Medico e paziente 5 18

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MP Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLIV n. 5 - 2018

DISLIPIDEMIE

Lo screening “universale”, una strategia vantaggiosa sotto il profilo costo/efficacia

Trattamento con inibitori PCSK9 in soggetti a differenti livelli di rischio CV

CARDIOLOGIA

CASO CLINICO Endocardite infettiva a localizzazione atipica in una giovane paziente

Significato clinico e prognostico dell’ipertensione sistolica isolata nel giovane

IPERTENSIONE Le nuove raccomandazioni europee per la diagnosi e il trattamento

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EPATITE C


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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012

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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

MP

Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

> Domenico D’Amico

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5.2018

sommario

L’European Society of Cardiology e l’European Society of Hypertension hanno redatto la nuova versione delle Linee guida per la diagnosi e il trattamento dell’ipertensione arteriosa. L’edizione 2018 arriva a distanza di cinque anni dalla precedente e introduce importanti novità. L’obiettivo è invertire due trend sfavorevoli ovvero la mancata assunzione di una terapia prescritta (accade in oltre la metà dei pazienti ipertesi nel Vecchio Continente) e il conseguente allontanamento dal controllo pressorio. E tutto ciò nonostante vi sia la consapevolezza che l’ipertensione sia il principale fattore di rischio cardiovascolare modificabile e la disponibilità di trattamenti efficaci e ben tollerati. In questo numero del nostro giornale, abbiamo approfondito la questione con l’aiuto del professor Giuseppe Mancia co-chairman del documento e coordinatore della task force che ha partecipato all’elaborazione delle Linee guida

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medicina/Case report

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Come cambia la gestione dell’ipertensione alla luce delle nuove raccomandazioni Intervista a Giuseppe Mancia A cura di Folco Claudi

caso di endocardite infettiva a

Letti per voi medicina/cardiologia Ipertensione sistolica isolata nel giovane Prevalenza, significato clinico e prognostico

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Il fenomeno dell’ISH si può riscontrare anche

medicina/Dislipidemie

tra i soggetti giovani, ma il suo significato

Francesca Saladini, Claudio Fania, Lucio Mos,

Trattamento con inibitori PCSK9 in pazienti a differenti livelli di rischio CV Una revisione sistematica e una metanalisi

Ologa Vriz, Andrea Mazzer, Guido Garavelli,

I farmaci inibitori di PCSK9 sono

Edoardo Casiglia, Paolo Palatini

di recente introduzione nel

clinico, i meccanismi che lo sottendono e l’eventuale trattamento da attuare in questa classe di pazienti sono tuttora controversi

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Approfondimenti

trattamento delle dislipidemie. Il lavoro qui presentato offre una panoramica, basata sulla revisione

Diagnosi e trattamento dell’ipertensione Le nuove linee guida ESH/ESC

della letteratura, sul profilo

A cura di Folco Claudi

Matteo B. Suter

di beneficio-rischio di queste

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Un’insolita vegetazione endocarditica Dedichiamo queste pagine alla presentazione di un interessante localizzazione atipica, in una paziente giovane con patologia oncologica Giuseppe Macca, Salvatore D’Isa

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Segnalazioni Disturbo d’ansia generalizzato Valutazione degli effetti di un approccio integrato fitoterapia-psicoterapia

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Farminforma

molecole

MEDICO e PAZIENTE | 5.2018 |

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Numero 5.2018 - anno XLIV

MP

Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel. 02 4390952 - Fax 02 56561838 info@medicoepaziente.it

Direttore editoriale Anastassia Zahova Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Folco Claudi, Piera Parpaglioni, Cesare Peccarisi

Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. R.O.C. N° 10464. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.

Comitato scientifico

Redazione WEB Alessandro Visca Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino

Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna

Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Hanno collaborato a questo numero: Edoardo Casiglia, Salvatore D’Isa, Claudio Fania, Guido Garavelli, Giuseppe Macca, Giuseppe Mancia, Andrea Mazzer, Lucio Mos, Paolo Palatini, Francesca Saladini, Matteo B. Suter, Ologa Vriz Foto di copertina: 123RF Archivio Fotografico Direttore responsabile Sabina Guancia Scarfoglio

Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM Prof. Rocco Maurizio Zagari Professore associato di Gastroenterologia, Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche (DIMEC), Università di Bologna

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Gastroenterologia

Appendicite acuta non complicata: il trattamento antibiotico potrebbe rappresentare una valida alternativa alla chirurgia

Q

ual è il tasso di recidiva a lungo termine in pazienti con appendicite acuta non complicata trattati con antibiotici? È da questo quesito rimasto finora senza risposta, che sono partiti gli Autori di questo studio osservazionale di cinque anni multicentrico, randomizzato, denominato APPAC. Condotto in Finlandia, il trial ha coinvolto 530 soggetti (201 donne 329 uomini) di età compresa tra 18 e 60 anni, con appendicite acuta non complicata confermata alla tomografia computerizzata che sono stati randomizzati a sottoporsi ad appendicectomia (N = 273) o a una terapia antibiotica (N = 257) con ertapenem per endovena per tre giorni, seguiti da 7 giorni di levofloxacina e metronidazolo. Dall’analisi dei dati raccolti è emerso che l’incidenza cumulativa

di recidive di appendicite a 2, 3, 4 e 5 anni è stata del 34,0 , 35,2, 37,1 e 39,1 per cento rispettivamente. A cinque anni, il tasso complessivo di complicanze (infezioni del sito chirurgico, ernie incisionali, dolore addominale e sintomi ostruttivi) è stato del 24,4 per cento nel braccio trattato con appendicectomia e del 6,5 per cento nel braccio trattato con antibiotici. Non sono state rilevate differenze tra i due gruppi in termini di durata del ricovero ospedaliero, ma c’era una differenza significativa nel congedo lavorativo per malattia (11 giorni in più in media per il braccio trattato con appendicectomia). Secondo le conclusioni degli Autori, questo follow-up a lungo termine supporta l’uso del trattamento antibiotico come alternativa alla

Q

chirurgia nell’appendicite non complicata. Sullo stesso numero di JAMA in cui è apparso l’articolo, è stato pubblicato anche un editoriale di commento sui suoi risultati, data la loro rilevanza per la pratica clinica. L’Autore ED Livingstone sottolinea come nel 2015 i risultati del trial abbiano sollevato immediatamente alcune critiche, in particolare sul fatto che lo studio non è riuscito a soddisfare il suo margine di non inferiorità prespecificato, e quindi non ha dimostrato che il trattamento antibiotico ha prodotto esiti clinici “non peggiori” dei risultati dell’approccio chirurgico. Inoltre, gli Autori hanno considerato interventi a cielo aperto e non in laparoscopia, sono stati usati costosi antibiotici ad ampio spettro e le durate dei ricoveri ospedalieri erano troppo lunghe in ciascun gruppo (con un valore mediano di tre giorni nel gruppo antibiotico e nel gruppo operatorio). Nonostante i limiti dello studio, dei 257 pazienti compresi nel gruppo antibiotico, 186, cioè il 73 per cento, non hanno richiesto un intervento

uesto studio prospettico di coorte è stato disegnato allo scopo di valutare prevalenza e incidenza annuale della depressione in pazienti con diagnosi di diabete mellito di tipo 2 e identificare fattori sociodemografici, clinici e psicologici associati alla depressione in questa popolazione. La prima unità di reclutamento comprendeva 3.443 soggetti, la seconda 727 nuovi pazienti. I dati sono stati raccolti dal 2007 (visita di riferimento) e annualmente durante il periodo di follow-up (dal 2008). La prevalenza di depressione tra i pazienti con diabete è risultata pari al 20,03 per cento (n =592) ed era associata a precedenti anamnesi di depressione personale (OR 6,482), stato di salute mentale peggiore della media (OR 1,423), neuropatia (OR 1,951), condizioni di salute riferite mediocri o scadenti (OR 1,509), trattamento con agenti antidiabetici orali più insulina (OR 1,802), sesso femminile (OR 1,333) e livelli di colesterolo nel sangue (OR 1,005). Sono risultate inversamente associate alla depressione le seguenti variabili: impiego lavorativo (OR 0,595), basso livello di attività fisica (OR 0,552), pressione arteriosa sistolica (OR 0,982) e supporto sociale (OR 0,978). Nei pazienti senza patologia depressiva al basale, l’incidenza della stessa dopo un anno di follow-up era pari all’1,20 per cento. I risultati dello studio hanno permesso di concludere che la depressione è molto diffusa tra i pazienti con diabete di tipo 2 ed è associata a diversi esiti correlati al diabete. Inoltre, il grado di depressione risulta essere correlato allo stato mentale precedente, allo stato di salute auto-riferito, al genere e a diverse complicazioni legate al diabete. Da qui l’importanza di indagare la presenza di patologia depressiva nella popolazione diabetica.

epidemiologia

La depressione risulta di frequente riscontro tra la popolazione diabetica, e il suo grado correla con diverse variabili, tra cui le complicanze del DT2

● Salinero-Fort MA, Gómez-Campelo P et al. BMJ Open 2018; 8(9): e020768

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chirurgico a un anno. Tuttavia, alcuni commentatori hanno obiettato che l’intervento avrebbe potuto rendersi necessario nel seguito. Vari esperti, infine, avevano raccomandato che i risultati APPAC per il processo decisionale clinico non fossero utilizzati fino a quando non fossero noti i risultati a lungo termine per

i pazienti sottoposti a trattamento antibiotico. I risultati a cinque anni appena pubblicati sembrano fugare molti dei dubbi sollevati negli anni passati. ● Salminen P, Tuominen R et al. JAMA 2018; 320(12): 1259-65 Livingstone ED. JAMA 2018; 320(12): 1245-46

Cardiologia

Quale associazione tra infarto miocardico non riconosciuto ed esiti a lungo termine in adulti anziani istituzionalizzati: le indicazioni dello studio ICELAND MI

Q

uesto studio di coorte, prospettico, denominato ICELAND MI è stato disegnato per determinare gli esiti a lungo termine dell’infarto miocardico clinicamente non riconosciuto, diagnosticato mediante risonanza magnetica cardiaca (RMC). Sono stati coinvolti 935 soggetti (età 67-93 anni, per il 48,3 per cento uomini) suddivisi al basale in tre categorie (senza infarto, infarto clinicamente non riconosciuto e diagnosticato mediante RMC, infarto riconosciuto clinicamente, con età medie di 75,6 anni, 76,8 anni e 76,8 anni, rispettivamente), seguiti per 13,3 anni. Gli Autori hanno utilizzato l’analisi tempo/evento di Kaplan-Meier e la regressione di Cox per valutare la correlazione dell’appartenenza a una delle tre categorie con decesso e futuri eventi cardiovascolari. L’outcome primario era la mortalità per tutte le cause; gli outcome secondari erano un composito di eventi cardiaci avversi maggiori (MACE: morte, infarto miocardico non fatale e scompenso cardiaco). Secondo le analisi a 3 anni, i tassi di mortalità per i senza infarto e per

gli infarti non riconosciuti erano simili (3 per cento) e inferiori ai tassi del gruppo degli infarti riconosciuti (9 per cento). A 5 anni, i tassi di mortalità del gruppo con infarto non riconsociuto sono aumentati fino al 13 per cento, risultando quindi più elevati che nel gruppo senza infarto (8 per cento), ma ancora inferiori ai tassi del gruppo con infarto clinicamente rilevato (19 per cento). A 10 anni, i tassi di mortalità dei gruppi con infarto non riconosciuto e infarto riconosciuto erano del 49 e del 51 per cento, rispettivamente, quindi entrambi erano significativamente più alti rispetto al gruppo senza infarto (30 per cento). Dopo aggiustamenti per età, sesso e diabete, l’infarto non riconosciuto è risultato associato a un aumento del rischio di morte (HR 1,61), MACE (HR 1,56), infarto miocardico (HR 2,09) e insufficienza cardiaca (HR 1,52) rispetto ai senza infarto, e statisticamente non differente dagli infarti riconosciuti clinicamente sia in termini di mortalità (HR 0,99) sia in termini di MACE (HR 1,23). Secondo le conclusioni degli Autori, in questo studio la

mortalità per tutte le cause tra i soggetti con infarto del miocardio non riconosciuto è risultata più elevata che tra quelli senza infarto, ma entro 10 anni dal basale la valutazione era equivalente a quanto riscontrato nel gruppo con infarto clinicamente riconosciuto. L’infarto miocardico non riconosciuto è risultato associato anche a un elevato rischio di infarto non fatale e scompenso cardiaco. Occorreranno ulteriori studi prospettici per determinare se la prevenzione secondaria possa essere in grado di alterare la prognosi. ● Acharya T, Aspelund T et al. JAMA Cardiol 2018, Oct 10. doi: 10.1001/ jamacardio.2018.3285. [Epub ahead of print]

farmacoeconomia

Una strategia di screening “universale” per l’epatite C si delinea vantaggiosa sotto il profilo costoefficacia: i risultati di uno studio francese

I

n Europa, lo screening per il virus dell’epatite C (HCV) si rivolge ancora alle persone ad alto rischio di infezione, ma sarebbe di estremo interesse determinare il rapporto costo-efficacia di un programma di prevenzione esteso. Gli Autori l’hanno valutato in questo studio, limitatamente alla Francia, utilizzando un modello di Markov per simulare la prevalenza, l’incidenza di eventi, gli anni di vita aggiustati per la qualità (QALY) dell’epatite C cronica, costi e rapporto costoefficacia incrementale (ICER) nella

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popolazione generale francese, di età compresa tra 18 e 80 anni, in assenza di diagnosi per epatite C cronica. Sono state simulate diverse strategie: la prima (S1) corrispondeva alla strategia attuale, che si rivolge alla popolazione a rischio; la seconda (S2) che aggiunge a S1 tutti gli uomini tra i 18 e i 59 anni; la terza (S3) aggiunge a S1 tutti gli individui tra 40 e 59 anni; la quarta (S4) che aggiunge a S1 tutti gli individui tra 40 e 80 anni; la quinta (S5) che aggiungendo tutti gli individui tra i 18 e gli 80 anni, corrisponde allo screening universale. Una volta diagnosticata l’epatite C, il trattamento è stato avviato sia nei pazienti con fibrosi, in stadio

≥F2 che indipendentemente dalla presenza di fibrosi. I dati sono stati estratti dalla letteratura pubblicata, da un’indagine sulla prevalenza nazionale e da un modello matematico pubblicato in precedenza. L’ICER è stato interpretato sulla base di una o tre volte il PIL pro capite francese (32.800 euro). Secondo l’analisi dei dati, lo screening universale ha portato alla prevalenza e all’incidenza di epatite C più basse, indipendentemente dall’inizio del trattamento. Quando si considera l’inizio del trattamento per i pazienti con fibrosi ≥F2, avere come target tutte le persone di età compresa tra 40 e 80 anni era l’unica strategia economicamente vantaggiosa per entrambe

le soglie di ICER. Quando si considera il trattamento per tutti, anche se è associato ai costi più elevati, lo screening universale di tutti gli individui di età compresa tra i 18 e gli 80 anni è più efficace che avere come target tutte le persone di età compresa tra 40 e 80 anni ed economicamente vantaggioso a entrambe le soglie di ICER. In Francia, lo screening universale sarebbe dunque la strategia di screening più efficace per l’HCV. Lo screening universale è conveniente quando si inizia il trattamento indipendentemente dallo stadio di fibrosi. ● Deuffic-Burban S, Huneau A et al. Journal of Hepatology 2018; 69(4): 785–92

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medicina

Cardiologia

Ipertensione sistolica isolata nel giovane Prevalenza, significato clinico e prognostico Il fenomeno dell’ISH si può riscontrare anche tra i soggetti giovani, ma il suo significato clinico, i meccanismi che lo sottendono e l’eventuale trattamento da attuare in questa classe di pazienti sono tuttora controversi Francesca Saladini1-2, Claudio Fania1, Lucio Mos3, Ologa Vriz3, Andrea Mazzer4, Guido Garavelli5, Edoardo Casiglia1, Paolo Palatini1 1. Dipartimento di Medicina, Università degli Studi di Padova; 2. Cardiologia, Ospedale di Camposampiero; 3. Ospedale di San Daniele del Friuli, Udine; 4. Medicina, Ospedale di Vittorio Veneto, Treviso; 5. Cardiologia, Ospedale di Cremona.

L’

ipertensione sistolica isolata (ISH), definita come pressione arteriosa sistolica (PAS) ≥140 mmHg, e pressione arteriosa diastolica (PAD) <90 mmHg (1), è la forma di ipertensione prevalente nella popolazione anziana, dovuta all’irrigidimento delle arterie e alla riduzione della compliance arteriosa, fenomeni correlati all’invecchiamento. In questa classe di età è ben riconosciuto il suo valore prognostico negativo, in quanto questa forma di ipertensione si associa allo sviluppo di malattia cardiovascolare e renale come chiaramente dimostrato dai dati della letteratura (2-4). La caratteristica tipica dei soggetti con ISH è un’elevata pressione differenziale (PP) e il ruolo di questo parametro è stato riconosciuto per la prima volta nelle linee guida europee per il trattamento dell’ipertensione arteriosa del 2013, dove è stato inserito tra gli indici di danno d’organo subclinico (1). In particolare una PP >60 mmHg è stata identificata come patologica, tuttavia viene specificato dagli Autori stessi come questo sia un valore di riferimento valido solo per i soggetti anziani. Infatti il ruolo clinico di un’elevata PP nei soggetti giovani è tutt’ora molto controverso. Un precedente lavoro pubblicato da Sesso et al. (5) nel 2000 confrontava il ruolo della pressione arteriosa media e della PP come predittori di malattia cardiovascolare nel lungo termine, differenziando i risultati tra soggetti giovani e anziani. Mentre la pressione arteriosa media risultava un predittore prognostico sfavorevole in entrambi i gruppi di età, l’incremento di PP si associava ad un rischio aumentato di malattia cardio-

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vascolare solo nei soggetti più anziani (≥60 anni), mentre nei più giovani (<60 anni) all’aumentare della PP non vi era alcun incremento significativo del rischio (Figura 1). Il fenomeno della ISH è quindi presente anche nel soggetto più giovane, in particolare di sesso maschile, come riportato in diversi lavori della letteratura (6-9), tuttavia il suo significato clinico, i meccanismi che lo sottendono e l’eventuale trattamento da attuare in questi pazienti sono ancora molto controversi.

Prevalenza dell’ISH La presenza dell’ISH nella popolazione generale mostra una tipica distribuzione a curva J: un primo picco intorno ai 30 anni, un nadir in prevalenza intorno alla 5^decade di età a cui segue un rapido aumento di prevalenza dopo la 7^ decade (6-7). Altro dato interessante è una diversa prevalenza in base al genere: nell’anziano il fenomeno prevale nel sesso femminile, mentre nei soggetti più giovani è più frequente nel maschio rispetto alla femmina, con una differenza più marcata in particolare nelle classi di età più giovani (6-7). Un recente lavoro statunitense ha valutato la prevalenza dell’ISH nell’ambito dello studio NHANES (National Health and Nutrition Examination Survey 1999–2010) (10) che ha esaminato i dati di una popolazione di oltre 24.653 pazienti di età ≥18 anni, raccolti in due momenti diversi: una prima survey (1999-2004) e una seguente (20052010). Gli Autori hanno osservato che la prevalenza dell’ISH


RR

meeting locali. Sono stati inclusi nello studio soggetti con età compresa tra i 18 e i Figura 1 Rischio relativo per lo sviluppo di 45 anni, con ipertensione allo stadio I, non malattia cardiovascolare a seconda del quartile in trattamento farmacologico, dopo aver di pressione differenziale e stratificato per età, escluso la presenza di forme secondarie follow-up medio 10,8 anni: Analisi multivariata di ipertensione arteriosa, diabete mellito, malattie cardiovascolari o renali. All’arruolamento i soggetti vengono valutati con esame fisico, questionario sulle abitudini di vita, esami bioumorali, misurazione della pressione arteriosa clinica e della pressione arteriosa delle 24 ore, e viene inoltre valutata la presenza di danno d’organo. Quindi i soggetti vengono rivisti a intervalli dapprima mensili, poi semestrali, mentre a intervalli quinquennali vengono ripetuti il monitoraggio pressorio e la ricerca di danno d’organo. In 4 centri che hanno aderito al sottoprogetto della distensibilità arteriosa, all’arruolamento viene eseguita anche la valutazione della rigidità e della compliance arteriosa con tecnica di tonometria ad appianamento. Nel corso del follow-up i soggetti vengono educati a implementare le misure antipertensive non farmacologiche e l’end point dello studio è lo sviluppo di ipertensione che richiede Note: Dati aggiustati per età, BMI, trattamento con aspirina, trattamento farmacologico, in accordo con trattamento con β-carotene, fumo di sigaretta, attività fisica, consumo di alcool, le linee guida intercorrenti. Ulteriori dettafamiliarità per malattia cardiovascolare <60 anni e diabete; IC al 95 per cento gli dello studio sono descritti in precedenti Fonte: adattato da Sesso et al. (5) pubblicazioni (11-14). Secondo i dati dello studio HARVEST, pubblicati nel 2009, la prevalenza di ISH all’interno dello studio era del 13,8 per era più che raddoppiata tra la prima e la seconda survey (0,66 cento, quella dell’ipertensione diastolica isolata (IDH) era 24,8 per cento vs 1,62 per cento) e confermavano il riscontro più per cento, mentre la forma più frequente era l’ipertensione frequente di ISH nel sesso maschile tra le classi di età più giovani sisto-diastolica (SDH) (61,4 per cento) (14). Quando veniva (2,9 nel maschio e 0,7 per cento nelle femmine, p <0,0001) e esaminata la prevalenza dell’ISH a seconda dell’età e del sesso nel sesso femminile tra le classi di età più anziane (33,5 nelle gli Autori osservavano che, in accordo con quanto dimostrato femmine vs 24,7 per cento nei maschi; p <0,000). All’interno precedentemente in letteratura, il fenomeno era più frequente della classe di età più giovane (18-39 anni), gli Autori ossernei soggetti giovani rispetto agli adulti di mezza età, raggiugenvavano differenze interessanti anche in base all’etnia: 2,8 per cento nei neri non-ispanici, 1,9 nei bianchi non-ispanici, 1,3 negli do valori del 48 per cento nei maschi di 18-21 anni, e ≤1 per ispanici e 2,0 per cento nelle altre razze. Altro dato interessante cento in uomini e donne di età tra i 42 e 45 anni (Tabella 1). era relativo alla frequenza del fenomeno a seconda del diverso Inoltre in accordo con dati della letteratura (6-10) si confermava grado di istruzione: la prevalenza era 1,7 per cento nei soggetti la presenza di questa forma di ipertensione prevalentemente giovani (18-39 anni), che avevano un livello di educazione al nel sesso maschile fino ai 37 anni di età, tra i 38 e i 42 anni la massimo fino alla scuola superiore, mentre saliva al 2,1 per prevalenza era comparabile nei due sessi, mentre tra i 42 e 45 cento in coloro che erano arrivati al college o oltre (10). Per anni questa forma di ipertensione scompariva nelle femmine. quanto riguarda la prevalenza del fenomeno nell’ambito di studi di popolazione italiana, lo studio HARVEST ha esaminato Patogenesi dell’ipertensione sistolica la prevalenza dei diversi sottotipi di ipertensione in un gruppo isolata e dell’elevata pressione di soggetti giovani e di mezza età con ipertensione allo stadio I. differenziale Lo studio HARVEST è uno studio osservazionale, prospettico, a lungo termine, che coinvolge 17 centri del Nord Est d’Italia. Uno dei primi Autori a investigare la possibile patogenesi dell’ISH Lo studio è iniziato nel 1990 e per l’arruolamento ha visto la nel giovane è stato Stevo Julius nell’ambito del Tecumseh study collaborazione dei medici di Medicina di base, istruiti durante (15). Lo studio coinvolgeva 691 soggetti giovani, sani (età media

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Cardiologia

ovvero la rigidità arteriosa. Anche in questo lavoro si confermava un incremento significativo di PP passando dal primo al quarto quartile di entrambi gli indici (p <0,001). La prevalenza degli ipertesi all’intero di questa popolazione Maschi Femmine era del 12 per cento, di cui 8 per cento ISH e Classe di età N=829 N=312 4 per cento ipertesi essenziali. Gli ISH erano un 18-21 anni 48 13 gruppo eterogeneo in quanto un 20 per cento era caratterizzato da elevata PWV, un 28 per 22-25 anni 28 15 cento da elevata gittata cardiaca, 41 per cento 26-29 anni 14 11 dei soggetti presentava valori elevati di entrambi 30-33 anni 15 4 questi parametri e il restante 11 per cento aveva 34-37 anni 12 8 normali valori di entrambi gli indici, sottolineando quindi l’eterogeneità di questa particolare 38-41 anni 5 5 condizione clinica. Dal lato opposto, sempre 42-45 anni 1 0 negli stessi anni, alcuni Autori proponevano il Note: Dati espressi come percentuale. Fonte: adattato da Saladini et al. (14) concetto di ipertensione “spuria” alla base della ISH nel giovane, come frutto di un’esagerata 32,6 anni) con ipertensione borderline; nel 37,4 per cento di amplificazione dell’onda di polso dal centro alla periferia dovuquesti individui gli Autori osservavano la presenza di uno stato ta ad arterie estremamente elastiche (8,20-21). Uno dei primi ipercinetico, caratterizzato da un’elevata frequenza cardiaca Autori a ipotizzare questo meccanismo è stato O’Rourke (20), (Fc), elevato indice cardiaco ed elevati livelli di norepinefrine successivamente Mahmud (21), seguendo lo stesso presupposto plasmatiche, suggerendo la presenza di un ipertono simpatico in fisiopatologico, analizzava 11 soggetti con ISH e li confrontava questo gruppo. Il ruolo di un ipertono simpatico nel giovane con con soggetti normotesi e ipertesi sisto-diastolici. Gli ISH erano ipertensione è stato confermato successivamente anche da altri tutti di sesso maschile, alti, non fumatori, attivi nello sport, con Autori (16-17). Anche all’interno dello studio HARVEST (18) una bassa Fc e un’esagerata amplificazione della PP. A parità di è stato esplorato il ruolo del sistema nervoso simpatico in 163 forma d’onda e valori pressori sistolici periferici tra ISH e SDH, soggetti ipertesi di grado I e 28 normotesi di controllo, nel deterla forma d’onda centrale degli ISH, ottenuta mediante tecnica di tonometria ad appianamento a livello dell’arteria radiale con minare la progressione verso un’ipertensione stabile. La funzione apparecchio Sphygmocor, era del tutto sovrapponibile a quella del sistema autonomico è stata valutata con l’analisi spettrale e dei normotesi, con valori di pressione centrale decisamente più gli Autori osservavano come un terzo dei soggetti presentasse un bassi di quelli osservati negli ipertesi sisto-diastolici e più vicini ipertono simpatico. Nel corso di un follow-up medio di 6 anni, ai valori dei soggetti normotesi. Gli Autori quindi, concludevano questi soggetti presentavano una progressione più frequente che questa forma di ipertensione, che definivano come “spuria” verso un’ipertensione stabile da trattare farmacologicamente o “pseudo” ipertensione, era secondaria a un’esagerata amplifirispetto a coloro che non avevano disfunzione autonomica, inoltre si caratterizzavano per elevati livelli di colesterolo e una cazione della PP e a un rallentamento nella riflessione dell’onda ridotta distensibilità arteriosa. Seguendo l’ipotesi di un possibile dai siti periferici dovuto ad arterie particolarmente elastiche in ruolo dello stato ipercinetico, anche all’interno dello studio HARquesti soggetti. Successivamente anche Hulsen (8) riproponeva la teoria di un’ipertensione “spuria” all’interno della popolazione VEST recentemente è stato valutato il peso che un’aumentata dello studio ARYA. Venivano esaminati 750 soggetti, età 26-31 gittata cardiaca e Fc hanno nel determinare elevati valori di PP anni, di cui 57 ipertesi sistolici “spuri” di sesso maschile e solo 3 all’interno di una popolazione giovane (19). I pazienti sono stati di sesso femminile, che quindi venivano esclusi dalle analisi. Gli suddivisi in terzili di gittata sistolica e di Fc e gli Autori osserAutori confermavano per gli ISH “spuri” valori di pressione cenvavano un incremento di PP passando dal primo al terzo terzile di gittata cardiaca e dal primo al terzo terzile di Fc (p <0,001 trale intermedi (117,2±4,2 mmHg) tra SDH (130,4±4,8 mmHg, per entrambi gli indici, aggiustata per età e sesso), raggiungendo p <0,01) e normotesi (105,7±8,6 mmHg, p <0,01) e una più valori più elevati (58,5 mmHg) nei soggetti che appartenevano elevata pressione di amplificazione (ratio 1,77±0,20 negli ISH; al terzile più elevato di entrambi questi indici (p per interazione 1,66±0,33 negli SDH, p =n.s. negli ipertesi; 1,67±0,29 nei n.s.), confermando un ruolo eziopatogenico importante per lo normotesi). Il ruolo della pressione centrale all’interno degli ISH stato ipercinetico. Un altro importante contributo nel determiè stato recentemente confermato anche in un lavoro di Lurbe et al. (22), all’interno di una popolazione di bambini e adolescenti nare i meccanismi sottostanti all’ISH nel giovane è stato dato (età 8-18 anni) sovrappeso e obesi. In questo caso il gruppo degli dal gruppo inglese di McEniery e collaboratori (9). Nell’ambito ISH (n=24) è stato confrontato con normotesi (n=511), soggetti dello studio ENIGMA, che investigava 1.008 soggetti giovani con pressione sistolica normale-alta (n=48) e SDH (n=10), e gli di età compresa tra i 18 e i 27 anni, gli Autori confermavano Autori osservavano che la percentuale di soggetti che aveva una il ruolo dell’incremento della gittata cardiaca, nel determinare PAS centrale alta (>90°percentile) era rispettivamente 0,4 tra un rialzo della PP, ma introducevano una nuova componente

Tabella 1 Prevalenza dell’ipertensione sistolica isolata in base al sesso e all’età nella popolazione dello studio HARVEST

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i normotesi, 6,3 tra i soggetti con pressione normale alta, 25 negli ISH e fino al 50 per cento nei soggetti con SDH. Infine dai dati della letteratura emerge un altro determinante della ISH nel giovane, ovvero l’effetto “white-coat” (camice bianco). Ancora una volta, uno dei primi Autori a riconoscere il ruolo di questo fattore come determinante dell’ipertensione nei giovani è stato Stevo Julius (15). Sempre nell’ambito dello studio Tecumseh, gli Autori osservavano che la differenza tra la PAS clinica e la PAS domiciliare era decisamente più elevata nel gruppo degli ipertesi ipercinetici (138,0±1,6 mmHg e 128,3±2.2 mmHg rispettivamente), rispetto agli ipertesi normocinetici (125,5±1,2 mmHg e 124,0±1,3 mmHg rispettivamente) o i normotesi (112,9±0,4mmHg e 114,9±0,5 mmHg). Il ruolo dell’ipertensione white-coat è stato recentemente confermato anche all’interno della popolazione di giovani e adolescenti da Lurbe e collaboratori (22). Confrontando i dati della pressione clinica con quelli ottenuti al monitoraggio pressorio, il 75 per cento degli ISH veniva riclassificato come iperteso white-coat mentre solo il 10 per cento degli SDH aveva ipertensione white-coat e il 90 per cento si confermava iperteso sisto-diastolico.

Valore prognostico dell’elevata PP e dell’ISH Come già ricordato nell’introduzione, l’ISH è la forma di ipertensione prevalente nell’età anziana, dove è ben noto e riconosciuto il suo ruolo prognostico sfavorevole. Diversi lavori infatti hanno dimostrato come un’elevata PP sia associata alla mortalità cardiovascolare e all’ictus ischemico (23-24). Recentemente questa condizione è stata associata anche al decadimento cognitivo (25). In particolare in quest’ultimo lavoro gli Autori hanno esaminato in maniera prospettica 406 pazienti con pregresso ictus/ TIA caratterizzati da piccole lesioni ischemiche confluenti della sostanza bianca cerebrale. Nel corso di 18 mesi di follow-up gli Autori osservavano una relazione a U tra PP e decadimento cognitivo valutato con Mini Mental State Evaluation, mettendo in evidenza il ruolo importate che la rigidità arteriosa e l’ipoperfusione cerebrale giocano nel determinare decadimento cognitivo. Rimane invece ancora molto controverso se la PP elevata nei soggetti giovani abbia un ruolo innocuo oppure dannoso. Come già menzionato prima, uno dei primi a identificare un differente

ruolo della PP nei soggetti giovani rispetto agli anziani è stato Sesso (5). Gli Autori hanno esaminato 11.150 soggetti di sesso maschile per lo sviluppo di malattia cardiovascolare, nell’arco di un follow-up di 10,8 anni e, all’analisi multivariata di Cox, con dati aggiustati per diverse variabili cliniche (età, BMI, trattamento con aspirina, trattamento con ß-carotene, fumo di sigaretta, attività fisica, consumo di alcol, familiarità per malattia cardiovascolare <60 anni e diabete), evidenziavano come vi fosse un rischio incrementale di eventi passando dal primo al quarto quartile di PP nei soggetti di età ≥60 anni, mentre il rischio non era aumentato in maniera statisticamente significativa nei soggetti più giovani (Figura 1). Successivamente anche altri Autori hanno identificato un diverso ruolo predittivo di PAS e PAD all’interno di una popolazione giovane rispetto al loro ruolo tradizionalmente noto nei soggetti anziani. Ad esempio Sundström J et al. (26) hanno studiato 1.207.141 reclute diciottenni per un periodo di 24 anni di follow-up e osservavano come all’interno di questa popolazione solo la PAD e non la PAS fosse un predittore significativo di mortalità per tutte le cause. In particolare gli Autori riscontravano che già una PAD >71 mmHg era associata ad un incremento significativo del rischio (RR 1,06, 95 per cento CI 1,02-1,11), mentre la PAS non era associata a un incremento del rischio di outcome sfavorevole, nemmeno ai valori più elevati (139-184 mmHg) (RR 0,98, 95 CI 0,95-1,02). Per quanto riguarda la prognosi del giovane con ISH, questo aspetto è rimasto inesplorato per molto tempo a causa della necessità di un lungo follow up per registrare eventi in questo particolare gruppo, dovuto soprattutto alla giovane età dei pazienti. Nell’ambito dello studio HARVEST, nel lavoro pubblicato nel 2009 (14), gli Autori sono andati a confrontare il rischio di sviluppare ipertensione da trattare farmacologicamente in un gruppo di 1.242 soggetti, screenati per ipertensione allo stadio I, suddivisi in base al sottotipo di ipertensione (ISH, IDH e SDH), nell’arco di un follow up medio di 72,9 mesi. L’endpoint sviluppo di ipertensione è stato valutato basandosi sia sulle misurazioni della pressione in clinica (PA ≥140/90 mmHg), sia sulle misurazioni di pressione al monitoraggio pressorio delle 24 ore (PA diurna ≥135/85 mmHg). Il rischio di outcome sfavorevole per gli ISH, come dimostrato nella tabella 2, era superiore a quello dei soggetti normotesi, ma inferiore a quello degli SDH,

Contrariamente a quanto noto nei soggetti anziani, nel giovane, un’elevata PP e /o la presenza di ipertensione sistolica isolata non sono predittori di outcome sfavorevole. Si tratta di un gruppo eterogeneo di pazienti all’interno del quale la misurazione della pressione centrale può essere utile per distinguere tra gli ISH con elevata PAS centrale, a rischio cardiovascolare aumentato, in cui potrebbe essere utile un intervento farmacologico precoce, e gli ISH con pressione centrale bassa che sembrano avere un profilo di rischio simile a quello dei soggetti normotesi e per i quali possono essere sufficienti misure non farmacologiche

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Tabella 2 Rischio relativo e intervallo di confidenza 95% per lo sviluppo di ipertensione stabile da trattare farmacologicamente in corso di un follow-up medio di 72,9 mesi, a seconda del sottotipo di ipertensione, considerando come riferimento un gruppo di soggetti normotesi Sottotipo di ipertensione

Sviluppo di ipertensione basato sulla PA clinica#ǂ

Sviluppo di ipertensione basato sulla PA monitorata##ǂ ǂǂ

OR (95% CI)

Valore di p*

OR (95% CI)

Valore di p*

NT

1 (riferimento)

-

1 (riferimento)

-

ISH

2,2 (1,2–4,4)

<0,001

3,3 (1,7–6,3)

0,053

IDH

2,5 (1,4–4,4)

<0,001

5,6 (3,2–9,8)

n.s.

SDH

5,0 (2,9–8,8)

-

5,1 (3,1–8,2)

-

Note: lo sviluppo di ipertensione è stato valutato sia sulla basa della pressione arteriosa clinica che monitorata; #PA ≥140/90 mmHg; ##ǂPA ≥ 135/85 mmHg; *valore di p Vs SDH. Dati aggiustati per età sesso, frequenza cardiaca, durata di follow-up, BMI, variazioni di BMI in corso di follow-up. Fonte: adattato da Saladini F et al. (14).

mentre era sovrapponibile a quello degli IDH. Tali differenze erano ancora più evidenti quando si valutava l’outcome sulla base della PA monitorata, in particolare il rischio per gli ISH era inferiore sia a quello degli SDH che degli IDH (Tabella 2). In particolare, considerando i dati del monitoraggio il rischio degli ISH rispetto agli IDH era di: 1,9 (1,0–3,7), p =0,049 (dati aggiustati per età sesso, frequenza cardiaca, durata di follow-up, BMI, variazioni di BMI in corso di follow-up). In un successivo lavoro (27), sempre lo stesso gruppo di ricercatori, nell’ambito dello studio HARVEST, ha differenziato il gruppo degli ISH (n=67) in due ulteriori sottogruppi sulla base del valore di PAS centrale, misurata mediante tecnica di tonometria ad appianamento. Sono stati utilizzati 2 differenti cut-off: 120,5 mmHg che era il valore della mediana della PAS centrale nel gruppo e 125 mmHg che era il limite inferiore del terzile più elevato di PAS centrale nel gruppo. Ancora una volta l’end-point studiato era lo sviluppo di ipertensione stabile da trattare farmacologicamente nell’arco di un follow-up medio di 9,5 anni e i due gruppi di ISH (n =33 ISH con PAS centrale bassa e n =34 con PAS centrale alta) sono stati confrontati con un gruppo di normotesi (n =34), presi come riferimento, e un gruppo di SDH (n =287). L’incidenza di ipertensione stabile, che necessitava di trattamento farmacologico, negli ISH con pressione centrale bassa (<120,5 mmHg) era sovrapponibile a quello dei normotesi (16 e 16,5 per cento rispettivamente, p =n.s.), mentre nei soggetti ISH con pressione centrale alta (≥120,5 mmHg) l’incidenza era decisamente superiore e poco lontana da quella degli SDH (rispettivamente 48 e 60 per cento, p =0,041 per IDH e p =0,022 per SDH, vs normotesi). Gli stessi risultati si ottenevano quando gli ISH venivano suddivisi secondo il cut-off di PAS centrale di 125 mmHg: l’incidenza di ipertensione che richiedeva inizio del trattamento era di 15, 17,5, 64 e 58 per cento rispettivamente nei normotesi, ISH (PAS centrale bassa), ISH (PAS centrale alta), SDH; p vs normotesi =n.s. per ISH (PAS centrale bassa), p =0,015 per ISH (PAS centrale alta), p =0,020 per SDH (27). Il rischio relativo di sviluppare ipertensione che

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necessitava di trattamento farmacologico nei soggetti ISH con pressione centrale alta (≥120,5 mmHg) o bassa (<120,5 mmHg) e SDH confrontati con i normotesi, alla analisi di regressione logistica multivariata, è rappresentato in figura 2. Andando a esaminare studi che abbiano valutato endpoint hard per ISH confrontata con altri sottotipi di ipertensione vediamo che ancora una volta gli ISH si collocano in una situazione intermedia di rischio tra normotesi e SDH. Nel lavoro di Yano et al. (28), gli Autori esploravano il rischio di mortalità cardiovascolare (follow-up medio 31 anni) in una popolazione di 27.081 soggetti (età media 34 anni) facente parte dello studio Chicago Heart Association Detection Project in Industry (15.868 maschi e 11.213 femmine), a seconda del sottotipo di ipertensione (ISH, IDH, SDH), confrontando i dati con soggetti normotesi con PA ottimale (PAS <130 mmHg e PAD <85 mmHg) e normotesi con PA normale-alta (PAS 130-139 mmHg e PAD 85-89 mmHg, oppure PAS 130-139 mmHg e PAD <85 mmHg, oppure PAS <130 mmHg e PAD 85-89 mmHg) e differenziando i risultati in base al sesso. Analizzando i dati per il genere maschile si osserva come il rischio di mortalità per gli ISH (RR 1,23; 95 CI 1,031,46) fosse superiore a quello dei soggetti normotesi con PA ottimale, ma sovrapponibile a quello dei soggetti normotesi con PA normale-alta (1,25; 95CI 1,05-1,50) e decisamente inferiore a quello dei soggetti con IDH (1,68; 95 CI 1,29- 2,17) o SDH (1,77 95CI 1,49-2,09). I risultati erano invece diversi quando si analizzavano i dati per il genere femminile dove il rischio delle donne con ISH era inferiore solo a quello delle donne con SDH e superiore a tutti gli altri sottogruppi: RR 1,00; 95CI 0,75-1,33 per normotese con PA normale-alta; RR 1,55; 95CI 1,18–2,05 per ISH; RR 1,05; 95CI 0,59–1,85 per IDH; RR 1,79; 95CI 1,36–2,37 per SDH, indicando così un ruolo completamente diverso per la ISH nell’uomo, rispetto alla donna.

Conclusioni Contrariamente a quanto è noto nei soggetti anziani, nel giova-


Figura 2 Rischio relativo di sviluppare ipertensione arteriosa che necessita di trattamento farmacologico nei soggetti ISH con pressione centrale bassa (<120,5 mmHg) (a) (<125 mmHg) (b) o alta (≥120,5 mmHg) (a) (≥125 mmHg) (b) e SDH confrontati con i normotesi. Follow-up medio 9,5 anni. Analisi di regressione logistica multivariata

Note: Valori di p vs normotesi. Dati aggiustati per età, sesso, BMI, familiarità per ipertensione, attività fisica, fumo, caffè, alcol, variazioni di BMI, durata del follow-up, PAS 24-h, PAD 24-h, Fc 24-h. NT, normotesi; ISH, ipertesi sistolici isolati; c-PAS, pressione arteriosa sistolica centrale; SDH, ipertesi sisto-diastolici. Fonte: adattato da Saladini et al. (27)

ne un’elevata PP e/o la presenza di ISH non sono predittori di outcome sfavorevole. Secondo quanto riportato in letteratura sono soggetti che si caratterizzano per la presenza di un’elevata gittata sistolica, un’ipertono simpatico, un pronunciato effetto “white-coat”, e/o un incremento della rigidità arteriosa, oppure, dal lato opposto, un’elevata elasticità arteriosa con una esagerata amplificazione dell’onda di polso dal centro alla periferia. All’interno di questo particolare ed eterogeneo setting clinico, la misurazione della pressione centrale può essere utile per distinguere tra gli ISH con elevata PAS centrale, a rischio cardiovascolare aumentato, in cui può avere un razionale il trattamento farmacologico precoce, e gli ISH con pressione centrale bassa, che sembrano avere un profilo di rischio simile ai soggetti normotesi e che possono essere seguiti solo con misure non farmacologiche. Altro punto cruciale e l’identificazione di un’ipertensione white-coat, all’interno degli ISH, mediante l’utilizzo del monitoraggio pressorio delle 24 ore, che consente di identificare un altro gruppo di ISH a minor rischio. La peculiarità di questa particolare condizione clinica del soggetto giovane, è stata riconosciuta anche all’interno delle ultime linee guida europee per il trattamento dell’ipertensione arteriosa (1), in due diversi punti. Per quanto riguarda il ruolo della elevata PP, gli Autori riconoscono che il valore >60 mmHg sia indicativo di danno d’organo subclinico, ma specificano anche come questo sia valido solo per i soggetti anziani. Inoltre nel valutare le indicazioni al trattamento farmacologico inseriscono un paragrafo a parte per il paziente giovane con ISH, dove specificano che in questi soggetti di sesso maschile, con PA centrale bassa, non c’è

alcuna evidenza di un beneficio nel trattamento farmacologico precoce in quanto non c’è evidenza che questi progrediscano necessariamente verso una forma di ipertensione stabile, per cui si può considerare un approccio con raccomandazioni igienicodietetiche e stretto follow-up.

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medicina

approfondimenti

A cura di Folco Claudi

Diagnosi e trattamento

dell’ipertensione

Le nuove linee guida ESH/ESC

Q

uali sono i livelli di pressione arteriosa rischiosi per la salute cardiovascolare? Quando iniziare a trattare i pazienti? Sono queste le annose domande che si pongono i clinici e alle quali hanno dato nuove risposte le recenti linee guida congiunte della European Society of Cardiology (ESC) e la European Society of Hypertension (ESH) rese note nel corso dell’ultimo congresso annuale dell’ESC e poi pubblicate sul Journal of Hypertension (2018; 36: 1953-2041). Rispetto alle raccomandazioni precedenti del 2013, le nuove rivelano un approccio tendenzialmente più aggressivo e interventistico, seguendo un simile atteggiamento delle linee guida pubblicate negli Stati Uniti

dall’American College of Cardiology e dell’American Hearth Association. Il tema dell’ipertensione è oggetto di attenzione da anni da parte della comunità scientifica. Ciò ha portato a comprenderne i meccanismi patogenetici, l’epidemiologia, e soprattutto il rischio cardiovascolare associato. Nella pratica, le evidenze della letteratura sono state “tradotte” in strategie di trattamento farmacologico e non, volte a ridurre i valori di pressione arteriosa. Nonostante l’efficacia dimostrata di tali approcci, il trattamento dell’ipertensione nel Vecchio Continente (ma anche nel resto del mondo) resta subottimale, con conseguente persistente aumento del rischio cardiovascolare. Qualche dato epidemiologico ci può aiutare a definire il quadro

secondo le previsioni, tenendo conto dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento della sedentarietà e dell’obesità nel 2025 i soggetti ipertesi saranno circa 1,5 miliardi

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(peraltro a tinte abbastanza fosche!). Sulla base delle misurazioni ambulatoriali della pressione arteriosa, la prevalenza globale di ipertensione nel 2015 è dell’ordine di 1,13 miliardi; nell’Europa centro-orientale il valore si attesta a 150 milioni di soggetti ipertesi! Nel complesso, gli adulti ipertesi variano dal 30 al 45 per cento della popolazione. La situazione, stando alle stime, è destinata a peggiorare. Con la tendenza al progressivo invecchiamento della popolazione in parallelo all’adozione di stili di vita poco virtuosi (in primo luogo sedentarietà che porta a sovrappeso e obesità), a livello globale entro il 2025 il numero di soggetti ipertesi aumenterà del 1520 per cento, sfiorando il tetto di 1,5 miliardi. Nel seguito, sono riportate schematicamente le indicazioni ESC/ESH per quanto riguarda la classificazione dell’ipertensione per stadi successivi (tabella 1), le novità rispetto alle precedenti raccomandazioni del 2013 (tabella 2) e l’algoritmo per lo screening e la diagnosi dell’ipertensione (Figura 1).


Come cambia la gestione dell’ipertensione alla luce delle nuove raccomandazioni Intervista a Giuseppe Mancia Le Linee guida ESC/ESH per il controllo farmacologico dell’ipertensione hanno introdotto alcune importanti novità rispetto al passato e si discostano in parte da quelle statunitensi dell’ACC/AHA. Abbiamo chiesto al prof. Giuseppe Mancia, Professore emerito dell’Università Milano-Bicocca, Presidente della Fondazione della European Society of Hypertension e Co-chairman della Task Force che ha elaborato le linee guida, d’illustrarci come sono nate le nuove raccomandazioni

❱ Prof. Mancia, ci può riassumere le novità di queste nuove linee guida europee sull’ipertensione pubblicate dall’ESC/ESH? Una prima importante novità riguarda l’approccio diagnostico, perché nelle nuove linee guida si raccomanda con maggior forza la misurazione della pressione al di fuori dell’ambiente medico, cioè con dispositivi automatici sulle 24 ore o con automisurazione a domicilio, procedure che in prece-

tabella 1 Stadiazione dell’ipertensione secondo i livelli di pressione arteriosa (PA), presenza di fattori di rischio cardiovascolari, danno d’organo mediato dall’ipertensione (DOMI) o comorbilità

Stadio di malattia

Altri fattori di rischio, DOMI, IRC o malattie

Livelli di PA (mmHg) Alta-normale PS 130-139 PD 85-89

Grado 1 PS 140-159 PD 90-99

Grado 2 PS 160-179 PD 100-109

Grado 3 PS ≥180 o PD ≥110

Nessun altro fattore di rischio

Rischio basso

Rischio basso

Rischio moderato

Rischio elevato

1 o 2 fattori di rischio

Rischio basso

Rischio moderato

Rischio moderato/ elevato

Rischio elevato

≥3 fattori di rischio

Rischio basso/ moderato

Rischio moderato/ elevato

Rischio elevato

Rischio elevato

Stadio 2 (malattia asintomatica)

DOMI, IRC di grado 3, o diabete mellito senza danno d’organo

Rischio moderato/ elevato

Rischio elevato

Rischio elevato

Rischio elevato/ molto elevato

Stadio 3 (malattia accertata)

MCV accertata, IRC di grado ≥4, o diabete mellito con danno d’organo

Rischio molto elevato

Rischio molto elevato

Rischio molto elevato

Rischio molto elevato

Stadio 1 (non complicato)

Note: il rischio cardiovascolare è riferito a un soggetto maschio di mezza età. È raccomandato l’uso del sistema SCORE (Systematic COronary Risk Evaluation) per la stima formale del rischio cardiovascolare per le decisioni di trattamento. MCV, malattia cardiovascolare; PS: presisone sistolica; PD, pressione diastolica; IRC, insufficienza renale cronica

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medicina

approfondimenti

tabella 2 Che cosa è cambiato nelle linee guida ESH/ESC del 2018 Cambiamenti nelle raccomandazioni

2013

2018

Diagnosi

Diagnosi

La misurazione della PA nello studio del medico

Si raccomanda di basare la diagnosi d’ipertensione su: • misurazioni ripetute nello studio del medico; • misurazioni della pressione al di fuori dello studio medico con monitoraggio ambulatoriale e/o al domicilio se logisticamente ed economicamente fattibile

Soglie di trattamento PA alta-normale (130-139/85-89 mmHg)

Soglie di trattamento PA alta-normale (130-139/85-89 mmHg)

A meno che non si ottenga l’evidenza necessaria, non è consigliabile iniziare una terapia antipertensiva con BP normale-alta

Il trattamento farmacologico può essere preso in considerazione quando il rischio cardiovascolare è molto elevato a causa di MCV accertata, in particolare MC

Soglie di trattamento Trattamento dell’ipertensione di grado 1 a basso rischio

Soglie di trattamento Trattamento dell’ipertensione di grado 1 a basso rischio

L’inizio del trattamento con farmaci antipertensivi deve essere preso in considerazione anche nei pazienti ipertesi di grado 1 a rischio basso-moderato, quando la PA rientra in questo intervallo in diverse visite ripetute o elevata secondo i criteri ambulatoriali della PA e rimane entro questo intervallo nonostante un ragionevole periodo di tempo con misure di correzione degli stili di vita

Nei pazienti con ipertensione di grado 1 a rischio bassomoderato e senza evidenza di DOMI, il trattamento farmacologico di riduzione della pressione arteriosa è raccomandato se il paziente rimane iperteso dopo un periodo di intervento sullo stile di vita

Soglie di trattamento Pazienti anziani

Soglie di trattamento Pazienti anziani

Il trattamento antipertensivo può essere preso in considerazione negli anziani (per lo meno quando hanno meno di 80 anni) quando la PS è compresa nell’intervallo 140-159 mmHg, a condizione che il trattamento antipertensivo sia ben tollerato

Il trattamento farmacologico per abbassare la pressione sanguigna e l’intervento sullo stile di vita sono raccomandati nei pazienti anziani in forma (> 65 anni ma non> 80 anni) quando la PS è nel range di grado 1 (140-159 mmHg), a condizione che il trattamento sia ben tollerato

Obiettivi di trattamento

Obiettivi di trattamento

È raccomandato un obiettivo di PS <140 mmHg

• Il primo obiettivo del trattamento dovrebbe essere quello di abbassare la PA a <140/90 mmHg in tutti i pazienti e, a condizione che il trattamento sia ben tollerato, l’obiettivo per i valori di PA trattati dovrebbe essere 130/80 mmHg o inferiori, nella maggior parte dei pazienti • Nei pazienti <65 anni, nella maggior parte dei casi si raccomanda di ridurre la PS a un intervallo di pressione compreso tra 120-129 mmHg

Obiettivi di trattamento nei pazienti anziani (65-80 anni)

Obiettivi di trattamento nei pazienti anziani (65-80 anni)

Per i pazienti anziani (65-80 anni) si raccomanda un obiettivo di PS compreso tra 140 e 150 mmHg

Per i pazienti anziani (≥65 anni) si raccomanda un obiettivo di PS compreso tra 130 e 139 mmHg

Obiettivi di trattamento nei pazienti con più di 80 anni

Obiettivi di trattamento nei pazienti con più di 80 anni

Un obiettivo di PS 140-150 mmHg deve essere considerato È raccomandato come obiettivo un intervallo nelle persone di età superiore agli 80 anni, con una PS di PS di 130-139 mmHg per le persone anziane di età iniziale ≥160 mmHg, a condizione che siano in buone superiore agli 80 anni, se tollerato condizioni fisiche e mentali

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Cambiamenti nelle raccomandazioni

2013

2018

Obiettivi di pressione diastolica

Obiettivi di pressione diastolica

Si raccomanda sempre un obiettivo di PD <90 mmHg, tranne che nei pazienti con diabete, nei quali si raccomandano valori <85 mmHg

Un target PD <80 mmHg deve essere preso in considerazione per tutti i pazienti ipertesi, indipendentemente dal livello di rischio e dalle comorbilità

Inizio del trattamento farmacologico

Inizio del trattamento farmacologico

L’inizio della terapia antipertensiva con una combinazione di due farmaci può essere preso in considerazione in pazienti con PA basale marcatamente alta o ad alto rischio cardiovascolare

Si raccomanda di iniziare un trattamento antipertensivo con una combinazione di due farmaci, preferibilmente in una singola compressa. Le eccezioni sono pazienti anziani fragili e quelli a basso rischio e con ipertensione di grado 1 (in particolare se PS è <150 mmHg)

Ipertensione resistente

Ipertensione resistente

In assenza di controindicazioni devono essere considerati gli antagonisti dei recettori mineralcorticoidi, l’amiloride e l’alfa-1 bloccante doxazosina

Il trattamento raccomandato per l’ipertensione resistente è l’aggiunta di spironolattone a basso dosaggio al trattamento esistente o l’aggiunta di ulteriore terapia diuretica se il paziente è intollerante allo spironolattone, con eplerenone, amiloride, diuretico tiazidico/tiazide a dosi più elevate o diuretico dell’ansa, o l’aggiunta di bisoprololo o doxazosina

Intervento terapeutico basato su dispositivi Intervento terapeutico basato su dispositivi In caso di inefficacia del trattamento farmacologico, possono essere prese in considerazione procedure invasive quali la denervazione renale e la stimolazione dei barocettori

L’uso di terapie basate su dispositivi non è raccomandato per il trattamento di routine dell’ipertensione, tranne che nel contesto di studi clinici e TCR fino a quando non saranno disponibili ulteriori prove sulla loro sicurezza ed efficacia

Grado I

Grado IIb

Grado IIa

Grado III

Nota: MCV: malattia cardiovascolare; MC: malattia coronarica; DOMI: danno d’organo mediato dall’ipertensione; PS: pressione sistolica; PD: pressione diastolica; TCR: trial clinici randomizzati

denza erano considerate importanti solo per diagnosticare alcune condizioni specifiche, come l’ipertensione da camice bianco, l’ipertensione mascherata o l’ipertensione resistente. Ora invece si ritiene che siano utili per confermare la diagnosi d’ipertensione nella maggioranza dei pazienti perché aggiungono i valori della vita quotidiana all’incremento di pressione temporaneo verificato dal medico.

❱ Tutto questo però comporta una complessità diagnostica maggiore. Ciò è giustificato dall’evidenza scientifica disponibile? In effetti, alcuni studi fondamentali non sono mai stati fatti. Per esempio, come abbiamo sottolineato anche nel nostro documento, non è mai stato

indagato su un’ampia popolazione di pazienti se la terapia guidata dalla pressione delle 24 ore o domiciliare comporti una migliore protezione per il paziente rispetto alla misurazione della pressione clinica classica; la ragione è da ricondurre alla complessità e ai costi di uno studio del genere. Vi è però sufficiente evidenza che associando alla pressione clinica la pressione ottenuta al di fuori dell’ambiente medico si migliora la quantificazione del rischio del paziente di andare incontro alle complicanze dell’ipertensione, e questo è importante.

❱ E sul fronte della terapia? La novità più importante è che le raccomandazioni estendono la terapia farmacologica a categorie di pazienti

nelle quali i farmaci erano prima considerati di dubbia utilità, per esempio i pazienti con ipertensione lieve-moderata a rischio cardiovascolare basso/ moderato, in cui in precedenza i farmaci erano di impiego incerto perché l’evidenza non era così solida a riguardo.

❱ Possiamo scendere un po’ nel dettaglio? Certamente. La categoria di cui sopra è quella dei soggetti con ipertensione di grado 1, cioè con pressione sistolica tra 140 e 159 mmHg e con probabilità di un evento patologico cardiovascolare inferiore al 10 per cento in 10 anni. In questi numerosi pazienti, l’evidenza che un abbassamento della pressione riducesse gli eventi era incerta. Inoltre, i farmaco-economisti insistevano

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approfondimenti

Figura 1 Screening e diagnosi dell’ipertensione PA ottimale <120/80

PA normale 120-129/80-84

Considerare un’ipertensione mascherata

Misurazione da ripetere almeno ogni 5 anni

Misurazione da ripetere almeno ogni 3 anni

– a dire il vero, insistono tutt’ora – sul fatto che il trattamento andrebbe limitato ai soggetti ad alto rischio, perché nei soggetti a basso rischio, che per definizione hanno meno eventi, il numero di eventi evitati dalla terapia non può che essere limitato. Ora però sappiamo con certezza che in un individuo a basso rischio che ha, diciamo, 144 mmHg di pressione sistolica, l’effetto protettivo di una riduzione pressoria è evidente. E poi che, nei soggetti in cui il trattamento viene ritardato, la terapia non è più in grado di ricondurre il rischio alla normalità, cioè il rischio residuo rimane alto. Ciò probabilmente si verifica perché i danni di una esposizione prolungata all’ipertensione, a un certo punto, diventano almeno in parte irreversibili. Ciò sostiene con forza la necessità di un intervento terapeutico precoce, non tardivo.

❱ E per le altre categorie? Un discorso analogo al precedente riguarda i pazienti di grado 1 anziani: storicamente, i trial che hanno dimostrato i benefici della terapia antiper-

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Ipertensione ≥ 140/90

PA normale-alta <130-139/85-89

Misurazione della PA al di fuori dello studio del medico (monitoraggio ambulatorio o al domicilio)

Ripetere le visite per misurazioni della PA nello studio del medico

Misurazione da ripetere almeno annualmente

tensiva nell’anziano iperteso si sono rivolti a pazienti anziani con più di 160 mmHg di pressione sistolica, per cui la fascia tra 140 e 159 mmHg è sempre rimasta una zona grigia. Ora, invece, sono disponibili dati che dimostrano come anche in questi pazienti ridurre la pressione riduce il rischio di eventi cardiovascolari anche letali… C’è poi una terza categoria, quella dei pazienti con la cosiddetta pressione normale alta, cioè con valori sistolici tra 130 e 139: in passato si riteneva che il trattamento farmacologico non fosse indicato per mancanza di evidenze. Ora invece si è visto che in un sottogruppo, quello dei soggetti che hanno avuto eventi cardiovascolari, come ictus o infarto, ridurre la pressione sotto i 130 mmHg ha un effetto protettivo. In questi pazienti, dunque, si consiglia d’iniziare la terapia anche quando la pressione sistolica è sotto i 140 mmHg, mettendo in atto, in questo caso un intervento di prevenzione secondaria.

❱ E qui c’è una differenza rispetto alle linee guida statunitensi…

Misurazione della PA al di fuori dello studio medico (monitoraggio ambulatorio o al domicilio)

Indicazioni per monitoraggio ambulatorio o al domicilio

Sì, una differenza notevole… perché le linee guida statunitensi raccomandano anch’esse di trattare un sottogruppo con pressione normale alta, ma si riferiscono a individui che, secondo la classificazione Framingham, hanno un rischio superiore al 10 per cento, utilizzando come evidenza lo studio SPRINT. Si tratta di un numero assai più alto di quello previsto dalle linee guida europee: i soggetti con più di 65 anni, per esempio hanno in maggioranza un rischio superiore al 10 per cento soltanto per il fattore età; la posizione europea è dunque più conservatrice anche perché la sua posizione sullo studio SPRINT è critica.

❱ C’è poi la questione di quando si consiglia di scendere sotto i 130 mmHg. Che cosa dicono le raccomandazioni? In precedenza, si raccomandava di discendere sotto i 140 mmHg di pressione sistolica nella popolazione ipertesa generale e sotto i 150 ma sopra i 140 mmHg negli anziani. Ora invece si propende per un atteggiamento più ag-


gressivo, cioè di scendere sotto i 130 mmHg in generale e sotto i 140, ma sopra i 130 mmHg, negli anziani: questa è un’altra differenza con le linee guida americane, che raccomandano di scendere sotto i 130 mmHg in tutti i pazienti, inclusi gli ottogenari e nonagenari; inoltre gli europei consigliano di scendere sotto i 140, ma di rimanere sopra i 130 mmHg anche nei pazienti con malattia renale cronica, perché ai livelli pressori più bassi l’evidenza di beneficio è scarsa o assente, mentre è convincente quella di danno renale da ridotta perfusione.

❱ Tra europei e statunitensi esiste anche una differenza nel modo di formulare le raccomandazioni sugli obiettivi pressori, non è così? Certamente, perché noi europei affianchiamo alle raccomandazioni una serie di considerazioni; la prima e più importante è che scendere sotto i 140 mmHg è già di per sé molto difficile, visto che nella maggioranza dei trial clinici la pressione sistolica è rimasta sotto trattamento, era sopra o appena sotto i 140 mmHg; la seconda considerazione è che, anche se scendendo sotto 130 mmHg aumenta il beneficio, il vantaggio ulteriore è piuttosto piccolo, perché la curva del rapporto tra eventi e pressione si appiattisce ai livelli di pressione più bassi. In altre parole se si scende da 150 a 140 mmHg si evitano molti più eventi patologici che se si scende da 140 a 130. Si fa quindi molta più fatica terapeutica per un beneficio più limitato; la terza considerazione è che in alcuni gruppi, come i pazienti con nefropatia cronica ma anche i diabetici, l’evidenza di un ulteriore beneficio sotto i 130 mmHg non è così forte; la quarta considerazione, infine, è che numerosi studi dimostrano che tanto maggiore è la riduzione terapeutica della pressione tanto più cresce, esponenzialmente, il rischio di gravi effetti collaterali con conseguente interruzione della terapia: i pazienti, cioè, smettono di prendere il farmaco, e questo comporta una risalita spiccata del rischio.

La conclusione è che pur optando per un approccio più aggressivo nei confronti del target pressorio, occorre bilanciare i benefici con i rischi. Mentre per gli americani tutti i pazienti dovrebbero far scendere la pressione sistolica sotto i 130 mmHg, per gli europei scendere sotto i 140 mmHg non è certo un fallimento, anzi… se poi il paziente non è anziano e sopporta bene il trattamento si può senz’altro andare oltre.

❱ Per la prima volta le linee guida

raccomandano anche di non scendere sotto i 120/70 nella popolazione anziana. Qual è il razionale di questa scelta? È una raccomandazione di sicurezza: al di sotto di questi limiti pressori si va incontro a un maggiore rischio di un incremento di eventi patologici (la famosa curva J) nonché di ipotensione posturale con cadute e relativi traumi, anche gravi. Nell’anziano, in particolare, cadute da ipotensioni con cause terapeutiche può causare fratture e altre conseguenze drammatiche.

❱ Veniamo ora alla questione fondamentale: come trattare? In tema di trattamento, le linee guida ESC/ESH introducono novità importanti. Fermo restando che le basi della terapia sono sempre le stesse cinque classi di farmaci – diuretici, betabloccanti, calcio-antagonisti, sartani e ACE-inibitori – la task force dell’ESC/ESH ha cercato di dare risposta a una questione fondamentale: considerato che abbiamo a disposizione diversi farmaci efficaci, com’è possibile che, nel mondo, il controllo dell’ipertensione sia ancora fermo? Secondo le ultime stime, infatti, non supera il 13-15 per cento: è un po’ più elevato per i Paesi industrializzati, ma ancor più basso per quelli in via di sviluppo. La risposta è che forse sono state sempre raccomandate strategie sbagliate, e cioè iniziare e insistere con una monoterapia, passare da una monoterapia a un’altra, oppure aggiungere ulteriori farmaci alla monoterapia iniziale in caso di mancato controllo pressorio. Gli approcci basati sulla monoterapia iniziale sono però gravati sia da una bassissima aderenza alla prescrizione terapeutica da parte del paziente sia dalla cosiddetta inerzia terapeutica: quest‘ultima è dovuta al fatto che i pazienti che iniziano con una terapia tendono a mantenerla anche quando l’ipertensione non risulta essere controllata.

❱ Quindi è meglio iniziare subito con due farmaci, come raccomandano le nuove linee guida europee? Sì: le evidenze disponibili mostrano che cominciare con due farmaci consente di evitare il fenomeno dell’inerzia e di aumentare l’aderenza, forse perché i due farmaci iniziali controllano la pressione più rapidamente, e ciò motiva il paziente ad assumere la terapia anche in seguito: si può cioè immaginare che il successo immediato abbia riflessi psicologici positivi, anche in termini di fiducia nel medico; in ogni caso è stato osservato che chi inizia con due farmaci ha più probabilità di un controllo pressorio a lungo termine e meno rischi di eventi patologici. Chiaramente vi sono però anche casi in cui la monoterapia deve rappresentare il primo passo. Nei casi di pressione normale alta candidati alla terapia, per esempio, basta un solo farmaco per arrivare al target così come nei soggetti anziani, è desiderabile, per evitare eccessive cadute pressorie il procedere cautamente.

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Dislipidemie

Trattamento con inibitori PCSK9 in pazienti a differenti livelli di rischio CV UNA REVISIONE SISTEMATICA E UNA METANALISI I farmaci inibitori di PCSK9 sono di recente introduzione nel trattamento delle dislipidemie. Il lavoro qui presentato offre una panoramica, basata sulla revisione della letteratura, sul profilo di beneficio-rischio di queste molecole Matteo B. Suter Oncologia medica, ASST Sette Laghi, Varese Adattato da “PCSK9 inhibitors for treating dyslipidemia in patients at different cardiovascular risk: systematic review and a meta-analysis” Squizzato et al. Intern Emerg Med 2017; 12: 1043-53

L

e lipoproteine a bassa densità (LDL) sono a oggi riconosciute come uno dei principali fattori di promozione dell’aterosclerosi, per quanto riguarda il danno endoteliale fino alla patologia vascolare conclamata, e il loro ruolo come fattore di rischio e target terapeutico in ambito della prevenzione cardiovascolare (CV) è noto [1-3]. Tuttavia, il trattamento della dislipidemia rimane ancora subottimale. La maggior parte dei pazienti affetti da forme familiari di ipercolesterolemia, sia omozigoti (HoFH) che eterozigoti (HeFH), non è in grado di raggiungere i target prefissati nonostante un trattamento massimale, così come anche altri pazienti, pur in assenza di una forma genetica di ipercolesterolemia. Vi sono inoltre soggetti intolleranti alla terapia con statine. Proprotein convertase subtilisin/kexin type 9 (PCSK9) è un enzima codificato negli esseri umani dal gene PCSK9 [4, 5]. PCSK9 circola nel sangue e interagisce con il recettore delle LDL, formando un complesso che viene internalizzato a livello cellulare, dove la modificazione conformazionale del recettore porta a una sua degradazione per via lisosomiale: il risultato finale è una ridotta clearance delle LDL circolanti. È stato dimostrato come le mutazioni di PCSK9 correlino con i livelli di LDL: soggetti con mutazioni attivanti hanno un’ipercolesterolemia da leggera a grave, con aumentato rischio CV [6]. Analogamente, pazienti con mutazioni inattivanti hanno livelli di colesterolo LDL ridotti

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e una significativa riduzione del rischio CV [7-9]. Sono molti i metodi proposti per inibire PCSK9, così da ottenere un livello ottimale di LDL [10]. Gli anticorpi monoclonali (moAbs) sono quelli nella fase più avanzata di sviluppo, con studi randomizzati (RCT) di fase II e III per tre differenti farmaci: evolocumab, alirocumab, bococizumab. Oltre all’efficacia terapeutica nell’abbassare il livello di LDL, è importante definire anche il profilo di sicurezza degli inibitori di PCSK9, visto un meccanismo d’azione unico rispetto agli altri farmaci per le dislipidemie. Abbiamo quindi effettuato una revisione sistematica e una metanalisi dei RCT di fase II e III che confrontino gli inibitori di PCSK9 con un controllo, con lo scopo di determinare: i) le modifiche percentuali del profilo lipidico; ii) l’incidenza di outcome clinici (eventi cardiovascolari e mortalità); iii) l’incidenza di eventi avversi, in particolare quelli più comunemente associati con le statine (incremento delle transaminasi o delle CK), e quelli specifici degli inibitori di PCSK9 (eventi neurocognitivi). Abbiamo effettuato le medesime analisi nei seguenti sottogruppi: pazienti arruolati per fallimento terapeutico del precedente regime ipolipemizzante, pazienti ad alto rischio, pazienti intolleranti alle statine, pazienti trattati con inibitori di PCSK9 come monoterapia di prima scelta; pazienti trattati con ciascuno dei tre moAbs disponibili.


Tabella 1. Caratteristiche degli studi Pazienti

Farmaco

Controllo

Follow Up

End point primario

II

LDL 2,6-4,9 mmol/l Trigliceridi 4,5 mmol/l o meno Framingham 10 year risk score 10%

Evolocumab

Placebo

12 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W12

GAUSS-2

III

Intolleranti alle statine

Evolocumab

Ezitimibe

12 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W12

MENDEL-2

III

LDL 100-190 mg/dl trigliceridi<400 mg/dl Framingham 10 year risk score <10%

Evolocumab

Ezetimibe

12 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W12

LAPLACE-TIMI 57

II

LDL>2,2 mmol/L in terapia con statine da almeno 4W

Evolocumab

Placebo

12 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W12

GAUSS

II

Intolleranti alle statine

Evolocumab

Ezetimibe

12 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W12

DESCARTES

III

LDL>75 mg/dl dopo 4-12W di terapia ipolipemizzante (dieta, atorvastatina o ezitimibe sulla base del Panel III national consensus)

Evolocumab

Placebo

52 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W52

LDL >150 mg/dl senza statina LDL >100 mg/dl sotto terapia con statine LDL >80 mg/dl sotto terapia massimale con statine

Evolocumab

Placebo

12 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W12

Studio

Fase

MENDEL

LAPLACE-2

III

RUTHERFORD

II

HeFH secondo Simon Broome con LDL >100 mg/ dl nonostante terapia massimale

Evolocumab

Placebo

12 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W12

Stein 2012

II

HeFH secondo Simon Broome con LDL >2,6 mmol/l nonostante terapia massimale

Alirocumab

Placebo

12 W (20 W)

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W12

Roth 2012

II

LDL >100 mg/dl sotto terapia con statine

Alirocumab

Placebo

8W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W8

ODYSSEY MONO

III

LDL 100-190 mg/dl, 10-year risk 1-5%

Alirocumab

Ezitimibe

24 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W24

TESLA Part B

III

HoFH (analisi genetica o criteri clinici) con LDL >3,4 mmol/l dopo 4W di dieta e terapia ipolipemizzante

Evolocumab

Placebo

12 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W12

RUTHERFORD 2

III

HeFH secondo Simon Broome con LDL>100 mg/ dl nonostante terapia massimale

Evolocumab

Placebo

12 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W12

OSLER

II

Pazienti arruolati in studi di fase II di evolocumab

Evolocumab

SOC

52 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W52

OSLER 2

III

Pazienti arruolati in studi di fase III di evolocumab

Evolocumab

SOC

52 W

Incidenza di eventi avversi

ODYSSEY LONG TERM

III

HeFH, malattia coronarica nota, o un rischio cardiovascolare equivalente con LDL >70 mg/dl

Alirocumab

Placebo

78 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W24

Ballantyne 2015

II

LDL >80 mg/dl sotto terapia con statine

Bococizumab

Placebo

24 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W12

ODYSSEY COMBO I

III

CVD e LDL >70 mg/dl o CHD (o DM o CKD) e LDL >100 mg/dl sotto terapia con statine

Alirocumab

Placebo

52 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W24

ODYSSEY COMBO II

III

CVD e LDL>70 mg/dl o CHD (o DM o CKD) e LDL>100 mg/dl sotto terapia massimale con statine

Alicorumab

Ezetimibe

52 W (104 W)

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W24

ODYSSEY OPTIONS I

III

CVD e LDL >70 mg/dl o CHD (o DM o CKD) e LDL >100 mg/dl sotto terapia con atorvastatina

Alirocumab

Ezetimibe

24 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W24

ODYSSEY OPTIONS II

III

CVD e LDL >70 mg/dl o CHD (o DM o CKD) e LDL>100 mg/dl sotto terapia con rosuvastatina

Alirocumab

Ezetimibe

24 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W24

YUKAWA 2014

II

HeFH, malattia coronarica nota, o un rischio cardiovascolare equivalente con LDL>3,0 mmol/l

Evolocumab

Placebo

12 W

Riduzione percentuale dal baseline LDL a W24

Note: W, settimane; HeFH, ipercolesterolemia familiare eterozigote; HoFH, ipercolesterolemia familiare omozigote; CVD, malattia cardiovascolare; LDL, lipoproteine a bassa denisitĂ ; CHD, malattia coronarica; DM, diabete mellito; CKD, insufficienza renale cronica.

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Dislipidemie

Metodi Questa revisione sistematica è stata eseguita in accordo con le linee guida Preferred Reporting Items for Systematic reviews and Meta-Analyses (PRISMA) [11]. Abbiamo identificato tutti gli RCT su moAbs anti-PCSK9 indicizzati su MEDLINE e EMBASE fino al gennaio 2016. La strategia di ricerca è stata sviluppata senza restrizioni linguistiche ed effettuata su www.embase.com. Abbiamo utilizzato i seguenti termini: ‘pcsk9 inhibitor’, ‘evolocumab’, ‘alirocumab’, ‘bococizumab’ e le seguenti limitazioni: ‘Cochrane review’, ‘systematic review’ e ‘randomized controlled trial’. Due revisori hanno selezionato gli studi in maniera indipendente. I criteri di eleggibilità degli studi erano i seguenti: i) RCT di fase II o III; ii) moAbs diretti contro PCSK9 utilizzati in monoterapia o in associazione. Gli stessi due revisori hanno estratto indipendentemente anche i dati degli studi e valutato la qualità degli studi dal punto di vista metodologico, in accordo con i criteri Cochrane [12]. L’analisi statistica è stata effettuata con Review Manager (RevMan [Computer program] versione 5.3, 2014). Le differenze negli outcome tra gruppi sono state espresse come medie delle differenze o come odds ratio (OR) aggregati, con il corrispondente intervallo di confidenza al 95 per cento (CI), calcolati con fixed o random effect (metodo DerSimionan e Laird). L’eterogeneità statistica è stata valutata mediante I2, che fornisce una stima della varianza tra studi dovuta all’eterogeneità e non al caso: valori inferiori al 30 per cento sono bassi, tra il 30 e il 50 per cento moderati e sopra al 50 alti. L’analisi è stata effettuata con metodo random effect in casi di eterogeneità moderata o alta [13]. È stato disegnato inoltre un funnel plot per l’associazione tra dimensione dello studio ed errore standard, per eventuali bias di pubblicazione [14].

• La review ha preso in esame gli studi randomizzati e controllati di fase II e III, che valutavano il trattamento ipolipemizzante con tre differenti inibitori di PCSK9 ovvero alirocumab, evolocumab e bococizumab, in una popolazione complessiva di oltre 8.800 pazienti. Stando ai risultati, il trattamento è stato in grado di ridurre i livelli di colesterolo in differenti classi di pazienti, difficili da controllare con le altre terapie disponibili attualmente. • Il trattamento correlava con una riduzione della mortalità per qualsiasi causa, nonostante un follow up breve. È stato evidenziato anche un trend di riduzione degli eventi cardiovascolari, seppure non significativo dal punto di vista statistico

Figura 1 Riduzione percentuale dei livelli di LDL

Note: A10, atorvastatina 10 mg; A80, atorvastatina 80 mg; R40, rosuvastatina 40 mg; R20, rosuvastatina 20 mg; R10, rosuvastatina 10 mg; R5, rosuvastatina 5 mg; S40, simvastatina 40 mg.

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Figura 2 Odds ratio per mortalità

Risultati Abbiamo identificato 330 studi potenzialmente rilevanti. Di questi, 307 sono stati esclusi tramite valutazione del titolo e dell’abstract. I restanti 23 sono stati tutti inclusi nella metanalisi (Tabella 1). Ventitré studi, per un totale di 8.833 pazienti, sono stati quindi inclusi nella revisione sistematica, con una media di 47 settimane di follow up. 4.465 pazienti sono stati arruolati, dopo aver partecipato a studi di fase II e III di evolocumab, in due studi (OSLER 1 e 2), per effettuare un monitoraggio di sicurezza ed efficacia a lungo termine. Tutti questi pazienti sono stati quindi nuovamente randomizzati tra evolocumab e standard of care e seguiti dal completamento dello studio precedente (12esima settimana) fino a 52 settimane. 1.810 di questi pazienti sono già inclusi nella metanalisi, visto che hanno ricevuto, nel corso della fase II o III a cui hanno partecipato, evolocumab 420 mg 4W. Sono stati analizzati solo i dati riguardanti le dosi utilizzate negli studi di fase III, ossia evolocumab 420 mg 4W, alirocumab 150 mg 2W e bococizumab 150 mg 2W. Visto che si tratta in tutti i casi di studi sponsorizzati dai gruppi che hanno sviluppato il farmaco, sono stati definiti tutti come ad alto rischio di bias nella categoria “other bias”.

w Inibitori di PCSK9 Gli inibitori di PCSK9 sono associati con una riduzione statisticamente significativa delle LDL (media=-48,9 per cento; 95 per cento CI -53,7, -44; I2 =94 per cento) (Figura 1), della

apolipoproteina B (media=-39,6 per cento; 95 per cento CI -43,9, -35,9; I2 =94 per cento), dei trigliceridi (media=-10,7 per cento; 95 per cento CI;-14,5, -6,8 I2 =69 per cento) e un aumento delle lipoproteine ad alta densità (HDL) (media =5,6 per cento; 95 per cento CI 4,8, 6,3; I2 =25 per cento) e apolipoproteina A1 (media =4,5 per cento; 95% CI 3,3, 5,7 I2 =45 per cento), nel confronto con i gruppi di controllo. Gli inibitori di PCSK9 sono associati con una riduzione del rischio di morte per qualsiasi causa (OR= 0,34; 95 per cento CI 0,17, 0,69; I2=0 per cento) e con un trend favorevole per quanto riguarda il rischio di eventi cardiovascolari (OR =0,79; 95 per cento CI 0,61, 1,02; I2 =0 per cento) in un’analisi con modello fixed effect se confrontati con il gruppo di controllo (Figure 2 e 3). I dettagli per quanto riguarda gli eventi cardiovascolari sono approfonditi nella tabella 2. Il profilo di sicurezza degli inibitori di PCSK9 in corso di trattamento attivo, confrontato con i vari gruppi di controllo, è stato analizzato per i seguenti outcomes: eventi avversi, OR 1,05 (95 per cento CI 0,95, 1,17; I2 =26 per cento); eventi avversi gravi, OR 0,99 (95 per cento CI 0,87, 1,12; I2 =0 per cento); rialzo delle transaminasi, OR 0,79 (95 per cento CI 0,6, 1,04; I2 =0 per cento); rialzo delle CK, OR 0,7 (95 per cento CI 0,54, 0,92; I2 =0 per cento); sviluppo di anticorpi diretti contro gli inibitori di PCSK9, OR 2,44 (95 per cento CI 1,33, 4,48; I2 =24 per cento). Gli eventi avversi di tipo neurocognitivo, basandosi solo sugli studi che avessero previsto una query nel loro protocollo, avevano un OR 1,38 (95 per cento CI 0,63, 3,04; I2 =32 per cento).

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medicina

Dislipidemie

Tabella 2 Dettaglio degli eventi cardiovascolari Studi

Eventi cardiovascolari – braccio PCSK9

Eventi cardiovascolari – braccio di controllo

MENDEL

1 ictus ischemico non fatale (non farmaco-relato)

0

LAPLACE-TIMI 57*

3 infarti del miocardio non fatali; 4 rivascolarizzazioni; 1 scompenso cardiaco; 1 ictus ischemico non fatale e 1 fatale; 1 morte

1 rivascolarizzazione

GAUSS

1 rivascolarizzazione (già pianificata prima dell’inclusione nello studio)

0

DESCARTES

6 eventi aterosclerotici 2 morti da scompenso cardiaco e infarto del miocardio

2 eventi aterosclerotici

LAPLACE-2

5 eventi cardiovascolari

4 eventi cardiovascolari

RUTHERFORD 2

3 eventi cardiovascolari

0

OSLER

9 pazienti con eventi cardiovascolari 1 morte; 2 casi di angina instabile; 6 rivascolarizzazioni; 2 ictus ischemici non fatali e 1 fatale

8 pazienti con eventi cardiovascolari 2 morti; 3 infarti del miocardio; 2 casi di angina instabile; 4 rivascolarizzazioni; 1 ictus ischemico non fatale e 1 fatale; 1 scompenso cardiaco

OSLER 2

29 eventi cardiovascolari 4 morti; 9 infarti del miocardio; 3 casi di angina instabile; 15 rivascolarizzazioni; 4 ictus ischemici, fatali e non; 1 scompenso cardiaco

31 eventi cardiovascolari 6 morti; 5 infarti del miocardio; 3 casi di angina instabile; 17 rivascolarizzazioni; 7 ictus ischemici fatali e non; 1 scompenso cardiaco

ODYSSEY LONG TERM

72 eventi cardiovascolari 4 morti; 14 infarti del miocardio non fatali; 9 ictus ischemici fatali e non: 9 scompensi cardiaci; 48 rivascolarizzazioni

40 eventi cardiovascolari 7 morti; 18 infarti del miocardio non fatali; 2 ictus ischemici fatali e non; 1 angina instabile; 3 scompensi cardiaci; 24 rivascolarizzazioni

ODYSSEY COMBO I

6 pazienti con eventi cardiovascolari 1 morte; 1 infarto del miocardio non fatale; 2 ictus ischemici fatali e non; 3 rivascolarizzazioni

3 pazienti con eventi cardiovascolari 1 morte; 1 infarto del miocardio non fatale; 1 scompenso cardiaco; 1 rivascolarizzazione

ODYSSEY COMBO II

23 eventi cardiovascolari 2 morti; 12 infarti del miocardio non fatali; 1 ictus ischemico non fatale; 1 angina instabile; 1 scompenso cardiaco; 16 rivascolarizzazioni

9 eventi cardiovascolari 2 morti; 3 infarti del miocardio non fatali; 1 ictus ischemico non fatale; 1 scompenso cardiaco; 4 rivascolarizzazioni

ODYSSEY OPTIONS I

1 evento cariovascolare 1 rivascolarizzazione

1 evento cardiovascolare 1 morte

ODYSSEY OPTIONS II

0

2 eventi cardiovascolari 1 infarto del miocardio non fatale; 1 ictus ischemico non fatale

YUKAWA 2014

0

2 eventi cardiovascolari 2 rivacolarizzazioni

Note: studi senza eventi cardiovascolari non sono stati inclusi. *11 eventi cardiovascolari in 8 pazienti; 5 rivascolarizzazioni; 3 infarti del miocardio non fatali; 1 morte cardiaca improvvisa; 1 scompenso cardiaco; 1 angina instabile

w Sottoanalisi basate sull’indicazione clinica Sono state effettuate le seguenti sottoanalisi, basate sull’indicazione clinica all’utilizzo degli inibitori di PCKS9: pazienti che non raggiungono il livello target di LDL con un regime ipolipemizzante (6.148 pazienti), con un focus sui pazienti ad alto rischio, pazienti intolleranti alle statine (215), e pazienti naïve per quanto riguarda trattamenti ipolipemizzanti (423). Fallimento terapeutico dei regimi ipolipemizzanti Quindici studi, per un totale di 6.148 pazienti che non hanno raggiunto il livello di LDL con le terapie standard, trattati con gli inibitori di PCSK9, sono stati inclusi in questa analisi (Tabella 1). Gli inibitori di PCSK9 sono associati con una riduzione statisti-

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camente significativa delle LDL (media=-50,8 per cento; 95 per cento CI -56,6, -44,9; I2=93 per cento), della apolipoproteina B (media=-41,1 per cento; 95 per cento CI -46,5, -35,6; I2=94 per cento), dei trigliceridi (media =-11,9 per cento; 95 per cento CI -16,2, -7,6 I2=73 per cento) e un aumento delle HDL (media =5,5; 95 per cento CI 4,7, 6,3; I2=39 per cento) e dell’apolipoproteina A1 (media =4,4 per cento; 95 per cento CI 3,1, 5,8 I2 =56 per cento), confrontati con i gruppi di controllo. Gli inibitori di PCSK9 non sono associati con una riduzione statisticamente significativa del rischio di eventi CV (OR =0,97; 95 per cento CI 0,71, 1,34; I2=0 per cento), ma con una riduzione statisticamente significativa del rischio di morte per qualsiasi causa (OR =0,36; 95 per cento CI 0,15, 0,89; I2=0 per cento). Il profilo di sicurezza degli inibtiori di PCSK9, confrontato con


i gruppi di controllo, è stato analizzato per i seguenti outcomes: eventi avversi, OR 0,98 (95 per cento CI 0,88, 1,08; I2 =0 per cento); eventi avversi gravi, 0,98 (95 per cento CI 0,83, 1,15; I2=0 per cento); rialzo delle transaminasi, OR 0,78 (95 per cento CI 0,55, 1,11; I2 =0 per cento); rialzo delle CK, 0,81 (95CI 0,59, 1,11; I2 =5 per cento); eventi avversi neurocognitivi, OR 1,19 (95 CI 0,51, 2,79; I2 =21 per cento); sviluppo di anticorpi diretti contro gli inibitori di PCKS9, OR 4,88 (95 CI 1,82, 13,07; I2 =0 per cento). Pazienti ad alto rischio Sei studi, per un totale di 2.761 pazienti che non hanno raggiunto il loro target di LDL con la terapia ipolipemizzante massimale, considerati ad alto rischio per le loro condizioni genetiche (HoFH o HeFH) o la loro storia clinica (malattia coronarica dimostrata), trattati con gli inibitori di PCSK9, sono stati inclusi nell’analisi. Gli inibitori di PCSK9 sono associati con una riduzione statisticamente significativa delle LDL (media =-56,7 per cento; 95 CI -63,3, -50,2; I2 =81 per cento), dell’apolipoproteina B (media =-47,1 per cento; 95 CI -53, -41,2; I2 =82 per cento), dei trigliceridi (media =-15,2 per cento; 95 CI -20,2, -10,2 I2 =33 per cento) e un aumento delle HDL (media =7; 95 CI 3,8, 10,3; I2 =57 per cento) e dell’apolipoproteina A1 (media =5,5 per cento; 95 CI 1,9, 9,1 I2 =74 per cento), confrontati con i gruppi di controllo. Gli inibitori di PCSK9 non sono associati con una riduzione statisticamente significativa del rischio di eventi CV (OR =0,90; 95 CI 0,61, 1,33; I2 =0 per cento), ma con una riduzione statisticamente significativa del rischio di morte per

qualsiasi causa (OR =0,02; 95 CI 0,00, 0,41; I2 =non applicabile), anche se i dati derivano dall’unico studio con un follow up (78 settimane) sufficiente per commentare outcome clinici. Il profilo di sicurezza è stato analizzato per i seguenti outcomes: eventi avversi, OR 1,08 (95 CI 0,76, 1,54; I2 =37 per cento); eventi avversi gravi, 0,96 (95 CI 0,78, 1,19; I2 =0 per cento); rialzo delle transaminasi, OR 0,77 (95 CI 0,50, 1,19; I2 =0 per cento); rialzo delle CK, 0,76 (95 CI 0,51, 1,12; I2 =7 per cento); gli eventi avversi neurocognitivi erano più comuni nel gruppo degli inibitori di PCSK9, anche se i dati sono dell’unico studio con una query dedicata nel protocollo, OR 2,3 (95CI 0,78, 6,83, I2 non applicabile); non sono stati individuati anticorpi anti-inibitori di PCSK9 in nessuno studio. Pazienti intolleranti alle statine Due studi, per un totale di 215 trattati con evolocumab 420 mg 4W, in uno studio in monoterapia, nell’altro come farmaco on top dell’ezetimibe, sono stati inclusi in questa analisi. In generale, evolocumab è associato con una riduzione delle LDL (media =-41,7 per cento; 95 CI -51,9, -31,5; I2 =66 per cento), dell’apolipoproteina B (media =-34,1 per cento; 95 CI -39, -29,2; I2 =0 per cento), dei trigliceridi (media =-4,5 per cento; 95 CI -16,1, 7,4 I2 =0 per cento) e un aumento delle HDL (media =7,4; 95 CI 2,7, 12,1; I2 =36 per cento) e dell’apolipoproteina A1 (media =5,2 per cento; 95 CI -1,2, 12,2; I2 =53 per cento), confrontata con i gruppi di controllo. Si è verificato un evento cardiovascolare, ma non nel gruppo al dosaggio qui analizzato. Non ci sono stati decessi durante il follow up.

Figura 3 Odds ratio per eventi cardiovascolari

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Dislipidemie

Il profilo di sicurezza di evolocumab, confrontato con il gruppo di controllo, è stato analizzato per eventi avversi, OR 0,92 (95 CI 0,50, 1,71; I2 =0 per cento); gli altri outocome erano riportati solamente in uno studio, e non sono quindi stati analizzati. Monoterapia Tre studi, per un totale di 423 pazienti trattati con evolocumab 420 mg 4W (320 pazienti) e alirocumab 75-150 mg 2W (103 pazienti), sono stati inclusi nell’analisi. Gli inibitori di PCSK9 sono associati con una riduzione statisticamente significativa delle LDL (media =-40,6 per cento; 95 CI -51,3, -29,9; I2 =88 per cento), dell’apolipoproteina B (media =-33,6 per cento; 95 CI -41,9, -25,4; I2=86 per cento), dei trigliceridi (media =-3,6 per cento; 95 CI -11,5, 4,4 I2=0 per cento) e con un aumento delle HDL (media =5 per cento; 95 CI 1,2, 8,9; I2 =0 per cento) e dell’apolipoproteina A1 (media =5,9 per cento; 95 CI 1,9, 9,9 I2 =0 per cento), confrontati con i gruppi di controllo. È stato segnalato un solo evento cardiovascolare e nessun decesso. Il profilo di sicurezza è stato analizzato per i seguenti outcomes: eventi avversi, OR 0,78 (95 CI 0,52, 1,17; I2=0 per cento); eventi avversi gravi, 0,71 (95 per cento CI 0,10, 5,12; I2=0 per cento); il rialzo delle transaminasi erano riportate in un solo studio; il rialzo delle CK, 0,34 (95 per cento CI 0,08, 1,56; I2=0 per cento); non sono stati riportati eventi neurocognitivi; lo sviluppo di anticorpi diretti contro gli inibitori di PCSK9, OR 3,56 (95 CI 0,74, 17,20; I2=67 per cento).

w Sottoanalisi aggiuntive Sono state confrontate le differenti durate di trattamento (da 8 a 72 settimane) e i differenti farmaci. In un’analisi con modello fixed-effect, gli outcome erano sovrapponibili, indipendentemente dalla durata del trattamento e dal farmaco utilizzato.

w Bias di pubblicazione Il funnel plots appare simmetrico, suggerendo l’assenza di un bias di pubblicazione, per tutte le variabili analizzate, salvo la riduzione percentuale di LDL, probabilmente a causa delle popolazioni molto eterogenee valutate.

Discussione Questa rappresenta, allo stato delle nostre conoscenze, la prima revisione sistematica e metanalisi a includere RCTs di fase II e III su tre differenti moAbs, evolocumab, alirocumab e bococizumab, e la prima a presentare dati da una prospettiva clinica, basata sull’indicazione all’utilizzo di questi farmaci, così da dare nozioni rilevanti al clinico (e non solo al farmacologo). La nostra metanalisi, che include 8.833 pazienti, dimostra come gli inibitori di PCSK9 siano altamente efficaci nel normalizzare il profilo lipidico in pazienti selezionati, con difficoltà a controllare i valori di colesterolo, e suggerisce che questi farmaci possano ridurre la mortalità per qualsiasi causa, nonostante un follow up breve, e conferma un trend di riduzione dell’incidenza di eventi cardiovascolari, anche se senza una significatività statistica (p =0,07).

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La nostra analisi mostra che gli inibitori di PCSK9, confrontati con statine, ezetimibe o placebo, siano in grado di migliorare il profilo lipidico. I dati sono concordi per tutti e due i moAbs studiati più in dettaglio (evolocumab e alirocumab), mentre per quanto riguarda bococizumab, dato il follow up ridotto, i dati non sono maturi per trarre delle conclusioni: sottoanalisi su diversi parametri, sia clinici che di laboratorio, suggeriscono che le molecole siano sostanzialmente sovrapponibili per efficacia e tossicità. Le analisi del profilo di sicurezza non hanno evidenziato differenze di rilievo tra gli inibitori di PCSK9 studiati e i controlli utilizzati negli studi in termini di eventi avversi, eventi avversi gravi, rialzo delle transaminasi e delle CK. In questo i risultati sono allineati con le precedenti pubblicazioni. Inoltre la nostra analisi ha confermato un trend di aumentata incidenza di eventi avversi neurocognitivi nei pazienti trattati con il farmaco sperimentale, anche se senza una significatività statistica. Vi sono studi in corso per chiarire l’impatto degli inibitori di PCSK9 sulle funzioni cognitive. Tra i punti di forza di questo lavoro segnaliamo l’approccio metodologico, la selezione di tutti gli studi in fase II e III effettuati con i tre moAbs, e la concordanza dei risultati delle sottoanalisi. Vi sono però alcuni limiti che vanno evidenziati. Anzitutto, abbiamo combinato risultati ottenuti con tre differenti molecole. Nonostante questo, le sottoanalisi per ciascun farmaco non hanno evidenziato delle differenze rilevanti per quanto riguarda efficacia e sicurezza. Come secondo punto, le differenze tra i vari studi per quanto riguarda braccio di controllo e criteri di inclusione, soprattutto per quanto riguarda le caratteristiche della popolazione studiata, limitano la possibilità di derivare conclusioni definitive dai dati. Le sottoanalisi suggeriscono una maggiore efficacia degli inibitori di PCSK9 nel sottogruppo dei pazienti ad alto rischio cardiologico. Come già specificato, abbiamo dei pazienti in duplicato, quelli arruolati in studi di fase II e III e poi riarruolati negli studi OSLER: il ruolo cardine di questi studi per quanto riguarda sicurezza e outcome clinici ci ha portato a non escludere questi duplicati. Va poi notato come lo studio con maggior follow up terminava a 72 settimane, un intervallo temporale decisamente troppo corto per quanto riguarda outcome clinici e di sicurezza. Un’altra questione aperta rimane lo sviluppo di anticorpi diretti contro i moAbs: una recente pubblicazione ha avanzato l’ipotesi che siano proprio degli anticorpi neutralizzanti a determinare la mancata efficacia di bococizumab [15]. Infine va rilevato come vi sia un limite metodologico: abbiamo eseguito per alcuni outcome una metanalisi di variazioni percentuali, che non sono normalmente distribuite. Vi sono alcuni lavori che suggeriscono l’uso di metodi più complessi quali il rapporto tra le medie. Nonostante questi limiti, la nostra analisi offre informazioni rilevanti per i medici prescrittori, in particolare per quanto riguarda la selezione dei pazienti da candidare a questo trattamento. Per concludere, gli inibitori di PCSK9 sono superiori alle attuali terapie ipolipemizzanti in termini di efficacia laboratoristica e, secondo i pochi dati disponibili, anche in termini clinici. Valutazioni sull’efficacia relativa di ciascun anti-PCSK9 non può essere fatta vista l’assenza di studi di confronto diretti. segue a pagina 32


medicina

Dislipidemie

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medicina

Case report

Un’insolita vegetazione endocarditica Dedichiamo queste pagine alla presentazione di un interessante caso di endocardite infettiva a localizzazione atipica, in una paziente giovane con patologia oncologica Giuseppe Macca1, Salvatore D’Isa2 1. ASST Melegnano-Martesana, PO Ospedale Zappattoni, Riabilitazione Multispecialistica Cassano d’Adda (Milano); 2. Policlinico San Marco, Zingonia-Osio Sotto (Bergamo), Istituti Ospedalieri Bergamaschi, Gruppo San Donato

L’

incidenza di endocardite infettiva (EI) varia a seconda dei Paesi da 3 a 10 casi/100.000 soggetti/anno; il trend epidemiologico peraltro, nei Paesi industrializzati, ha subito negli ultimi anni sostanziali cambiamenti. Se in passato l’EI si riscontrava prevalentemente in giovani adulti già affetti da patologia valvolare (nella maggior parte dei casi di tipo reumatico), oggi colpisce anche pazienti in età avanzata, spesso in seguito all’erogazione di procedure sanitarie di tipo invasivo (emodialisi, cateterismo arterioso e venoso, impianti di dispositivi sottocutanei o intravascolari) che possono determinare lo sviluppo di batteriemia con successiva comparsa di EI, sia in assenza di una patologia valvolare nota sia in presenza di protesi valvolare. Il 30 per cento dei casi di EI è associata alle cure sanitarie; questo tipo di endocardite, per la sua crescente incidenza e prognosi severa, costituisce un importante problema sanitario. Le indagini epidemiologiche docu-

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mentano un’incidenza di EI particolarmente bassa nei pazienti giovani, ma mostrano un drastico incremento con l’avanzare dell’età, raggiungendo il picco di 14,5 casi/ 100.000 soggetti/ anno fra i 70 e gli 80 anni di età. In tutti gli studi epidemiologici, il rapporto maschi/femmine è ≥ 2:1, dove la preponderanza del sesso maschile rimane ancora da chiarire. I pazienti di sesso femminile hanno, in teoria, una prognosi peggiore e sono più raramente sottoposti a interventi di chirurgia valvolare rispetto ai maschi.

Meccanismo patogenetico L’endocardite è un processo infiammatorio che interessa l’endocardio, il sottile rivestimento delle pareti interne delle cavità cardiache. Se l’infiammazione è a carico delle pareti degli atri e dei ventricoli, si parla di endocardite parietale; nel caso, molto più frequente, in cui interessi gli apparati valvolari, si ha un’endocardite valvolare. L’EI si verifica quando microrganismi che provengono

da altre parti del corpo, come bocca, tonsille, intestino, pelle, vie urinarie, penetrano nel torrente ematico e raggiungono il cuore. Più di frequente è causata da batteri che, in presenza di deficit del sistema immunitario o di difetti congeniti, possono insediarsi nell’endocardio e dar vita a lesioni che vengono chiamate “vegetazioni”, ovvero escrescenze formate da materiale fibrinoso dentro cui si annidano i patogeni. Dalle vegetazioni possono staccarsi frammenti che attraverso il torrente ematico possono raggiungere altri distretti, disseminando l’infezione. I microrganismi più frequentemente chiamati in causa nell’EI sono rappresentati da S. viridians o S. bovis, organismi HACEK, S. aureus senza altro focolaio primario o gli Enterococchi. Quando l’endocardite interessa le strutture valvolari, può causare alterazioni permanenti, determinandone il restringimento (stenosi) o l’incontinenza (insufficienza), o entrambe. È più frequente nei soggetti che hanno un’anomalia o un difetto congenito e può colpire anche valvole protesiche,


soprattutto nel primo anno dopo l’impianto. Le strutture prevalentemente interessate sono le valvole cardiache, ma possono essere coinvolte anche difetti del setto, corde tendinee o pareti endocardiche atriali e/o ventricolari.

Come e quando porre diagnosi di EI Le metodiche di imaging, soprattutto l’ecocardiografia, giocano un ruolo fondamentale sia nella diagnosi che nel trattamento dell’EI. L’ecocardiografia è anche utile per la valutazione prognostica dei pazienti con EI e per il follow-up in corso di terapia antibiotica. Oggigiorno, la sensibilità per la diagnosi di vegetazioni su valvola nativa o protesica è, rispettivamente, del 70 e 50 per cento per l’ecocardiografia transtoracica (ETT) e del 96 e 92 per cento per l’ecocardiografia transesofagea (ETE) , mentre la specificità si aggira intorno al 90 per cento per entrambe le tecniche. L’identificazione delle vegetazioni può risultare difficile per il riscontro di presistenti lesioni valvolari (prolasso valvolare mitralico, lesioni degenerative calcifiche) o in presenza di protesi valvolari, vegetazioni di piccole dimensioni (<2-3 mm) o recente embolizzazione, e nei casi di EI non vegetativa. La diagnosi certa si basa sull’identificazione della causa microbica riscontrando la sua presenza nel sangue o nelle vegetazioni o nel materiale embolico prelevato chirurgicamente. Tuttavia, senza dover attendere l’esito degli esami colturali o dell’esame anatomopatologico, la diagnosi deve essere sospettata quando un paziente febbrile si presenta con uno o più reperti fondamentali per endocardite infettiva: una lesione cardiaca predisponente o un comportamento a rischio, una batteriemia, un fenomeno embolico e la prova di un processo endocarditico in atto. Vengono utilizzati per una conferma

Tabella 1. Criteri diagnostici maggiori per EI ❱❱ Coltura ematica positiva per organismi tipici dell’endocardite infettiva (S. viridians o S. bovis, organismi HACEK, S. aureus senza altro focolaio primario, Enterococco) da 2 diverse colture ematiche o 2 colture positive da campioni prelevati a distanza di >12 ore, o 3 o al massimo 4 colture ematiche separate (primo e ultimo campione prelevati a distanza di 1 ora) ❱❱ Ecocardiogramma con massa intracardiaca oscillante sulla valvola o sulle strutture di supporto, nel percorso del flusso rigurgitante o su materiale impiantato in assenza di spiegazione anatomica alternativa, o ascesso, o neo deiescenza parziale di valvola protesica o nuovo rigurgito valvolare ❱❱ Coltura ematica positiva singola per la Coxiella burnetii o titolo anticorpale IgG antifase 1 >1:800

diagnostica di EI i cosiddetti Criteri di Duke modificati (Tabella 1 e 2). La diagnosi può essere ritenuta confermata quando vi sia la copresenza di : w 2 criteri maggiori e 0 criteri minori; w 1 criterio principale e 3 criteri minori; w 0 criteri principali e 5 criteri minori. Appare evidente che l’ecocardiografia giochi un ruolo fondamentale nella diagnosi dei pazienti con EI. I tre reperti ecocardiografici considerati criteri maggiori per la diagnosi di EI sono i seguenti: la documentazione di vegetazioni, la presenza di ascessi o

pseudoaneurismi e il riscontro di nuova deiscenza di una protesi valvolare. Diagnosi errate di EI possono essere formulate in presenza di trombi, escrescenze di Lambl, prolasso della cuspide, rottura delle corde tendinee, fibroelastoma valvolare, lesioni valvolari degenerative o mixomatose, filamenti di fibrina adesi all’endotelio valvolare (strand), lupus eritematoso sistemico (endocardite di LibmanSacks), sindrome da anticorpi antifosfolipidi primaria, affezioni reumatoidi o vegetazioni marantiche. Pertanto i risultati dell’esame ecocardiografico devono essere sempre e comunque interpretati con cautela, prendendo

Tabella 2. Criteri diagnostici minori per EI ❱❱ Condizione cardiaca predisponente o uso di farmaci endovenosi ❱❱ Temp >38 gradi C (100,4 gradi F) ❱❱ Fenomeni vascolari: emboli arteriosi, infarti polmonari, aneurismi micotici, emorragia endocranica, emorragie congiuntivali, lesioni di Janeway ❱❱ Fenomeni immunologici: glomerulonefrite, noduli di Osler, macchie di Roth, fattore reumatoide ❱❱ Evidenza microbiologica: coltura ematica positiva, ma che non soddisfa un criterio principale come descritto sopra o evidenza sierologica di infezione attiva da un organismo possibile causa di endocardite (escluso stafilococco coagulasi negativo e altri contaminanti comuni)

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Case report

in considerazione la presentazione clinica del paziente e la probabilità di EI. L’ecocardiografia è inoltre, fondamentale nella stratificazione prognostica e nel follow-up sia in corso di terapia antibiotica sia a medio e

lungo termine. Già con l’ETT è spesso possibile seguire l’evoluzione dei processi endocarditici, dei vizi valvolari e del sovraccarico cardiaco indotto, rendendola la diagnostica di riferimento per i pazienti con EI in atto o pregressa.

presentazione del caso ❱❱ Riportiamo il caso di una giovane donna di 31 anni ricoverata presso il reparto di Medicina per la comparsa di iperpiressia al proprio domicilio. La paziente era nota al reparto di Oncologia per recente intervento (luglio 2017) di enucleoresezione al quadrante supero-esterno della mammella sinistra. L’esame istologico documentava un carcinoma infiltrante e, anche in relazione al riscontro di noduli secondari locoregionali evidenziati da esame TC e PET del torace, la paziente veniva sottoposta a un ciclo di chemioterapia. Successivamente si optava per eseguire una mastectomia radicale e, in relazione all’istologia e al profilo recettoriale (che non poneva indicazione a terapia ormonale), si ritenne indicato programmare ulteriori due cicli di chemioterapia, ultimo dei quali effettuato in data 07/02/2018. La paziente veniva inizialmente sottoposta ad elettrocardiogramma, risul-

tato entro i limiti di norma; RX torace che non evidenziava lesioni pleuroparenchimali in atto; esame colturale delle urine che dimostrava assenza di crescita batterica e fungina. Tuttavia agli esami ematochimici si configurava un quadro di pancitopenia con l’esame emocromocitometrico che evidenziava valori di emoglobina di 9,5 gr/dl, di piastrine 88.000/ml, di globuli bianchi 500/ml e neutrofili 300/ml. In considerazione del quadro clinico, veniva eseguito campionamento seriato per esame emocolturale che dimostrava positività per S. epidermidis. Si eseguiva anche esame colturale alla punta del catetere venoso centrale a inserzione periferica precedentemente posizionato, risultato negativo per crescita batterica e fungina. Alla luce di tali riscontri veniva richiesto un ETT. L’esame mostrava normali dimensioni e cinesi biventricolare,

figura 1 ETE: presenza di vegetazione

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assenza di alterazioni a carico delle valvole mitralica e tricuspide con immagine sospetta per endocardite a carico della valvola aortica, caratterizzata da ispessimento focale delle cuspidi e da sfumata massa ecodensa in regione sopravalvolare bulbare. Tale reperto non è tipico di una lesione endocarditica, tuttavia, visto il quadro clinico, si procedeva a effettuare un’ETE, per una migliore definizione che tale metodica offre. L’ETE dimostrava ispessimento del margine libero delle cuspidi della valvola aortica, in particolare la coronarica sinistra, con lieve prolasso della cuspide non coronarica, in assenza di rigurgito significativo. Inoltre si confermava, in corrispondenza del bulbo aortico posteriore, una formazione debolmente ecodensa, mobile, di circa 8 mm di diametro (Figura 1). Se da una parte l’ispessimento del margine libero delle cuspidi e il lieve prolasso della cuspide non coronarica non assumevano carattere di rilievo e non soddisfacevano i criteri di Duke per endocardite, dall’altra parte la presenza di formazione vegetante, pur in una localizzazione atipica quale il bulbo aortico, diveniva un dato assai rilevante in relazione al quadro clinico. Secondo i criteri di Duke modificati, non era possibile confermare la diagnosi di endocardite in quanto lo S.


epidermidis, isolato dalle emocolture, non è tra i patogeni contemplati mentre il riscontro di vegetazione presenta una localizzazione atipica rispetto a quanto è segnalato in letteratura. Tuttavia considerata la presenza di febbre senza altra causa individuabile e la condizione di immunodepressione della paziente, veniva impostato trattamento antibiotico con tazobactam/ piperacillina. Con tale terapia la paziente diveniva rapidamente apiretica. Dopo 2 settimane veniva programmato un ecocardiogramma di controllo. L’ETT comunque, permetteva di documentare chiaramente la scomparsa delle immagini ecodense precedentemente segnalate (Figura 2), in particolare non vi era più evidenza di formazioni vegetanti al bulbo aortico posteriore e la valvola aortica mostrava una normale ecogenicità, spessore e dinamica delle cuspidi. Alla luce della raggiunta stabilità clinica, in paziente apiretica e asintomatica, veniva attivato ADI per le cure infermieristiche e per la prosecuzione della terapia antibiotica infusiva al domicilio (tazobactan/piperacillina e teicoplanina), con indicazione a nuovo controllo ecocardiografico a distanza di circa 3 settimane che veniva effettuato, confermando così la completa risoluzione della lesione vegetante precedentemente dimostrata.

figura 2 ETE: assenza di

discussione ❱❱ Le manifestazioni endocarditiche descritte in letteratura sono

rappresentate generalmente dall’interessamento di valvole cardiache native o di valvole protesiche e, in una percentuale ridotta di pazienti è anche possibile il coinvolgimento endocarditico a carico di difetti del setto interatriale, di corde tendinee o delle pareti endocardiche atriali e/o ventricolari. Localizzazioni distinte rispetto a quanto sopra riportato non hanno a oggi avuto un riconoscimento diagnostico univoco. Il caso clinico riportato tuttavia, mette in risalto la possibilità di coinvolgimento endocarditico anche di strutture che, per caratteristiche anatomiche e fisiologiche, apparentemente non sono idonee all’impianto di vegetazioni. Il tratto di aorta sopravalvolare rappresenta una struttura ad alto flusso emodinamico e le caratteristiche endoteliali delle pareti vascolari sono distinte da quelle dell’endocardio valvolare e delle strutture intracardiache, generalmente coinvolte in processi infettivi, sui quali i germi in circolo hanno un peculiare tropismo. L’ipotesi principale che sostiene l’impianto di vegetazioni endocarditiche in localizzazioni del tutto atipiche, è basata sulla spiccata immunodepressione che presentava la paziente, pancitopenica e con significativa patologia oncologica, inducendo una vulnerabilità tropica sull’endotelio vascolare dell’aorta, facilitando quindi l’insediamento batterico. Il patogeno isolato, lo Staphylococcus epidermidis, non è considerato tra quelli generalmente causa di EI, avvalorando quindi l’ipotesi di uno stato di vulnerabilità. La presenza delle formazioni vegetanti documentate allo studio ecocardiografico non è di per sé sufficiente per porre diagnosi di endocardite infettiva. Infatti, la localizzazione atipica delle lesioni descritte potrebbe configurare un’eziologia distinta da quella infettiva. Tuttavia, nel caso in questione riteniamo che possa essere formulata la diagnosi di EI a localizzazione atipica sulla base della concreta evidenza di vegetazioni, nel contesto clinico di iperpiressia e di emocolture positive per S. epidermidis. A ulteriore conferma della diagnosi appare la completa risoluzione delle formazioni endocarditiche dopo ciclo di terapia antibiotica mirata, in paziente contestualmente divenuta apiretica. Tale evidenza supporta fortemente la diagnosi di EI eradicata dal trattamento antibiotico effettuato. Pertanto la nostra diagnosi finale è stata di endocardite vegetazione a localizzazione atipica e a genesi batteriologica rara in soggetto immunocompromesso. In conclusione, il caso clinico descritto pone l’accento sull’importanza di una valutazione multidisciplinare e particolarmente attenta alle comorbidità e condizioni cliniche peculiari dei pazienti, in quanto alcuni soggetti possono sfuggire alle classificazioni riportate in letteratura e alle indicazioni suggerite dalla Linee guida. Nel nostro caso, in base ai soli criteri di Duke, non sarebbe stato possibile effettuare diagnosi di endocardite batterica. Il decorso clinico e i riscontri strumentali hanno invece, confermato che l’insorgenza di EI può manifestarsi in soggetti particolarmente compromessi dal punto di vista immunitario, con localizzazioni insolite e a eziologia batterica infrequente.

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Segnalazioni

Disturbo d’ansia generalizzato Valutazione degli effetti di un approccio integrato fitoterapia-psicoterapia el corso degli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi in letteratura circa l’azione ansiolitica di numerosi componenti naturali, di origine vegetale. Il crescente interesse verso i fitoterapici nasce essenzialmente dal fatto che molto spesso i medici e i pazienti affetti da disturbo d’ansia generalizzato (GAD) sono restii a intraprendere un trattamento farmacologico standard ovvero una terapia per lo più a base di benzodiazepine. Si tratta, come ben noto, di farmaci con documentata attività di efficacia, gravati tuttavia da importanti effetti collaterali, tra cui possiamo ricordare dipendenza, anergia, disturbi gastrointestinali, disturbi dell’equilibrio, apatia, anedonia, rallentamento ideomotorio, disturbi mnesici e attentivi. Tra i componenti naturali con riconosciuta attività calmante sul SNC possiamo citare il biancospino, la melissa e il magnesio. Il biancospino grazie all’azione sedativa sul sistema nervoso e alla sua attività bradicardizzante è di aiuto nei casi in cui lo stato ansioso si accompagni a manifestazioni cardiovascolari, come una lieve tachicardia. La melissa grazie alla sua attività antispastica oltre che rilassante può giovare nei casi in cui ci sia una somatizzazione dell’ansia a livello viscerale (Cases J et al. Med J Nutr Metab 2011; 4: 211-8). Il magnesio infine interviene come regolatore della trasmissione degli impulsi nervosi e neuromuscolari, normalizzando l’attività dell’ipotalamo (Hanus M et al. Curr Med Res Opin 2004; 20: 63-71). In questo spazio riportiamo l’esperienza di un gruppo di ricerca dello Studio Libra di Siena e dell’Università degli studi di Siena (Biagi L et al. Questioni di clinica 2017; n. 2: Suppl. 5), che aveva lo scopo di valutare l’efficacia di un integratore a base di biancospino, melissa e magnesio (vagostabil®, Cristalfarma ) nel facilitare la ripresa da stati d’ansia generalizzata in associazione a terapia psicologica. Il lavoro è interessante per due aspetti. Innanzitutto la scelta di un trattamento integrato, nata dalla volontà di proporre un approccio che ottimizzasse efficacia e sicurezza sul paziente. In secondo luogo la scelta di valutare la validità di tale approccio attraverso la registrazione e il monitoraggio delle diverse componenti del profilo psicofisiologico (PPF) del paziente. Tale metodica permette di ottenere una valutazione oggettiva del cambiamento di alcuni parametri in fun-

zione di un trattamento in atto. Nello specifico, nel paziente con GAD il PPF consiste nella registrazione simultanea di più parametri che sono attività elettrica dei muscoli cutanei (EMG), conduttanza cutanea (GSR), temperatura periferica (TEMP), frequenza cardiaca e variabilità della frequenza cardiaca (HRV). L’esperienza riguarda il caso di una paziente con GAD, definito secondo i criteri DSM-V, con sintomatologia caratterizzata da ansia generalizzata, sporadici episodi di attacco di panico, abulia, astenia, anedonia, alterazioni del ciclo sonno-veglia. In seguito a un’analisi più approfondita, sono emersi lievi disturbi di memoria e delle funzioni cognitive, con eccessive preoccupazioni riguardo alla propria salute fisica, difficoltà di adattamento alle situazioni problematiche, tendenza alla dubbiosità, all’autosvalutazione e all’autoaccusa. Alla paziente è stata proposta un’integrazione con vagostabil® (3 cp/die) in associazione a psicoterapia, per 3 mesi. Le valutazioni sono state effettuate al basale (T0), dopo 45 giorni (T1) e a 90 giorni (T2): sono emerse interessanti variazioni dei parametri psicofisiologici tra T0 e T2, e dal punto di vista affettivo la paziente ha riferito riduzione della sintomatologia psicologica e la scomparsa dei deficit cognitivi. GSR e HRV sono risultati i parametri più sensibili per la valutazione degli effetti del trattamento. Il trattamento integrato ha prodotto un aumento del parametro TEMP e la riduzione dell’EMG del muscolo frontale, come previsto durante un recupero psicologico dello stato di calma. Secondo gli Autori, l’associazione tra componenti naturali ad azione rilassante sul sistema nervoso e psicoterapia può essere un valido modello da seguire per il ripristino di uno stato di rilassamento psicologico in soggetti con lievi disturbi associati a stati d'ansia generalizzata. Studiando i parametri psicofisiologici, si sono potute osservare le modificazioni dell’attività neurovegetativa e come l’associazione vagostabil®/psicoterapia abbia favorito un riequilibrio dell’asse simpatico-parasimpatico. Alla luce dei risultati ottenuti, l’associazione fitoterapia-psicoterapia studiata potrebbe rappresentare una valida opzione per la gestione non farmacologica dei disturbi associati a stati d’ansia generalizzata, sia di carattere psichico che psicosomatico.

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Chiesi

Per la BPCO arriva la “triplice” fissa ICS/LABA/ LAMA made in Italy

Sottodiagnosi, scarsa aderenza alle terapie, ma anche necessità di una più semplice comunicazione con il paziente

S

ono questi i tratti salienti della BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva), che affligge oltre 3,5 milioni di italiani e da sola è responsabile di circa il 50-55 per cento dei decessi per cause respiratorie nel nostro Paese. I numeri non sono nuovi, e nemmeno la tematica. Se ne parla sempre più spesso anche nell’ambito di campagne di sensibilizzazione e informazione alla popolazione; eppure la patologia resta in una sorta di limbo nonostante il riconosciuto impatto clinico, economico e sociale. La BPCO è stata al centro di un incontro che si è tenuto lo scorso 10 ottobre a Milano, nell’ambito del quale sono stati presentati interessanti novità sul fronte della terapia. È disponibile infatti, anche nel nostro Paese la tripla associazione fissa in formulazione extrafine ICS/ LABA/LAMA (beclometasone dipropionato/formoterolo/glicopirronio) che oltre all’efficacia ampiamente dimostrata permette di semplificare in modo drastico la terapia del paziente. “Per i pazienti con BPCO che presentano sintomi importanti, mancanza di respiro, tosse cronica, eccessiva produzione di catarro, e a rischio di riacutizzazioni, si tratta della migliore tra le opzioni terapeutiche possibili con l’utilizzo di un solo inalatore, in quanto ha dimostrato di essere più efficace rispetto alle classi farmacologiche con cui si è confrontata negli studi clinici, nel ridurre la frequenza e l’intensità delle riacutizzazioni e nel migliorare i sintomi, la funzionalità polmonare e la qualità di vita in una percentuale più alta di pa-

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zienti”, ha sottolineato Alberto Papi, dell’Università di Ferrara. “Oltre al vantaggio di avere un unico device di somministrazione -ha proseguito il prof. Papi –altra peculiarità di questa tripla associazione fissa è la sua formulazione extrafine. Ciò garantisce una distribuzione omogenea e un’elevata deposizione in tutto l’albero bronchiale, comprese le piccole vie aeree, e consente ai tre principi attivi di lavorare in sinergia, a tutto vantaggio del paziente”. Un fondamento nella gestione del paziente con BPCO è il corretto e tempestivo inquadramento clinico, in modo da poter mettere in atto una terapia ad hoc, cercando allo scopo di coinvolgere il più possibile il paziente affinché segua le indicazioni del clinico. “Trattandosi di una patologia cronica e progressiva, ai fini di una corretta gestione sono necessarie da un lato una diagnosi il più precoce possibile, dall’altro una somministrazione della terapia

attenta e regolare da parte del paziente”, ha ricordato Antonio Spanevello, dell’Università degli studi dell’Insubria. Secondo le stime, l’aderenza alla terapia resta subottimale in circa il 30 per cento dei pazienti. È indubbio che la disponibilità di un’opzione di trattamento, in un unico inalatore e con un’unica posologia rappresenti una semplificazione sostanziale per i malati, con potenziali ricadute positive in termini di aderenza e successo terapeutico. Come è emerso nell’ambito dell’incontro, sull’aderenza pesa anche la difficoltà nella comprensione della patologia da parte dei pazienti, alimentata da alcuni tecnicismi a cominciare dallo stesso acronimo BPCO. “Dal momento che si tratta di una patologia complessa”, ha spiegato Paola Perna, dell’Università Cattolca del Sacro Cuore di Milano “va semplificata nel linguaggio utilizzato dai professionisti sanitari, ma anche dai media. Ciò non vuol dire

Recordati

Nuove prospettive di trattamento per la schizofrenia

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breve anche in Italia sarà disponibile un nuovo farmaco per il trattamento della schizofrenia. Si tratta di cariprazina, un antipsicotico di terza generazione in grado di agire in modo globale sulla sintomatologia, ma con effetti collaterali ridotti. La molecola, un agonista dopaminergico parziale, non è solo in grado di agire sui sintomi “positivi” della malattia (deliri, allucinazioni, dissociazione logico-formale del pensiero ecc.), ma anche sulla componente “negativa” (apatia, anedonia, asocialità ecc.). Si aprono dunque, nuovi scenari per i pazienti affetti da questa patologia grave e disabilitante, che insieme alla depressione rappresenta uno dei disturbi psichiatrici a maggiore prevalenza. Cariprazina è stata approvata dall’EMA nel luglio 2017 e sarà commercializzata da Recordati a partire dal 3 dicembre.


perdere in precisione e chiarezza, ma al contrario costruire fiducia e familiarità con il tema, superando il rischio di incomprensione e sottovalutazione della malattia e quindi di non aderenza alle cure prescritte”.

aboca Una realtà impegnata a favore del progresso dell’umanità

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ttività imprenditoriale e ricerca del bene comune. È questa la vocazione che ha distinto Aboca negli anni e che di recente si è concretizzata anche a livello legale, con la modificazione dello statuto aziendale. Lo scorso 24 agosto infatti l’azienda è diventata ufficialmente una Società Benefit. Grazie a questo innovativo inquadramento giuridico, recentemente introdotto in Italia, le imprese hanno una nuova possibilità: affermare all’interno dello statuto societario, unitamente al perseguimento dell’utile, finalità di beneficio comune come elementi costitutivi dell’impresa. L’azienda quindi, sancisce ufficialmente un patto per una nuova armonia tra impresa, natura e comunità. Dal giorno stesso della sua fondazione, infatti, Aboca si è impegnata nel promuovere un benessere diffuso a favore dell’uomo, della società e dell’ambiente tendendo a una crescita qualitativa intesa come una diversa concezione del valore in cui lo sviluppo non passa per un insostenibile aumento delle quantità di merci e consumi, ma per un cambiamento di sistema in cui siano le qualità a emergere per un reale progresso dell’umanità, come sostiene Fritjof Capra. La sfida cruciale, continuando a citare il fisico e teorico dei sistemi, fondatore e Direttore del Center for Ecoliteracy a Berkeley in California che collabora con Aboca da anni sul fronte culturale, è proprio quella di evolvere verso un sistema economicamente, socialmente ed ecologicamente sostenibile.

Up to date su infezioni ospedaliere e antibiotico-resistenza WAidid

Il nostro Paese è ai primi posti per uso inappropriato dei farmaci antimicrobici

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l secondo congresso internazionale dell’Associazione mondiale per le malattie infettive e i disordini immunologici (WAidid) che si è svolto recentemente a Milano ha rappresentato l’occasione per fare il punto su diversi aspetti legati alle patologie infettive. L’attenzione quest’anno si è focalizzata in particolare sulle infezioni ospedaliere, per le quali la situazione sta assumendo tratti allarmanti. Stando alle statistiche, sarebbero 700.000 i casi di infezioni ospedaliere su 9 milioni di ricoveri, l’1 per cento dei quali con esito letale. In Italia sono oltre 7.000 i degenti che muoiono a causa di un’infezione contratta in ospedale. E ancora, dal 5 all’8 per cento degli individui ricoverati contrae un’infezione: le più frequenti sono soprattutto quelle urinarie, seguite da infezioni post-operatorie, polmoniti e sepsi. Di queste, si stima che circa il 30 per cento sia potenzialmente prevenibile (135.000-210.000 casi). Ma quali sono i determinanti di questo fenomeno? Tra le principali cause vi sono la decontaminazione non corretta e l’abuso di antibiotici con conseguente aumento dell’antibiotico-resistenza. La resistenza agli antibiotici è un fenomeno in espansione, quasi pandemica per così dire, alimentato da un utilizzo inappropriato di questi farmaci. Basti pensare che quasi nel 50 per cento delle situazioni in cui sono prescritti non risultano necessari, come spesso succede nel caso dell’influenza. A questo proposito, il 15 per cento degli italiani considera erroneamente utile l’anti-

biotico per bloccare l’influenza e, in generale, le infezioni virali. “Il vaccino antinfluenzale – ha spiegato Susanna Esposito, presidente WAidid - potrebbe prevenire gran parte dei casi di influenza, limitando non poco l’eventualità di un ricovero ospedaliero per quei soggetti a rischio di complicanze. I bambini fino ai 5 anni di età, gli anziani sopra i 64 anni e i malati cronici di tutte le età, infatti, sono a rischio di contrarre forme di influenza particolarmente gravi che richiedono il ricovero ospedaliero. Ogni anno le complicanze dell’epidemia influenzale comportano l’utilizzo di una rilevante quantità di antibiotici, non sempre necessaria e spesso dannosa”. E tale abitudine sembra ben radicata nel nostro Paese, come documenta il fatto che l’Italia è ai primi posti in Europa per antibiotico-resistenza. Le specie di microrganismi più spesso responsabili di infezioni ospedaliere gravi e potenzialmente fatali sono oggi i bacilli Gram negativi. Nel nostro Paese la percentuale di Escherichia coli resistenti alle cefalosporine è del 30 per cento. Ancora più preoccupante Klebsiella pneumoniae, con quasi il 60 per cento di ceppi resistenti alle cefalosporine di terza generazione e il 30 per cento di ceppi resistenti ai carbapenemi. Allarmante infine Acinetobacter baumanii, la cui percentuale di resistenza combinata ad aminoglicosidi, fluorochinoloni e carbapenemi supera il 50 per cento. “La prevenzione delle infezioni ospedaliere - ha aggiunto Francesco Menichetti, presidente Gruppo Italiano per la Stewardship Antimicrobica - va potenziata con azioni di infec-

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tion control, ovvero attraverso le buone pratiche assistenziali, come ad esempio il lavaggio delle mani, il rispetto dell’asepsi nelle procedure invasive, la disinfezione e la sterilizzazione dei presidi sanitari, che in Italia purtroppo non sono sempre rispettate. Le azioni preventive sono determinanti, ma richiedono progetti educazionali specifici e strumenti di verifica efficaci. I nuovi antibiotici, efficaci per curare queste gravi infezioni, sono purtroppo pochi e non di rapido e facile accesso. La necessità urgente di questi nuovi farmaci, potenzialmente salva-vita, impone una revisione delle regole (scheda AIFA, prescrizione specialistica) che non vada verso una insensata liberalizzazione, bensì consideri procedure che permettano l’accesso rapido da parte degli specialisti che trattano pazienti con infezioni gravi”. A contrastare, dunque, la resistenza antibiotica non solo la ricerca di nuove molecole che riescano a impedire i meccanismi di resistenza dei batteri multiresistenti, ma anche il potenziamento delle strategie di controllo delle infezioni, la sorveglianza, il buon uso degli antibiotici in ambito ospedaliero e territoriale. Non può mancare, infine, il coinvolgimento delle Istituzioni e un importante investimento in formazione ed educazione del personale sanitario.

Conferme dalla real world per secukinumab nella psoriasi moderata-severa

Novartis

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uove evidenze si aggiungono a quanto già precedentemente noto sull’efficacia e sicurezza del secukinumab (inibitore interamente umano dell’IL-17) nel trattamento dei pazienti affetti da psoriasi a placche da moderata a severa. I nuovi dati sono stati presentati al congresso dell’European Academy of Dermatology and Venereology (EADV), tenutosi a Parigi nel mese di settembre scorso e derivano da un ampio programma di studi real world. È emerso che l’87 per cento dei pazienti psoriasici che non avevano mai ricevuto prima un trattamento con un farmaco biologico dopo 12 mesi prosegue con il secukinumab, a ulteriore sostegno dell’uso del farmaco nella pratica clinica. “Sia per i

Daiichi Sankyo

Un sito web senza tecnicismi dedicato ai pazienti oncologici

L

a comunicazione in medicina riveste una parte centrale del percorso terapeutico, soprattutto in ambito oncologico. Molto spesso però i pazienti si trovano in difficoltà di fronte a un linguaggio avvolto da tecnicismi che si rivela di non sempre facile comprensione, il che porta a un ulteriore disorientamento del malato. Ed è proprio per superare questa barriera che è stato realizzato un sito web, presentato a Monaco, in occasione dell’ultimo congresso dell’European Society of Medical Oncology. Mycancertherapy.eu è un portale appositamente studiato per aiutare i pazienti a comprendere il proprio percorso di cura e superare le barriere imposte dal linguaggio tecnico ed eccessivamente complesso. Attraverso brevi video, specialisti oncologi offrono le risposte alle domande più frequenti dei pazienti sui principali aspetti legati alla terapia del cancro, compresi i tipi di trattamento disponibili, gli effetti collaterali, e l’impatto sulla vita quotidiana, e lo fanno nella

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pazienti psoriasici sia per i medici, questi dati confermano che il profilo dei dati clinici di secukinumab si traduce in benefici reali” - ha affermato Marina Talamonti, dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. “I dati degli studi condotti in Canada, Germania e USA giungono a conclusioni simili al nostro studio condotto in tre centri italiani che ha dimostrato come in real life i risultati sia in termini di efficacia che di sicurezza siano sovrapponibili a quelli riportati negli studi clinici registrativi. Nella gestione quotidiana della psoriasi, questo rappresenta un’ulteriore riprova del fatto che con il secukinumab i pazienti raggiungono e mantengono elevati livelli di risoluzione delle lesioni cutanee e una migliore qualità della vita”.

lingua madre dei pazienti stessi. Il sito è completato da un elenco di F.A.Q. su cosa aspettarsi, come prepararsi e cosa fare quando viene diagnosticato un cancro, e contiene un glossario che fornisce definizioni chiare per diversi termini legati all’oncologia. Il risultato è una piattaforma ricca di informazioni veicolate sia nelle principali lingue del vecchio Continente (inglese, tedesco, olandese, francese, spagnolo e italiano) che nelle lingue minoritarie più frequentemente parlate sul territorio europeo (turco, polacco, rumeno, serbocroato, russo, cinese, Hindi, urdu, arabo e berbero). Oggi è possibile consultare il portale mycancertherapy.com in traduzione italiana selezionando l’opzione lingua, ma presto ci sarà in Italia l’URL dedicato lamiaterapiadelcancro.it.


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