Medico e paziente 3 18

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3

Ca. prostatico i risultati della più numerosa casistica italiana sulla sorveglianza attiva Sindrome metabolica l’ipovitaminosi D nelle donne ne aumenterebbe il rischio Farmacovigilanza la relazione tra terapia antidepressiva a lungo termine e obesità Meeting ASCO 2018 immunoterapie e target therapies per una migliore qualità di vita

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6

DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

> Domenico D’Amico

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3.2018

sommario

Alla fine dello scorso anno è stato pubblicato sulla rivista “Tumori” il più ampio studio italiano sulla sorveglianza attiva nel tumore alla prostata. Frutto di un lavoro durato 11 anni, suggerisce come tale strategia possa considerarsi efficace e sicura a medio e lungo termine. Sono risultati di elevato valore scientifico e con importanti implicazioni per la gestione clinica del tumore alla prostata, e per questo motivo ne presentiamo una sintesi realizzata da due degli Autori principali dello studio. La copertina del numero “estivo” della nostra rivista è dedicata significativamente alle recentissime raccomandazioni sulla sicurezza del paziente con patologie CV che intende raggiungere la montagna ad alte quote. Un grande contributo alla stesura del documento viene dalla ricerca italiana, come si evince dall’Approfondimento dedicato

6

Letti per voi

8

medicina/oncologia Carcinoma della prostata Pubblicati i risultati della più numerosa casistica italiana di sorveglianza attiva

20

medicina/approfondimenti Come si è arrivati alla stesura del documento Facciamo il punto con il professor Gianfranco Parati e la dottoressa Camilla Torlasco

22 Segnalazioni Conoscere la malattia venosa cronica

I risultati mostrano come la sorveglianza attiva possa considerarsi una strategia efficace a medio-lungo termine. Allo studio ci sono nuovi strumenti quali, la RMN multiparametrica e i biomarcatori, che potranno

Una campagna social tutta al femminile

24

migliorare l’accuratezza classificativa alla diagnosi

congressi - Meeting annuale ASCO

Cristina Marenghi, Riccardo Valdagni

Lo stato dell’arte dell’oncologia Specialisti di tutto il mondo a confronto

14

medicina/approfondimenti L’alta montagna in presenza di malattie cardiovascolari Rischi e raccomandazioni Il documento congiunto di ESC, ESH, SIIA e delle Società Italiana e Internazionale di Medicina di Montagna Piera Parpaglioni con il contributo del professor Gianfranco Parati e della dottoressa Camilla Torlasco

Aggiungere quantità di vita, ma anche e soprattutto qualità di vita al paziente oncologico. Questo è il “take home message” del meeting annuale ASCO, che si è da poco concluso e che ancora una volta ha accolto migliaia di specialisti impegnati nella lotta ai tumori

26

Farminforma

30

segnalibro MEDICO e PAZIENTE | 3.2018 |

3


Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Numero 3.2018 - anno XLIV

Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel. 02 4390952 - Fax 02 56561838 info@medicoepaziente.it

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Direttore editoriale Anastassia Zahova Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Folco Claudi, Piera Parpaglioni, Cesare Peccarisi

Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. R.O.C. N° 10464. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.

Comitato scientifico

Redazione WEB Alessandro Visca

Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli

Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno

Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia)

Segreteria di redazione Concetta Accarrino

Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna

Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Hanno collaborato a questo numero: Cristina Marenghi, Gianfranco Parati, Camilla Torlasco, Riccardo Valdagni Foto di copertina: arturjakubowski1986/123RF Archivio Fotografico Direttore responsabile Sabina Guancia Scarfoglio

Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM Prof. Rocco Maurizio Zagari Professore associato di Gastroenterologia, Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche (DIMEC), Università di Bologna

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4 | MEDICO e PAZIENTE | 3.2018

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e n i l n o

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Sindrome metabolica

Nelle donne in postmenopausa, l’ipovitaminosi D potrebbe rientrare tra i possibili fattori di rischio

L

a carenza di vitamina D nelle donne in postmenopausa potrebbe favorire lo sviluppo di sindrome metabolica. Pertanto il mantenimento di adeguati livelli della vitamina potrebbe rappresentare una strategia utile per ridurre il rischio di andare incontro a tale condizione, notoriamente associata a eventi cardiovascolari (CV) e decessi, evenienze alle quali le donne in questa fase della vita sono comunque esposte. Sono i risultati di uno studio osservazionale, condotto su una coorte di 463 donne, di età compresa tra 45 e 75 anni (ame-

norrea >12 mesi), che non avevano assunto una supplementazione con vitamina D e senza storia di eventi CV noti. Oltre ai dati clinici e antropometrici, sono stati valutati i parametri biochimici “chiave” per la sindrome metabolica (TC, HDL, LDL, trigliceridi, glucosio, insulina) come pure la 25-idrossivitamina-D (25(OH)D). Per la diagnosi di sindrome metabolica erano sufficienti tre o più dei seguenti cinque criteri: giro vita >88 cm, trigliceridi ≥150 mg/dl, HDL <50 mg/dl, pressione arteriosa ≥130/85 mmHg e glucosio ≥100 mg/dl. Rispetto ai

Epidemiologia

valori di 25(OH)-D le pazienti sono state classificate come “sufficienti” (≥ 30 ng/ml; 32 per cento delle partecipanti), “insufficienti” (2029 ng/ml; 32,6 per cento delle partecipanti), “carenti” (<20 ng/ml; 35,4 per cento delle partecipanti). Nelle donne con livelli più bassi, si riscontravano valori più elevati di TC, trigliceridi, insulina e HOMA-IR, indicatore quest’ultimo di insulinoresistenza. La sindrome metabolica è stata riscontrata nel 57,8 per cento delle partecipanti con ipovitaminosi D (insufficienti o carenti) contro il 39,8 per cento delle donne con valori sufficienti della vitamina. L’analisi dopo aggiustamento per età, durata della menopausa, BMI, abitudine al fumo ed esercizio fisico, mostra come bassi valori di 25(OH)-D (<30 ng/ml) correlino con

I

progressi diagnostici e terapeutici hanno portato ad avere un’ampia quota di pazienti oncologici cosiddetti “long survivors”. Certamente si tratta di un ottimo traguardo, che tuttavia pone il clinico di fronte a nuove sfide, prima fra tutte garantire a questi pazienti una migliore qualità di vita; in quest’ottica diventa fondamentale l’attenzione verso le comorbidità croniche. Tra queste ultime, il diabete (DT2) è probabilmente una delle condizioni a maggiore impatto clinico e assistenziale, oltre che naturalmente economico e sociale. Il diabete di per sé rappresenta un noto fattore di rischio per alcune forme di tumore. Ma può essere valida anche la relazione inversa, ovvero il tumore può esporre a un aumentato rischio di DT2? Sembrerebbe proprio di sì, sulla base di un ampio studio di coorte coreano, che è stato disegnato per approfondire la questione, partendo da alcune limitate evidenze al riguardo. Lo studio ha incluso un campione rappresentativo della popolazione generale coreana, costituito da oltre 524mila uomini e donne, di età compresa tra 20 e 70 anni che sono stati seguiti per circa 10 anni (follow up mediano 7,0 anni) e che al basale non erano diabetici e non avevano neppure una diagnosi di patologia oncologica. Durante il periodo di osservazione, 15.130 soggetti hanno sviluppato un tumore e 26.610 diabete (su un totale di 494.189 individui). Dopo aggiustamento per età, sesso, fattori di rischio per DT2 prima della diagnosi di cancro, fattori metabolici e comorbidità, il rischio, espresso come HR, per DT2 a seguito di patologia tumorale è risultato pari a 1,35 (CI 95 per cento 1,26-1,45; P <0,001); tale rischio è stato più elevato nei primi due anni dalla diagnosi di tumore, ma comunque il trend si confermava per tutto il corso del follow up. L’associazione è risultata più “forte” per tumori in specifiche sedi, tra cui al primo posto quello al pancreas (HR 5,15 CI 95 3,32-7,99) e al rene (HR 2,06 CI 95 1,34-3,16), seguiti da fegato (HR 1,95), cistifellea (1,79), polmone (1,74), neoplasie ematiche (1,61), mammella (1,60), stomaco (1,35) e tiroide (1,33). In conclusione e alla luce dei risultati ottenuti, la patologia tumorale si delinea come fattore di rischio indipendente per diabete di tipo 2 e in considerazione del fatto che i pazienti oncologici vivono sempre più a lungo, gli Autori auspicano l’inclusione di routine dello screening per diabete in questa classe di soggetti.

I pazienti oncologici sono esposti a un aumentato rischio di sviluppare diabete di tipo 2, che si delinea particolarmente elevato entro i primi 2 anni dalla diagnosi di tumore

● Hwangbo Y, Kang D et al. Jama Oncology 2018; published on line June 7; doi: 10.1001/jamaoncol.2018.1684

6 | MEDICO e PAZIENTE | 3.2018


il rischio di sindrome metabolica (OR 1,90 CI 95 1,26-2,85), alti livelli di trigliceridi (OR 1,55 CI 95 1,13-2,35) e bassi livelli di HDL (OR 1,60 CI 95 1,19-1,40) rispetto a quanto osservato per le donne con livelli ritenuti sufficienti della vitamina. E ancora,

i valori medi della concentrazione di 25(OH)-D diminuivano all’aumentare del numero delle componenti della sindrome metabolica. ● Boteon Schmitt E, Nahas-Neto J et al. Maturitas 2018; 107: 97-102

S

miglioramento del profilo cardiometabolico del tutto indipendente dal genotipo AB0. Infatti tra tutti i soggetti, al di là del fatto che fossero A, B, AB oppure 0, che avevano fatto scelte alimentari simili a quelle suggerite per il genotipo A e per il genotipo B è stata rilevata una più spiccata riduzione del BMI e del girovita, rispettivamente (P <0,001); chi invece aveva optato per una scelta alimentare simile a quella suggerita per il gruppo 0 aveva entrambi questi parametri ridotti. Gli Autori sottolineano che il genotipo AB0 non influisce in alcun modo sull’associazione tra il proprio gruppo sanguigno e i biomarcatori del profilo cardiometabolico nei soggetti in sovrappeso, e ribadiscono che i fondamenti teorici di questa dieta non sono validi. In pratica dunque, nei pazienti in sovrappeso per ottenere benefici è più importante prestare attenzione alla qualità e quantità degli alimenti, senza esclusioni a priori, quanto piuttosto al proprio gruppo sanguigno (la cui conoscenza è necessaria, ma non per le scelte alimentari). ● Wang J, Jamnik J et al. J Nutr 2018;148(4): 518-25

● Gafoor R, Booth HP, Gulliford MC. BMJ 2018; 361: k1951; doi: 10.1136/bmj.k1951

Nuova “bocciatura” per la dieta dei gruppi sanguigni: se si segue un regime alimentare bilanciato, il profilo cardio-metabolico migliora indipendentemente dal genotipo AB0

N

Quale impatto dell’uso di antidepressivi sull’aumento ponderale nel lungo periodo ulla possibile relazione tra impiego di farmaci antidepressivi e aumento di peso sono disponibili molteplici evidenze in letteratura; il limite dei dati tuttavia deriva dal fatto che si tratta di analisi per lo più a breve termine. Questo studio ha voluto approfondire il legame, ma sul lungo periodo, scegliendo a tal proposito un follow up di 10 anni, e una popolazione di quasi 300mila soggetti (età media 51,5 anni). L’impatto della terapia antidepressiva sul peso è stato valutato laddove ci fossero tre o più registrazioni dell’indice di massa corporea (BMI), nel periodo 2004-2014. Al basale erano stati prescritti antidepressivi a 17.803 uomini e 35.307 donne. Il rischio assoluto di aumento ponderale ≥5 per cento del peso corporeo senza l’impiego di antidepressivi è risultato pari a 8,1 per 100 persona/anni rispetto a 11,2 per 100 persona/anni con l’uso di tali farmaci (rate ratio aggiustato 1,21 CI 95 1,19-1,22, P <0,001). La tendenza all’incremento di peso si confermava nel tempo, con un rischio aumentato-trattamento relato per almeno 6 anni di osservazione, che è stato maggiore durante il secondo e il terzo anno. Nel secondo anno di trattamento era possibile prevedere il rischio di un ulteriore episodio di aumento≥5 per cento del peso ogni 27 pazienti trattati. Nei soggetti inizialmente normopeso, il rischio di virare verso il sovrappeso o l’obesità è stato di 1,29, valore sovrapponibile al rischio che i pazienti sovrappeso avevano di diventare obesi. Tali trend non sembrano manifestarsi nel primo anno di trattamento, ma nell’interpretare il risultato gli Autori esprimono cautela, soprattutto per le modalità di raccolta dei dati. Vi è dunque un’associazione positiva sul lungo periodo tra assunzione di antidepressivi e aumento ponderale, e pertanto tale relazione andrebbe valutata prima di prescrivere una terapia.

Nutrizione

on esistono prove scientifiche a supporto della teoria della dieta dei gruppi sanguigni. L’ennesima bocciatura per questo regime alimentare ideato da Peter D’Adamo e diffuso in tutto il mondo attraverso la pubblicazione di “Eat Right 4 Your Type” arriva da un recentissimo studio canadese, che ha reclutato 973 adulti in sovrappeso, con età media 44,6 anni, e BMI 32,5 kg/m2. Il gruppo sanguigno è stato ottenuto per tutti i partecipanti, ai quali è stato proposto di seguire per sei mesi un regime alimentare corretto e bilanciato, indipendentemente dal gruppo sanguigno. Mensilmente veniva somministrato a tutti un questionario per valutare l’apporto nutrizionale. Sia prima, sia al termine dello studio, l’alimentazione seguita è stata anche valutata in base all’appartenenza a uno dei quattro genotipi A, B, AB, 0. Al basale i soggetti che preferivano seguire la dieta suggerita per il tipo A mostravano valori di pressione diastolica più bassi, mentre una maggiore aderenza alla dieta proposta per il gruppo B e AB portava ad avere un girovita inferiore. Dopo 6 mesi, è stato riscontrato un

Farmacovigilanza

MEDICO e PAZIENTE | 3.2018 |

7


medicina

Oncologia

Carcinoma della prostata Pubblicati i risultati della più numerosa casistica italiana di sorveglianza attiva I risultati mostrano come la sorveglianza attiva possa considerarsi una strategia efficace a medio-lungo termine. Allo studio ci sono nuovi strumenti quali, la RMN multiparametrica e i biomarcatori, che potranno migliorare l’accuratezza classificativa alla diagnosi Cristina Marenghi1, Riccardo Valdagni1,2 1. Programma Prostata, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori, Milano 2. Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia, Università degli Studi di Milano, Radioterapia Oncologica 1, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori, Milano

D

a alcuni anni, si è diffusa la consapevolezza che una quota di neoplasie prostatiche, diagnosticate in pazienti asintomatici attraverso l’utilizzo del PSA, in un contesto di screening opportunistico (il professionista raccomanda l’esame al singolo soggetto) o di popolazione (screening strutturato che coinvolge a tappeto una definita fascia di popolazione), siano oggetto di sovra-diagnosi, cioè riguardino la diagnosi di tumori subclinici che non hanno un impatto sulla sopravvivenza del portatore (1). Il trattamento indiscriminato di tutti i tumori, indipendentemente dalle caratteristiche biologiche, porta con sé un rischio di sovra-trattamento. Questo accade anche per altre patologie oncologiche, quali il carcinoma mammario, polmonare, tiroideo ecc. La diffusione della cultura della diagnosi precoce e la disponibilità di test diagnostici sensibili, se da un lato hanno comportato un anticipo diagnostico, contribuendo ad aumentare le possibilità di cura delle forme aggressive insieme alla disponibilità di nuovi trattamenti efficaci, dall’altro hanno condotto a diagnosticare una quota talvolta rilevante di tumori che sarebbero rimasti subclinici e che non avrebbero causato il decesso del portatore (sovra-diagnosi). In risposta al bisogno clinico di limitare i costi individuali e comunitari di trattamenti inappropriati, sono nati programmi di monitoraggio dei tumori potenzialmente indolenti. Una di queste strategie è la sorveglianza attiva (SA) del tumore della prostata. L’obiettivo è evitare del tutto o dilazionare i trattamenti cura-

8 | MEDICO e PAZIENTE | 3.2018

tivi e i relativi effetti collaterali, cioè la disfunzione erettile e l’incontinenza urinaria che possono seguire la prostatectomia radicale, il deficit erettile e sanguinamento rettale e urinario, possibili effetti collaterali a lungo termine della radioterapia.

L’INTRODUZIONE DEL PSA E LE CONSEGUENZE EPIDEMIOLOGICHE L’introduzione del PSA negli anni ’90 è stata determinante nel definire l’attuale scenario epidemiologico del carcinoma prostatico nei Paesi occidentali, caratterizzato da un’elevata incidenza, progressivamente aumentata nei due decenni successivi l’introduzione del test e una sostanziale stabilità della mortalità (2, 3). Il tumore della prostata è infatti la neoplasia più frequente tra gli uomini e rappresenta oltre il 20 per cento dei tumori diagnosticati tra gli over 50. Nel 2016, in Italia i nuovi casi attesi erano 34.400 mentre i decessi 7.200 (I numeri del cancro, edizione 2016 AIOM/AIRTUM). Gli stessi dati riportano anche una sopravvivenza media particolarmente elevata: pari a 88,6 per cento a cinque anni (media europea: 83,4 per cento), con valori più elevati (90,2 per cento) per gli uomini tra 45 e 54 anni e una progressiva graduale riduzione col crescere dell’età, fino ad arrivare al 52,6 per cento tra gli over 75 (dato che può essere spiegato dalla maggior frequenza delle forme aggressive negli anziani e da una possibile minore intensità di trattamento). La quota di sovra-diagnosi nelle popolazioni sottoposte a


screening è stata stimata intorno al 40-50 per cento. Lo studio europeo di screening (ERSPC), avviato nel 1993, ha randomizzato uomini di età tra 50 e 74 anni a screening con PSA ogni 4 anni (ogni 2 anni in Svezia) verso nessuno screening programmato. Lo studio ha documentato una riduzione della mortalità per carcinoma prostatico a 13 anni del 27 per cento nel braccio di screening. Tuttavia, è stato necessario invitare allo screening 781 uomini e diagnosticare 27 tumori per prevenire 1 morte per cancro della prostata. La quota di tumori sovra-diagnosticati (che non avrebbero causato la morte del paziente) è stata calcolata pari al 41 per cento (4); si può supporre che questi siano pazienti a rischio di sovra-trattamento.

Tabella 1. Centri italiani di SA PRIAS coordinati da INT (Centri SiUrO PRIAS ITA) CITTà

ISTITUTO

1

bari

policlinico di bari

2

BERGAMO

OSPEDALE GIOVANNI XXIII

3

BOLOGNA

DIV. UROLOGIA POLICLINICO SANT’ORSOLA

4

CESENA

U.O. UROLOGIA OSPEDALE M. BUFALINI

LE STRATEGIE DI MONITORAGGIO

5

COMO

DIP. CHIRURGIA OSPEDALE SANT’ANNA

In risposta al rischio di sovra-trattamento, nascono circa 20 anni fa le prime esperienze di sorveglianza attiva, come alternativa ai trattamenti radicali (prostatectomia radicale o radioterapia radicale) per i carcinomi prostatici di basso grado e di piccolo volume. Dall’inizio degli anni Duemila viene progressivamente acquisita e raccomandata dalle linee guida delle maggiori società oncologiche e urologiche (NCCN, EAU, ASCO, NICE ecc.) (5-8). La strategia della SA è profondamente diversa dalla vigile attesa. La vigile attesa prevede un monitoraggio poco intensivo e non invasivo (per esempio non prevede la ripetizione della biopsia prostatica), è indicata in pazienti con attesa di vita breve per età o comorbidità significative, che possono essere trattati adeguatamente all’eventuale comparsa o all’imminenza di sintomi con terapie sistemiche non-curative (ormonoterapia, chemioterapia e terapie complementari). Viceversa, la SA rappresenta un’opzione di scelta per gli uomini suscettibili di trattamento curativo (prostatectomia radicale o radioterapia radicale), con tumori a basso grado, finalizzata a evitare i trattamenti radicali o a dilazionarli, nel caso vi sia una riclassificazione di malattia nel tempo. La SA prevede infatti un monitoraggio attraverso il PSA, l’esplorazione rettale e la ripetizione della biopsia prostatica a intervalli predefiniti. Se in corso di monitoraggio emergono caratteristiche di malattia fuori dai criteri per la SA (il più rilevante è il Gleason Pattern Score >3+3 o Grade Group > 1, secondo la nuova classificazione), il paziente viene avviato a trattamento.

6

DESENZANO

DIV. UROLOGIA - OSPEDALE CIVILE

7

FIRENZE

DIV. UROLOGIA 1 OSPEDALE CAREGGI

8

LOVERE

ASST BERGAMO EST

9

MILANO

PROGRAMMA PROSTATA FONDAZIONE IRCCS ISTITUTO NAZIONALE DEI TUMORI

10

NOCERA INFERIORE

DIV. UROLOGIA OSPEDALE UMBERTO I

11

ROMA

DIV. UROLOGIA ISTITUTO REGINA ELENA

12

ROZZANO

DIV. UROLOGIA ISTITUTO HUMANITAS

13

SALERNO

UNIVERSITA’ - DIV. UROLOGIA

LA SORVEGLIANZA ATTIVA IN ITALIA La Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (INT) è diventato centro di riferimento e promotore per la sorveglianza attiva, contando la più numerosa e longeva casistica italiana. Nel 2005 il Programma Prostata, progetto della Direzione Scientifica diretto dal prof. Riccardo Valdagni, ha avviato il suo primo protocollo di sorveglianza attiva SA-INT (Sorveglianza Attiva Istituto Nazionale Tumori). Nel 2007, l’istituto milanese è entrato a far parte del progetto internazionale PRIAS (Prostate Cancer International Reasearch on Active Surveillance - www.PRIAS-project.com), coordinato

dall’Erasmus Medical Cancer Center di Rotterdam, che coinvolge centri diffusi in diverse regioni del mondo (molti Paesi europei, Canada, Giappone, Australia, Stati Uniti) e ha incluso a inizio 2018 più di 6.700 pazienti (9). Molti altri istituti e ospedali italiani (Tabella 1) si sono via via consorziati sotto l’egida della Società Italiana di UroOncologia (SiUrO) e hanno iniziato a includere pazienti in PRIAS.

PAZIENTI CANDIDABILI ALLA SORVEGLIANZA ATTIVA Vi è eterogeneità in letteratura nei criteri di selezione che si basano principalmente su parametri identificati come predittori di malattia clinicamente non significativa (lesioni di 0,5 cc di volume con GPS ≤3+3), definiti su casistiche precedenti gli anni ’90, in era pre-PSA (10). Successivamente sono stati rivisti e per certi aspetti ampliati, tenendo in considerazione i cambiamenti epidemiologici introdotti dal PSA e le modifiche ai criteri anatomo-patologici di definizione del Gleason Score (GS), apportate nel 2005 dalla International Society of Urological Pathology (ISUP) (11), che hanno abolito l’attribuzione dei GS 1 e 2 e determinato un incremento del punteggio di molti GS 3, oggi riclassificati come GS 4 (12). MEDICO e PAZIENTE | 3.2018 |

9


medicina

Oncologia

Tabella 2. Criteri di inclusione e timing delle rebiopsie nei protocolli SA-INT e PRIAS iPSA (ng/ml)

DRE

GPS

N° campioni positivi

Interessamento singolo campione

PSA density

Timing biopsie

SA-INT

≤10

≤T2a

≤3+3

≤25%

≤50%

-

12 mesi 24 mesi Ogni 2 anni

PRIAS

<10

≤T2a

≤3+3

<2

-

<0,2

12 mesi Ogni 3 anni

In letteratura non vi sono evidenze a favore di un protocollo specifico; la gran parte dei pazienti candidabili a SA, ricadono per caratteristiche di malattia nella classe di rischio bassa secondo la classificazione di D’Amico (13).

(DRE) ogni 6 mesi e la ripetizione della biopsia prostatica a 12 mesi dalla diagnosi; la frequenza delle rebiopsie è differente negli anni successivi (ogni 3 anni in PRIAS, dopo 2 anni e successivamente ogni 2 anni in SA-INT).

RISULTATI DELLO STUDIO

w Sopravvivenza libera da trattamento attivo Nello studio presentato, la metà dei pazienti ha evitato un trattamento a 5 anni dalla diagnosi. Infatti, con un follow-up mediano di 59 mesi (range 4-145 mesi), la sopravvivenza libera da trattamento attivo secondo l’analisi di Kaplan-Meyer (ATFS, Active Treatment-free Survival) è risultata 71 per cento (CI al 95 per cento: 69-73 per cento) a 24 mesi e 50 per cento (CI al 95 per cento: 48-52 per cento) a 60 mesi (Figura 1). Complessivamente 404 pazienti su 818 (49,4 per cento) hanno interrotto la sorveglianza; di questi 255/404 (63,1 per cento) per riclassificazione di malattia, cioè per incremento del GPS o del numero di campioni ammessi dallo specifico protocollo (>2 campioni in PRIAS, >25 per cento dei campioni in SA-INT) o per tempo di raddoppiamento del PSA (PSA-DT) <3 anni, secondo i criteri di interruzione previsti. Le riclassificazioni precoci (1-2 anni) sono attribuite alla presenza di focolai occulti non campionati per motivi casuali dalla biopsia diagnostica e rappresentano un limite di accuratezza riconosciuto, che giustifica l’impiego della biopsia confirmatoria entro 12 mesi nella maggior parte dei protocolli. 81/404 pazienti (20 per cento) hanno interrotto la sorveglianza per scelta personale non correlata con l’ansia o per rifiuto di ripetere le biopsie prostatiche e 46 (11,4 per cento)

w La casistica I risultati presentati nel lavoro pubblicato su Tumori Journal (14), riguardano i primi 818 pazienti, arruolati tra marzo 2005 e giugno 2016 nei due studi attivi presso l’Istituto, di età compresa tra 42 e 79 anni, età mediana 66. L’arruolamento continua a essere aperto e a gennaio 2018, il numero di pazienti ha raggiunto i 950. La casistica pubblicata comprende 200 pazienti dello studio monocentrico SA-INT, 530 dello studio internazionale PRIAS e 88 pazienti con tumori a basso grado che, pur non rispettando tutti i criteri previsti (es. con PSA >10 ng/ml o con >25 per cento campioni positivi) hanno chiesto di essere monitorati, come strategia personalizzata, essendo fortemente motivati a evitare i trattamenti radicali. I due studi condividono i criteri di inclusione principali (Gleason Pattern Score 3+3, stadio clinico ≤T2a, PSA≤10 ng/ml), ma presentano alcune differenze in altri parametri di malattia (numero massimo di campioni positivi, valore di PSA density, estensione di malattia all’interno del singolo campione) e nella frequenza delle rebiopsie pianificate (Tabella 2). Il programma di monitoraggio comprende per entrambi i protocolli il PSA ogni 3 mesi, l’esplorazione rettale digitale

• La SA rappresenta un’opzione di scelta per i pazienti suscettibili di trattamento curativo (prostatectomia radicale o radioterapia radicale), con tumori di basso grado, finalizzata a evitare le terapie radicali o a dilazionarle in caso vi sia una riclassificazione di malattia nel tempo. • I dati relativi a 818 pazienti mostrano come la sopravvivenza libera da trattamento attivo sia stata del 71 per cento a 24 mesi e del 50 per cento a 60 mesi. La SA è stata interrotta nel 49,4 per cento dei pazienti.

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hanno proseguito i controlli in vigile attesa, per età avanzata (>80 anni) o per l’insorgere di comorbidità severe. Non sono stati registrati decessi per il tumore prostatico né comparsa di metastasi nei pazienti in studio e nei pazienti usciti, sebbene per il 20 per cento circa dei pazienti che hanno interrotto la SA non siano disponibili informazioni di follow-up.

Figura 1 Sopravvivenza libera da trattamento secondo l’analisi di Kaplan–Meyer

w Il trattamento dilazionato dopo la sorveglianza Tra gli usciti, 335/404 pazienti (82,9 per cento) hanno avuto l’indicazione a un trattamento attivo, il 52 per cento ha scelto la radioterapia esterna (il 37 per cento dei trattamenti radioterapici è stato associato a ormonoterapia per classe di rischio alla riclassificazione), l’8 per cento la brachiterapia e il 40 per cento la prostatectomia radicale. La scelta del tipo di trattamento è stata effettuata secondo linee guida e in accordo con la preferenza del paziente in presenza di più opzioni, formulate in visita multidisciplinare (la chirurgia è stata spesso indicata come opzione di seconda scelta in uomini di età >70 anni). w Qualità della vita Solo 9 pazienti, poco più dell’1 per cento dell’intera coorte, hanno interrotto la sorveglianza attiva per ansia legata alla malattia. Tale dato è positivo (altre casistiche hanno percentuali superiori) e va nella stessa direzione dei risultati dello studio a latere che ha analizzato la qualità di vita e il benessere emotivo di 487 pazienti inclusi nei protocolli, attraverso questionari di autovalutazione. I test hanno individuato elevati livelli di benessere fisico, sociale ed emotivo all’inizio e in corso di SA; analisi più dettagliate sono riportate in specifiche pubblicazioni (15).

LA SORVEGLIANZA ATTIVA NEL MONDO I risultati finora ottenuti sono incoraggianti e concordano con quelli di altre casistiche internazionali. Data la lunga storia naturale del carcinoma prostatico a basso grado, 11 anni di follow-up della coorte italiana rappresentano un buon periodo di osservazione, ma può essere considerato tuttora intermedio. Risultati a lungo termine sono riportati da due importanti istituzioni, quella canadese del Sunnybrook di Toronto (16), gruppo pioniere della SA nel mondo e quella del John Hopkins University (JHU) (17). La sopravvivenza cancro-specifica a 15 anni è risultata pari a 94,3 per cento nella casistica di Toronto (casistica che presenta criteri di inclusione piuttosto ampi e comprende anche alcuni pazienti ultra-settantenni con carcinomi di GPS 3+4) e 99,9 per cento nella casistica del JHU. Di contro, la sopravvivenza globale nelle due casistiche è risultata 62 e 69 per cento, rispettivamente, documentando che la gran parte dei pazienti con tumore della prostata a basso grado, muore per altre cause anche in un contesto di SA.

CONFRONTO CON IL TRATTAMENTO ATTIVO A causa delle problematiche di una randomizzazione tra terapia e monitoraggio, i dati di confronto diretto fra trattamento e SA sono limitati. Tre studi randomizzati hanno provato a

Note. La curva continua e le curve tratteggiate rappresentano la sopravvivenza attuariale e l’intervallo di confidenza al 95 per cento, rispettivamente.

indagare l’impatto del trattamento radicale rispetto all’osservazione. Lo studio randomizzato di fase III SPCG4 (Scandinavian Prostate Cancer Group-4) ha confrontato la prostatectomia radicale vs la vigile attesa, in pazienti con carcinoma prostatico per lo più diagnosticato in era pre-screening. Mentre sull’intera popolazione la differenza assoluta di sopravvivenza cancrospecifica a 18 anni del 11 per cento è risultata statisticamente significativa a favore della chirurgia rispetto alla vigile attesa (95 per cento CI, 4,5-17,5), per i pazienti in classe di rischio bassa il vantaggio non è stato significativo (18). L’analogo studio americano PIVOT (Prostate Cancer Intervention versus Observation Trial), condotto in era di screening, non ha evidenziato vantaggi in sopravvivenza globale e in sopravvivenza cancro-specifica a 12 anni nel gruppo di prostatectomia rispetto alla vigile attesa (19). Infine, lo studio più recente PROTECT (Prostate Testing for Cancer and Treatment), che ha confrontato un regime di osservazione più simile alla sorveglianza attiva (senza tuttavia rebiopsie pianificate) con la prostatectomia e la radioterapia in un randomizzato a 3 bracci, non ha dimostrato differenze significative in sopravvivenza a 10 anni, sebbene nel braccio di osservazione vi sia un maggior rischio di sviluppare metastasi (20). In nessuno di questi 3 studi il programma di monitoraggio prevedeva la ripetizione sistematica della biopsia prostatica durante il follow-up, come avviene nei programmi di SA. Tuttavia la mortalità cancrospecifica, per i pazienti con malattie a basso grado non è significativamente differente nel medio-lungo termine nei pazienti trattati alla diagnosi rispetto ai pazienti osservati. MEDICO e PAZIENTE | 3.2018 |

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medicina

Oncologia

PROSPETTIVE FUTURE La sorveglianza attiva non rappresenta una risposta definitiva al problema dell’over-treatment in oncologia, ma la soluzione temporanea e il terreno di studio ottimale per aumentare le conoscenze sulla storia naturale della malattia e sulle caratteristiche che ne determinano il comportamento biologico e l’aggressività. Un elemento chiave è la selezione dei pazienti e la capacità di escludere la presenza di focolai a maggior aggressività, misconosciuti alla biopsia diagnostica. Allo stato attuale, dopo l’iniziale selezione, è il processo stesso del monitoraggio che attraverso la verifica periodica dell’aggressività permette di svelarli, riclassificando la malattia. Tuttavia nuovi strumenti in corso di valutazione, come la risonanza magnetica multiparametrica (21) e i biomarcatori plasmatici o tissutali, dovrebbero essere in grado di incrementare l’accuratezza diagnostica e la capacità di identificare piccoli focolai occulti ad alto grado, di ridurre il ricorso alla biopsia ripetuta e di identificare precocemente i cambiamenti del comportamento di malattia nel tempo per le forme che si rivelano evolutive. Certamente i dati a supporto dell’utilizzo della RMN multiparamentrica sono in una fase di studio più avanzata rispetto ai biomarcatori. Infatti l’utilizzo della la RMN multiparametrica è già stato introdotto nel protocollo PRIAS, come criterio che permette di includere in SA pazienti che abbiano una malattia di GSP 3+3 dopo risonanza e biopsia mirata delle lesioni sospette, indipendentemente dal numero di campioni interessati. Anche in INT, l’evoluzione delle conoscenze e la disponibilità di nuove tecnologie hanno portato a disegnare uno studio con l’obiettivo di implementare e ottimizzare l’utilizzo della risonanza magnetica, per migliorare la selezione e la permanenza dei pazienti in SA. Contemporaneamente, sono in corso dosaggi di marcatori plasmatici e genetici per valutarne la capacità predittiva di riclassificazione nei pazienti sorvegliati. Per accelerare i risultati delle ricerche e portarli più precocemente possibile nella pratica clinica, l’INT e molti centri di riferimento per la patologia oncologica prostatica nel mondo stanno unendo le forze e si sono consorziati nel progetto Global Action Plan 3 (GAP3) della Movember Foundation (https://cdn.movember.com), che ha l’obiettivo di condividere le informazioni delle proprie casistiche e incrementare rapidamente i numeri e la potenza statistica delle analisi. Nel frattempo, i dati attualmente disponibili indicano come la SA sia una strategia efficace a medio-lungo termine, con buoni margini di sicurezza, nonostante i limiti di accuratezza classificativa alla diagnosi portino a includere pazienti con focolai occulti a più alto grado ed escludere e trattare una quota di pazienti con malattie non letali.

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medicina

approfondimenti

A cura di Piera Parpaglioni

L’alta montagna in presenza di malattie cardiovascolari rischi e raccomandazioni Il documento congiunto di ESC, ESH, SIIA e delle Società Italiana e Internazionale di Medicina di Montagna L’articolo pubblicato in queste pagine è stato realizzato con il prezioso contributo del professor Gianfranco Parati, Direttore scientifico dell’Istituto Auxologico Italiano di Milano, Direttore del Dipartimento di cardiologia dello stesso Istituto e Ordinario di Medicina cardiovascolare all’Università MilanoBicocca, e della dottoressa Camilla Torlasco, cardiologa presso l’Istituto Auxologico Italiano di Milano e Dottoranda in Medicina Pubblica presso l’Università Milano-Bicocca

U

n numero crescente di individui, anche sedentari, anziani e affetti da malattie cardiovascolari, ama raggiungere località di montagna ad altitudine elevata, ovvero attorno ai 2.500 metri sul livello del mare e oltre. Al di sopra di questa quota, com’è noto, i meccanismi fisiologici di acclimatazione aumentano il carico di lavoro del sistema cardiovascolare, sebbene il rischio di eventi sfavorevoli associato all’altitudine sia tema di dibattito. Con l’obiettivo di promuovere un generale accesso in sicurezza all’alta montagna, e dopo aver effettuato una revisione delle evidenze disponibili sul rischio di eventi clinicamente rilevanti in alta quota, alcune tra le

LE SOCIETÀ SCIENTIFICHE CHE FIRMANO IL DOCUMENTO • European Society of Cardiology (ESC) • ESC Council on Hypertension • European Society of Hypertension (ESH) • International Society of Mountain Medicine (ISMM) • Società Italiana dell’ipertensione Arteriosa (SIIA) • Società Italiana di Medicina di Montagna (SIMeM)

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principali Società scientifiche internazionali e italiane di cardiologia, di ipertensione e di medicina di montagna (riquadro, per l’elenco completo) hanno emanato un documento condiviso con le raccomandazioni per i soggetti affetti da condizioni cardiovascolari preesistenti quali cardiopatia ischemica, scompenso cardiaco, ipertensione arteriosa e altre, che intendono raggiungere altitudini elevate. In queste pagine presentiamo una panoramica del documento che ha come primi Autori Gianfranco Parati, Camilla Torlasco e Piergiuseppe Agostoni, responsabile dell’Unità Operativa Scompenso, Cardiologia Clinica e Cardiologia Riabilitativa del Centro Cardiologico Monzino e Ordinario di Malattie dell’apparato cardiovascolare all’Università di Milano, ripercorrendo i principali schemi riassuntivi e le considerazioni chiave del testo.

RICHIAMI DI FISIOLOGIA CARDIOVASCOLARE AD ALTA QUOTA Con l’aumentare dell’altitudine, la riduzione progressiva della pressione barometrica, pur in presenza di una costante frazione di O2 inspirato (figura 1) determinano una diminu-


Figura 1 Classificazione dell’altitudine, pressione barometrica corrispondente e frazione di ossigeno inspirato, secondo il modello 1976 US standard atmosphere della NASA Fonte: modificato da Parati G et al. Eur Heart J 2018; 39: 1546-1554

Altitudine incompatibile con la vita

Altitudine m (piedi)

Pressione barometrica mmHg (Pa)

Altitudine estrema

FiO2 equivalente

Altri cambiamenti ambientali con l’altitudine Temperatura Radiazione solare

Umidità dell’aria

Altitudine elevata

Altitudine molto elevata Più bassa

Maggiore

Minore

Altitudine elevata Altitudine bassa

Altitudine moderata Altitudine bassa

zione della pressione parziale dell’O2 alveolare (ipossia ipobarica). Per esempio, se a livello del mare (pressione barometrica di circa 760 mmHg) la pressione parziale di O2 alveolare è di circa 100 mmHg, a 3.000 m di altitudine la pressione parziale di O2 alveolare si riduce a circa 67 mmHg. Una serie di risposte fisiologiche aiuta a mantenere un apporto adeguato di O2 ai tessuti attraverso il processo di acclimatazione, la cui efficacia dipende dalla durata dell’esposizione all’altitudine, dall’età, dalla pressione parziale di O2 nel sangue arterioso (PaO2) e dalla ventilazione al minuto. Queste risposte cruciali (evidenziate nella Figura 2) sono stimolate dall’ipossia tramite meccanismi diretti e meccanismi indiretti, mediati prevalentemente dai chemocettori periferici. Gli effetti principali, ma non gli unici, sono 1) l’attivazione del sistema simpatico con aumento della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca e della getatta cardiaca; 2) l’aumento della ventilazione, che dopo qualche tempo porta ad alcalosi respiratoria; 3) vasocostrizione polmonare con aumento della pressione

polmonare arteriosa. Nel complesso dei meccanismi dell’acclimatamento, alcuni si attivano immediatamente, mentre altri richiedono ore o giorni. Se nelle sue prime fasi l’esposizione acuta all’ipossia determina una vasodilatazione sistemica dipendente e indipendente dall’endotelio, che può indurre un’iniziale riduzione della pressione sanguigna, dopo poche ore questa prima risposta è controbilanciata da un aumento generalizzato altitudine-dipendente della vasocostrizione mediata dal sistema simpatico, in risposta all’attivazione dei chemocettori periferici, causato in primo luogo dall’ipossiemia arteriosa. A poche ore dall’arrivo in alta quota e per tutto il periodo successivo osservato si ha quindi un aumento significativo e persistente della pressione arteriosa, proporzionale all’altitudine raggiunta. L’aumento della pressione è più evidente durante il sonno, portando così a una riduzione del fisiologico calo della pressione durante la notte. Il tutto accompagnato da un aumento della gettata cardiaca sia a riposo sia durante l’esercizio fisico.

Più alta

Minore

Maggiore

L’ipossia induce inoltre un’iperventilazione, a cui conseguono ipocapnia e alcalosi respiratoria, nonché la comparsa di un pattern ventilatorio anomalo durante il sonno (respiro periodico notturno), caratterizzato da periodi di apnea o ipopnea centrale alternati con periodi di iperventilazione. L’ipossia alveolare e l’ipossiemia (in minor grado) determinano una vasocostrizione nella circolazione polmonare, in modo diretto e attraverso l’attivazione simpatica. Ne conseguono aumenti della resistenza vascolare polmonare, della pressione arteriosa polmonare, del rischio di edema polmonare e, in casi estremi, insufficienza ventricolare destra. La leggera disidratazione e la diuresi mediata dall’ipossia comportano un rischio di squilibrio elettrolitico e portano a un aumento acuto dell’ematocrito e della concentrazione di emoglobina (Hb) nei primi giorni ad alta quota, dopo i quali la produzione renale di eritropoietina stimola la produzione di nuovi globuli rossi, con un ulteriore aumento della concentrazione di Hb. Nella fase acuta dell’esposizione, queste risposte

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Figura 2 RISPOSTE FISIOLOGICHE ALL’IPOSSIA

Ipertensione polmonare

Vasocostrizione polmonare

Vasodilatazione sistemica

Ipossia acuta

Freddo, esercizio

Chemocettori periferici

Aumento della ventilazione

Alcalosi respiratoria

Attivazione simpatica

Legenda Inibizione Stimolazione

Aumento pressione arteriosa Aumento frequenza cardiaca Aumento gettata cardiaca Aumento della rotazione cardiaca

Quando la pressione parziale dell’ossigeno inalato ha una riduzione dal 25 al 60 per cento (per quote rispettivamente da 2.500 m a 8.000 m), l’apporto di ossigeno è assicurato con: aumento della ventilazione polmonare, aumento della gettata cardiaca tramite incremento della frequenza cardiaca, cambiamenti del tono vascolare e aumento della concentrazione dell’emoglobina. Fonte: modificata da Parati G et al. Eur Heart J 2018; 39: 1546-1554

possono essere associate con un aumento della coagulabilità del sangue, sebbene le evidenze su uno stato pro-trombotico siano conflittuali e un aumento del rischio di trombosi non sia dimostrato.

I PAZIENTI CON SCOMPENSO CARDIACO Lo scompenso cardiaco (HF) è spesso associato con altre comorbilità, come ipertensione polmonare, malattia

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ostruttiva polmonare cronica, malattia renale cronica, ischemia cardiaca e trombofilia. Tutte queste condizioni rendono i soggetti con HF più vulnerabili all’alta montagna, sebbene l’esposizione breve all’altitudine sia risultata sicura sia in pazienti stabili in classe NYHA II durante attività fisica a 3.400 m circa di altezza, sia in pazienti con HF severo stabile (classe NYHA III-IV) sottoposti a test cardiopolmonare in condizioni di altitudine simulata.

La terapia farmacologica dell’HF può interferire con i meccanismi di adattamento. Per esempio, i betabloccanti influiscono sulle risposte emodinamiche attraverso i recettori adrenergici; ACE-inibitori e ARB (bloccanti del recettore per l’angiotensina), pur essendo ben tollerati in quota, possono compromettere la capacità del rene di produrre eritropoietina e possono limitare una risposta compensatoria utile in alta quota. La somministrazione di diu-


tabella 1 RACCOMANDAZIONI PER I PAZIENTI CON SCOMPENSO CARDIACO CHE SI RECANO AD ALTITUDINI ELEVATE Severità dello scompenso cardiaco

Tutti i pazienti con scompenso cardiaco

Pazienti stabili in classe NYHA I-II

Pazienti stabili in classe NYHA III Pazienti instabili in classe NYHA IV

Classe di evidenza

Livello di evidenza

Valutare accuratamente le comorbilità (es. ipertensione polmonare, anemia, apnee notturne)

I

C

Valutare accuratamente i farmaci per lo scompenso cardiaco (in particolare diuretici, supplementi di potassio e beta-bloccanti). Quando possibile, preferire un beta1 selettivo a un beta-bloccante generico

I

B

Si raccomanda una ascesa lenta. Sebbene non vi siano dati precisi sulla velocità di ascesa consigliabile, è prudente non eccedere quella raccomandata per i viaggiatori sani (300-500 m/die oltre i 2.500 m)

I

C

Possono raggiungere in sicurezza quote fino a 3.500 m

IIa

C

Una volta in quota, si raccomanda un’attività fisica moderata

IIA

C

Possono raggiungere in sicurezza quote fino a 3.000 m, se necessario

IIA

C

Una volta in quota, si raccomanda una attività fisica leggera

IIa

C

I

C

Raccomandazioni

Evitare l’esposizione all’altitudine elevata

Note: La forza di queste raccomandazioni deve essere soppesata alla luce delle limitate evidenze disponibili; NYHA, New York Heart Association. Fonte: modificato da Parati G et al. Eur Heart J 2018; 39: 1546-1554 retici dovrebbe essere basata sulla valutazione dei segni precoci di disidratazione o di accumulo di liquidi, e deve sempre tenere presente l’aumentato rischio di disidratazione e di squilibri elettrolitici osservati in quota. Le raccomandazioni dettagliate per i pazienti con HF sono evidenziate nella Tabella 1, che riprende l’analogo schema del documento di Parati et al.

I PAZIENTI CON CARDIOPATIA ISCHEMICA Come ricordato sopra nei richiami di fisiologia, con l’esposizione acuta ad altitudini elevate la gettata cardiaca deve aumentare per mantenere un apporto di O2 adeguato a fronte

della riduzione del contenuto di O2 nel sangue arterioso. I cambiamenti che si verificano nelle proprietà della parete arteriosa possono ridurre l’apporto di ossigeno al miocardio soprattutto in diastole, con possibili implicazioni cliniche in soggetti con placche coronariche silenti; tuttavia il rischio effettivo di ischemia cardiaca associato con l’altitudine è ancora da chiarire. I pazienti con malattia coronarica (CAD) possono andare incontro a maggiori difficoltà ad alta quota, a causa della impossibilità di aumentare ulteriormente il flusso coronarico, data la vasodilatazione coronarica compensatoria già presente a livello del mare, della compromissione delle proprietà elastiche delle arterie

indotta dalle lesioni ateromatose e della disfunzione microvascolare. Ma anche le evidenze disponibili sull’ischemia indotta dall’altitudine nei soggetti con CAD sono scarse. La Tabella 2 riporta tutte le raccomandazioni per i pazienti con cardiopatia ischemica proposte dal team di esperti.

I PAZIENTI CON IPERTENSIONE ARTERIOSA SISTEMICA Come sopra descritto, la pressione arteriosa aumenta dopo poche ore di permanenza a un’altitudine elevata e rimane virtualmente immutata nei giorni successivi. I soggetti ipertesi possono essere più suscettibili

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approfondimenti

all’altitudine a causa della sensibilità all’ipossia dei chemorecettori periferici e centrali già aumentata e dell’alterazione nell’omeostasi del calcio. Per esempio, uno studio condotto in Cina sui lavoratori alla linea ferroviaria ad alta quota tra Pechino e Lhasa (Wu et al.) ha riscontrato un aumento maggiore della pressione arteriosa tra i lavoratori ipertesi rispetto ai normotesi. Osservazione confermata e approfondita da un trial successivo, lo HIGHCARE Andes-Lowlanders Study (Bilo et al.), nel quale l’esposizione acuta a un’altitudine di oltre 3.200 m di pazienti ipertesi (che vivevano abitualmente a livello del mare) ha

indotto un ulteriore aumento significativo della pressione arteriosa nelle 24 h rispetto ai valori di base, con un ulteriore lieve incremento nelle ore notturne rispetto alle diurne. Il medesimo studio, considerando gli effetti dei farmaci antipertensivi con l’altitudine, ha riportato che la combinazione di un calcio antagonista diidropiridinico e di un bloccante dei recettori per l’angiotensina II (in questo caso, nifedipina GITS e telmisartan) era efficace e ben tollerata nel controllare la pressione arteriosa di questi pazienti. Come nota il documento congiunto, i risultati di questi e altri studi clinici dovrebbero essere interpretati te-

nendo conto dei limiti delle misurazioni convenzionali della pressione: essendo effettuate a riposo, sono poco sensibili alle influenze ambientali e in particolare quando si tratta di valutare la risposta pressoria all’altitudine. Da qui la rilevanza del contributo portato dagli studi effettuati sulle Alpi, sulle pendici dell’Everest e sulle Ande nel contesto dei progetti HIGHCARE, essendo questi gli unici studi condotti mediante monitoraggio dinamico della pressione arteriosa nelle 24 ore in un numero sufficientemente elevato di soggetti. Le raccomandazioni dettagliate per i pazienti ipertesi sono riportate nella Tabella 3.

tabella 2 RACCOMANDAZIONI PER I PAZIENTI ISCHEMICI CHE SALGONO AD ALTITUDINI ELEVATE Classe di rischio del paziente

Classe di evidenza

Livello di evidenza

Anche in alta quota, i pazienti dovrebbero proseguire le terapie preesistenti. Tutti i cambiamenti di trattamento, soprattutto la terapia duplice antipiastrinica dopo impianto di stent medicato, dovrebbero essere discussi con il medico di riferimento prima di essere attuati. I soggetti che non praticano attività fisica a bassa quota, non dovrebbero impegnarsi in attività fisiche ad alta quota

I

C

La somministrazione di acetazolamide sembra ridurre il rischio di ischemia sub-endocardica ad altitudini elevate nei soggetti sani e pertanto può essere utile per la prevenzione dell’IMA. Tuttavia non vi sono dati disponibili nei pazienti con CAD

IIa

C

Dopo IMA/by pass coronarico

I pazienti dovrebbero attendere almeno 6 mesi dopo un episodio coronarico acuto non complicato e dopo una rivascolarizzazione prima di salire ad altitudini elevate

I

C

Dopo stent

I pazienti dovrebbero attendere almeno 6-12 mesi dopo stent coronarico prima dell’esposizione ad altitudini elevate

IIa

C

Basso rischio (CCS 0-I)

Possono raggiungere in sicurezza quote fino a 4.200 m e praticare esercizio fisico da leggero a moderato

IIa

C

Rischio moderato di CAD (CCS II-III)

Possono salire con cautela fino a 2.500 m, ma l’esercizio fisico oltre quello lieve è controindicato

IIa

C

Rischio elevato (CCS IV)

Non dovrebbero recarsi ad altitudini elevate

I

C

Raccomandazioni generali per tutti i pazienti cardiovascolari

Raccomandazioni

Note: La forza di queste raccomandazioni deve essere soppesata alla luce delle limitate evidenze disponibili; IMA, infarto miocardico acuto; CAD, cardiopatia coronarica; CCS, Canadian Cardiovascular Society Fonte: modificato da Parati G et al. Eur Heart J 2018; 39: 1546-1554

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tabella 3 RACCOMANDAZIONI CLINICHE E TERAPEUTICHE PER I PAZIENTI IPERTESI CHE HANNO IN PROGRAMMA DI RAGGIUNGERE ALTITUDINI ELEVATE Classe di evidenza

Livello di evidenza

Controllare i valori pressori prima e durante il soggiorno ad alta quota

IIa

B

Pazienti ipertesi ben controllati/con ipertensione lieve

Possono raggiungere altitudini elevate (> 4.000 m) con un’adeguata terapia medica

I

C

Pazienti con ipertensione severa/non controllata

Evitare l’esposizione ad altitudini elevate al fine di prevenire il rischio di danno d’organo

I

C

Il blocco del recettore per l’angiotensina II (testato con telmisartan) abbassa la PA nei soggetti sani fino a 3.400 m

I

B

La somministrazione di acetazolamide abbassa la PA ad altitudine elevata e nello stesso tempo migliora la saturazione di O2 e i sintomi del mal di montagna

I

B

La combinazione nifedipina/telmisartan abbassa in modo efficace la PA nei soggetti ipertesi a un’altitudine di 3.300 m

I

B

Il nebivololo controlla in modo efficace l’aumento della PA indotto dall’altitudine e preserva il calo notturno della pressione. Il blocco selettivo dei recettori beta-1 adrenergici è associato con una minore compromissione della performance fisica rispetto alla somministrazione dei beta-bloccanti non selettivi

I

C

I pazienti con ipertensione moderata-severa e i soggetti ipertesi con rischio cardiovascolare da moderato a elevato che prevedono di raggiungere altitudini elevate, dovrebbero considerare con il medico una modifica adeguata della terapia antipertensiva

IIa

C

Tipo di paziente

Raccomandazioni

Pazienti con ipertensione moderatasevera e soggetti ipertesi con rischio cardiovascolare da moderato a elevato

Terapia

Note: La forza di queste raccomandazioni deve essere soppesata alla luce delle limitate evidenze disponibili; PA, pressione arteriosa Fonte: modificato da Parati G et al. Eur Heart J 2018; 39: 1546-1554

I PAZIENTI CON ALTRE CONDIZIONI CARDIOVASCOLARI Dopo l’ampio spazio dedicato ai soggetti con le patologie di più frequente riscontro, il documento di Parati et al. si sofferma anche sugli individui con aritmie e device impiantabili, con ipertensione polmonare e con cardiopatie congenite, argomenti per i quali rimandiamo al testo completo. Una menzione, infine, per le considerazioni relative alle condizioni cerebrovascolari. Nonostante l’evidenza limitata, l’esposizione all’altitudine può comportare un rischio

di ischemia cerebrale nei soggetti che hanno già avuto un ictus ischemico, a causa sia dell’effetto diretto dell’ipossia sia di una ridotta reattività cerebrovascolare. Non è chiaro se l’aumento dell’ematocrito e della viscosità del sangue contribuiscano a un aumento del rischio di ictus con l’altitudine. Alcuni dati (sebbene controversi) suggeriscono che gli individui che vivono o lavorano ad alta quota possano avere un rischio maggiore di ictus rispetto a coloro che risiedono e lavorano a un’altitudine bassa (Jha et al.; Niaz et al.). La raccomandazione degli esperti, formulata sulla base dell’esperienza clinica data la mancanza di evidenze

sufficienti, è che l’eco-color-doppler carotideo, di routine per valutare l’esistenza di placche complicate o di una stenosi carotidea severa, possa aiutare anche a valutare il rischio di nuovi eventi durante l’esposizione all’altitudine elevata dopo un ictus aterotrombotico. Per quanto riguarda l’ictus emorragico, l’aumento della pressione arteriosa ad alta quota aumenta il rischio di rottura di aneurismi cerebrali e di malformazioni arteriose e venose, e anche il rischio teorico di emorragia cerebrale ipertensionecorrelata. Tuttavia, non vi sono dati sull’incidenza di emorragia intracrasegue a pagina 21

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intervista

Come si è arrivati alla stesura del documento Facciamo il punto con il professor Gianfranco Parati e la dottoressa Camilla Torlasco ❱ Le raccomandazioni cliniche per l’esposizione all’altitudine elevata degli individui con condizioni cardiovascolari preesistenti, pubblicate di recente su European Heart Journal, mostrano un approccio più aperto verso questo tipo di pazienti rispetto alle impostazioni precedenti. Quali sono i cambiamenti che ritiene più significativi e quali osservazioni vi hanno guidato nella stesura del documento? Il nostro gruppo è stato molto attivo nella ricerca sugli effetti cardiovascolari dell’alta quota negli ultimi 10 anni, portando a termine numerose spedizioni, sia con pazienti che con volontari sani, dalle Alpi all’Everest e alle Ande. Tale esperienza ci ha portati a ricevere richieste di consigli da parte di molti pazienti, e ci ha spinti a scrivere il lavoro, in collaborazione con i maggiori esperti internazionali dell’argomento. La possibilità di realizzare studi clinici in alta quota è stata storicamente limitata dalle difficoltà logistiche per raggiungere le località e trasportarvi i soggetti e i materiali, dai rischi ambientali intrinseci della montagna e dai costi. Di conseguenza, la maggior parte degli studi clinici d’alta quota sono basati su pochi soggetti, raramente includono pazienti e sono spesso caratterizzati da importanti e significative disomogeneità metodologiche. Da qui la difficoltà nel trarre delle indicazioni dai singoli lavori. Il documento di raccomandazioni per l’esposizione all’alta quota di pazienti con preesistenti patologie cardiovascolari ha eseguito un’analisi sistematica della letteratura disponibile sull’argomento e ha sintetizzato e

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Il consiglio che vorremmo dare al MMG è di inviare ad ambulatori con esperienza in medicina di montagna i pazienti e di condividerne la gestione, fornendo informazioni sul loro stato di salute, al fine di garantire un’esposizione sicura e piacevole alla quota

confrontato i dati raccolti dai più importanti studi nel campo. In tale modo, ci è stato possibile preparare delle raccomandazioni generalizzabili a dei gruppi ampi di pazienti, che, supportate dai dati disponibili, si sono rivelate meno restrittive di quanto fatto in passato.

❱ Il Medico di Medicina generale è spesso la prima figura di riferimento per gli individui con una patologia cardiovascolare. Ci sono consigli che trova utile rivolgere agli MMG in relazione ai pazienti che intendono raggiungere altitudini elevate? I MMG svolgono un ruolo cardine nella gestione cronica dei pazienti cardiovascolari, e spesso sono i primi interlocutori del paziente che desideri recarsi in quota. Trattandosi però di un argomento molto specialistico e in parte controverso, con l’eccezione dei pazienti con delle condizioni cardiovascolari severe o instabili, per i quali è ovviamente sconsigliato


esporsi all’alta quota, e dei pazienti con delle condizioni evidentemente lievi, che non hanno limitazioni all’esposizione, riteniamo opportuno che in tutti gli altri casi la valutazione della sicurezza dell’esposizione alla quota sia fatta in collaborazione con un medico esperto di medicina di montagna (non necessariamente cardiologo). Il consiglio che vorremmo dare ai MMG è di inviare ad ambulatori con esperienza di medicina di montagna i loro pazienti e di condividerne la gestione fornendo informazioni sul loro stato di salute, al fine di garantire una loro esposizione sicura e piacevole alla quota.

❱ Ritiene che siano necessarie o auspicabili ulteriori iniziative per promuovere l’accesso in sicurezza all’alta montagna degli individui con condizioni cardiovascolari? Sicuramente sì. A causa delle difficoltà menzionate in precedenza, l’argomento è ancora dibattuto per numerose patologie, e rimangono numerose domande senza risposta. In particolare, l’effetto e efficacia di diversi farmaci a diverse quote, l’effetto sul cuore dell’esercizio in presenza di ipossia, la risposta dell’organismo alla quote in diverse condizioni patologiche, i tempi ottimali per garantire l’acclimatamento, i fattori che rendono più o meno probabile una risposta negativa, i tempi da rispettare in seguito a interventi chirurgici o eventi acuti, sono tutti argomenti che meritano un approfondimento, con l’obiettivo di rendere la montagna sempre più sicura e accessibile ad un numero più ampio possibile di pazienti cardiovascolari. Sono quindi necessari ulteriori studi condotti con metodologia corretta.

nica nelle regioni alpine, sebbene questa evenienza possa essere una delle cause delle morti improvvise riferite in queste condizioni.

CONCLUSIONI Al fine di promuovere un accesso in sicurezza all’altitudine elevata, alcune società scientifiche di cardiologia, di ipertensione e di medicina di montagna, tra le quali ESC, ESH, SIIA, ISMM e SiMeM hanno messo a punto un documento condiviso con le raccomandazioni cliniche per i soggetti con malattie cardiovascolari preesistenti che intendano raggiungere le località in alta montagna. Alla luce delle evidenze disponibili, un accesso sicuro è possibile per molti di questi pazienti, anche in presenza di condizioni quali ipertensione arteriosa sistemica, cardiopatia ischemica e scompenso cardiaco, purché stabili e ben controllati. Prima di raggiungere quote elevate, è necessario che il paziente valuti con il cardiologo e con il medico curante il proprio stato di salute, gli eventuali adeguamenti della terapia farmacologica che si rendano necessari e le raccomandazioni sull’altitudine raggiungibile e sull’esercizio fisico consentito in quota per la loro condizione. Per meglio definire le implicazioni cardiovascolari dell’esposizione acuta e cronica all’altitudine sono tuttavia necessari ulteriori studi randomizzati controllati in doppio cieco, su campioni di ampiezza adeguata.

BIBLIOGRAFIA 1) Parati G, Agostoni P, Basnyat B et al. Clinical recommendations for high alltitude exposure of individuals with pre-existing cardiovascular conditions. Eur Heart J 2018; 39: 1546-1554. 2) Schmid J, Nobel D, Brugger N et al. Short-term high altitude exposure at 3454 m is well tolerated in patients with stable heart failure. Eur J Heart Fail 2015;17:182-6. 3) Agostoni P, Cattadori G, Guazzi M

et al. Effects of simulated altitudeinduced hypoxia on exercise capacity in patients with chronic heart failure. Am J Med 2000; 109: 450-5. 4) Wu TY, Ding SQ, Liu JL et al. Who should not go high: chronic disease and work at altitude during construction of the Qinghai-Tibet railroad. High Alt Med Biol 2007; 8: 88-107. 5) Bilo G, Villafuerte FC, Faini A et al. Ambulatory blood pressure in untreated and treated hypertensive patients at high altitude: the High Altitude Cardiovascular ResearchAndes study. Hypertension 2015; 65: 1266-72. 6) Jha SK, Anand AC, Sharma V et al. Stroke at high altitude: Indian experience. High Alt Med Biol 2002; 3: 21-7. 7) Niaz A, Nayyar S. Cerebrovascular stroke at high altitude. J Coll Physicians Surg Pak 2003; 13: 446-8. 8) Parati G, Revera M, Giuliano A, Faini A, Bilo G, Gregorini F, Lisi E, Salerno S, Lombardi C, Ramos Becerra C, Mancia G, Salvi P. Effects of acetazolamide on central blood pressure, peripheral blood pressure, and arterial distensibility at acute high altitude exposure. Eur Heart J 2013; 34: 759-766. 9) Caravita A, Faini G, Bilo M, Revera A, Giuliano F, Gregorini J, Rossi FC, Villafuerte P, Salvi P, Agostoni P, Parati G. Ischemic changes in exercise ECG in a hypertensive subject acutely exposed to high altitude. Possible role of a highaltitude induced imbalance in myocardial oxygen supply-demand. Int J Cardiol 2013; 171 (3): e100-102 10) Parati G, Bilo G, Faini A, Bilo B, Revera M, Giuliano A, Lombardi C, Caldara G, Gregorini F, Styczkiewicz K, Zambon A, Piperno A, Modesti PA, Agostoni P, Mancia G. Changes in 24 h ambulatory blood pressure and effects of angiotensin II receptor blockade during acute and prolonged high-altitude exposure: a randomized clinical trial. Eur Heart J 2014; 35: 3113-3121

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Segnalazioni

Conoscere la malattia venosa cronica Una campagna social tutta al femminile a malattia venosa cronica resta sconosciuta sebbene ampiamente diffusa e con sintomi che hanno un significativo impatto sulla qualità della vita, principalmente nelle donne. È quanto emerge da un incontro tenutosi lo scorso 10 aprile a Milano, promosso da Mediolanum Farmaceutici, che aveva l’obiettivo di tracciare l’identikit di questa patologia e sensibilizzare sulle possibilità di prevenzione e sull’importanza di una diagnosi precoce. Sul fronte epidemiologico, i dati non lasciano margine di dubbio: fino all’80 per cento circa della popolazione nei Paesi occidentali presenta una sintomatologia attribuibile a una malattia venosa ovvero senso di pesantezza e gonfiore alle gambe, dolore e indolenzimento, comparsa di capillari e varici. Un ventaglio di segni e sintomi che non hanno solamente un significato estetico, ma sono espressione di una patologia che evolve e tende a peggiorare con l’età. Con la progressione nel tempo si instaura infatti l’insufficienza venosa cronica, condizione clinica gravata dalla comparsa di vene varicose che diventano edemi, poi macchie, ulcere e così via fino agli episodi estremi di trombosi. È evidente dunque, che per contrastarne la progressione diventi prioritario intervenire precocemente, quando si presentano i primi campanelli di allarme della malattia venosa cronica. “La malattia venosa cronica- ha spiegato all’incontro Angelo Santoliquido, del Policlinico Universitario A. Gemelli di Roma- è una patologia causata da disfunzioni nei meccanismi di ritorno del sangue dalla periferia verso i polmoni. Già verso i trent’anni però, complici la gravidanza, la sedentarietà, il sovrappeso unitamente alla predisposizione genetica, le pareti dei vasi cominciano a perdere elasticità e le valvole tendono a dilatarsi, provocando quella serie di sintomi fastidiosi (gonfiore, pesantezza, dolori, crampi) che se non si interviene tempestivamente tendono a progredire e degenerare, fino ad arrivare all’evenienza estrema della trombosi”. Per questo motivo “anche in assenza di segni estetici evidenti, alla presenza di questi disturbi è sempre consigliabile il consulto con uno specialista per una corretta diagnosi della malattia”.

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Campanelli di allarme e disturbi che tuttavia le donne sottovalutano come mostrano i risultati di un’indagine DoxaPharma, condotta su 500 donne tra i 35 e i 45 anni, che sono stati illustrati all’incontro. “Le donne non hanno consapevolezza del significato dei diversi sintomi associati alla malattia venosa: quasi 7 su 10 ignorano che possano essere segnali di una patologia cronica, tant’è che solo il 30 per cento si rivolge al medico per intraprendere un percorso di cura” ha commentato Paola Parenti, vice presidente di DoxaPaharma. “La scarsa conoscenza del problema si scontra però con il peso dei sintomi sulla qualità di vita: ben una donna su due dichiara di aver sofferto o di soffrire di disturbi alle gambe, in particolare gonfiore (37 per cento), presenza di vene varicose (19 per cento), pesantezza (18 per cento), dolore (13 per cento)”. Da qui l’importanza di sensibilizzare le donne sull’importanza dei sintomi precoci della malattia venosa e sull’adozione di un corretto stile di vita, mirato al controllo del peso corporeo sia attraverso un’alimentazione adeguata che attraverso l’esercizio fisico. In presenza di sintomi poi, come ha precisato il prof. Santoliquido “ è necessaria anche la somministrazione di terapie specifiche, mirate non solo al miglioramento sintomatologico, ma che vanno ad agire sui meccanismi di base della disfunzione venosa ovvero l’infiammazione”. Tra i farmaci di provata efficacia clinica rientra il mesoglicano (Prisma®), costituito da una miscela di glicosaminoglicani, componenti fondamentali dell’endotelio. Il farmaco è in grado di nutrire l’endotelio stesso, correggendone le disfunzioni e agendo così sul tono del microcircolo venoso. Informazione sulla malattia venosa, sensibilizzazione sull’importanza della diagnosi precoce e di un percorso di cura tempestivo e consapevole sono anche gli ingredienti dell’iniziativa “Donne in gamba”, una campagna social tutta al femminile che coinvolgerà le piattaforme Facebook e Instagram (#proteggiletuegambe) per dare l’opportunità alle donne di condividere esperienze e scambiarsi consigli per affrontare con grinta e “in gamba” ogni situazione.


e n i l n o

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Meeting annuale ASCO 1-5 giugno 2018 Chicago (USA)

Lo stato dell’arte dell’oncologia Specialisti di tutto il mondo a confronto Aggiungere quantità di vita, ma anche e soprattutto qualità di vita al paziente oncologico. Questo è il “take home message” del meeting annuale ASCO, che si è

L

a ricerca in ambito oncologico procede con passi da gigante, con la sperimentazione di farmaci e strategie terapeutiche innovativi nell’ottica di andare sempre più verso la personalizzazione del trattamento per la maggior parte dei tumori. Strumenti di diagnosi più accurati e la ricerca di biomarcatori specifici sono le sfide che l’oncologia dovrà affrontare nel prossimo futuro, per caratterizzare ogni singolo tumore dal punto di vista genetico e molecolare; e questo perché le terapie siano sempre più su misura e la risposta alle stesse possa essere prevedibile. Nei prossimi anni il trattamento del paziente oncologico sarà sempre più “a bersaglio”, gravato da meno effetti legati alla terapia stessa, affinché possa essere garantita una migliore qualità di vita. Il fine è quello di migliorare sempre più la sopravvivenza, puntando sì alla “quantità di vita”, ma anche e soprattutto alla qualità degli anni aggiunti. Questo è un po’ in sintesi il filo conduttore del meeting, durante il quale ampio spazio è stato dedicato alle novità terapeutiche, in particolare immunoterapia e target therapy. Un contributo di rilievo viene dalla ricerca italiana, in particolare con la presentazione dei risultati dello studio Valentino, coordinato dall’Istituto Nazionale dei Tumori (INT) di Milano, il primo che indaga un regime di mantenimento nel tumore del colon retto, più a misura di pazienti. Il trial ha dimostrato l’efficacia di uno schema terapeu-

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da poco concluso e che ancora una volta ha accolto migliaia di specialisti impegnati nella lotta ai tumori tico di mantenimento che combina l’anticorpo monoclonale anti-EGFR panitumumab con 5-fluorouracile (5FU). Questo consente di ottenere un sensibile miglioramento della qualità di vita dei pazienti, riconducibile alla possibilità di ridurre la tossicità della chemioterapia evitando l’impiego dell’oxaliplatino. Nello studio di Fase II randomizzato sono stati arruolati 229 pazienti selezionati dal punto di vista molecolare (status wild-type dei geni RAS) provenienti da 29 centri, distribuiti sul territorio. Il disegno prevedeva che i pazienti fossero sottoposti a 8 cicli di terapia con panitumumab più Folfox-4 (oxaliplatino, acido folinico, 5-fluorouracile) per essere successivamente randomizzati a una terapia di mantenimento con panitumumab e 5-FU oppure panitumumab in monoterapia. “Lo studio Valentino si è proposto di perfezionare l’utilizzo di trattamenti già disponibili nella pratica clinica, sia dal punto di vista della strategia di trattamento, sia del miglioramento dell’outcome per i pazienti e, in ultima analisi, della loro qualità di vita” ha spiegato Filippo Pietrantonio, coordinatore dello studio all’INT. “L’obiettivo era stabilire quale terapia di mantenimento fosse la più efficace tra la combinazione panitumumab e 5-FU vs panitumumab in monoterapia, riducendo il carico di tossicità dell’oxaliplatino. Finora infatti, esistevano scarsissime evidenze su quale fosse

la strategia di mantenimento con i farmaci anti-EGFR, come panitumumab, in pazienti che ottengono un iniziale controllo di malattia dopo induzione con una chemioterapia standard associata al biologico”. Lo studio dunque ha dimostrato che in mantenimento è possibile evitare al paziente l’esposizione all’oxaliplatino garantendo la medesima efficacia, ma con un guadagno importante in termini di qualità di vita. “È un risultato notevole perché ci dice che possiamo eliminare la componente di tossicità della chemioterapia, mentre la prosecuzione della terapia biologica, nello specifico il panitumumab, consente di prolungare a lungo termine i benefici ottenuti inizialmente” ha concluso Pietrantonio. Migliorare la qualità di vita del paziente oncologico, risparmiando terapie che potrebbero rivelarsi inutili diventa dunque la strategia da perseguire. Per questo motivo, erano molto attesi i risultati presentati nella plenary session del meeting, dello studio TAILORx. Pubblicato in contemporanea sul New England Journal of Medicine, lo studio è stato condotto (in modo indipendente) dal gruppo di ricerca ECOG-ACRIN e dimostra come il test Oncotype DX Breast Recurrence Score® identifichi le donne con tumore al seno iniziale che non traggono alcun beneficio dalla chemioterapia, e possono essere trattate con la sola terapia


endocrina, e quelle per le quali la chemio possa essere un salvavita. Si apre dunque una nuova era. Circa il 50 per cento di tutte le pazienti con Ca. al seno, diagnosticate nel mondo ogni anno, ha un tumore positivo ai recettori ormonali, HER2 negativo, negativo al linfonodo sentinella. TAILORx ha stabilito che la chemio può essere risparmiata in circa il 70 per cento di queste, comprese tutte le donne con età >50 anni con risultati del Breast Recurrence Score® da 0 a 25 e tutte le donne ≤50 anni con risultati del Breast Recurrence Score® da 0 a 15. “TAILORx fornisce la risposta definitiva su come trattare le donne con score da 11 a 25, così come da 0 a 10”, ha dichiarato il primo Autore Joseph A. Sparano. “I risultati forniscono un livello di precisione mai visto prima ed evidenze di altissimo livello a supporto dell’uso di questo test come guida per l’uso della chemioterapia adiuvante in questa popolazione”. “I risultati dello studio hanno una grande rilevanza perché potranno indirizzare con chiarezza la pratica clinica e le linee guida sul trattamento adiuvante del tumore al seno” ha aggiunto PierFranco Conte, dell’Università di Padova. “Definire con maggiore precisione il beneficio della chemioterapia in un setting ampio come quello delle pazienti con un range intermedio 11-25 al test Oncotype DX, che rappresentano circa i 2/3 delle pazienti, è un passo avanti verso una sempre maggiore appropriatezza delle terapie, anche in termini di qualità di vita delle donne in trattamento”. È da sottolineare che il 30 per cento delle pazienti con tumore in fase iniziale trarrà beneficio dalla chemioterapia, comprese le donne di qualsiasi età con score da 26 a 100, e le donne di età inferiore ai 50 anni, nelle quali un modesto beneficio dalla chemio è stato osservato con score da 16 a 20 che gradualmente è aumentato man mano che il punteggio aumentava fino e oltre 25.

Tumore al polmone avanzato: terapie target e immunoterapia aprono nuove speranze Particolare attenzione è stata dedicata ai trattamenti per i pazienti affetti da Ca. polmonare non a piccole cellule (NSCLC) in fase avanzata o metastatica, per i quali si aprono nuove e incoraggianti prospettive. La variante NSCLC rappresenta circa l’85 per cento dei casi, e a oggi costituisce una delle neoplasie più complesse dal punto di vista clinico. Per le target therapies, segnaliamo i risultati di uno studio di fase 3 che ha valutato l’efficacia di alectinib in soggetti NSCLC positivi per il riarrangiamento di ALK (anaplastic lymphome kinasi). I dati mostrano che alectinib in prima linea riduce significativamente il rischio di progressione della malattia o decesso del 57 per cento rispetto a crizotinib (molecola già indicata in prima linea per questa classe di pazienti). La mediana della sopravvivenza libera da progressione nei pazienti trattati con alectinib è più che triplicata rispetto ai pazienti trattati con crizotinib (34,8 mesi vs 10,9 mesi). Inoltre, alectinib ha dimostrato una migliore tollerabilità rispetto a crizotinib, nonostante la maggiore durata del trattamento (27 mesi vs 10,8 mesi). Gli effetti positivi, e duraturi, del trattamento sono emersi nel follow up: i pazienti trattati hanno vissuto per quasi tre anni in assenza di progressione della malattia. Sul fronte delle immunoterapie per il trattamento del tumore al polmone, possiamo citare i risultati di due lavori, relativi ad atezolizumab, un anti-PD-L1 in fase di sperimentazione. Lo studio IMpower 131 ha valutato la combinazione di atezolizumab con la chemioterapia, come trattamento di prima linea per pazienti affetti da NSCLC avanzato squamoso al IV stadio. I risultati ottenuti dimostrano come atezolizumab, in combinazione con carboplatino e nab-paclitaxel, aumenti la sopravvivenza libera da progressione (PFS) del 29 per cento rispetto alla sola chemioterapia (carboplatino e nab-paclitaxel). La PFS a 12 mesi è stata raggiunta dal 24,7 per cento dei pazienti in trattamento nel braccio sperimentale con atezolizumab, il doppio rispetto al braccio di controllo con la sola chemioterapia (12,0 per cento). Il profilo di sicurezza della combinazione è risultato sovrapponibile a quello dei singoli trattamenti e non si sono registrati nuovi eventi con la combinazione. Lo studio di fase 3 IMpower150 ha testato l’aggiunta di atezolizumab a bevacizumab e chemioterapia con carboplatino e paclitaxel (regime standard) in pazienti con NSCLC non squamoso mai trattati. L’analisi a interim dopo 13,5 mesi mostra tassi di sopravvivenza complessiva migliori rispetto a quanto riscontrato con la chemio standard (19,2 mesi rispetto ai 14,7). I benefici osservati con l’aggiunta di atezolizumab sono stati riscontrati anche in due classi di pazienti particolarmente complessi ovvero quelli con metastasi epatiche e quelli con genotipo EGFR/ALK+. Si tratta dei primi risultati incoraggianti che indicano atezolizumab+bevacizumab+chemioterapia come potenziale nuovo trattamento di prima linea. E ciò a fronte di un favorevole profilo rischio-beneficio, come peraltro testimoniato dagli stessi pazienti trattati.

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Novartis

CAR-T, la rivoluzione terapeutica per i tumori

C

hirurgia, chemioterapia e radioterapia. Sono questi i tre pilastri su cui si è retta per molti anni la terapia del cancro. Ora i pilastri sono diventati cinque, perché si sono aggiunte recentemente altre due solide realtà di cura: l’immunoterapia e le terapie mirate. È l’immunoterapia quella che sta ottenendo i risultati più promettenti, in particolare con la tecnica di trasferimento di cellule autologhe (ACT), che sfrutta le cellule immunitarie del paziente. Tra queste, la terapia cellulare CAR, che utilizza linfociti T isolati da leucaferesi: grazie a una sofisticata tecnica, vengono dotati di un frammento di DNA che riproduce sulla loro superficie recettori antigenici chimerici, costituiti da due parti, una dedicata al riconoscimento dell’antigene tumorale e l’altra dedicata dell’attivazione linfocitaria. Le cellule così ingegnerizzate, indicate come CAR-T vengono dapprima espanse e poi reinfuse nell’organismo del paziente, dove

si possono attivare per distruggere specifiche cellule tumorali. La tecnologia CAR-T denominata CTL019, per esempio, approvata dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti nell’agosto del 2017, sfrutta l’antigene CD19, espresso diffusamente sulle cellule B leucemiche. E ha dimostrato la sua efficacia con risultati convincenti su bambini e giovani adulti con leucemia linfoblastica non rispondenti alle cure. Questo quadro promettente ha convinto Novartis a investire nelle terapie cellulari autologhe con l’acquisto di un sito di produzione a Morris Plains, nel New Jersey, dove sono state finora prodotte le cellule necessarie a tutti i pazienti che nel mondo hanno partecipato ai trial dell’azienda. Ma le terapie cellulari richiedono anche un cambio di passo all’industria farmaceutica e biotecnologica e a tutto il sistema sanitario del nostro Paese. “Lavorare tutti insieme sinergica-

Dupilumab promettente nell’asma moderato-grave non controllato Sanofi-Regeneron

S

ono stati da poco pubblicati i risultati di due studi clinici di fase 3 sull’uso sperimentale di dupilumab in pazienti con asma moderatograve. Dupilumab è una molecola che blocca la via di segnalazione di IL-4 e IL-13, citochine chiave nella mediazione dell’infiammazione allergica di tipo 2 nell’asma (e in altre patologie allergiche o atopiche). I trial QUEST e VENTURE fanno parte del programma registrativo, e di fatto mostrano che in aggiunta alle terapie standard, dupilumab in mantenimento ha ridotto significativamente il rischio di riacutizzazioni gravi, migliorato la funzionalità respiratoria e ridotto la dipendenza dai corticosteroidi orali. I benefici maggiori sono stati osservati nei pazienti con la forma più grave di asma infiammatorio di tipo 2, caratterizzato da livelli elevati di eosinofili nel sangue o di NO esalato. Ricordiamo che dupilumab lo scorso anno è stato autorizzato dall’Ema per il trattamento di adulti con dermatite atopica da moderata a grave, candidati alla terapia sistemica.

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mente – aziende, istituzioni, società scientifiche e rete ospedaliera – rappresenta per Assobiotec una priorità: è indispensabile dunque trovare nuovi modelli di accesso alle terapie”, ha dichiarato Luigi Boano, general manager di Novartis Oncology, a latere del convegno “Ricerca e innovazione biotecnologica nella lotta contro il cancro siamo già nel futuro”, tenutosi recentemente a Roma.

Bayer

Conferme dalla “real life” per rivaroxaban nell’anziano fragile con FANV

N

otoriamente la fragilità è uno stato clinico riscontrato prevalentemente negli anziani, che ne rende più difficile la ripresa da eventi cardiovascolari (CV) e li rende vulnerabili a esiti peggiori. Tale stato poi, può essere ulteriormente aggravato dalla presenza di fibrillazione atriale non valvolare (FANV), tanto che le stime indicano come chi è affetto da FANV abbia un rischio quattro volte superiore di andare incontro a fragilità. Una relazione pericolosa dunque, che tuttavia dal punto di vista del trattamento non merita ancora un’attenzione adeguata. Allo stato attuale non c’è consenso diffuso sul miglior modo di gestire la terapia anticoagulante in questa particolare classe di pazienti e ciò spiega perché alcuni soggetti nella pratica clinica non vengano trattati e restino ad alto rischio di ictus. Acquistano particolare valenza pertanto i dati derivanti da un ampio studio in real life, pubblicato sul Journal of the American Heart As-


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sociation, condotto negli Stati Uniti in soggetti trattati per un periodo di 2 anni con rivaroxaban, apixaban, dabigatran e warfarin. Il risultato è stato che il trattamento con rivaroxaban ha comportato un rischio ridotto di ictus ed embolia sistemica del 32 per cento e di ictus ischemico del 31 per cento, rispetto a quanto osservato per i pazienti trattati con warfarin. La terapia a lungo termine dunque, ha prodotto importanti benefici in

termini di prevenzione di eventi in questa popolazione di pazienti vulnerabili, senza aumentare il rischio d’emorragia maggiore. Nella popolazione dello studio, né il trattamento con apixaban e nemmeno quello con dabigatran hanno ridotto il rischio di ictus o di embolia sistemica rispetto a warfarin. Si tratta di indicazioni preziose per il clinico al fine di impostare e gestire al meglio la terapia in questi pazienti.

Tumore del rene: incoraggianti risultati di sopravvivenza dalla terapia con cabozantinib Ipsen

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remila e 400 nuove diagnosi ogni anno, per un quarto riconducibili al sovrappeso. Sono queste le cifre epidemiologiche del tumore del rene, le cui prospettive terapeutiche finora sono rimaste limitate. Le speranze di un cambiamento sono ora legate alle terapie mirate, basate sull’anti-angiogenesi. Risultati particolarmente incoraggianti sono stati ottenuti con cabozantinib, farmaco sviluppato da Ipsen e approvato nel marzo scorso dalla Commissione Europea, al dosaggio di 20 mg, 40 mg e 60 mg, per il trattamento di prima linea di pazienti adulti con carcinoma a cellule renali (RCC) avanzato a rischio “intermediate” o “poor”. “Storicamente, in questa neoplasia, la chemioterapia e la radioterapia si sono dimostrate poco efficaci” ha spiegato Giuseppe Procopio, responsabile del reparto di Oncologia Medica genitourinaria della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei tumori di Milano, nel corso della recente presentazione del farmaco. “Nei pazienti con neoplasia in fase metastatica, i farmaci a bersaglio molecolare hanno permesso di allungare la sopravvivenza di oltre due anni”. In uno studio di fase III su pazienti affetti da carcinoma a cellule renali in seconda linea, cabozantinib ha mostrato miglioramenti clinicamente significativi nei parametri di efficacia più importanti: sopravvivenza globale, sopravvivenza libera da progressione e tasso di risposta obiettiva. “Questi passi in avanti hanno avuto un impatto positivo sulla qualità della vita dei pazienti”, ha spiegato Camillo Porta, dell’Oncologia medica della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia. “Nello studio METEOR, che ha portato all’approvazione della molecola e ha coinvolto 658 pazienti, il vantaggio è stato particolarmente evidente: 5 mesi in più di sopravvivenza globale rispetto a everolimus, attuale standard di cura per questa patologia (21,4 mesi contro 16,5 mesi). La riduzione del rischio di progressione è stata del 49 per cento e il tasso di risposta obiettiva è stato del 17, contro il 3 per cento di everolimus”. “I vantaggi di questi trattamenti in termini di sopravvivenza e qualità di vita possono avere un impatto decisivo anche per il reinserimento sociale e lavorativo: il bisogno di salute del paziente con una diagnosi di neoplasia è superiore a quello della popolazione generale”, ha concluso Maurizio Limitone, della Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (FAVO). “Inoltre, questo bisogno persiste per lungo tempo, alla luce delle caratteristiche peculiari delle patologie oncologiche”.

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Sandoz

Via libera dell’AIFA al biosimilare di rituximab

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n un periodo in cui si fa tanto parlare della sostenibilità del sistema sanitario, è sicuramente da valutare positivamente l’arrivo sul mercato di sempre nuovi farmaci biosimilari. Uno degli ultimi in ordine di tempo è il biosimilare di rituximab sviluppato da Sandoz per il trattamento di alcune malattie ematologiche (linfoma non-Hodgkin e leucemia linfatica cronica) e immunologiche (artrite reumatoide). Dopo l’approvazione dell’EMA, anche AIFA ha dato via libera alla commercializzazione del preparato, sulla base dei dati di ASSIST-FL, uno dei più ampi studi su anticorpi monoclonali mai condotto in campo ematologico. “I dati di comparazione dello studio ASSIST-FL su pazienti con linfoma follicolare in stadio avanzato non precedentemente trattati hanno dimostrato l’equivalenza terapeutica del farmaco rispetto a rituximab di riferimento in termini di efficacia, sicurezza e tollerabilità”, ha spiegato Pier Luigi Zinzani, professore associato di ematologia dell’Università di Bologna. “In definitiva, i biosimilari rappresentano una valida alternativa terapeutica per tutti i pazienti e sono uno straordinario strumento di cura e al contempo di governance”. Un grosso passo avanti per il riconoscimento del valore e dell’efficacia dei biosimilari in diversi ambiti terapeutici si è avuto anche grazie al secondo position paper, di AIFA, pubblicato di recente, che chiarisce molti aspetti scientifici, regolatori e normativi relativi all’utilizzo di questi farmaci. “Le autorità regolatorie confermano che il rapporto beneficio-rischio dei biosimilari si mantiene positivo tanto quanto il farmaco originatore di riferimento”, ha aggiunto Fabri-


zio Condorelli, professore associato dell’Università del Piemonte orientale. “Il posizionamento dell’Agenzia del farmaco riconosce i biosimilari come farmaci eqiuparabili ai farmaci originatori biologici di riferimento per efficacia, qualità e sicurezza, sia per pazienti naïve sia per pazienti già in trattamento”. La speranza è dunque che l’introduzione del biosimilare di rituximab porti a un maggiore accesso alle cure in un ambito cruciale come quello delle malattie ematologiche.

Celgene

Up to date sulle neoplasie mieloidi

L

o scorso 29 maggio alcuni tra i più importanti specialisti italiani si sono riuniti a Milano per discutere dei progressi compiuti, e del futuro, nell’ambito delle sindromi mielodisplastiche (SMD) e della leucemia mieloide acuta (LMA). Patologie per le quali appena 10 anni fa non vi erano possibilità di cura. I risultati raggiunti negli ultimi anni con i farmaci ipometilanti hanno posto le basi per lo studio di nuove molecole dal meccanismo mirato. Questo in sintesi il filo dell’incontro, realizzato con il patrocinio delle principali associazioni e società scientifiche coinvolte, e con il supporto di Celgene. SMD e LMA sono patologie affini. Le SMD possono infatti evolvere in LMA, e quasi il 20 per cento dei casi di LMA è preceduto da una sindrome mielodisplastica. Nelle SMD ad alto rischio l’ipometilazione ha dimostrato di essere un valido meccanismo di azione per il controllo della malattia e l’aumento della sopravvivenza. “Nelle SMD ad alto rischio, l’efficacia di azacitidina è ampiamente comprovata da studi clinici e dati di real life; oggi i pazienti, anche anziani e con comorbidità, hanno a disposizione un’opportunità di trattamento e miglioramento della qualità di vita nel

percorso della malattia”, ha spiegato Esther Natalie Oliva, del Grande Ospedale Metropolitano di Reggio Calabria. Nella LMA per oltre 40 anni la pratica clinica ha utilizzato la chemioterapia. Grazie allo studio del genoma delle cellule tumorali è stato possibile comprendere che i reali meccanismi patogenetici risiedono nell’epigenetica. “L’azacitidina interferisce con alcuni meccanismi che accompagnano l’evento leucemico”, ha puntualizzato Felicetto Ferrara, dell’Ospedale A. Cardarelli di Napoli. “Grazie al profilo favorevole di efficacia e tollerabilità di questo farmaco, è oggi possibile sottoporre i pazienti con LMA over 65 anni a un trattamento che permette di controllare la malattia, anche per lunghi periodi. I pazienti anziani con LMA arrivano al trapianto in non oltre il 10 per cento dei casi: trattandosi di soggetti con comorbidità e nella maggior parte dei casi con profili citogenetici sfavorevoli, non possono essere curati con la chemioterapia classica; per questo azacitidina rappresenta un’importante opportunità di trattamento”. E in prospettiva “Nelle forme di leucemia guidate da una mutazione specifica saranno disponibili inibitori specifici da utilizzare come agente singolo o in combinazione con chemioterapia”, ha concluso Ferrara.

Janssen

Nuove speranze per la depressione farmaco-resistente

Q

uasi 300 milioni di persone di tutte le età nel mondo. Questi i numeri del disturbo depressivo maggiore, una tra le principali cause di disabilità e sofferenza. Esiste un ampio ventaglio di trattamenti antidepressivi, tuttavia in circa un terzo dei casi si registra una mancata risposta agli stessi. Nuove prospettive vengono offerte da esketamina, un modulatore del recettore per il glutammato sperimentale, in formulazione intranasale. In uno studio a lungo termine sulla prevenzione delle ricadute, il proseguimento della terapia con esketamina in aggiunta a un antidepressivo orale oltre le 16 settimane ha dimostrato una superiorità statisticamente significativa rispetto al trattamento con un antidepressivo orale+placebo nel ritardare la ricomparsa dei sintomi. Inoltre, in pazienti in remissione stabile, il trattamento con esketamina+antidepressivo ha ridotto il rischio di ricaduta del 51 per cento vs antidepressivo+placebo. Gli eventi avversi più frequenti nella fase di mantenimento sono stati temporanea alterazione del gusto, vertigini, dissociazione, sonnolenza e capogiro. Lo schema di associazione è risultato ben tollerato dopo somministrazione ripetuta a lungo termine, fino a un anno.

takeda Vedolizumab si rivela più sicuro

degli anti-TNF nei pazienti con IBD

L’

anticorpo monoclonale vedolizumab (VDZ) è indicato per il trattamento dei pazienti con colite ulcerosa (CU) moderata o grave, e malattia di Crohn (MC). Ai risultati sul profilo di efficacia e tollerabilità del farmaco già disponibili, si aggiungono ora nuovi dati dalla real life che ne avvalorano ulteriormente la sicurezza, nel confronto con gli antagonisti del TNFalfa. L’analisi è stata effettuata sui dati raccolti dal consorzio VICTORY, e ha considerato 872 pazienti con CU e MC. Nello specifico, è stata osservata una diminuzione del 6,9 per cento delle infezioni gravi nei pazienti trattati con VDZ rispetto al 10,1 del gruppo trattato con anti-TNFalfa, e tassi significativamente più bassi di eventi severi (7,1 vs 13,1 per cento). Questi risultati sono stati resi noti in occasione del Digestive Disease Week (2-5 giugno scorso) di Washington.

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L’intestino, un ecosistema complesso da cui parte il nostro benessere psico-fisico Noi e il nostro intestino. Curare i disturbi e ritrovare l’equilibrio. Con questo titolo esce il nuovo libro a cura di Enrico Stefano Corazziari, edito da Aboca. Agile e coinvolgente si propone di affrontare in maniera più consapevole i disturbi intestinali e in particolar modo la sindrome dell’intestino irritabile (IBS). L’Autore fa emergere attraverso il dialogo tra medico e paziente i sintomi della patologia al fine di facilitare l’individuazione e il trattamento di una malattia così complessa. E poi, punta l’attenzione su quello che non può essere ritenuto un “semplice” organo, bensì un ecosistema complesso in comunicazione con tutto l’organismo umano. Nella prima parte l’Autore ripercorre il vissuto di alcune persone affette da IBS cheraccontano come a seguito di stress

e/o eventi traumatici nel corso della loro vita, hanno modificato la propria attività di evacuazione. Da questa condizione sono emerse diverse espressioni cliniche della malattia quali: gonfiore addominale, crampi, dolori, a volte associate a diarrea o stipsi, o in alcuni casi diarrea e stipsi in maniera alternata. Il cuore del libro affronta l’IBS, dal punto di vista patologico ed ecco che appare tutto più chiaro. Tutti conosciamo l’intestino come un lungo tubo in cui scorrono cibo, batteri, funghi e virus che vanno a comporre la flora microbica, ma è molto più di questo: la sua è una struttura decisamente complessa. Basti pensare che dopo la pelle, la

parete di rivestimento dell’intestino è l’entità più esposta agli agenti esterni; ogni volta che la permeabilità di questa barriera intestinale si modifica, perdendo il suo fisiologico equilibrio, i vari agenti offensivi attivano da una parte la risposta immunitaria e dall’altra stimolano le fibre nervose determinando dolore, sintomo dominante e caratteristico dell’IBS che deve determinare uno stato di allarme e ipervigilanza nel paziente. Non poteva mancare una parte dedicata all’alimentazione, dal momento che “Noi siamo quello che mangiamo o più in verità ciò che assorbiamo!”.

Sulle malattie infettive cala l’ombra delle resistenze batteriche

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ally C. Davis, direttore sanitario generale dell’Inghilterra, è l’Autrice di questo volume insieme all’economista (e medico) Jonathan Grant e al direttore dell’unità di controllo delle malattie infettive del Public Health England, Mike Catchpole. Insieme hanno unito le loro competenze e il risultato è eccellente: un volume che con molta semplicità, ma allo stesso tempo dai contenuti di elevatissimo livello scientifico, affronta una minaccia per la nostra società, ovvero la questione delle resistenze batteriche. Un tema di cui si parla sempre più spesso, ma forse non abbastanza, tanto che in un futuro nemmeno molto lontano potremmo rischiare concretamente di perdere la lotta contro le malattie infettive. Oggi si dà per scontata l’efficacia dei farmaci antibatterici e antimicrobici. Forse però negli ultimi decenni ne abbiamo abusato o ne abbiamo fatto un uso improprio, e ora assistiamo con preoccupazione crescente a un fenomeno inaspettato, al fatto cioè che i virus e i batteri sono sempre più resistenti alle medicine. Un dato riassume bene la situazione: attualmente, in Europa i virus resistenti ai farmaci uccidono ogni anno 25mila persone. Una cifra impressionante, molto vicina al numero

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di decessi per incidenti stradali. La situazione sembra sfuggire di mano, e dunque è proprio arrivato il momento di prenderne atto, anche se gli scienziati da tempo hanno individuato la questione e stanno lavorando a strategie in grado di arginare il fenomeno. Al Gore nel suo celebre documentario del 2006, “Una scomoda verità”, così rifletteva “È facile sentirsi sopraffatti, impotenti, scettici che gli sforzi singoli possano davvero cambiare le cose. Ma davanti a queste emozioni noi dobbiamo essere più forti, perché questa crisi potrà essere risolta soltanto se noi, in quanto singoli individui, ce ne assumiamo la responsabilità. Educando noi stessi e gli altri, facendo ognuno la propria parte…è così che possiamo fare la differenza”. Ciò che tutti noi, medici, scienziati, politici, cittadini possiamo e abbiamo il dovere di fare viene suggerito, scorrendo le pagine di questo volume.


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