecco che Tsonga reagisce e con un perentorio 6-3 pareggia il conto dei set. Verdasco non ci sta, e piazza a sua volta un 6-3 in proprio favore. Il francese nel quarto set è sulle gambe e Fernando piazza il colpo decisivo, affossandolo definitivamente per 6-2. Un'altra impresa è compiuta, e inaspettatamente ha conquistato una semifinale da urlo in un torneo dello Slam. Ora però c'è da tornare alla realtà: il suo prossimo avversario sarà Rafa Nadal, il numero 1, il dominatore del mondo, colui che è quasi imbattile da mandare in manicomio pure Federer e che sulla terra non ha rivali. Ormai nessuno può più credere in un'altra sua impresa, sarebbe troppo, forse nemmeno Verdasco stesso ci crede in fondo, parliamo pur sempre di Rafael Nadal!


La partita invece sarà epica, e sarà ancora più sorprendente vista la sconfitta improvvisa e sicuramente immeritata di Verdasco. Ma andiamo con ordine. Nel primo set entrambi partono in quinta: botte da orbi a destra e manca, servizi assassini specialmente quelli di Verdasco e un equilibrio al limite del paranormale. Ma la spunta alla fine Verdasco al tie-break, lasciando l'avversario a 4 punti. La seconda ripresa non si fa meno violenta di prima, anzi persiste la stessa intensità di gioco e di agonismo, e alla fine ­ non fa notizia ­ è Verdasco a cedere il break al decimo gioco, consegnando così il secondo set a Nadal. La lotta che cominciava a essere estenuante, si fa ancora più aspra, violenta ed equilibrata. Verdasco e Nadal sono due pugili che continuano a colpirsi, a scambiarsi ganci mancini e bordate sempre più potenti. Il terzo set se lo aggiudica Nadal con sofferenza al tiebreak dove però lascia appena 2 punti a

Verdasco. Non da meno si dimostra la reazione di Verdasco: altra lotta, altro equilibrio massimo al quarto set, ma il madrileno, giunto nuovamente al tie-break, ora fa suo il quarto set con ancora maggiore impeto, lasciando un misero punto a Nadal nel tie-break. I duellanti non ne vogliono sapere di smettere, e in quel caldo torrido ancora devono finire di regolare i conti. Ma Verdasco, chiamato a servire per rimanere nel match nel quinto set sul punteggio di 4-5, si trova sotto 30-40, e lì, uno sciagurato quanto inopinato doppio fallo, piega definitivamente la resistenza del madrileno contro il maiorchino. Nadal vince un incontro epico durato 5 ore e 14 minuti e che ha poco da invidiare a quel famoso incontro di boxe tra Alì e Foreman avvenuto nel 1974 a Kinshasa, nel Congo. Nonostante quella battaglia, il giorno dopo Nadal piegherà anche Roger Federer, sempre al


quinto set, in un'altra maratona forse meno violenta ma più elegante, conclusa 6-2 nell'ultimo parziale, e regalandosi per la prima volta la vittoria agli Australian Open. Sono passati 7 anni e questa volta la rivincita è stata di Fernando. Altra battaglia, altro duello finito al quinto set ma questa volta è stato il madrileno ad affondare il decaduto Rafa ­ divenuto ormai mortale e non più la divinità del passato ­ con un 6-2 finale nel primo turno degli Australian Open. Ma si sa, una volta che lo batti in campo devi stare attento alla sua maledizione: quella che ha visto Verdasco come il 21esimo caso su 26 in cui un giocatore dopo aver battuto il maiorchino, in un qualsiasi torneo, poi perda al turno successivo. La maledizione Nadal - peggio ancora di quella di Montezuma continua a mietere vittime... e con loro la convinzione che forse nessuno riuscirà mai a vendicarsi di Nadal!




Sempre piu ̀ Serena, anzi no! by Giorgio Giannaccini



Serena ha preso gusto a illuderci, l'aggancio a Steffi Graf a 22 Slam che tanto incredibilmente non avvenne a New York per mano della Vinci, sembrava in questo Australian Open prendere forma: mai Serena Williams era partita così in sprint in un torneo del Grande Slam. Dopo aver battuto la puledra italo-argentina Camila Giorgi - giocatrice molto più giovane e minuta di lei ma dotata della stessa potenza nei colpi - con un combattuto ma sicuro 6-4 7-5, Serena aveva cominciato a maltrattare tutte le avversarie ­ tennisticamente parlando ­ come non mai. Al secondo turno Su-Wei Hsieh, numero 90 del mondo, racimolava appena 3 giochi, non andava meglio nel turno successivo a Daria Kasatikna, alla quale Serena concedeva a malapena 2 game. L'ecatombe continua anche al quarto turno, la povera russa Margarita Gasparyan le prova tutte ma - come nel caso della Hsieh ­ più di 3 miseri giochi non fa. Ai quarti però sarebbero dovute cominciare, in teoria, le partite serie per Serena: infatti ecco un match che la vedeva opposta a Maria Sharapova. La bella ma anche combattiva Maria non ci sta a perdere, ma la Williams alla fine le strappa il primo set con un tiratissimo 6-4. Il secondo set è invece un monologo della statunitense, con Serena che timbra la vittoria con un netto 6-1 conclusivo. La semifinale che la vedeva opposta alla polacca dalle mille vite Agnieszka Radwanska, non era sulla carta un match facile. La Williams è molto più pesante nei colpi, Aga, al contrario, è fin troppo leggera ma, una tenuta atletica veramente rara, e una intelligenza tattica fuori dal comune, la rendono una giocatrice ostica per chiunque. Eppure Serena è una cannibale: inizia a tutto il match con una furia devastante, e rifila un



impietoso 6-0 alla polacca che poco può fare ai colpi di bazooka dell'americana. Aga, intelligente come sempre, prende le contromisure a Serena, ma la Williams è troppo in forma, volente o nolente la polacca si deve piegare, e la statunitense si impone nel secondo set per 6-4. La finale sembrava già scritta, contro di lei c'era la rivelazione del torneo Angelique Kerber, la tennista tedesca meno nota e amata in patria, dimagrita di parecchi chili e come non mai in forma fisica, ma questo sicuramente non bastava per spaventare Serena. E invece no, è Angelique ad aggiudicarsi la finale, lottando contro una Williams inviperita (diversi saranno le sue urla “Come on” durante il match) ma troppo fallosa. 6-4 il primo parziale per la teutonica, 6-3 il secondo per Serena, 6-4 il terzo per la Kerber che, avanti 5-3 e servizio, trema di paura e si fa dare un break, ma la bionda tedesca riprende coraggio e piazza il contro-break che significa vittoria. A mente fredda però c'è da analizzare il perché di questa sconfitta a dir poco clamorosa. Certamente è stata meritata la vittoria della Kerber visto il coraggio e la tenuta mentale dimostrata, nonché un'abnegazione e una generosità unica che l'ha vista più di una volta essere sballottata a destra e sinistra per difendersi dalle bordate al fulmicotone della Williams. Ma tutto questo non può bastare come spiegazione, premesso che la statunitense non era in giornata. Probabilmente Serena ha perso stimoli non avendo rivali allo stesso livello, giusto la Sharapova è una degna rivale se in forma. Parliamo di un divario troppo ampio tra lei e le altre tenniste del circuito che certamente non ha spinto la Williams a doversi migliorare notevolmente per essere sempre più

competitiva. Dinamica invece diversa quella che ha pervaso il mondo maschile: Federer è dovuto migliorare per poter battere Nadal sulla terra, e lo stesso Nadal per avere la meglio su Federer nell'erba. Non è tutto, pensiamo anche a Djokovic che per poter diventare quello che è adesso ha dovuto fare molti sacrifici ­ in primis la dieta celiaca ­ e molti allenamenti per dominare chi prima dominava lui, ovvero Federer e Nadal. Altro fattore: la tenuta fisica. Federer se non facesse una preparazione fisica adeguata, sarebbe nullo in campo, Nadal peggio ancora. Djokovic domina gli altri tennisti proprio perché ha una continuità fisica in campo da paura, ogni giorno è sempre al top fisicamente. Lo stesso Andy Murray si esprime ai massimi livelli proprio quando è a puntino fisicamente. Serena non ha mai lavorato troppo sul suo fisico, ha potenza e spara missili quando vuole, per carità, ha anche grande tocco, ma questa mancanza di stimolo, probabilmente, le ha impedito di fare il vero salto di qualità. Sembra


assurdo dire ciò di una immensa giocatrice che ha vinto 21 prove dello Slam ma forse, soprattutto oggi, è così. La vera nemica di Serena Williams è se stessa. E a New York contro la Vinci, se andiamo a guardare bene, la paura di vincere è venuta proprio perché, nell'anno scorso, di ostacoli veri per Serena non ce ne sono stati, e trovatasi davanti al primo vero impedimento, la testa ha ceduto in modo irreversibile. La vera disgrazia della Williams, non è stata il non essere riuscita a completare lo Slam, ma la mancanza di rivali degni negli ultimi due anni che ne hanno impigrito l'indole competitiva e il gioco.


Angelique Kerber by Giogio Giannaccini


La volèe di Serena Williams è di poco uscita dopo la linea di fondo consegnando la vittoria alla tedesca Angelique Kerber, la sua prima vittoria Slam, alla prima apparizione in una finale, e mandando ancora una volta in fumo la speranza di grande slam per l’americana. La Kerber nata a Brema il 18 gennaio 1988 , diventa professionista nel 2003, e fino al 2011, quando raggiunge le semifinali degli UsOpen , non ottiene grossi risultati. Nel 2012, primo titolo Wta a Parigi,poi Copenaghen, l’anno seguente vince Linz ed arriva in finale in altri due tornei. Nel 2014 la stagione è avara di soddisfazione, forse qualche chilo di troppo condiziona il suo rendimento, la tedesca è una gran lottatrice dotata di tutti i colpi, ma le manca ancora qualcosa per fare il grande salto. Si presenta all’avvio di stagione 2015, con qualche chilo di meno, esce in semifinale a Brisbane, eliminata al primo turno agli Australian Open, ad Indian Wells ancora un’eliminazione al primo turno, e sembra che il lavoro svolto non stia pagando, ma da

Aprile la tedesca inzia a macinare gioco, vincendo Charleston e Stoccarda, quest’ultimo dopo una gran battaglia contro Caroline Wozniacki. Vince inoltre l’Aegon classic di Birmingham e il torneo di Stanford, contro un’altra tennista in ascesa come Karolina Pliskova. Prima degli Australian open di quest’anno aveva disputato, perdendola per mano dell’Azarenka, la finale di Brisbane, dopo un primo turno in cui ha rischiato l’eliminazione con la Doi, il suo torneo è decollato, fino a quando, ha vinto in due set ai quarti di finale contro Vika Azarenka che fino a quel momento era sembrata inarrestabile. La semifinale con la Konta è stata una formalità e come molti si aspettavano,con la finale aveva raggiunto il massimo risultato possibile, visto chi l’aspettava dall’altra parte del campo. La Kerber invece ha vinto usando le stesse armi messe in mostra da Roberta Vinci agli UsOpen, cioè le variazioni nel gioco, unico modo per poter vincere contro Serena.


Dotata probabilmente della miglior difesa del circuito, la tedesca è riuscita più volte a tramutare in attacco situazioni di gioco in cui sembrava in svantaggio, sfondando il muro di certezze dell’americana. Alcune fasi del match hanno fatto tornare alla mente il match degli UsOpen contro Roberta Vinci. La reazione dell’americana alle due palle corte giocate dalla Kerber nel terzo set hanno ricordato quando durante la semifinale l’americana, si accasciò sui tabelloni totalmente scoraggiata . Molti dicono che dalla sconfitta con la Vinci, la Williams sia rimasta segnata e non sia più la

stessa, più probabile che abbia fatto crescere nelle rivali la convinzione che sia battibile, e che la tattica messa in campo dalla nostra Roberta sia stata presa come esempio. Sicuramente il successo della Kerber non è casuale, ma frutto di tanto lavoro e probabilmente non sarà l’unico,considerando che anche su terra è sempre andata bene potrebbe esser anche in terra francese un cliente scomodo. Personalmente consiglierei anche a Maria Sharapova di dar un’occhiata a questi due incontri..



Breve la vita felice di Daphne la Bella by Fabrizio Fidecaro La vincitrice degli Australian Open è premiata tradizionalmente con la Daphne Akhurst Memorial Cup. Questo trofeo dagli ampi manici, con in cima e sul basamento due racchette incrociate dietro a una corona d’alloro, fu donato all’organizzazione dalla New South Wales Lawn Tennis Association nel 1934: la fuoriclasse che si intendeva onorare era mancata dodici mesi prima, ad appena ventinove anni. La vita di Daphne Jessie Akhurst fu breve e intensa. Seconda figlia del litografo Oscar James Akhurst e di Jessie Florence Smith, Daphne nacque il 22 aprile 1903 ad Ashfield, Sydney. Da bambina denotò un precoce talento da pianista: vinse parecchie gare e continuò sempre a coltivare questa passione, tanto che, ormai cresciuta, frequentò con profitto lo State Conservatorium of Music, divenne insegnante di musica e si esibì spesso in concerti nei teatri e nei club. Pianista e tennista

A regalarle la fama, però, sarebbe stato il tennis. Le sue doti cominciarono a emergere alla Normanhurst School, un istituto superiore particolarmente attento allo sviluppo mentale e fisico delle proprie allieve. La direttrice, Miss Evelyn Mary Tildesley, organizzò a partire dal 1918 un torneo di tennis per team scolastici, il Tildesley Shield, e ad aggiudicarsi l’edizione inaugurale fu proprio la Normanhurst, trascinata dall’irresistibile Daphne, che già nel 1917 aveva ottenuto il primo dei suoi quattro titoli consecutivi nei New South Wales Schoolgirls’ Championship. Timida e introversa, la Akhurst cambiava

radicalmente atteggiamento sul campo, dove appariva decisa e sicura di sé. Grande agonista, era dotata, al contempo, di una tecnica raffinata. La sua prima vittoria maggiore giunse nel 1923, nel singolo della contea di Cumberland, e rappresentò l’inizio di una lunga serie. Nel gennaio 1924 fece il suo esordio agli Australasian Championships, in scena all’Albert Park di Melbourne: arrivò in semifinale, battuta da Esna Boyd, ma conquistò il titolo sia nel doppio, assieme a Sylvia Lance Harper, sia nel misto, con Jim Willard. Trascorse un anno e, nel 1925, alla Rushcutters Bay di Sydney, i tempi erano ormai maturi per la piena


esplosione. Daphne faticò al debutto con Muff Wilson, una rivale dei tempi della scuola, ma poi la brillante forma fisica, la rapidità di gambe e la capacità di attaccare al momento giusto la condussero dritta in finale. La nuova sfida con la Boyd creò una tale spasmodica attesa da far relegare il match clou maschile su un campo secondario. Il piano tattico di Esna fu subito chiaro: aggredire ogni palla per impedire alla rivale, più giovane di 4 anni, di prendere l’iniziativa. In avvio la Boyd riuscì nell’intento: colpendo profondo negli angoli e issandosi a rete con continuità, dominò il primo set (61). Alla lunga, però, emerse la miglior tecnica della Akhurst, che fece suo il

secondo parziale per 86. Nel terzo Esna ebbe ancora la forza di portarsi sul 4-1, ma perse gli ultimi 5 game di fila. Oltre al primo titolo nel singolo, Daphne confermò i successi nel doppio e nel misto, con i medesimi partner di dodici mesi prima. Europa, eccomi! Alcune settimane dopo, la NSW Tennis Association finanziò la prima trasferta in Europa di un team femminile australiano. La rappresentativa oceanica, di cui facevano parte anche Boyd e Harper, prese parte al World Tour, antenato della Fed Cup: Galles, Scozia, Irlanda e Olanda furono sconfitte, ma l’esperienza di Inghilterra, Francia e Stati Uniti si dimostrò

insormontabile. La Akhurst, da outsider, raggiunse i quarti a Wimbledon, battuta in rimonta dall’inglese Joan Fry, e si guadagnò i complimenti del “Times”, che lodò la sua grande combattività. Daphne prese parte anche ad altri eventi, sfiorando il successo agli Irish Championships di Dublino (a fermarla fu proprio la Boyd) e a Deauville, dove in finale incappò niente meno che nella “Divina” Lenglen, cui strappò solo due game per set. L’anno d’oro Rientrata in patria, riprese la sua marcia. Nel ’26, ad Adelaide, nonostante un infortunio al ginocchio,


trionfò agli Australasian Championships senza perdere un set e infliggendo un secco 61 63 in finale alla Boyd. A suggello del suo dominio vinse l’ultimo game a zero, concludendo con un ace centrale. Nel ’27 solo la sfortuna le impedì il tris. Nella prima edizione al Kooyong e con la denominazione “Australian” al posto di “Australasian”, una forma influenzale la costrinse al forfait negli ottavi contro Dorothy Weston. La Boyd, dopo cinque finali perse, riuscì a conquistare il titolo. Fu il 1928 l’anno d’oro della Akhurst. Cominciò tornando a imporsi nello Slam di casa, a Sydney, ancora senza cedere un set e di nuovo in finale sull’eterna rivale Boyd. Proprio con Esna si aggiudicò il doppio e centrò la sua seconda tripla corona nel misto al fianco del “moschettiere” Jean Borotra (anche lui vincitore in tutti e tre i tabelloni). Poi si imbarcò per l’Europa, leader di un nuovo agguerrito team australiano, che, stavolta, vinse tutti e 13 gli incontri disputati. Confronti al vertice Arrivarono soddisfazioni anche dalle prove individuali: una splendida vittoria ad Amburgo (con un’impetuosa

rimonta in finale sulla Aussem), i quarti nella sua unica partecipazione al Roland Garros e, soprattutto, un torneo di Wimbledon da protagonista. L’All England Club la vide semifinalista in singolare (batté Helen Jacobs 86 al terzo prima di cedere a Lily de Alvarez) e in doppio (con la Boyd) e finalista nel misto (assieme a Jack Crawford, sconfitti per 75 64 da Patrick Spence ed Elizabeth Ryan dopo aver condotto per 5-3 nel primo set). Fu quella la seconda e ultima presenza nell’evento londinese. A fine anno, Daphne fu classificata da Arthur Wallis Myers del “Daily Telegraph”, dal “Daily Mail” e dall’”Ayres’ Almanac” al terzo posto del

ranking mondiale, alle spalle di Helen Wills e della de Alvarez. Il “Referee”, più generoso, la collocò in prima posizione. Nel ’29, ad Adelaide, giunse il quarto titolo nel Major di casa, in finale sull’amica Louie Bickerton, che le tolse un set. Insieme si aggiudicarono il doppio e la Akhurst fece suo anche il misto con il connazionale Gar Moon, ottenendo così la terza tripla corona. Nel ’30, alla vigilia del torneo, la Akhurst annunciò il suo matrimonio e l’imminente ritiro dalle competizioni di singolo. Occorreva chiudere in bellezza, ma la condizione fisica non era delle migliori. A Kooyong faticò per tre set nei quarti con Kath Le


Mesurier, svenendo sul campo dopo il matchpoint vincente. Caparbia come sempre, si riprese, travolse in semi Emily Hood e in finale affrontò una dura battaglia con la veterana Sylvia Lance Harper. Nel primo Daphne s’impose 10-8, attaccando a ripetizione sul rovescio dell’avversaria. A quel punto, la Harper impostò una tattica più aggressiva: vinse 10 dei 12 giochi seguenti, issandosi 4-0 nel terzo. Sembrava finita, ma la Akhurst non mollò. Mentre l’avversaria inevitabilmente calava, recuperò punto su punto fino a prevalere con lo score di 108 26 75. Fu un magnifico abbandono delle gare individuali, con il quinto titolo in sette partecipazioni. L’anno successivo, impegnata solo in doppio,

Daphne conquistò con la Bickerton il quinto trofeo nella specialità, il 14esimo e ultimo nello Slam down under. Una fine improvvisa Le nozze con il giovane produttore di tabacco Royston Stuckey Cozens, celebrate il 26 febbraio 1930 alla St. Philip Church of England di Sydney, furono allietate, nel luglio di due anni dopo, dalla nascita di un figlio. Il destino, però, era in agguato. Poco dopo Daphne rimase nuovamente incinta, ma le fu diagnosticata una gravidanza ectopica. Il 9 gennaio 1933 si sottopose a un delicatissimo intervento per evitare complicazioni, ma la situazione precipitò. Daphne era ancora sotto anestesia quando spirò.

Appena una settimana prima aveva vinto per l’ottava volta a Pratten Park i Cumberland Champs di doppio, assieme all’amica Louie Bickerton. In seguito, fra l’altro, il suo giovane vedovo sposò in seconde nozze proprio Louie: entrambi vissero a lungo, fino al 1998. Daphne è stata introdotta nella Hall of Fame australiana al termine di una toccante cerimonia svoltasi nel 2006 alla Rod Laver Arena. Nell’occasione, un busto in bronzo che la rappresenta è stato scoperto a Garden Square in Melbourne Park, accanto a quelli degli altri grandi d’Australia. Il giusto riconoscimento per una campionessa tanto grande quanto sfortunata.


Evonne Goolagong: l'aborigena nel tennis by Stefano Semeraro Suo padre Kenny vestiva come un dandy, di mestiere “tosava le pecore, raccoglieva frutta, caricava fieno e puliva i silos”, ma nel tempo libero sapeva cavarsela benissimo a golf. Suo bisnonno Jimmy Goolagong era un grande giocatore di rugby League, il rugby professionistico che si gioca in tredici, “e festeggiava ogni meta facendo una capriola all’indietro nell’area di meta”. Il suo trisavolo, Old Bob Goolagong, era l’Ibrahimovic del football aborigeno. Sua bisnonna Dolly era una famosa giocatrice di hockey, “e insieme alle sue sei sorelle formava la spina dorsale della squadra femminile di hockey su prato di Condobolin negli anni ‘30”. L’altra sua bisnonna, Agatha, “saltava su una bici da corsa, alzava la gonna infilandosela nelle mutande per evitare che scendesse, e via che andava. In una corsa, avrebbe battuto i maschi di metri”. Certe cose le hai nel sangue, ti abitano dentro. Sono doni ancestrali. Quando Evonne Goolagong Evonne, o Yvonne come avrebbe dovuto chiamarsi, o “Miss Sunshine”, come la ribattezzarono nel tennis, la prima campionessa aborigena, venuta dall’Australia molto prima di Cathy Freeman a mostrare i miracoli atletici di un popolo gentile, sapiente, umiliato. La prima (e per ora ultima) aborigena capace di vincere Wimbledon e il Roland Garros nel ‘71, ad appena vent’anni, battendo 6-4 6-1 il monumento australiano, e sua compagna di doppio, Margaret Court: “Durò sessantatrè minuti. Non molto lunga, come finale di

Wimbledon, ma lunga abbastanza da cambiare la mia vita per sempre”. Una fuoriclasse venuta dal bush e capace prendersi quattro Australian Open, quattro finali a New York, e la Fed Cup. Di uscire e rientrare nel tennis come in un “walk-about” indigeno, rivincendo uno Slam da mamma, molto prima di Kim Clijsters e sessantasei anni dopo Dorothea Lambert Chambers. A Wimbledon, nel 1980, contro la Signorina di ferro Chrissie Evert: “Fu la prima finale di Wimbledon decisa da un tie-break, e la prima in cui in 66 anni in cui a vincere avrebbe potuto essere una mamma. Se ce l’avessi fatta mi avrebbero potuto chiamare ‘Supermum’ (gli inglesi abbreviano ‘mother’ in ‘mom’, gli australiani in ‘mum’, ndr). E lo fecero. Nel primo set vinsi 6-1, giocando in maniera quasi perfetta. Nel secondo Chris servì per il set sul 6-5, ma sapevo di non potermi permettere di andare al terzo con lei. Il punto cruciale fu sul 3-3, uno scambio da 31 colpi, e


per una volta fu Chris a sbagliare per prima. Le partite di tennis non sono cose per cui valga la pena piangere. Vinte o perse, ci ho raramente versato sopra delle lacrime. Ma il 4 luglio del 1980 lo feci. E mentre andavo verso Knightsbridge in macchina per cambiarmi per il ballo, mia figlia Kelly sulle ginocchia, mio marito Roger a fianco, ancora con gli occhi lucidi rividi Kenny Goolagong che nel pub mi stringeva al suo petto e con l’alito puzzolente di birra mi sussurrava all’orecchio ‘Vai e spaccali tutti, Eve. Fagli vedere quello che sai fare”. Dopo il tennis, per vent’anni, diventata signora Cawley, ha abitato negli States. Nel ’91 è morta sua madre, la bella e saggia Melinda che era nata in una capanna di fango appena fuori dalla missione di Warangesda, a Darlington Point, e lei ha deciso di tornare all’Origine. Di abitare a Noosa, del Queensland quest’anno devastato da alluvioni e uragani, e rivedere Barellan, paesino di 900 anime nell’outback australiano dove i Goolagong, quando Evonne

nacque nel luglio 1951, erano l’unica famiglia aborigena: “A parte la mia vittoria a Wimbledon nel 1971 il giorno più glorioso nella storia di Barellan fu il 2 gennaio 1932, quando 116 squadre di cavalli scaricarono nei silos 13.000 sacchi di fieno, stabilendo un nuovo record per l’Australia”. Partendo alla ricerca dei ricordi della sua “small town” Evonne ha seguito il serpente, l’animaleguida dei suoi antenati, ripercorso le vie dei canti dormendo in tenda. In una notte magica ha ascoltato gli avi popolare la sua anima e capito che suo padre “sapeva esattamente il suo posto nell’Universo, e che la Old People, gli aborigeni vivi e morti, non conoscono il sentimento dell’odio”. Oggi Evonne ha quasi sessant’anni, vive ancora a Noosa, non gioca più a tennis. “L’anca me lo impedisce. Ma lo guardo ancora, specie se c’è Federer in campo”, sorride luminosa come sempre. “Ho visto anche la vostra Schiavone: a Parigi ha battuto un’australiana, Sam Stosur, ma l’ho ammirata. Che giocatrice fantastica: una guerriera”. Tutta la sua svelta, morbida efficacia oggi Evonne la usa per avvicinare i giovani aborigeni allo sport, attraverso il suo personale “camp” e in collaborazione con la federtennis australiana, che proprio agli Australian Open ha annunciato un nuovo stanziamento di 750.000 dollari per i progetti che tanto le stanno a cuore. Il Goolagong Development Camp è al settimo anno”, spiega. “E’ dedicato a ragazzi aborigeni, tennisti da un po’ tutta l’Australia. Ai ragazzi più promettenti diamo borse di studio, oggi con noi ci sono 5 coach “indigeni” in grado di insegnare ovunque. Il mio obiettivo è trovare fondi per far funzionare il camp tutto l’anno, e in tutta l’Australia. Lavoriamo insieme con


Tennis Australia, ma non è facile trovare soldi per le racchette, per l’abbigliamento da dare ai ragazzi. L’estate scorsa ce n’era uno che giocava con gli infradito, le scarpe da tennis che gli abbiamo dato sono state il primo paio di scarpe in assoluto della sua vita. Il prossimo fuoriclasse aborigeno? C’è una 14enne molto promettente. Si chiama Ashleigh Barty, ha le qualità per diventare forte”. Nel 1971 la Goolagong accettò di partecipare, come “onorary white”, “bianca per meriti” a un torneo nel Sud Africa dell’apartheid, molti in Patria non glielo perdonarono. Alan Trengrove, il decano dei tennis writer aussie, scrisse una lettera aperta definendo quella trasferta “il più grande errore della sua carriera”, e John Newfong, uno dei leader del movimento per l’integrazione degli indigeni, la definì “una che sarà ricordata, non per le sue vittorie, ma per aver barattato la responsabilità nei confronti della sua razza con la prospettiva di essere ‘bianca’ per un giorno. Qualcuno, ancora oggi, pensa che Evonne avrebbe dovuto alzare più la voce per difendere i diritti degli aborigeni, umiliati per decenni dalla politica cruda dei vecchi governi “aussie” di Menzies, e oggi spesso avviliti dalla disoccupazione e dall’alcolismo. “Lottare per i propri diritti? Allora avevo 19 anni, non sapevo neppure cosa fosse l’apartheid. Ma quando tornai in Sud Africa l’anno seguente lo feci da nera, in compagnia di di altri neri come l’americana Bonnie Logan e Wanaro N’Godrella. Quell’anno a un nero sudafricano, Dan Beuke, poté giocare il torneo di casa sua. Furono piccoli passi in avanti, ma comunque miglioramenti. Oggi credo che per me sia più importante avvicinare i giovani allo sport, dare loro una chance”. Risponde con un lampo metallico nello sguardo,

la ex ragazzina prodigio adottata tennisticamente dal guru tennistico (e molestatore) Vic Edwards. La cucciola di campionessa che viveva nella sede abbandonata del quotidiano locale, il “Barellan Leader” (“una baracca di latta”), recuperava palline sgonfie nella carcassa di una vecchia Chevrolet, giocava scalza e a volte doveva saltare i pasti. Il tennis lo aveva scoperto a 7 anni nel piccolo club locale, improvvisando partite con i fratelli con le racchette prestate da un vicino di casa che si chiamava, forse non a caso, mister Dunlop. “Credo che chiunque sia destinato a diventare atleta in una qualsiasi disciplina passi un periodo di apprendistato ­ ha scritto la Goolagong nella sua autobiografia “Home!”, un longseller in Australia -, un periodo in cui realizzano istintivamente che quello è il loro gioco, che quella diventerà la loro vita. Credo che a me sia accaduto nelle due estati in cui il War Memorial Tennis Club di Barellan divenne il mio giardino”. Le ci sono voluti altri cinquant’anni, una


manciata di Slam tanta felicità qualche amarezza e la voglia di ritrovare se stessa “nel grande rosso della Terra Australis”, per ritornare a casa. Lasciare la strada maestra e risalire i luoghi, e i nomi dei luoghi, dove suo padre e sua madre si erano conosciuti e innamorati di una passione nomade ma solida, che ha generato otto figli e un continente di ricordi. Barellan, Narrandera, Cummeragunga, Menindee, Wilcannia, Moulamein, Goodoga, Angledool, le tappe di un viaggio iniziatico “Cummeragunga. Ho sempre amato il suono lirico di quel nome. Significa “il mio Paese”, nella lingua della mia gente. A Menindee entrai in uno spaccio prima di continuare il mio viaggio. ‘Ti conosco’, mi disse la donna che stava al bancone. ‘Tua madre veniva sempre qui’. E fu così in tutto il paese. Linda Goolagong era stata una donna famosa a Menindee: lo avevo sempre saputo”. Alla fine, provvisoria, del suo walkabout Evonne

capii che le sue due metà si erano ricongiunte. “Dal 1953 i miei hanno vissuto in una città di bianchi ­ ha scritto in “Home!” - e dal 1966 io ho vissuto in una società bianca, ma la prima non ha fatto di me una bianca e la seconda non ha mai fatto di me niente di diverso da quello che sono, una orgogliosa donna aborigena”. A Noosa ­ mi ha raccontato a Melbourne - una volta organizzai una vendita di vestiti e racchette per raccogliere fondi per la gente Pitjantjatjara, per le donne che mi hanno accolto fra di loro. Oggi collaboro con l’Indigenous Land Corporation, che si occupa di ricomprare terra per gli aborigeni dallo stato e dare loro un’opportunità. Ci sono ancora problemi per la mia gente, per risolverli occorre creare posti di lavoro. Nel resort di Uluru (il nome aborigeno di Ayers Rock, ndr) c’è solo una persona indigena impiegata: triste, no? Quando ero giovane quelli del mio popolo non potevano neppure entrare nei circoli tennis, e si dedicavano al calcio, al football australiano, al rugby. Molti ragazzi indigeni hanno grandi riflessi, perfetta coordinazione fra occhi e mani: io voglio che giochino a tennis. Se quando ero ragazzina non ci fosse stata la gente di Barellan a comprarmi vestiti e le valigie per andare a Sydney, non sarei qui. Il mio compito ora è di fare lo stesso con altri bambini”. E’ un viaggio antico che continua. “Sì, sto ancora seguendo il serpente, sto ancora imparando molto sulla cultura del mio Paese e sulle mie origini. Io sono una Wiradjuri Koori, una donna della tribù Wiradjuri, il mio cognome in quella lingua si pronuncia gulagallang, e significa “grande gruppo”, ma anche teppaglia. Il mio primo sogno è stato vincere gli Australian Open, poi Wimbledon. Il terzo è insegnare quello che ho imparato. I ragazzi che incontro non sanno chi sono. Spiego loro che ho vinto


93 tornei, che ho incontrato il Presidente degli Stati Uniti e la Regina d'Inghilterra, che ho viaggiato in tutto il mondo. Poi prendo un pezzo di legno, come quello con cui giocavo da bambina, faccio vedere come ho iniziato. Spalancano gli occhi, e io dico loro che puoi iniziare ovunque, con qualsiasi cosa, se davvero hai un sogno. E che se lo sogni abbastanza forte, si realizzerà". Tennista, campionessa, mamma, educatrice. C’è una cosa - le ho chiesto prima di salutarla sulla scalinata della Rod Laver Arena - che vale più di tutte la pena di insegnare? Sì, c’è una cosa che l’Occidente può imparare dalla mia gente ­ ha risposto -. E’ un concetto semplice, sta in due frasi: prenditi cura degli altri. Prenditi cura della tua terra”.



Tornei dello Slam: le statistihe che nessuno conosce by Marco Di Nardo

Ci sono statistiche che tutti gli esperti di tennis conoscono, essendo impossibile raccontare o parlare di questo sport senza tenerne conto. Sono probabilmente le più importanti, perché permettono di delineare un quadro dei migliori giocatori e anche di farsi un'idea sulla carriera di un determinato atleta. Ci si riferisce ovviamente a statistiche come quella dei titoli dello Slam vinti in totale, o delle finali giocate nei major, partite vinte ecc. Esistono poi tantissime altre graduatorie statistiche che il tennis ci permette di stilare, anche grazie al particolare punteggio che lo caratterizza, e alle varie categorie di tornei in cui viene praticato. In questo articolo ci occuperemo della categoria più alta che riguarda il nostro sport, quella dei tornei del Grand Slam, proponendo delle interessanti statistiche inedite. Inizieremo con il record di partite vinte e perse nei tornei dello Slam dopo aver vinto i primi due set; proseguiremo con il numero maggiore di partite vinte consecutivamente nella stessa situazione (avendo vinto i primi due parziali); poi passeremo al record di partite consecutive senza mai andare indietro per 2 set a 0 negli Slam, indipendentemente dal risultato finale; quindi il record negli Slam dopo aver vinto il primo set; infine analizzeremo i record turno per turno dai quarti di finale in avanti nei tornei dello Slam (quarti, semifinali, finale). Vittorie/sconfitte dopo aver vinto i primi due set nei tornei dello Slam (almeno 80 vittorie). In questa graduatoria comanda lo

svedese Mats Wilander, che nelle 95 volte in cui si è trovato avanti per 2 set a 0 negli Slam, ha sempre portato a casa il successo finale. Imbattuto in questa situazione anche Bjorn Borg, che si è però fermato a quota 85 vittorie. 1. Mats Wilander 95-0, 100% 2. Bjorn Borg 85-0, 100% 3. Jimmy Connors 161-1, 99,4% 4. Andre Agassi 156-1, 99,4% 5. Novak Djokovic 152-1, 99,3% 6. Rafael Nadal 151-1, 99,3% 7. Pete Sampras 146-1, 99,3% 8. John McEnroe 117-1, 99,1% Vittorie consecutive dopo aver vinto i primi due set nei tornei dello Slam. Il dominatore in questa seconda graduatoria è Roger Federer, che prima della sconfitta nei quarti di finale di Wimbledon 2011 contro Jo-Wilfried Tsonga, aveva messo insieme 178 vittorie consecutive


nei tornei dello Slam dopo essere andato avanti per 2 set a 0. Sambrava potesse essere raggiunto da Rafael Nadal, che però si è fermato a 151 prima della sconfitta contro Fabio Fognini a New York nel 2015. Terzo è Pete Sampras, la cui serie di 146 sarebbe ancora aperta se non si fosse ritirato: Pistol Pete perse infatti il primo incontro Slam della sua carriera dopo essersi trovato avanti per 2-0, dopodiché rimase imbattuto fino al suo ritiro nel 2002 in questa particolare circostanza. 1. Roger Federer 178 2. Rafael Nadal 151 3. Pete Sampras 146 4. Stefan Edberg 120 5. Ivan Lendl 119 6. Andy Murray 113 Partite consecutive senza mai andare

indietro per due set a zero negli Slam.Anche la serie più lunga di partite Slam senza mai perdere i primi due set è di Roger Federer, capace per 99 volte di fila di vincere almeno uno dei primi due parziali dei suoi incontri negli Slam tra il 2004 e il 2008. 1. Roger Federer 99 (2004-2008) 2. Novak Djokovic 49 (2013-2015) 3. Pete Sampras 45 (1993-95) 4. Ivan Lendl 43 (1988-90) 5. Jim Courier 42 (1992-93) 6. Bjorn Borg 38 (1979-80) 7. Andy Murray 36 (2012-2013) Dopo aver vinto il primo set nei tornei dello Slam (almeno 150 vittorie). In questa graduatoria a comandare è Rafael Nadal, il cui record di 173 vittorie e 4 sconfitte dopo aver vinto il primo set negli Slam è davvero impressionante. 1. Rafael Nadal 173-4, 97,7% 2. Novak Djokovic 189-7, 96,4% 3. Jimmy Connors 205-8, 96,2% 4. Roger Federer 269-13, 95,4% 5. Pete Sampras 173-10, 94,5% Record nei quarti di finale Slam (almeno 15 vittorie). La miglior percentuale di partite vinte nei quarti di finale dei tornei dello Slam, è quella di Roger Federer, vincitore di 39 dei suoi 47 quarti a livello major. 1. Roger Federer 39-8, 83% 2. Novak Djokovic 29-6, 82,8% 3. Ivan Lendl 28-6, 82,3% 4. Bjorn Borg 17-4, 80,9% 5. Rafael Nadal 23-6, 79,3% 5. Pete Sampras 23-6, 79,3% Record nelle semifinali Slam (almeno 15 vittorie). Passando al turno successivo, le


semifinali dei tornei del Grand Slam, il miglior record è quello di Bjorn Borg, che ha un impressionante bilancio di 16 vittorie e 1 sconfitta. 1. Bjorn Borg 16-1, 94,1% 2. Rafael Nadal 20-3, 87% 3. Pete Sampras 18-5, 78,3% 4. Roger Federer 27-11, 71,1% 5. Ivan Lendl 19-9, 67,9% Record nelle finali Slam (almeno 8 vittorie). Concludiamo questo articolo di interesse statistico con la percentuale di vittoria nelle finali Slam, in cui è Pete Sampras il migliore, grazie alle 14 vittorie ottenute sulle 18 finali disputate. 1. Pete Sampras 14-4, 77,8% 2. Rafael Nadal 14-6, 70% 3. Bjorn Borg 11-5, 68,8% 4. Roger Federer 17-10, 63% 5. Novak Djokovic 10-8, 55,6%



Gli Eroi silenziosi della Davis by Valerio Carriero

Siamo abituati ad intendere il tennis come uno sport individuale, con un concetto di squadra che non può sposarsi realmente neppure nella disciplina del doppio. Eppure, c’è una competizione dall’irresistibile fascino e storia capace di stravolgere tutto. In Coppa Davis, è l’unione a fare la forza. C’è un Capitano che spesso può finire sul banco degli imputati per alcune scelte, inevitabilmente una superstar da cui ci si attende spesso un solo risultato ­ la vittoria ­ e qualche comprimario, dalla caratura inferiore, ma dal quale paradossalmente può dipendere l’esito finale. Sono proprio loro a far pendere l’ago della bilancia a favore della propria squadra, sovvertendo pronostici alla vigilia chiusissimi con delle vere e proprie imprese. Il 2015 è stato l’anno della Gran Bretagna trascinata, ovviamente, da un perfetto Andy Murray che ha chiuso la competizione da imbattuto. Ma la rincorsa dei “Leoni” parte da lontano, dal primo turno a

Glasgow contro gli Usa. Il nr. 2 al mondo ha battuto non senza affanni in 4 set Donald Young, poi tocca all’insospettabile James Ward indirizzare il confronto. In quella che sembrava normale amministrazione per Isner avanti due set a zero, il numero 111 del ranking riesce ritagliarsi uno spazio sempre più grande fino a dipingere un capolavoro. Punto dopo punto il britannico la trascina al quinto, il gigante americano fatica sempre più ma resiste annullando match point su match point grazie al suo servizio. Murray freme in prima fila, suggerisce addirittura qualche accorgimento a Smith da riportare al compagno Ward, e l’epilogo arriva sul 14-13

quando finalmente arriva l’ultima pennellata. Un’impresa che ha spianato la strada alla Gran Bretagna non solo per l’accesso ai quarti (vitale il punto in singolare di Ward: grazie ai Bryan in doppio, la sfida si sarebbe conclusa solamente all’ultimo singolare), ma per la conquista dell’Insalatiera. Murray eroe e supercelebrato in patria, ovviamente e come giusto che sia, ma questa Davis ha anche l’importante firma del piccolo grande James. 2006, Olympic Stadium di Mosca, terra indoor. Semifinale tra Russia e Stati Uniti sul 2-1 dopo le prime due giornate, con i padroni di casa privi di Davydenko,


nr.5 al mondo del momento, ma non ancora recuperato dopo il forfait a Pechino. Con Nikolay in campo, più avvezzo a certe superfici, sarebbe stato tutto più semplice. Invece, la responsabilità è tutta sulle spalle del (mentalmente) fragile Dmitry Tursunov contro l’ex nr.1 al mondo Roddick. Lo statunitense non è di certo un terraiolo, tanto da andar sotto per due set a zero, ma carisma ed esperienza gli consentono di riequilibrare il tutto trascinando la contesa al quinto. Ad un passo dal tracollo, con il break subito sul 5-5, Tursunov però riesce clamorosamente a rientrare in carreggiata regalando al suo pubblico un pirotecnico successo per 17-15, dopo 4

ore e 48 di battaglia e 72 giochi (pareggiando il passato record di Clement e Rosset dall’introduzione del tiebreak nel 1989) e la qualificazione per la finalissima contro l’Argentina. Scese in campo solamente nel cruciale doppio del sabato, poi fu Safin a regalare il punto decisivo nel quinto match contro Acasuso. Era la Russia dei più quotati Nikolay e Marat, ma quella seconda (e finora ultima) Insalatiera è anche di Dmitry. Nel 2010 fu la volta della Serbia, quella storica Davis vinta che fece da trampolino di lancio per un Djokovic per la prima volta alieno nel 2011. Nole è sicuramente

l’icona del movimento tennistico serbo, non potrebbe essere altrimenti considerando i suoi passati e recenti risultati. Ma quella Davis fu anche di Janko Tipsarevic e Viktor Troicki. Il primo si rivelò fondamentale in semifinale con la Repubblica Ceca, quando mise in riga in singolo prima Berdych e poi Stepanek, il secondo sia nel confronto con gli USA che nella finalissima con la Francia, distruggendo in tre set Llodra sulla complicata situazione di 2-2. Anche nel tennis, essere numero 1 o 2 al mondo, in una squadra, non può bastare.


Le sliding doors di Agnieszka Radwanska, la Maga diventata Maestra by Matteo Di Gangi

E' lunedi 25 Maggio e ci troviamo sul campo numero 6 del complesso tennistico francese più importante, situato a Bois de Boulogne dove si sta giocando il Roland Garros. Le protagoniste di questo primo turno sono la polacca Agnieszka Radwanska e la tedesca Annika Beck. La favorita è senza dubbio la prima, ma il suo gioco vario e preciso non riesce a far breccia nel cuore della teutonica, la quale controbatte alla grande e scaglia ben 41 colpi vincenti. La tennista di Cracovia è eliminata in tre set. E' un piccolo dramma per la Radwanska, che ,come testimonia la classifica aggiornata al dopo Roland Garros, è scesa addirittura al 26° posto per quel che concerne i punti conquistati nel 2015, solo 926. La Road to Singapore è la classifica che regala l'accesso alle WTA


Finals, kermesse di lusso di fine anno dove si sfidano le migliori. Ma il distacco della polacca è più di 1000 punti rispetto all'ottava posizione, occupata dalla svizzera Timea Bacsinszky. Un miraggio utopico. Ma lo sport e il tennis in particolare sono una fucina di storie imprevedibili che si compiono proprio nel momento in cui sembrano impossibili anche al mero pensiero. La risalita di Agnieszka Radwanska parte proprio da questa sconfitta al Roland Garros: riesce a trovare fiducia nei tornei erbivori e dopo aver vinto Tokyo e fatto una semifinale a Pechino, riesce incredibilmente a qualificarsi per Singapore vincendo il torneo di Tianjin. All'alba della 45°edizione delle Finals manca la regina incontrastata del 2015, ovvero Serena Williams. C'è spazio per tutte. Si, perchè Maria Sharapova praticamente è al rientro dopo Wimbledon, Simona Halep non è in perfette condizioni e di certo Lucie Safarova e Petra Kvitova non vivono una situazione più rosea. Ed è qui che torniamo alla nostra protagonista. "Maga Aga" la cominciamo a chiamare cosi - gioca una buona partita contro la Sharapova, ma non basta e si deve arrendere in tre set. Dopo due giorni riscende in campo opposta alla Pennetta ed è sconfitta in due set. Agnieszka ha pochissime chance di passare il turno, avendo racimolato due sconfitte con un solo set vinto. L'unica sua speranza è che batta in due set una Halep che ha bisogno di vincere e che la Sharapova faccia il suo contro la Pennetta. Sul 5-5 del tiebreak del primo set ci ritroviamo nella stessa situazione di qualche mese fa, in quel pomeriggio di maggio, la polacca è appesa ad un filo e le


basta poco per scendere giù nel burrone in maniera definitiva. Ma ancora una volta non accade. Agnieszka vince il tiebreak, domina il secondo set e con la concomitante vittoria della Sharapova accede in maniera insperata alla semifinale. Semifinale che si gioca il giorno di Halloween e chi meglio di Agnieszka Radwanska può architettare uno scherzetto diabolico alla giocatrice che più aveva impressionato sino a quel momento, ovvero Garbine Muguruza? E' una super partita, la polacca vince dopo una battaglia pazzesca e si guadagna il palcoscenico più importante della sua carriera, paragonato solo alla finale di Wimbledon del 2012 contro Serena Williams. Ma stavolta non avrà la statunitense di fronte, ma Petra Kvitova (capace di vincere il torneo nell'edizione 2011). E' una finale storica. Si, storica. Entrambe le giocatrici ci arrivano con una sola vittoria nel Round Robin, una combinazione mai accaduta prima. Agnieszka domina per un set e mezzo, è totalmente padrona del campo, ma accade qualcosa di imprevisto, qualcosa che rende ancor più incerto il finale di questo libro cominciato mesi fa. La Kvitova rimonta, vince il secondo set e ora è lei ad avere l'inerzia dalla sua, avanti di un break nella frazione decisiva. L'istinto e le emozioni fioccano come neve in una serata invernale, la Radwanska rimonta e con il suo muoversi in campo silenzioso, con i suoi tagli magici scrive la pagina più importante della sua carriera. Scoppia in lacrime. L'hanno sempre chiamata "Maga Aga", ma in quella sera di Singapore è diventata Maestra. In quel lunedi 25 Maggio alzi la mano chi avrebbe pensato ad un finale del genere. Nessuno. Neanche lei.



Robin Soderling by Alex bisi

23 Dicembre 2015, Robin Soderling, attraverso un tweet sul suo profilo,annuncia il ritiro da tennis giocato. Assente dal 2011 dal circuito, per una grave forma di mononucleosi, mancava di fatto la sola ufficialità per confermare quello che gli appassionati sapevano già, che non sarebbe più tornato a calcare un rettangolo di gioco, nonostante più volte avesse annunciato un imminente ritorno. Giocatore dotato di un servizio e dritto molto potenti, è salito alla ribalta nel 2009 battendo Nadal a Parigi, salvo poi perdere in finale contro Federer, in quella che è l’unica affermazione in terra francese per lo svizzero. Diventato professionista nel 2002, l’anno successivo risale 100 posizioni, migliorando ulteriormente nel 2004 arrivando alla 39° posizione, vincendo il suo primo titolo a Lione, e raggiungendo i quarti al

Master1000 di Parigi. Il 2005 è condizionato da infortuni alle ginocchia e lo svedese esce praticamente sempre al primo turno, scende in classifica fino alla 97° posizione recuperando con qualche buon risultato l’anno successivo chiudendo alla 25. Nel bienno 2007-2008, una condizione fisica precaria e una discontinuità di risultati non gli permettono di esser costante nelle vittorie. A fine anno conferma Magnus Norman come allenatore entrato dopo la rottura con Carllson: sarà la svolta della carriera. Dopo un inizio difficile, a Parigi arriva la consacrazione, batte Nadal al quarto turno, diventando il primo giocatore a sconfiggere il maiorchino a Parigi interrompendo la striscia positiva di 31 match vinti, unico a riuscirci fino a Djokovic nella scorsa edizione. Lo svedese perderà poi in finale da Federer, ma con questa prestazione raggiungerà la dodicesima posizione della classifica ATP. Dopo Parigi, con una nuova iniezione di fiducia, raggiunge gli ottavi a Wimbledon e i quarti agli Us Open, battuto sempre da Federer. Altre ottime prestazioni in altri tornei, gli consentono di entrare in top 10. Convocato a Londra per le finals come prima riserva, gioca al posto di Roddick e piazza due vittorie da urlo contro Nadal e Djokovic, ma viene sconfitto in semifinale da Del Potro. Inizio molto tentennante nella stagione 2010, dove esce al primo turno nello slam australiano, semifinale nei 1000 americani, poi



un deludente inizio della stagione su terra, fino all’appuntamento francese dove deve dimostrare che la finale dell’anno precedente non è stato un exploit. Lo svedese non delude, vince ai quarti contro Federer, batte Berdych in semifinale ma è Nadal a riprendersi lo scettro battendolo nettamente in finale. La conferma della finale gli vale il sesto posto in classifica, e con i quarti di Wimbledon, battuto ancora da Nadal, guadagna un’altra posizione. La costanza di rendimento resta comunque il problema principale per Soderling, dopo lo slam inglese , gioca male fino al torneo americano, dove raggiunge i quarti, ancora una volta estromesso da Federer. Vince il master 1000 di Parigi in finale contro Monfils e con il quarto posto in classifica, centra anche l’accesso alle finals di Londra, dove a differenza dell’anno precedente viene estromesso dal torneo al round robin. Con la stagione si conclude anche la collaborazione con Norman, e al suo posto per la stagione 2011 assume Claudio Pistolesi. Dopo qualche vittoria, inizia un periodo di brutte prestazioni, e poco prima del Roland Garros, dove uscirà ai quarti per mano del solito Nadal, annuncia la separazione dal nuovo allenatore. Lo svedese fa poca strada anche a Wimbledon, accusa i primi seri problemi fisici alla gola, torna in campo vincendo il torneo di Bastad, ultima sua apparizione ufficiale. Al momento dell’annuncio della mononucleosi è quinto in classifica, progetta più volte il ritorno, ma nonostante ammetta di esser guarito non riesce a ritornare all’attività

agonistica lamentando una continua spossatezza fisica fino al definitivo ritiro nel natale scorso. La carriera di Soderling ruota attorno a quel match di Parigi con Nadal, che l’ha messo definitivamente sotto i riflettori e donato linfa vitale ad un periodo di alti e bassi. Peccato che la sua carriera sia durata così poco, soprattutto che non sia riuscito a mantenere un rendimento costante, quale compete ai big, perché in giornata poteva eliminare davvero chiunque. Nel periodo lontano dai campi, si è lanciato in attività sempre a sfondo tennistico, ha infatti prodotto una linea di palline approvate dalla Itf e una serie di corde monofilamento, ora che ha definitivamente chiuso con il tennis giocato magari sentiremo parlare di lui come manager di successo.



Follow Me by Alex bisi

L’avvento degli smartphone ha portato la nostra quotidianità a connetterci ovunque ed in ogni momento. Così noi appassionati di tennis possiamo seguire la moltitudine di tornei in tempo reale e seguire anche le avventure dei nostri tennisti preferiti, che sanno quanto sia importante la medianicità e son sempre più presenti nei profili social. Diamo un’occhiata utilizzando Twitter, solitamente il social a cui si fa riferimento per popolarità, i numeri dei tennisti e tenniste del panorama mondiale. Contrariamente a quanto si possa pensare il più “followato” è Rafa Nadal con 8,85 milioni di followers, seguito da Novak Djokovic con 4,89 milioni, dato che dimostra che il serbo è amato dai tifosi, dopo che sono usciti svariati articoli dopo la finale degli Us Open che parlavano di come il serbo non riesca a far breccia nel cuore dei tifosi.

Roger Federer segue con 4,4milioni con i suoi fan che si scatenano quando il campione lancia l’hastag #AskRF, mandando Twitter in tilt con milioni di domande. Murray, l’ultimo dei fab four è a quota 3,41. Le cifre scendono vertiginosamente con gli “altri”. Berdych solamente 255.000 Wawrinka 565.000, mentre Ferrer 902.000, li surclassa entrambi. Nick Kyrgios salito alla ribalta nell’ultimo periodo per vicende extra tennistiche, è a quota 162.000 mentre Dimitrov 239mila.

Tra i francesi i più seguiti sono Tsonga con 794mila e Monfils, 691mila, mentre Gasquet non riscuote molto successo, con solo 76.300 followers. Basti pensare che giocatori mento quotati come Karlovic e Dustin Brown ne hanno rispettivamente 101.000 e 67.300. Il gigante Karlovic è molto seguito soprattutto per svariati tweet divertenti tipo quello sul terremoto causato da Serena Williams in Australia. Entrambi molto disponibili al dialogo, basti pensare che rispondono abbastanza spesso a tweet di semplici appassionati.


L’ucraino Sergiy Stakhovsky ha più volte twettato in maniera molto pungente toccando temi spinosi come l’omosessualità nello sport, dicendo che non avrebbe mai mandato sua figlia a giocare a tennis in quanto nel tennis femminile son tutte lesbiche, oppure discutendo con altri giocatori, ultimo Sam Groth dopo un loro match a Stoccarda. Chiudiamo il discorso ATP con i nostri italiani, Bolelli e Fognini, rispettivamente 14.600 e 63.300 followers

con il taggiasco molto attivo sui social. Tra le donne impressionante come sempre il divario tra Serena Williams e le altre, 6,01milioni per lei che lascia al palo Maria Sharapovova con 1,92milioni e sua sorella Venus con 1.36milioni. Vika Azarenka decisamente attiva sul suo profilo conta 71.400 followers, staccate di non poco Kvitova e Halep con 284milla e 38.100. La bella Ana Ivanovic resiste con 662mila.

Tra le giovani leve, molto attiva la Bouchard, secondo qualcuno uno dei motivi dei sui scarsi risultati, con 584.000, poi Bencic con 28.400 e la finalista di Wimbledon Garbine Mugurza con 113mila. Chiudiamo con le nostre ragazze, anche loro spesso disponibili al dialogo, Flavia Pennetta guida con 274mila, a seguire Sara Errani con 118mila, seguono Vinci e Schivone con 90.500 e 9.647 followers.


Il Buttafuori Nano by Andrea Guarracino

Nel Paese dei contrari c’era una sola discoteca. A protezione del suo ingresso, tutte le sere vi lavorava un buttafuori nano. Era così basso da far sembrare il politico Brunetta un pivot NBA e così grasso da far credere che Giuliano Ferrara sia affetto da una grave forma di anoressia. Eppure, malgrado la sua altezza ridicola e la sua mobilità inesistente terrorizzava tutti gli avventori del locale che si guardavano bene dall’entrare nella discoteca senza il suo benestare, atterriti dal suo sguardo torvo e dai suoi denti così aguzzi da far sembrare quelli dello squalo bianco una limetta per unghie per signora. Non ci crederete ma il sonno della maggior parte dei tennisti dilettanti che ho conosciuto nella mia vita è infestato da questo incubo, il cui ricordo svanisce col risveglio al mattino, lasciando però loro in dono una profonda sensazione di insicurezza che li attanaglia inconsapevolmente ogni

volta che mettono piede su un campo da tennis per un incontro. Allora… avete capito qual è il loro buttafuori nano!? Ma come no! Lo avete di fronte tutte le volte che provate a vincere una partita e si frappone inesorabilmente fra voi e il vostro avversario come la striscia di Gaza divide gli israeliani dai palestinesi. Vi do qualche ulteriore indizio, alto meno di un metro e poco più di esso in punta di piedi, largo più di 10 metri … a meno male… ora ci siete arrivati… sto ovviamente parlando della rete da tennis. Alta 91.4 centimetri al centro e 107 ai lati, larga poco più 11

metri, ai tennisti amatoriali sembra più invalicabile di quanto sia stato nel secolo scorso il muro di Berlino. Spesso i soci del mio club o i miei allievi mi vengono a chiedere quale tipo di racchetta o quale modello di corde potrebbe aiutarli a migliorare il loro tennis e mi viene da sorridere vedendoli giocare e perdere un’incredibile quantità di punti con colpi che si infrangono nella rete come le onde sulla barriera corallina. La rete è quindi il primo nemico da sconfiggere per entrare nel mondo del tennis dalla porta principale.


Sembra una cosa ovvia e scontata, ma nella mia esperienza di maestro ho spesso constatato che non lo è affatto, anzi … Eppure per sconfiggerla e per farla scomparire dagli incubi mentali che ci attanagliano ogni volta che colpiamo la palla basta pensare non in linea retta, ma curvilinea come fa un arciere prima di scoccare la sua freccia sul bersaglio. Ai miei allievi ricordo sempre che i colpi di un buon giocatore passano mediamente circa 1 metro sopra il net e se ci mettiamo lateralmente ad osservarli, le loro traiettorie sono curvilinee come le forme generose di una bella donna.

Per ottenere tutto ciò dovete sempre ricordarvi di usare, per colpire la palla, una ampia base di appoggio, di abbassare il baricentro e di far scendere al termine della preparazione la testa della racchetta sotto il punto di impatto, per portarla poi verso di esso con una decisa e veloce azione in avanti alto, senza preoccuparvi all’inizio di fare errori di lunghezza o di larghezza che si ridurranno con il tempo, perché in questo modo imparerete non solo a superare la rete e a dare facilmente profondità ai vostri colpi, ma anche ad imprimere naturalmente alla palla le rotazioni in avanti che sono alla base del gioco moderno.

Gli americani che sono un popolo molto pratico, dicono infatti che il tennis è un gioco di sollevamento : ”tennis is a lifting game”. E tu che sei arrivato vivo a leggere fin qui senza aver ancora maturato l’idea di darti al curling, sei sicuro che i tuoi inconsapevoli incubi notturni non siano ancora infestati dalla presenza del buttafuori nano ….? Spero per te di no, altrimenti corri subito sul campo ad allenarti …, questa volta, però, per bene !


TENNIS E SALUTE: Analisi degli infortuni nel mondo dei professionisti by Adriano S. Analizzando i dati provenienti da studi clinici, ITF, STMS e...dai nostri taccuini, abbiamo realizzato una panoramica 'infortunistica' nel mondo del tennis. Il tennis continua ad essere un cosiddetto 'lowinjured sport', interessando prevalentemente la parte inferiore del corpo. Ciò vale per lo più negli infortuni traumatici, quindi in acuto, dove l'infortunio più frequente e che più facilmente porta al ritiro è la distorsione della caviglia. Risultati confermati da un recente studio statunitense che include dati di atleti della National Collegiate Athletic Association dal 2009 al 2015, e da cui si evince che la maggiorparte degli infortuni legati al tennis colpisce le estremità inferiori (47% nei maschi, 52% nelle femmine), in percentuale ben maggiore rispetto alle estremità superiori (24%) e al tronco (17%). Nelle donne gli infortuni muscolari alle cosce sono tuttavia in deciso aumento, mentre nei giovanissimi (under 15) è la lombalgia il problema più importante. Le patologie croniche interessano invece maggiormente la parte superiore del corpo dei tennisti: la spalla rappresenta il distretto corporeo maggiormente interessato. Il polso continua ad avere alte percentuali, con Monaco ultimo nome altisonante a far da compagnia ai lungodegenti Robson e Del Potro. Meno frequenti gli infortuni ai gomiti e alla colonna. Solo nel 2015 abbiamo registrato più di 250 ritiri, la maggiorparte a novembre, per lo più nei circuiti minori maschili. I forfait in Wta

superano invece generalmente quelli in Atp. Inutile ripetere come i campi in cemento facilitino il verificarsi degli infortuni di natura muscolotendinea. Cresce il numero di forfait dovuto ad infezioni di vario genere Influenza e gastroenteriti sono frequenti e spesso causa di forfait nei circuiti professionistici, ma crescono anche i casi di mononucleosi: l'ultimo anno vittime eccellenti in Repubblica Ceca, con Kvitova e Safarova debilitate dal virus che costò in passato il ritiro a top ten del calibro di Ancic e Soderling, e che colpì persino Federer poco meno di 10 anni fa. Crescono anche i ritiri dovuti a malessere in campo, spesso da colpo di calore, in un mondo ormai vittima del surriscaldamento globale. Spunta fuori anche un'infortunio poco pronosticabile in uno sport privo di contatto fisico come il tennis, ossia il trauma cranico, che è costato una fetta di stagione ad Eugenie


Bouchard e Casey Dellacqua. Cosa fare dopo un infortunio? Le possibilità terapeutiche sono tante e andrebbero discusse caso per caso. Ma dal mondo medico riguardante i circuiti professionistici emerge questo: difficile fare miracoli, difficile fare riposare animali da competizione, spesso è più facile pensare a piani di recupero a lungo termine. Come prevenirli? Stretching, allenamenti mirati, stimolazione della propriocezione e studio delle catene cinetiche, alimentazione e stile di vita...più una bella fetta di fortuna.







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