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Ipertensione intracranica idiopatica Lo starling resistor come possibile modello patogenetico
> Roberto De Simone, Angelo Ranieri, Vincenzo Bonavita •
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Prevenzione della malattia di Alzheimer Le piccole cose che possono fare la differenza
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Per la sclerosi laterale amiotrofica una promessa tutta italiana
> Alberto Albanese •
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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico
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DIRETTORE COMMERCIALE Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it STAMPA Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) COMITATO SCIENTIFICO Giuliano Avanzini, Milano Giorgio Bernardi, Roma Vincenzo Bonavita, Napoli Giancarlo Comi, Milano Ferdinando Cornelio, Milano Fabrizio De Falco, Napoli Paolo Livrea, Bari Mario Manfredi, Roma Corrado Messina, Messina Leandro Provinciali, Ancona Aldo Quattrone, Catanzaro Nicola Rizzuto, Verona Vito Toso, Vicenza
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NEUROFISIOLOGIA
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Ipertensione intracranica idiopatica Lo starling resistor come possibile modello patogenetico
Roberto De Simone, Angelo Ranieri, Vincenzo Bonavita
20 CASE REPORT
Lo strano caso dell’estetista “distonica” Effetti del trattamento con tossina botulinica Carmelo Chisari
22 SPERIMENTAZIONE DI NUOVI FARMACI Per la sclerosi laterale amiotrofica una promessa tutta italiana Alberto Albanese
24 DEMENZE
Prevenzione della malattia di Alzheimer Le piccole cose che possono fare la differenza A cura della Redazione (Cesare Peccarisi)
28 SEGNALAZIONI Vitamina B12
Una molecola preziosa per il sistema nervoso A cura della Marina Melone, Clemente Dato, Guglielmo Capaldo
COMITATO DI REDAZIONE Giuliano Avanzini, Milano Alfredo Berardelli, Roma Giovanni Luigi Mancardi, Genova Roberto Sterzi, Milano Gioacchino Tedeschi, Napoli Giuseppe Vita, Messina Direttore Responsabile Sabina Guancia Scarfoglio
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NEWS DALLA LETTERATURA NEWS FARMACI la NEUROLOGIA italiana
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NEWS dalla letteratura A. MORANO, J. FATTOUCH, C. DI BONAVENTURA ET AL.
Perampanel come terapia adiuvante nelle epilessie altamente refrattarie: dati in real-world di un centro terziario italiano di cura dell’epilessia ❱❱❱ Journal of Neurological Sciences 2018; 390: 67-74
Perampanel (PER) è un antagonista selettivo e non competitivo del recettore AMPA, approvato come terapia adiuvante per l’epilessia focale e per le crisi tonico-cloniche generalizzate primarie. In questo studio retrospettivo con un anno di follow-up, sono stati analizzati 89 pazienti adulti, di cui 47 donne di età compresa tra 19 e 78 anni, fortemente refrattari, in terapia con PER. Nel gruppo, 73 pazienti erano affetti da epilessia focale, 9 da epilessia generalizzata e 7 da encefalopatia epilettica. L’outcome
primario era il retention rate, mentre gli endpoint secondari erano la riduzione della frequenza delle crisi ≥50 per cento, il tasso di switch e la frequenza di eventi avversi. Tutti i pazienti sono risultati fortemente resistenti al trattamento, con un numero di fallimenti terapeutici compreso tra 5 e 17. Il retention rate a 3, 6 e 12 mesi è risultato pari a 87,6, 63 e 51,7 per cento, rispettivamente. Il tasso di risposta alla terapia è risultato pari al 30,3 per cento, con 8 pazienti su 27 liberi da crisi. Il numero di precedenti fallimenti e l’uso concomitante d’induttori enzimatici ha influenzato negativamente la risposta terapeutica, mentre non è emersa alcuna correlazione tra dose di PER e outcome. La quota di responder è stata più soddisfacente nei casi di epilessia focale strutturale rispetto ai casi di epilessia focale di eziologia sconosciuta (33 vs. 20 per cento), così come nelle crisi tonico-cloniche generalizzate secondarie rispetto alle crisi focali (54 vs. 28 per cento), mentre le crisi tonico-cloniche generalizzate primarie hanno mostrato un tasso di risposta più basso (25 per cento). Eventi avversi di grado lieve/moderato sono stati rilevati nel 40 per cento dei soggetti: si trattava principalmente di vertigini, disturbi della de-
C. RUSSO, E. RICCIO, A. PISANI ET AL.
Sclerosi multipla e malattia di Fabry, due facce della stessa medaglia? Il caso di una famiglia italiana ❱❱❱ Multiple Sclerosis and Related Disorders Journal 2018; 26: 164-7 La sclerosi multipla è considerata tra le possibili diagnosi differenziali della malattia di Fabry. Si tratta di patologie certamente differenti che tuttavia in alcuni casi, specifici e particolari, potrebbero essere confuse in fase diagnostica ritardando il giusto approccio terapeutico. E questa evenienza potrebbe accadere soprattutto nelle fasi precoci, quando i segni sono suggestivi, ma non diagnostici per la sclerosi multipla. In questo studio, un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze biomediche avanzate dell’Università di Napoli Federico II in collaborazione con colleghi dell’unità di Nefrologia del Dipartimento di Sanità pubblica dello stesso ateneo, riporta il caso di una famiglia in cui le due malattie coesistono. Ciò, secondo gli Autori, offre una panoramica sugli indizi per la diagnosi differenziale permettendo di formulare ipotesi su meccanismi eziopatogenetici che le due patologie possono condividere. Partendo dalla diagnosi di malattia di Fabry in un paziente in dialisi durante un programma di screening, i ricercatori hanno ricostruito retrospettivamente la sua storia familiare rianalizzando gli esami clinici e di imaging dei suoi cinque fratelli, due dei quali con precedente diagnosi di sclerosi multipla. Dopo l’esecuzione dei test genetici, è emerso che due soggetti erano positivi a una nuova mutazione per la αalfagalattosidasi A, che probabilmente è la causa della variante classica della malattia di Fabry. I due soggetti che soddisfano i criteri diagnostici per la sclerosi multipla sono risultati negativi a qualsiasi mutazione del gene GLA, e pertanto è stata confermata la diagnosi iniziale. Secondo quanto emerso dalle prove cliniche e strumentali, i restanti due fratelli non sono risultati affetti da sclerosi multipla né da malattia di Fabry. Gli Autori dunque concludono che la diagnosi differenziale tra sclerosi multipla, patologia “relativamente comune” e malattia di Fabry, una patologia rara, costituisce una sfida per il clinico soprattutto negli stadi precoci; soltanto un’esaustiva valutazione clinica e una corretta interpretazione degli esami di imaging (RMN) potrebbe ridurre il rischio di una misdiagnosi, portando a un corretto inquadramento clinico del paziente.
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NEWS ambulazione ed effetti psichiatrici. Lo studio dunque ha confermato la tollerabilità e l’efficacia del trattamento aggiuntivo con perampanel in pazienti altamente resistenti ai farmaci con differenti sindromi ed eziologie epilettiche.
G. ASTREA, A. ROMANO, F.M. SANTORELLI ET AL. ITALIAN CMD NETWORK
M. CAPPELLARI, G. TURCATO, P. BOVI ET AL.
spettro fenotipico e geno-fenotipiche
Correlazioni ad ampio
Introduzione di un anticoagulante nelle distroglicanopatie: diretto entro 7 giorni dall’insorgenza uno studio trasversale dell’ictus: un monogramma per ❱❱❱ Orphanet Journal of Rare Diseases 2018; 13(1): 170-9 predire la probabilità di un punteggio La distroglicanopatia (α-DG) è una categoria relativa>2 sulla scala Rankin a tre mesi mente comune, clinicamente e geneticamente eteroge❱❱❱ Journal of Thrombosis and Thrombolysis 2018; 46(3): 292-8
Nella pratica clinica, la terapia con anticoagulanti orali diretti (DOAC) dopo un evento ictale viene di solito iniziata più precocemente rispetto a quanto avviene negli studi clinici randomizzati, anche prima del settimo giorno. In questo studio prospettico multicentrico, condotto da Manuel Cappellari del Dipartimento di Neuroscienze, biomedicina e movimento dell’Università di Verona e colleghi di altri istituti italiani, l’obiettivo era quello di sviluppare, sulla base di un’analisi statistica multivariata a regressione logistica, un nomogramma che incorporasse il tempo d’introduzione di un DOAC prima del settimo giorno dall’ictus in combinazione con differenti gradi di severità dell’evento valutati con indagine radiologica e neurologica al momento del trattamento, al fine di prevedere la probabilità di un outcome sfavorevole. Gli Autori hanno coinvolto 344 pazienti che avevano iniziato la terapia da 1 a 7 giorni dopo un ictus secondario a fibrillazione atriale. Prima d’iniziare la terapia, e dopo 24-36 ore dall’evento, hanno condotto scansioni di tomografia computerizzata sui pazienti. Gli outcome sfavorevoli sono stati definiti sulla base del punteggio sulla scala Rankin modificata maggiore di 2 a tre mesi. L’intervallo tra evento e inizio della terapia con DOAC, l’NIHSS (NIH Stroke Scale) score al momento del trattamento, la dimensione dell’infarto (OR 1,00 per infarti piccoli; OR 2,26, p =0,023 per infarti medi; OR 3,40, p =0,005 per infarti grandi), e l’età ≥80 anni (OR 1,96, p =0,028) si confermavano predittori indipendenti di outcome sfavorevole, che andavano a comporre il nomogramma. Una volta generato il nomogramma, è emerso che la combinazione di tempo tra evento e trattamento con anticoagulanti orali diretti, la gravità radiologica/neurologica dell’evento al tempo del trattamento con DOAC e l’età avanzata è in grado di predire la probabilità di avere un outcome sfavorevole.
nea di forme congenite di distrofia muscolare (CMD) e di distrofia muscolare dei cingoli (LGMD) associate al distroglicano α-ipoglicosilato. A oggi, sono state associate all’α-DG mutazioni a carico di almeno 19 geni. Uno di questi, GMPPB, che codifica per la proteina pirofosforilasi B guanosina-difosfato-mannosio (GDP-mannosio), è stato recentemente associato a un ampio spettro di manifestazioni cliniche, che vanno dalla grave sindrome di Walker-Warburg alla miopatia pseudo-metabolica e persino a sindromi miasteniche congenite. In questo studio pubblicato su Orphanet Journal of Rare Diseases da un nutrito gruppo di neurologi italiani riuniti nella rete italiana CMD, gli Autori hanno ri-sequenziato la serie completa di geni noti per la malattia in 73 pazienti italiani con evidenza di α-distroglicano ridotto o quasi assente per valutare le correlazioni genotipo-fenotipo. Utilizzando strumenti bioinformatici innovativi, hanno inoltre calcolato gli effetti sulla funzione proteica di tutte le mutazioni GMPPB descritte, tentando di metterle in correlazione con le espressioni fenotipiche. Sono così riusciti a identificare 13 nuovi casi in 12 famiglie e definito sette nuove mutazioni. I pazienti hanno mostrato fenotipi variabili comprendenti quadri meno tipici, dall’iperCKemia cronica asintomatica, all’artrogriposi e piede torto congenito alla nascita, e hanno anche mostrato comorbilità dello sviluppo neurologico, come convulsioni e andatura atassica, oltre a disturbi dello spettro autistico, raramente descritti nei casi clinici di distroglicanopatie. Infine, gli Autori hanno anche dimostrato che nella popolazione italiana con mutazioni GMPPB, le mutazioni che ricorrono sono poche e che le alterazioni della stabilità proteica sono gli effetti principali delle varianti missense di GMPPB. Secondo le conclusioni degli Autori, questo lavoro si aggiunge ai dati sulle correlazioni genotipo-fenotipo in α-DG e offre nuovi strumenti bionformatici per fornire il quadro concettuale necessario a comprendere la complessità di questi disturbi. la NEUROLOGIA italiana
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NEUROFISIOLOGIA
IPERTENSIONE INTRACRANICA IDIOPATICA Lo starling resistor come possibile modello patogenetico In questo lavoro, gli Autori propongono un modello coinvolto nella patogenesi dell’ipertensione intracranica idiopatica con e senza papilledema, una condizione che potrebbe essere descritta come un nuovo equilibrio, patologico anche se relativamente stabile, tra pressione intracranica e pressione venosa durale, ma a valori assoluti più elevati Roberto De Simone1, Angelo Ranieri2, Vincenzo Bonavita2 1. Dipartimento di Neuroscienze, Scienze Riproduttive e Odontostomatologiche, Centro Cefalee - Università Federico II di Napoli. 2. Istituto di Diagnosi e Cura Hermitage Capodimonte, Napoli
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umerose osservazioni [1-6] sembrano suggerire che le funzioni del sistema di autoregolazione della perfusione cerebrale non si risolvano nel mantenimento di un flusso ematico relativamente costante entro un ampio range di variazioni della pressione arteriosa media, come abitualmente ci si limita a considerare, anche in recenti e autorevoli review [7-10]. Al contrario, meccanismi omeostatici attivi sul versante venoso sembrano altrettanto necessari per garantire il corretto equilibrio perfusionale, soprattutto in risposta alle ampie variazioni fisiologiche della pressione intracranica che intervengono nei cambi posturali, come in altre condizioni quali l’esercizio fisico e le attività comportanti aumento della pressione addominale con effetto Valsalva e che influenzano le dinamiche del ritorno venoso intracranico [11]. Illustreremo di seguito un meccanismo operante sul versante venoso che è stato recentemente proposto come coinvolto nella complessa dinamica dell’autoregolazione della perfusione cerebrale, basato su un costrutto di fluidodinamica denominato starling resistor (SR) che governa il flusso dei fluidi nei tubi collassabili esposti a una
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pressione esterna variabile [12-14]. Le proprietà dello SR, in base a una serie di evidenze, sembrano potersi applicare alla fisiopatologia della confluenza tra le vene a ponte corticali con i seni durali [1, 15-19]. Proporremo poi un modello fisiopatologico dello scarico venoso e liquorale basato sulle proprietà SR delle vene a ponte corticali, nel quale la rigidità dei seni durali emerge come condizione critica, necessariamente richiesta. Cercheremo poi di convalidare il modello attraverso una rilettura di dati consolidati di letteratura. Infine mostreremo alcune sue rilevanti implicazioni nella patogenesi dell’ipertensione intracranica idiopatica con (IIH) e senza (IIHWOP) papilledema.
AUTOREGOLAZIONE DELLA PERFUSIONE CEREBRALE La pressione di perfusione (pP) è la differenza tra le pressioni del sangue in ingresso e in uscita dal parenchima cerebrale. La pP rappresenta l’energia disponibile per la perfusione cerebrale e determina la quantità di sangue che attraversa il
cervello nell’unità di tempo. Nel loro insieme, i meccanismi di regolazione della dinamica perfusionale cerebrale consentono di mantenere una pP costante entro l’ampio range di fluttuazioni fisiologiche della pressione arteriosa (pA). Numerosi meccanismi di regolazione del tono vasale attivi sul versante arterioso del circuito perfusivo tra loro integrati [7], di tipo nervoso [20-22], biochimico [23-26], metabolico locale [27,28] e miogeno riflesso [29-31] determinano il grado di resistenza vascolare necessario a mantenere relativamente costante il flusso cerebrale (circa 50 ml per 100 gr di tessuto per minuto) indipendentemente da variazioni della pA sistemica media comprese tra 60 e 150 mmHg [32]. In base a evidenze recenti, tuttavia, il range di variazioni della pA entro cui l’autoregolazione della perfusione cerebrale è efficace sarebbe significativamente più ristretto [33-35] e la risposta regolatoria maggiore per gli aumenti e per le riduzioni della pA [34,35]. Sebbene anche le arterie di maggior calibro contribuiscano significativamente alla modulazione delle resistenze vascolari [36], è a livello delle arteriole piali e intraparenchimali che, probabilmente con meccanismi distinti [37], si realizza la maggiore quota di controllo della pressione in ingresso. La disamina dei complessi e integrati meccanismi operanti sul versante arterioso del circuito perfusivo esula dagli scopi di questo lavoro. Tuttavia, evidenze recenti indicano che la distensione della parete arteriolare conseguente alla risalita della pressione transmurale arteriolare (pTa, differenza tra la pressione interna ed esterna al vaso), rappresenta uno dei principali stimoli in grado di attivare la contrazione delle fibre muscolari lisce della tonaca media arteriolare [38]. Il processo, che potrebbe essere mediato dall’attivazione di canali del calcio meccanosensibili attivati direttamente dalla risalita della pressione transmurale [39-40] porta alla riduzione del lume vascolare e alla conseguente riduzione della pressione del sangue che entra nel letto perfusivo parenchimale. La cosiddetta “risposta miogena”, cioè la contrazione o dilatazione delle arteriole in risposta a un aumento o, rispettivamente a una diminuzione della loro pressione transmurale [31] è integrata con molteplici altri meccanismi [7]. Tuttavia, vi è evidenza che l’insieme delle regolazioni adrenergiche, colinergiche e miogene operanti sul versante arterioso della perfusione cerebrale contribuiscono complessivamente per meno di 2/3 alla non linearità delle relazioni tra pA e flusso ematico cerebrale osservabile sperimentalmente [41]. Ciò indica che altri meccanismi devono essere coinvolti nell’autoregolazione della perfusione cerebrale. Il versante venoso perfusionale è abitualmente considerato un distretto coinvolto solo passivamente, come tale, privo di un significativo ruolo fisiopatologico nel controllo della perfusione. Le considerazioni che seguono sono centrate sulla descrizione di due problemi fluidodinamici che si realizzano, invece, proprio sul versante venoso e che necessitano l’intervento di meccanismi di controllo e compensazione altrettanto importanti di quelli, molto più studiati, attivi sul versante arterioso.
w Pressione intracranica e pressione delle vene corticali La pressione del sangue che si raccoglie nelle vene corticali (pVC) rappresenta una frazione della pA sistemica, al netto del totale delle resistenze arteriose, arteriolari e del letto capillare e venulare. In base ai dati sperimentali la pVC è sempre superiore, ma molto prossima alla pressione intracranica (pIC) [1-2, 15, 19, 42] indipendentemente dal valore assoluto di questa. Le vene corticali decorrono nello spazio subaracnoideo e sono direttamente esposte al liquor fino alla loro confluenza con i seni durali. Avendo pareti flessibili, le vene cerebrali collasserebbero se la pressione liquorale esterna – che, come detto, all’equilibrio è solo di pochi mmHg più bassa - arrivasse a pareggiare o superare quella propria. Per effetto della minima differenza tra pVC e pIC, in assenza di meccanismi compensatori, anche un piccolo aumento della pIC indurrebbe il collasso delle vene corticali, interrompendo la perfusione. Com’è noto, ampie fluttuazioni della pIC si realizzano fisiologicamente in diverse condizioni, incluso i cambi posturali e le attività fisiche comportanti effetto Valsalva. Ne discende che, affinché la perfusione cerebrale resti costante, oltre alle variazioni della pA, è necessario che il sistema di autoregolazione compensi anche le perturbazioni indotte sulla pVC dalle fluttuazioni, fisiologiche o patologiche, della pIC. Pertanto, per assicurare la costanza del flusso cerebrale, oltre a modulare la pA a livello arteriolare, il sistema di autoregolazione della perfusione ha anche un altro compito, altrettanto importante: impedire alle continue variazioni fisiologiche della pIC di superare la pVC, pena il collasso delle vene corticali e l’interruzione della perfusione. w Pressione intracranica e pressione venosa dei seni durali Ma c’è un altro problema fluidodinamico critico, che per certi aspetti è speculare al precedente. Il ritmo di produzione liquorale, stimato in 0,2-0,4 ml per minuto [43] è relativamente costante. Per effetto della sostanziale inestensibilità della scatola cranio-spinale, in condizioni di equilibrio, il ritmo di escrezione liquorale deve bilanciare esattamente quello di produzione, pena l’immediata espansione del volume e della pressione liquorale. Il liquor, prodotto principalmente nei plessi corioidei dei ventricoli cerebrali, raggiunge lo spazio subaracnoideo attraversando i forami di Luschka e Magendie del quarto ventricolo e si getta, in massima parte [44], nei seni durali attraverso i villi aracnoidei. Questi sono presenti diffusamente lungo le pareti dei seni, ma sono particolarmente concentrati in formazioni specializzate che aggettano nel lume dei seni durali, le granulazioni del Pacchioni. L’energia per l’outflow liquorale è fornita dalla differenza tra la pIC e la pressione del sangue del seno durale (pSD). L’esistenza di tale gradiente pressorio è documentata da diversi studi sperimentali su modelli animali e in soggetti con IIH [45-48]. In soggetti senza turbe idrodinamiche cerebrali, Ekstedt e coll. [49] misurano una pIC di 10,35 mmHg e calcolano una pSD la NEUROLOGIA italiana
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NEUROFISIOLOGIA di 7,57 mmHg che corrisponde a un gradiente pressorio attraverso i villi aracnoidei di 2,78 mmHg. Il ritmo di outflow liquorale è risultato linearmente correlato a questa differenza di pressioni [47]. Ciò implica che, in condizioni di equilibrio, la pSD deve necessariamente essere significativamente inferiore alla pIC, diversamente si ridurrebbe il gradiente pressorio pIC/pSD e di conseguenza anche la velocità di scarico liquorale, fino a interrompersi per pIC <pSD; il rallentamento dell’escrezione liquorale, non accompagnato da un’analoga riduzione del ritmo della sua produzione, determinerebbe un’espansione del volume liquorale che, in un comparto dalla compliance alquanto limitata, per la legge di Monroe-Kelly [50], si tradurrebbe in un incremento della pIC. Un esempio dell’immediata risalita della pIC alla riduzione del gradiente pressorio liquor/sangue a livello dei seni durali è la manovra di Queckenstedt [51]: la compressione esterna delle giugulari in corso di misurazione della pIC fa risalire la pressione venosa nei seni durali ed è accoppiata a un’istantanea risalita della pIC che si mantiene tale fino all’interruzione della manovra. Pertanto, all’equilibrio, un’ulteriore condizione che il sistema di regolazione della perfusione deve assicurare è che la pSD si mantenga sempre inferiore alla pIC, pena una riduzione del ritmo di scarico liquorale e l’aumento del volume e della pressione del liquor. w Gerarchie pressorie dei fluidi intracranici Oltre al controllo della pA in ingresso, i meccanismi di autoregolazione della perfusione cerebrale, presi nel loro insieme, devono risolvere altri due problemi fluidodinamici cruciali e che concernono specificatamente il versante venoso perfusionale: il mantenimento della pIC sempre al di sotto di quella delle vene corticali (pena il loro collasso) e sempre al di sopra di quella del sangue del seno durale (pena la riduzione del ritmo di smaltimento liquorale e la conseguente risalita di volume e pressione liquorali). All’equilibrio, i valori pressori dei diversi comparti, pur fluttuando continuamente, devono mantenersi in rapporti rigidamente gerarchici in cui pA >pVC >pIC >pSD [6]. Solo se queste condizioni sono rispettate il circuito venoso rimane pervio anche in corso di aumenti della pIC, e al contempo viene mantenuto il gradiente pressorio pIC/pSD necessario a consentire l’equilibrio tra produzione ed escrezione liquorale. Questi vincoli, confermati dai dati sperimentali disponibili [1,16], hanno un’implicazione non del tutto intuitiva. Se in condizioni di equilibrio il liquor deve mantenersi sempre a pressione inferiore a quella della vena corticale e sempre superiore a quella del seno durale, allora lungo il continuum vena corticale/seno durale deve realizzarsi una significativa caduta di pressione, tale da mantenere la pSD significativamente più bassa della pIC. L’ampiezza della caduta di pressione tra vena cerebrale e seno durale deve essere tale da garantire che il liquor possa smaltirsi con la stessa velocità con cui viene prodotto senza per questo dover raggiungere una pressione troppo alta, tale da schiacciare le vene corticali.
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STARLING RESISTOR Che cosa garantisce che la pIC, con le sue ampie fluttuazioni spontanee, si mantenga sempre compresa tra quella venosa durale e quella venosa corticale, fisiologicamente solo di poco superiore? Come si genera, e come si mantiene il salto di pressione tra i due comparti venosi intracranici contigui (vene corticali/seni durali), indispensabile per assicurare gli articolati equilibri pressori che garantiscono il bilancio tra produzione ed escrezione liquorale? La risposta a entrambi i quesiti è in un affascinante meccanismo studiato in fluidodinamica, denominato Starling resistor (SR) le cui proprietà regolano il flusso nei tubi flessibili esposti a una pressione esterna variabile [12,52]. Se un tubo collassabile nel quale scorre un fluido è immerso in un altro fluido la cui pressione è variabile, il flusso al suo interno è possibile fintantoché la pressione del fluido interno all’uscita dal tubo flessibile resta superiore a quella del fluido esterno. In queste condizioni, il tubo è completamente aperto e il flusso dipenderà dalla differenza di pressione tra ingresso e uscita del tubo (Figura 1a). Pur essendo flessibile, esso si comporta come un tubo rigido [14], non opponendo altra resistenza al flusso che l’attrito di scorrimento. Ma aumentando la pressione del fluido esterno fino a pareggiare o superare quella interna, il tubo comincerà a comprimersi riducendo la sua sezione e generando una proporzionale resistenza all’avanzamento del fluido (Figura 1b), fino al suo arresto al completamento del collasso (Figura 1c). Aumentando la pressione esterna, si riduce parallelamente la pressione transmurale (pT) e, si assiste al progressivo collasso del tubo fino all’interruzione del flusso, quando la pT diventa negativa (pressione esterna >interna). Una peculiarità dello SR è che il collasso avviene sempre distalmente [14], nel segmento che per primo raggiunge una pressione transmurale negativa. Infatti, per effetto degli attriti, la pressione all’interno del tubo si riduce proporzionalmente alla lunghezza percorsa dal fluido, mentre la pressione del fluido esterno viene a esercitarsi uniformemente lungo tutto il tubo. Il collasso comincia pertanto all’estremità distale del tubo flessibile che è anche il primo punto in cui la pressione interna pareggia o diventa inferiore a quella esterna (Figura 1b). w Proprietà dello SR A mano a mano che la pT diventa negativa il tubo comincia a schiacciarsi all’estremità distale. Gli effetti sono: - fa contestualmente risalire la pressione nel segmento di tubo a monte in misura proporzionale al grado di collasso. In questo modo la pressione interna resta sempre appena più alta di quella esterna, garantendo la pervietà del tubo [1]. - genera un aumento della velocità del flusso nel segmento parzialmente collassato (effetto Venturi) che mantiene relativamente costante il flusso, nonostante la riduzione di calibro [19]; - il flusso non dipenderà più dalla differenza tra le pressioni
FIGURA 1. VARIAZIONI DELLA CONFORMAZIONE DI UN TUBO FLESSIBILE PERCORSO DA UN FLUIDO ESPOSTO A UNA PRESSIONE ESTERNA (P-EXT) VARIABILE.
a) se la P ext è inferiore sia alla pressione in ingresso P-in sia a quella in uscita P-out, il tubo è completamente aperto; b) se la P-ext è minore della P-in ma maggiore della P-out il tubo è parzialmente collassato distalmente. c) se la P-ext è maggiore sia della P-in che della P- out il tubo è completamente collassato e il flusso al suo interno si arresta.
del fluido all’ingresso e all’uscita dal tubo come nel caso di tubi rigidi, ma dalla differenza tra la pressione del fluido in ingresso e quella del fluido all’esterno del tubo [52]; - conseguentemente, nel tubo rigido subito successivo al segmento flessibile parzialmente collassato, si genera una caduta di pressione (effetto cascata o waterfall effect) [15]. Le proprietà fluidodinamiche SR sembrano applicabili alla fisiopatologia del letto perfusivo di numerosi organi e apparati incluso il sistema respiratorio [53-54], il fegato [55], l’occhio [56], il distretto coronarico [57-58 ], il sistema muscolare scheletrico [59], e potrebbero essere coinvolte nella fisiopatologia di diverse condizioni a largo impatto epidemiologico e clinico come le OSAS [60-61], l’ischemia cardiaca [62], e le alterazioni del tono oculare [63-64]. Nel cervello, sembra [1-6] che un meccanismo SR sia attivo a livello delle confluenze delle vene a ponte corticali nei seni durali, dove ha un ruolo critico nella regolazione dell’outflow venoso.
VENE A PONTE CORTICALI COME SR Le vene a ponte corticali decorrono nello spazio subaracnoideo e sono esposte alla pressione del liquor in cui sono
immerse. Avendo pareti flessibili, la pressione al loro interno deve mantenersi sempre superiore a quella liquorale, pena il loro collasso. I dati sperimentali disponibili confermano che la pVC è sempre superiore alla pIC [1,16]. In condizioni fisiologiche la pIC risente molto della postura; minima (fino a valori negativi) in posizione eretta, aumenta significativamente in posizione distesa. Nell’uomo, in clinostatismo, la pIC è di circa 7-13 mmHg [47]. Comunque determinata, la risalita della pIC riduce la pressione transmurale delle vene corticali “a ponte” (pTv). Al raggiungimento di una pTv nulla o negativa, il segmento venoso terminale, in accordo con le proprietà degli SR, si riduce di calibro. Questo fa immediatamente risalire la pressione venosa a monte del collasso fino a un livello superiore a quella intracranica, assicurando la pervietà della restante parte della vena con un meccanismo puramente meccanico - e perciò quasi istantaneo - perfettamente descrivibile in termini di SR. Il contestuale aumento della velocità del flusso nel segmento collassato, per l’effetto Venturi, mantiene entro certi limiti invariata la portata ematica. In condizioni di equilibrio, pertanto, la modulazione del grado di collasso venoso della vena a ponte, dinamicamente influenzato dalla pTv, assicura che variazioni pressorie intracraniche, anche repentine e di ampiezza significativa, siano seguite in tempo reale da variazioni della pressione delle vene corticali esattamente corrispondenti. Il meccanismo impedisce che la vena corticale collassi per le fluttuazioni della pIC, e, in presenza di adeguata riserva di pA per compensare la risalita di pVC assicura la costanza del flusso entro fluttuazioni assai ampie di pIC. In questo modo, il collasso delle vene non si verifica fino a incrementi di pIC del tutto non fisiologici, prossimi a quelli arteriosi sistemici [1,16]. w Necessità di un compenso arteriolare retrogrado Naturalmente, l’incremento della pVC all’aumento della pIC tenderà comunque a ridurre la pP (che è uguale a pA - pVC) e dunque la perfusione. In queste circostanze, tuttavia, una riduzione della pP è rapidamente riequilibrata da una corrispondente riduzione delle resistenze arteriolari a monte. Infatti, anche queste resistenze sono regolate da un meccanismo che riconosce nel grado di distensione della parete arteriosa, proporzionale al delta pressorio transmurale, lo stimolo che innesca la risposta miogena arteriolare [29-30]. In questo senso, anche il versante arteriolare è per certi versi assimilabile a uno SR. Infatti, se un determinato incremento della pressione interna del vaso (pA) determina un aumento della pTa a cui segue una vasocostrizione di grado corrispondente, l’aumento della pressione esterna al vaso (secondaria alla risalita della pIC) ridurrà la pressione transmurale analogamente a quanto accade a livello venoso. La conseguenza qui è però la riduzione della risposta miogena e dunque una dilatazione arteriolare. Da notare che poiché le variazioni di entrambe le pressioni transmurali, venosa e arteriolare, riflettono dimensionalmente la medesima variazione della pIC, esse saranno di grado corrispondente. La pressione in ingresla NEUROLOGIA italiana
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NEUROFISIOLOGIA so aumenta perciò di quanto è necessario per bilanciare la risalita di pVC indotta dalla pIC, senza necessità di feedback regolatori basati su segnali nervosi o biochimici. La latenza della risposta miogena è veloce, nell’ordine dei 10 sec. [65]. Il risultato è il mantenimento di un delta pressorio perfusivo (pP) costante, indipendentemente dalle variazioni della pIC, fino a valori di questa prossimi alla pA sistemica. Infine è importante sottolineare che, anche in presenza di valori assoluti delle pressioni in ingresso e in uscita particolarmente ridotti o elevati, non verranno alterati i delicati equilibri pressori tra interstizio e letto capillare. Infatti, la pressione liquorale si riflette su quella venosa corticale, ma si trasmette invariata anche all’interstizio parenchimale [66]. Ciò mantiene invariata la pressione transmurale del letto capillare, una condizione critica per il corretto equilibrio degli scambi tissutali. Riepilogando, alla risalita della pIC in corso di variazioni posturali o Valsalva, segue un aumento della pVC a monte del collasso, che mantiene la pervietà venosa. L’aumento della pVC, a sua volta, ridurrebbe la pressione di perfusione (pA-pVC) se non fosse seguito, quasi istantaneamente, da un aumento compensatorio del calibro arteriolare. Va sottolineato che le variazioni delle pressioni transmurali arteriolare, pTa, e venosa, pTv, conseguenti a una variazione primitiva spontanea della pIC saranno dimensionalmente corrispondenti, essendo governate dal medesimo grado di variazione della pIC. La pP del letto capillare resta dunque costante anche per variazioni molto ampie dei valori assoluti di pA e pVC, della cui differenza essa è espressione. w Pressione venosa nei seni durali: waterfall effect Oltre a garantire la pervietà delle vene corticali, il collasso distale della vena a ponte induce anche una brusca caduta della pressione venosa che si realizza subito a valle della confluenza della vena con il seno durale, il cosiddetto waterfall effect. L’esistenza di un gradiente pressorio pVC/pSD è confermata da numerose osservazioni sperimentali [1516,45] e ha lo scopo di mantenere la pressione dei seni durali più bassa e dissociata da quella delle vene corticali, nonostante la continuità fisica dei due comparti. In accordo con le proprietà SR, per effetto del collasso della vena a ponte causato dal primitivo aumento della pIC si genera a questo livello un aumento della resistenza al flusso. Di conseguenza, la perfusione non sarà più dipendente dalla differenza tra pressione in entrata e in uscita dal tubo, ma tra pressione in entrata e pressione esterna al tubo [52], cioè dalla differenza tra pA e pIC. In altri termini, superata la confluenza parzialmente collassata col seno durale, la pressione del sangue non risente più dalla “vis a tergo”, da cui appare dissociata, e riflette invece la pressione atriale destra [67], alquanto più bassa (tra 1 e 7 mmHg [68]). In questo modo la pSD si mantiene sempre significativamente più bassa della pVC e la pIC può mantenersi sempre compresa tra le due. Questa è una condizione di importanza critica che, da un lato, assicura la pervietà venosa corticale e dunque la costanza del
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flusso ematico cerebrale e, dall’altro, permette il corretto bilanciamento tra produzione e scarico liquorale, senza il quale nessun equilibrio delle dinamiche pressorie dei fluidi intracranici è possibile. Il mantenimento della dissociazione della pSD dalla pVC implica ulteriori due condizioni: una è che i seni durali siano dimensionalmente ridondanti, così che transitori incrementi di flusso ematico cerebrale possano essere tollerati senza immediatamente tradursi in una “insufficienza” del sistema venoso durale, che comporterebbe una rapida compromissione del waterfall effect con risalita della pSD e aumento della resistenza all’outflow liquorale. L’altra, ancora più importante, è che i seni durali siano rigidi abbastanza da non risentire di interferenze con la pressione liquorale a cui sono esposti, quantomeno entro i range fisiologici delle fluttuazioni di questa. In presenza di un’eccessiva distensibilità delle pareti dei seni durali, infatti, la pSD aumenterebbe parallelamente alla pIC riducendo l’effetto cascata fino, al limite, al suo annullamento. w Significato finalistico della rigidità dei seni durali La rigidità dei seni durali assicura che la pressione del sangue al loro interno, che già non risente più di quella delle vene corticali per il waterfall effect, resti indipendente anche da quella del liquor cui le pareti dei seni durali sono esposte, riflettendo perciò soltanto quella atriale destra. In questo modo il gradiente pressorio pIC/pSD è sempre preservato e con esso l’equilibrio tra produzione e scarico liquorale. La resistenza alla compressibilità dei seni durali discende dalla loro struttura anatomica (Figura 2), caratterizzata da una sezione prismatica racchiusa da 3 fogli di una membrana ben poco estensibile come la dura madre, uno dei quali saldamente ancorato all’osso e gli altri due confluenti o nella grande falce (seno sagittale superiore) o nel tentorio del cervelletto (seni trasversi) [69]. In presenza di una risalita della pressione intracranica, ad esempio per l’assunzione della posizione distesa, il limite fisiologico di distensibilità dei seni durali viene pertanto rapidamente raggiunto, risultando di fatto in una riduzione di calibro del seno modesta e autolimitata che influenza solo marginalmente la pSD. A questo punto, però, ulteriori aumenti della pIC non saranno più trasmessi al sangue contenuto nei seni durali, il gradiente pIC/pSD è libero di aumentare parallelamente alla pIC e, con esso, il ritmo di outflow liquorale, a questo linearmente correlato [47]. Rimanendo però costante il ritmo di produzione, l’aumentato rate di escrezione liquorale ha la conseguenza di compensare prontamente la risalita della pIC. Per quanto sopra considerato, la rigidità, o per meglio dire la limitata collassibilità, dei seni durali va considerata una proprietà fondamentale dell’intero sistema, che garantisce il mantenimento del waterfall effect e dunque assicura sia una pSD bassa e indipendente dai rialzi pressori della pIC, sia il recupero dell’equilibrio fisiologico dopo perturbazioni transitorie della pressione intracranica.
FIGURA 2. STRUTTURA ANATOMICA DEI SENI DURALI
Fonte: CSF, fluido cerebrospinale
EVIDENZE DISPONIBILI Il modello fisiopatologico esposto richiede di essere validato da studi sperimentali in vivo sull’animale da esperimento e nell’uomo. Tuttavia i suoi principali punti critici risultano validati dai risultati di osservazioni sperimentali già disponibili in letteratura, anche non recente. I principali vincoli e le più importanti predizioni del modello sono: - il rigoroso accoppiamento dinamico di pVC e pIC con mantenimento di pVC sempre maggiore della pIC entro un ampio range di variazioni di questa; - l’aumentata velocità del flusso a livello del collasso parziale delle confluenze venose nei seni durali (effetto Venturi), responsabile del mantenimento di un flusso costante all’aumentare della pIC; - l’esistenza di un gradiente tra pVC e pSD (waterfall effect); - l’indipendenza della pSD dalle variazioni della pIC e la sua “dissociazione” dalla pVC in presenza di seni durali sufficientemente rigidi; - la stretta dipendenza della pSD dalle variazioni della pIC in caso di seni durali compressibili; - la riduzione delle resistenze arteriolari all’aumento della pVC che segue l’incremento della pIC. w Accoppiamento dinamico di pVC e pIC Un’esaustiva dimostrazione dell’esistenza di un meccanismo in grado di assicurare la pervietà delle vene corticali - e dunque la costanza della perfusione - anche in caso di aumenti significativi della pIC si ritrova già in un lavoro sperimentale del 1974, condotto in vivo su un totale di 13 babbuini [1]. La pIC degli animali anestetizzati è stata progressivamente aumentata, con tecniche diverse in 3 gruppi di animali, fino all’arresto della perfusione cerebrale per pIC =pA, e poi riportata progressivamente di nuovo ai valori di partenza. Simultaneamente, sono state registrate le pressioni nei princi-
pali segmenti dell’albero venoso, fino ai bulbi giugulari. Lo studio ha dimostrato l’esistenza di un perfetto accoppiamento dinamico di pIC e pVC con un aumento istantaneo della pressione delle vene cerebrali linearmente correlato all’aumento della pressione liquorale. Il coefficiente di correlazione è risultato di ben 0,98, un valore altissimo, non comune in biologia. La retta di correlazione interseca le ascisse a 2,8 mmHg, indicando che la pressione venosa viene costantemente mantenuta pochi mmHg al di sopra di quella liquorale, fino a valori molto elevati di incremento di pIC, un meccanismo in grado di impedire l’arresto della perfusione cerebrale per collasso venoso all’interno di un range molto ampio di variazioni primitive della pressione liquorale, comunque indotte. Gli Autori non avanzano ipotesi su come l’accoppiamento dinamico di queste pressioni venga così tempestivamente assicurato, ma individuano, quale punto di massima caduta pressoria lungo l’intero percorso perfusivo, la confluenza “tra le vene a ponte cerebrali e i seni durali”. Il rigido accoppiamento di pIC e pVC con mantenimento della pVC sempre maggiore della pIC entro un ampio range di variazioni di questa, emerge con chiarezza anche da altre e più recenti osservazioni sperimentali su modelli animali. Nagakawa [15] in uno studio sul cane trova che la pVC si mantiene sempre tra 50 e 250 mmH2O superiore alla pIC. Analoghi risultati sono riportati da Yada e coll. [2] in un altro studio in vivo su cani anestetizzati. Il ruolo di modulatore dell’outflow venoso intracranico svolto dalle vene a ponte emerge anche da osservazioni istologiche. In uno studio su cadavere, Vignes [18] trova che l’orientamento delle fibre collagene del segmento distale delle vene a ponte umane tende a diventare circonferenziale a livello della confluenza e non longitudinale come in sedi più prossimali della vena. Soprattutto a livello delle confluenze delle vene più frontali, gli Autori individuano anche cellule muscolari lisce e concludono che le vene a ponte sono una zona critica per il controllo dello scarico venoso cerebrale, con funzioni di sfintere mioendoteliale. Questo studio conferma precedenti osservazioni sulle vene a ponte del maiale, studiate istologicamente [17]. w Aumentata velocità del flusso a livello del collasso venoso In corso di incrementi della pIC il collasso delle confluenze delle vene a ponte genera una risalita pressoria del segmento venoso a monte che mantiene la vena pervia, nel contesto di una portata ematica invariata. Questo implica che in presenza di adeguata riserva di pA, la velocità del sangue a livello delle confluenze parzialmente collassate aumenti proporzionalmente al grado di collasso mantenendo così costante il flusso cerebrale. Questa dinamica è stata osservata in un recente la NEUROLOGIA italiana
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NEUROFISIOLOGIA studio sul maiale [19]. Aumentando sperimentalmente la pIC a 20 mmHg e poi a 30 mmHg in step successivi, si osservava l’aumento del calibro delle vene corticali associato al rallentamento della velocità del flusso venoso, senza tuttavia alcuna variazione del volume perfusivo cerebrale misurato con clearance del 133Xe. Ciò indica che la pIC genera una resistenza a livello delle confluenze delle vene a ponte, che non si traduce in una riduzione della perfusione cerebrale evidentemente per l’aumento della velocità dell’outflow ematico a livello della confluenza (effetto Venturi). Negli studi venografici di risonanza magnetica (MRV), in corrispondenza di stenosi dei seni durali, si genera un aumento della velocità e della turbolenza del flusso. Un aumento della velocità oltre quello atteso conduce alla mancata visualizzazione del flusso nel tratto con flusso accelerato, il c.d. void sign. Ma il “gap” è soltanto apparente, dal momento che riflette un aumento segmentale della velocità del flusso e non la sua interruzione. Considerati un pitfall intrinseco della MRV [70], i void signs riflettono invece l’esistenza di un gradiente pressorio tra i due lati di una stenosi, e restituiscono dunque un’importante informazione di ordine funzionale. Per studi di questo tipo, la tecnica MRV da impiegare dovrebbe avere l’obiettivo di enfatizzare la visualizzazione degli apparent flow gaps, non di ridurla [71-72]. L’effettiva esistenza di un collasso venoso parziale a livello delle vene corticali a ponte è confermata dall’abituale mancata visualizzabilità delle confluenze venose per void sign sia a livello del loro ingresso nel SSS, che a livello della confluenza della vena di Galeno nel seno retto (Figura 3). In un recente studio [73], il segnale MRI relativo alla giunzione tra vene a ponte e seni durali era attenuato o assente in modo significativamente maggiore in soggetti con IIH rispetto ai controlli. w Esistenza del waterfall effect tra pVC e pSD In studi in vivo sul cane è stato documentato un salto di pressione tra il comparto venoso corticale e quello durale di 11,6 mmHg [45]. In particolare Nakagawa e coll. [15] e più recentemente Luce e coll. [16], in altri studi sul cane, hanno direttamente osservato la brusca caduta di pressione che si realizza alla confluenza tra vena a ponte e seno durale utilizzando un catetere passato dentro e fuori la confluenza. Gli Autori dei lavori concludono che esiste un meccanismo di regolazione della pressione venosa intracranica, operante a livello della confluenza tra vene corticali e seni durali, responsabile della generazione di un una caduta pressoria tra il comparto venoso corticale e quello del seno durale.
mento indotto della pIC fino a valori pari a quelli arteriosi sistemici non si accoppiava a una variazione significativa della pSD. Ciò indica che nella maggioranza degli animali osservati la compressibilità dei seni durali era di entità trascurabile anche per risalita della pIC ben oltre i limiti fisiologici. In due studi simili sul cane [45], l’aumento della pIC era associato a un corrispondente incremento della pVC senza significative variazioni della pSD. In particolare nello studio di Yada e coll. [2] l’aumento sperimentale della pIC fino a valori prossimi a quelli arteriosi sistemici induceva un immediato parallelo incremento della pVC, che si manteneva così sempre appena maggiore della pIC. Al contrario, la pressione del seno durale rimaneva stabilmente compresa tra 50 e 70 mmH2O durante l’intera procedura, a indicare la resistenza delle pareti dei seni durali alla compressione esterna. In un ulteriore studio sul cane [15], l’aumento sperimentale della pIC fino a 1.000 mmH2O era seguito da un corrispondente incremento della pressione delle vene corticali ma, di nuovo, la pressione nel seno sagittale superiore non risultava influenzata. Questi studi dimostrano che la resistenza alla compressione dei seni venosi in presenza di aumento della pIC è ottimale entro un ampio range di variazioni di questa, anche superiore a quello fisiologico. Tuttavia anche seni normalmente conformati potrebbero collassare in presenza di pIC particolarmente elevate. In uno studio su 5 soggetti con severo trauma cranico, eseguito prima e dopo craniotomia decompressiva [74], gli Autori trovano che, in presenza di marcata ipertensione intracranica, vi era una significativa compressione dei seni trasversi cui corrispondeva un marcato aumento della pressione del seno sagittale superiore. Dopo craniectomia decompressiva, la pressione nel seno sagittale diminuiva di circa 10 volte in tutti i casi ed era possibile documentare la riespansione dei seni trasversi compressi. Nella seconda parte dello stesso studio, eseguito su cadavere, è stato possibile dimostrare che incrementando la pIC sperimentalmente non si registrava nessuna riduzione del flusso di soluzione salina attraverso i seni durali, almeno fino al valore di pIC di circa 20 mmHg (271 mmH2O), considerato già nel range patologico nell’uomo. Ma a valori di pIC del tutto non fisiologici di 50 mmHg e di 70 mmHg, il flusso nei seni durali si riduceva del 30 e 60 per cento, rispettivamente per arrestarsi completamente per valori di pIC superiori a 200 mmHg (2.712 mmH2O). Questo studio suggerisce che anche seni durali di limitata collassabilità intrinseca possono andare incontro a collasso per valori sufficientemente alti di pIC.
w Indipendenza della pSD dalle variazioni di pIC e pVC in caso di seno durale rigido Numerose evidenze indicano che in presenza di seni durali con un sufficiente grado di resistenza alla compressione, la pressione nel seno durale non aumenta a seguito di incrementi della pIC anche maggiori di quelli fisiologici. Nel citato studio del 1974 [1], in 10 babbuini su 13 l’incre-
w Accoppiamento pSD e pIC in caso di seno collassabile In presenza di seni durali eccessivamente collassabili è atteso che la pSD aumenti parallelamente alla pIC. In 3 dei 15 babbuini dello studio citato [1] inclusi nel gruppo di 6 in cui la pIC era stata aumentata sperimentalmente con infusione salina diretta nella cisterna magna, la pSD non rimaneva
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FIGURA 3. IL VOID SIGN ALLA CONFLUENZA DELLA VENA DI GALENO NEL SENO RETTO INDICA UN AUMENTO DELLA VELOCITÀ DEL FLUSSO DEL SANGUE A CAUSA DI UN COLLASSO VENOSO PARZIALE
che la collassabilità dei seni durali è una caratteristica specifica delle forme idiopatiche di ipertensione intracranica, poco comune nelle forme secondarie. w Riduzione delle resistenze arteriolari all’aumento della pVC sostenuto dalla risalita della pIC La risalita della pVC indotta dal collasso della vena a ponte richiede un corrispondente aumento della pA a monte del letto perfusivo che mantenga invariata la pP. Nel lavoro di Jonston e coll. sul babbuino [1] una brusca caduta delle resistenze arteriolari si osservava in coincidenza con la risalita della pVC indotta dall’aumento sperimentale della pIC, soprattutto nel gruppo di animali sottoposto a infusione della cisterna Magna. L’aumento del calibro delle arteriole piali nel corso di un incremento sperimentale della pIC mediante infusione di soluzione salina è stato osservato in uno studio su 11 gatti anestetizzati utilizzando una tecnica di videoangiometria diretta [77]. A un valore di pIC di 50 mmHg il calibro arteriolare aumentava del 42 ±5,6 per cento nelle arteriole più piccole e del 33 ±3 in quelle più grandi.
indipendente dall’aumento indotto della pIC, ma tendeva a risalire in parallelo con questa anche se soltanto a partire da valori di 40 mmHg (542 mmH2O). Questi animali erano anche gli unici del campione studiato a mostrare una caduta pressoria tra torculare e golfo giugulare nel corso della procedura. Ciò suggerisce che il differente comportamento della pSD alla risalita della pIC era da attribuirsi a una ridotta resistenza alla compressione dei seni trasversi, compatibile con il riscontro di un delta pressorio tra torculare e golfo giugulare. Uno studio di infusione liquorale con simultanea misurazione della pSD e della pIC condotto su 9 soggetti con IIH [75] ha mostrato l’esistenza in tutti i casi di un gradiente pressorio tra seno sagittale superiore e seno trasverso (indicativo di compressione del seno trasverso), ma soprattutto di un perfetto accoppiamento dinamico di pIC e pSD, con la pIC sempre un poco superiore alla pSD (rispettivamente: 27,0 ± 2,3 mmHg vs 25,2 ±7,5 mmHg, p =0,026). Gli Autori concludono che nei soggetti IIH esiste un’ostruzione funzionale dei seni trasversi che induce un aumento della pSD a sua volta responsabile di un aumento della pIC. Al contrario, in uno studio su 12 soggetti con ipertensione intracranica secondaria a lesione espansiva cerebrale [76] solo 3 (25,0 per cento) mostravano un risalita della pressione venosa durale al crescere di quella intracranica. Nel rimanente 75 per cento, la pSD non veniva influenzata dalla risalita patologica della pIC. Presi insieme, i risultati di questi studi indicano
UN MODELLO INTEGRATO DI AUTOREGOLAZIONE DELLA PERFUSIONE CEREBRALE E DI CONTROLLO DELL’OUTFLOW LIQUORALE E VENOSO Riassumendo, una serie di consolidate osservazioni sembra convalidare le principali predizioni del modello di controllo dell’outflow liquorale e venoso cerebrale presentato, e conferma che la regolazione della perfusione cerebrale non può prescindere da meccanismi di controllo operanti sul versante venoso integrati con quelli del versante arterioso. Questi devono da un lato assicurare la pervietà delle vene corticali in risposta ai cambiamenti della pIC e dall’altro, garantire la brusca diminuzione della pressione tra il comparto venoso corticale e quello, pure contiguo, dei seni durali, necessaria al corretto bilanciamento tra produzione ed escrezione liquorale. Vi è evidenza che entrambi questi effetti siano assicurati dalle proprietà SR delle vene a ponte corticali. Queste implicano che un certo grado di collasso venoso sia fisiologicamente attivo in circostanze di normale equilibrio perfusivo e garantiscono che la pIC sia sempre un poco inferiore alla pVC così da impedire il loro collasso, e un poco superiore alla pSD in modo da assicurare il corretto bilanciamento tra ritmo di produzione e di escrezione liquorale. Tuttavia è indispensabile che i seni durali siano sufficientemente rigidi da non collassare sotto gli incrementi spontanei della pIC pena il derangement del controllo pressorio intracranico. la NEUROLOGIA italiana
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NEUROFISIOLOGIA IMPLICAZIONI PATOGENETICHE NELL’IIH Il modello proposto implica che la rigidità dei seni durali abbia un ruolo critico nel controllo della pIC e predice che in presenza di seni collassabili possa esistere una disregolazione del controllo pressorio intracranico. Di conseguenza, esso può rappresentare un meccanismo di importanza cruciale nella patogenesi dell’IIH, con o senza papilledema, una condizione caratterizzata dalla presenza, quasi nella totalità dei casi [78], di stenosi focali o diffuse dei seni venosi durali. w Il self-limiting venous collapse feedback-loop Il ruolo patogenetico delle stenosi venose nell’IIH/IIHWOP è dibattuto. L’osservazione della loro possibile riapertura dopo normalizzazione della pIC con derivazione liquorale [79-80] o dopo puntura lombare con sottrazione liquorale [69, 81], in accordo con un approccio riduzionistico, suggerisce che le stenosi siano piuttosto l’effetto e non la causa dell’aumento della pIC. Tuttavia considerando lo stretto accoppiamento tra la pIC e pSD documentato in soggetti con IIH/IIHWOP [75], ma assente nella maggioranza dei soggetti con forme secondarie [76] e in individui senza turbe fluidodinamiche cerebrali [49], e soprattutto alla luce della pronta e sostenuta efficacia dello stenting venoso nell’IIH [82, 83], è molto probabile che in questi pazienti i seni durali abbiano un minor grado di resistenza alla compressione esterna rispetto a quanto atteso, e che questo meccanismo sia causativamente coinvolto. Abbiamo recentemente proposto un modello fisiopatologico dell’IIH con e senza papilledema basato su un ruolo causativo delle stenosi venose. Il modello, denominato self-limiting venous collapse (SVC) feedback loop [71], è centrato sul rinforzo reciproco che si genera, in presenza di seni durali collassabili, tra la pIC che aumentando comprime il seno durale, e la pressione venosa durale che, risalendo, induce l’incremento della pIC. In altri termini, in presenza di seni durali collassabili il sistema diventa instabile perché può innescarsi un feedback loop positivo tra pIC e pSD che comporta la risalita accoppiata dei due valori, che si rinforzano reciprocamente. Un fenomeno non atteso in presenza di seni sufficientemente rigidi. Il loop si arresta solo quando la anomala distensibilità durale è esaurita e si può così ricostituire il corretto gradiente pIC/pSD necessario al bilanciamento tra produzione e scarico liquorale, e comporta il raggiungimento di un nuovo stato di relativo equilibrio tra le pressioni intracranica e venosa a valori più elevati [69 84-85]. Ciò avviene nel contesto di una perfusione cerebrale che rimane ancora adeguata a garantire gli scambi tissutali, ma al prezzo di un equilibrio pressorio più instabile, di un’espansione del volume liquorale, e soprattutto di valori medi di pIC più alti. In altri termini, in presenza di seni durali collassabili, il sistema ammette un secondo punto di equilibrio relativamente stabile, ma valori più alti di pressione intracranica e venosa
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durale. Il SVC feedback-loop ha 3 fondamentali proprietà [86]: è autolimitato dal momento che una volta esaurita la distensibilità venosa si stabilizza; è autosostenuto potendo persistere anche dopo la rimozione del fattore che lo aveva innescato; è reversibile, posto che un’adeguata perturbazione sia portata di uno qualunque dei bracci del loop: stenting venoso da un lato [87-88] derivazione liquorale [79-80] o singola puntura lombare con sottrazione liquorale, dall’altro [69,81,89]. È possibile descrivere il meccanismo che conduce alle stenosi funzionali osservabili nell’IIH/IIHWOP proprio in termini di un secondo SR venoso, patologico, posto a valle di quello fisiologico alla confluenza delle vene a ponte nei seni durali. Il secondo SR venoso può generarsi solo in presenza di un’eccessiva collassabilità di uno o più segmenti dei seni durali e tende a replicare, in parte vicariandole, le funzioni del primo. Infatti esso induce una caduta della pressione a valle della stenosi e contestualmente un aumento della pressione a monte di questa. L’aumento della pSD tuttavia, riduce il waterfall effect indispensabile ad assicurare uno smaltimento liquorale bilanciato al ritmo di produzione, con conseguente aumento di volume e pressione liquorali e innesco del SVC loop. w Etiopatogenesi dell’IIH/IIHWOP Per quanto detto, un meccanismo chiave della patogenesi dell’IIH risiede in un’anomala collassabilità di uno o più segmenti dell’albero venoso durale che consente la generazione di un secondo possibile punto di equilibrio, relativamente stabile, tra le pressioni intracranica e venosa durale, ma a valori più elevati. Altri fattori contribuiscono a promuovere il SVC feedback loop, inclusa la riduzione della crossection venosa totale per anomalie conformazionali congenite (stenosi fisse, setti venosi, granulazioni di Pacchioni giganti, ipo- o aplasie segmentali), o acquisite (trombosi murali). Infine l’innesco del loop richiede probabilmente la concomitanza anche di condizioni “precipitanti” in grado di agire su uno o l’altro dei suoi bracci. Ciò spiega il numero e l’eterogeneità dei fattori di rischio noti dell’IIH [71] e soprattutto il ruolo di condizioni quali OSAS e aumento del peso corporeo, in grado di riflettersi in un aumento della pressione venosa centrale [90-91] e di promuovere l’innesco del SVC feedback loop in soggetti predisposti. w Ruolo del comparto spinale Il modello non sarebbe completo se non menzionassimo il comparto spinale e il suo ruolo nei meccanismi patogenetici sopra delineati. Il comparto spinale ospita, oltre al tessuto nervoso e al liquor, anche una notevole quantità di sangue venoso, stimato tra 200 e 1.000 ml [42]. Questo si trova all’interno delle vene intradurali, riccamente anastomizzate con gli ampi plessi venosi vertebrali epidurale ed extraspinale, a loro volta interconnessi con il sistema venoso addominale [92]. Le vene a questo livello sono prive di valvole [93] a indicare che il sangue può doverle percorrere in entrambi
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NEUROFISIOLOGIA i sensi, a seconda delle mutevoli dinamiche pressorie venose in corso di cambi posturali o di sforzi fisici comportanti effetto Valsalva. Vi è evidenza che la compliance cerebrale, ossia la capacità del cervello di accogliere variazioni volumetriche dei suoi comparti senza eccessivo incremento pressorio, si genera in massima parte nel comparto spinale [94], ed è spiegata proprio da una corrispondente riduzione del volume occupato dal sangue venoso contenuto nella cavità spinale [95]. È possibile che in caso di seni collassabili, il ripetersi di fasi più o meno prolungate in cui l’escrezione liquorale è ridotta rispetto alla produzione (per il transitorio annullamento o inversione del rapporto pIC/pSD), si generi progressivamente un aumento del volume liquorale a spese di quello venoso spinale. Questo meccanismo predice che nei soggetti con IIH il volume complessivo liquorale sia aumentato e la compliance cranio spinale ridotta. Osservazioni recenti indicano che effettivamente il volume liquorale è aumentato in soggetti con IIH [96] mentre il grado di compliance craniospinale è ridotto [97], ma si normalizza dopo puntura lombare [98].
CONCLUSIONI L’evitamento del collasso venoso al variare della pIC e la caduta di pressione tra vene corticali e seni durali da cui dipende il corretto ritmo di outflow liquorale sono due funzioni critiche per il controllo delle dinamiche dei fluidi intracranici che si realizzano sul versante venoso del circuito perfusionale. Entrambe sembrano affidate a un unico affascinante
meccanismo, di natura largamente meccanica, assimilabile a uno starling resistor, che si realizza alla confluenza delle vene a ponte con i seni durali. Il meccanismo implica che le pareti dei seni durali siano rigide abbastanza da non risentire della pressione liquorale esterna, e predice che in presenza di seni collassabili, il sistema ammette un secondo punto di equilibrio a valori più alti di pIC, a causa dell’innesco di un self-limiting venous collapse feedback loop tra la pSD e la pIC. Proponiamo che questo modello sia coinvolto nella patogenenesi dell’IIH, una condizione che potrebbe essere descritta come un nuovo stato di equilibrio, patologico ancorché relativamente stabile, tra le pressioni intracranica e venosa durale, ma a valori assoluti più alti. Il nuovo punto di equilibrio è reso possibile da seni durali eccessivamente collassabili, specie in presenza di fattori favorenti, come la concomitante ridotta ridondanza volumetrica dei seni durali per restrizioni anatomiche congenite o acquisite, e/o di fattori precipitanti in grado di influenzare la pressione venosa centrale. La correzione di questa eccessiva collassabilità con stenting venoso endovascolare, accreditata da un altissimo rate di efficacia [87-88] va considerata pertanto come intervento etiologicamente mirato, meritevole di ulteriori sforzi di ricerca nell’ottica di una sua possibile applicazione su più ampia scala. Ringraziamenti A mio padre, Antonio De Simone. Un incomparabile ingegnere
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CASE REPORT
Lo STRANO CASO dell’ESTETISTA “DISTONICA” EFFETTI DEL TRATTAMENTO CON TOSSINA BOTULINICA Carmelo Chisari - U.O. Neuroriabilitazione, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Università di Pisa
L’Autore presenta un interessante caso di distonia focale a rapida insorgenza ed evoluzione. Il trattamento con una sola inoculazione di tossina botulinica ha portato alla completa risoluzione del quadro clinico
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el 1984, il comitato della Dystonia Medical Research Foundation ha definito la distonia come una sindrome caratterizzata da contrazioni muscolari involontarie che interessano uno o più distretti corporei causando movimenti di torsione e ripetitivi e/o posture anormali (LeDoux MS, 2012). La distonia che colpisce solo una singola area è nota come distonia focale. Può coinvolgere qualsiasi parte del corpo, ma il più delle volte si manifesta nel collo (distonia cervicale), nelle palpebre (blefarospasmo) o alle mani (taskspecific o distonia focale della mano). Quest’ultima è stata definita come una risposta maladattativa del cervello all’esecuzione ripetitiva di movimenti stereotipati della mano e con grande richiesta di attenzione. Tuttavia non tutti i pazienti con distonia focale della mano hanno una storia di eccessivo uso della stessa. Per esempio pazienti con la ben nota distonia del musicista trascorrono molte ore al giorno con un’attenzione focalizzata sulla pratica dello strumento mentre pazienti con il crampo dello scrivano hanno spesso una storia di utilizzo moderato della mano.
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Per quanto riguarda il substrato fisiopatologico, due studi molto efficaci hanno ipotizzato che la usuale specificità spaziale di interazione tra input sensoriale e output motorio, intrinseco dei muscoli della mano, è interrotta in questi due tipi di distonia focale (Stinear et al., 2004; Tamburin et al., 2002). Questo potrebbe essere dovuto a una ridotta capacità di focalizzazione dell’ingresso sensoriale sull’output motorio che risulta in un’inappropriata selezione del movimento previsto e a una mancata soppressione dei movimenti non intenzionali (Mink JW, 1996).
DESCRIZIONE DEL CASO Il caso che presentiamo risulta estremamente interessante per la modalità di insorgenza e l’evoluzione. Una donna di 46 anni si è presentata presso l’ambulatorio di Neuroriabilitazione dell’Università di Pisa per un’importante sensazione di “impaccio” alla mano sinistra e difficoltà nello svolgimento di particolari attività, soprattutto durante la sua attività lavorativa di estetista. La paziente riferiva che il proble-
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ma si è evoluto rapidamente portando a un’alterazione della postura della mano sinistra durante il movimento ripetitivo eseguito al lavoro, a volte associato a dolore intenso. Questa condizione la limitava fortemente nella sua attività professionale tanto da dover smettere di lavorare. Esami precedenti, compresi una RMN encefalo e del rachide cervicale, avevano escluso una compromissione del sistema nervoso periferico e centrale. La storia medica della paziente escludeva la presenza di un disturbo psichiatrico. Non aveva storia di disturbi psicogeni e lei affermava di non aver mai preso antidepressivi o neurolettici. L’EMG dei suoi muscoli dell’avambraccio mostrava la presenza di pattern distonici di attivazione, che avevano indicato una diagnosi di distonia focale. Era stata trattata farmacologicamente con clonazepam e gabapentin senza alcun miglioramento dei sintomi e con la comparsa di effetti collaterali come sonnolenza e disturbi gastrointestinali. La paziente ha sospeso il trattamento farmacologico ed è arrivata alla nostra attenzione. L’esame clinico mostrava una postura anomala della mano sinistra con iperestensione del IV e V dito e flessione delle articolazioni interfalangee del II e III dito. Questa postura si accentuava durante l’esecuzione di movimenti simili a quelli eseguiti durante il suo lavoro. Abbiamo eseguito una EMG di superficie che mostrava segni tipici di iperattività confermando la diagnosi di distonia focale (Figura 1 a). Abbiamo proceduto all’inoculazione di tossina botulinica, guidati da elet-
FIGURA 1. EMG DI SUPERFICIE PRE (A) E POST (B) TRATTAMENTO CON TOSSINA BOTULINICA
trostimolazione, nei seguenti muscoli della mano sinistra: extensor digitorum communis, flexor carpi radialis e flexor digitorum superficialis. Alla visita di controllo, dopo circa 1 mese, si osservava una marcata riduzione dell’iperattività muscolare dei muscoli inoculati e una scomparsa dell’anomalia posturale. La paziente riferiva una netta riduzione dell’impaccio e scomparsa della postura “distonica” già circa una settimana dopo l’inoculazione. Dopo 2 settimane aveva ripreso a lavorare. Abbiamo condotto valutazioni cliniche a 1, 3, 6 e 12 mesi dopo il trattamento e ogni volta osservando completa risoluzione dei sintomi. Inoltre, dopo 10 mesi, abbiamo registrato di nuovo l’attività EMG di superficie, confermando l’effetto benefico della tossina botulinica (Figura 1 b). Per cui non si è reso necessario alcun reinoculo. L’ultimo controllo programmato è stato effettuato 12 mesi dopo il trattamento. Successivamente la paziente non si è più presentata in ambulatorio.
DISCUSSIONE Il primo aspetto interessante che emerge da questo caso clinico è l’evoluzione, rapidamente progressiva, della sintomatologia manifestata dalla paziente. L’insorgenza dei sintomi nelle distonie focali è solitamente insidiosa, cominciando con una sensazione di impaccio o tensione nell’arto quando si svolgono attività particolari. Nel tempo, di solito entro mesi o anni, la postura anomala diventa evidente (Karp BI, 2004). Il secondo aspetto che emerge è la
“drammatica” risposta al trattamento con tossina botulinica subito dopo pochi giorni e, soprattutto, la completa risoluzione del quadro clinico con piena ripresa di quella attività che precedentemente innescava l’attività “distonica” della mano. Questo caso apre una discussione che va affrontata su diversi piani. Innanzitutto pone una domanda: ci troviamo di fronte a una vera distonia focale? La risposta clinica è decisamente sì ed è supportata dalla sintomatologia soggettiva, dall’obiettività clinica e dai riscontri neurofisiologici (sEMG). Se però consideriamo l’evoluzione rapidamente invalidante e la risposta terapeutica a una sola inoculazione di tossina botulinica molti dubbi rimangono sul corretto inquadramento nosografico del disturbo. Tuttavia, e questo è l’altro piano in cui ci dobbiamo muovere, questo caso sottolinea come il corretto e puro approccio clinico, le adeguate valutazioni strumentali, un approccio terapeutico guidato da conoscenza e competenza e una buona dose di buon senso (si fa
notare che la paziente mostrava iperattività anche dei muscoli flessore ulnare del carpo e flessore profondo delle dita e che la selezione dei muscoli esaminati è scaturita da un’approfondita riflessione che ha coinvolto diverse figure dell’équipe multidisciplinare afferente alla nostra UO di Neuroriabilitazione) possa sortire risultati brillanti in termini di qualità di vita dei pazienti che si rivolgono ai centri di alta specializzazione, tesi molto più a risolvere i propri problemi che a conoscere “nome e cognome” del proprio disturbo. Infine questo caso conferma come la tossina botulinica sia un presidio fondamentale per il trattamento di molte condizioni di iperattività muscolare e, a mio avviso, rinforza l’esigenza di conoscere sempre meglio i suoi effetti primari e/o secondari a livello centrale attraverso lo studio delle modificazione delle integrazioni sensori-motorie indotte dal farmaco, possibilmente alla base degli eclatanti effetti osservati nella paziente che abbiamo voluto descrivere.
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SPERIMENTAZIONE DI NUOVI FARMACI
Per la SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA una PROMESSA TUTTA ITALIANA Alberto Albanese - U.O. di Neurologia, Ospedale Humanitas, Rozzano (MI)
Un derivato degli acidi biliari, dopo che è emersa la sua potenziale efficacia, è ora oggetto di uno studio finanziato dalla Commissione europea. In questo articolo, il prof. Albanese in qualità di principal investigator, descrive caratteristiche e obiettivi del trial
L
a ricerca made in Italy torna alla ribalta e lo fa partendo da un derivato degli acidi biliari, il TUDCA (acido tauroursodesossicolico), che ha ricevuto la designazione a farmaco orfano per la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA). Il composto, di cui è titolare per lo sviluppo industriale l’azienda farmaceutica TABELLA 1
genovese Bruschettini Srl, è ora protagonista di uno studio clinico internazionale da me condotto, in qualità di principal investigator, in 7 nazioni europee. Il progetto ha vinto il bando Horizon 2020 per le malattie rare e i farmaci orfani ottenendo dalla Commissione europea il finanziamento per lo studio, partito ufficialmente il primo gennaio 2018, che durerà 4 anni.
I partner sono in tutto 10, alcuni clinici, altri “etici”. Oltre a Bruschettini, partner farmacologico, e all’Istituto superiore di sanità, ente pubblico e garante dei dati, sono coinvolti ricercatori provenienti dall’Universität di Ulm, in Germania, dall’Università di Sheffield nel Regno Unito, dell’Hôpital Universitaire di Tours in Francia, della Katholieke Universiteit di Lovanio in Belgio, della Uni-
CARATTERISTICHE DEMOGRAFICHE E CLINICHE DEI PARTECIPANTI AL BASELINE PLACEBO (N =14)
TUDCA (N =15)
VALORE DI P
58,2±12,9
54,0±12,2
0,377
1,0±0,4
1,1±0,7
0,814
Uomini (n)
9
10
0,893
Donne (n)
5
5
Scala ALSFRS-R
38,4±6,4
38,7±4,9
0,887
∆FS
1,04±0,6
1,45±0,8
0,605
FVC (%)
96,1±7,9
94,9±12,2
0,735
• PCS
38,0±7,0
39,3±9,9
0,695
• MCS
45,4±13,0
50,9±11,8
0,263
• Gruppo muscolare lato destro
56,9±7,6
58,2±3,9
0,626
• Gruppo muscolare lato sinistro
54,9±9,0
55,6±8,9
0,851
Età (anni) Durata di malattia (anni)
Questionario SF-36
Scala MRC
Note: I dati sono indicati come medie±DS o in valore assoluto (n); i valori di P indicano la significatività statistica delle differenze tra i due gruppi (t test per le variabili continue, chi-quadro test per le variabili discrete); TUDCA, acido tauroursodesossicolico; ALSFRS-R, Amyotrophic Lateral Sclerosis Functional Rating Scale revised; ∆FS, tasso di progressione della SLA; FVC, capacità vitale forzata; SF-36, Short Form 36; PCS, Physical component summary; MCS, Mental component summary; MRC, Medical research council. Fonte: Elia AE et al., Eur J Neurol 2016
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versitair Medisch Centrum di Utrecht, nei Paesi Bassi, del Trinity College di Dublino in Irlanda. A questi si aggiunge la Motor Neurone Disease Association di Northampton (Regno Unito), cui sono affidate la divulgazione dei dati e la gestione del sito web dello studio. In Italia, hanno stretto partnership con Humanitas, l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Torino, l’Istituto Auxologico di Milano, il Centro NeMO di Milano, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Luigi Vanvitelli di Napoli e l’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni. All’inizio l’ipotesi era di testare TUDCA nella malattia di Parkinson, una patologia che dispone già di diversi farmaci che ne curano i sintomi. Perché non provare il farmaco in una malattia per cui non sono presenti altre terapie? La scelta è caduta sulla SLA, che ha due caratteristiche drammatiche sotto il profilo clinico ed esistenziale. La sua rapida progressione consente di verificare in breve l’azione di una nuova molecola e, l’assenza di farmaci attualmente disponibili previene interferenze nell’analisi dei dati.
I RISULTATI DELLO STUDIO PILOTA È, quindi, iniziato uno studio pilota (2014-2015) che ha coinvolto tre Centri in Italia, Milano, Napoli e Palermo, per un totale di 60 pazienti: 20 per ogni Centro, 30 trattati con TUDCA e 30 con placebo. Le caratteristiche demografiche e cliniche dei partecipanti sono descritte in tabella 1. Sono stati definiti pazienti responder quelli che alla fine dello studio mostravano un 15 per cento o più di rallentamento nella perdita delle capacità motorie rispetto alla fase precedente lo studio. Abbiamo osservato all’inizio per tre mesi la progressione della malattia senza il trattamento sperimentale e, poi, rianalizzato la situazione al completamento della terapia. I pazienti prendevano le terapie tutti i giorni e le valutazioni avvenivano ogni 3 mesi. Dai risultati, pubblicati sullo European Journal of Neurology, è emerso che il numero di pazienti responder era maggiore nel gruppo trattato con il nuovo farmaco rispetto a
FIGURA 1. ANALISI DI REGRESSIONE LINEARE DEGLI SCORE ALSFRS-R MEDI NEL TEMPO, NEI DUE GRUPPI DELLO STUDIO
Pazienti TUDCA
Pazienti placebo
Tempo (settimane) Note: gruppo TUDCA (pendenza della retta -0,388), gruppo placebo (pendenza della retta -0,262) Fonte: Elia AE et al., Eur J Neurol 2016
placebo. Va considerato, tuttavia, che la SLA è una malattia eterogenea, che presenta una velocità di progressione variabile. Se nel gruppo curato con il placebo viene casualmente arruolato un numero particolarmente elevato di pazienti con progressione lenta o rapida rispetto a quello in terapia con il farmaco, si possono avere risultati falsati. Perciò, sono necessari numeri grandi, in grado di bilanciare la casualità. In linea generale, il progetto ha avuto successo: il farmaco è risultato effettivamente promettente (Figura 1). A quel punto è stato pubblicato il Bando della Commissione europea per le malattie rare e i farmaci orfani ed essendo la SLA una malattia rara, abbiamo deciso di partecipare. Il fatto che si tratti di una malattia rara non sminuisce la portata medica e sociale della SLA, che ha un’incidenza simile a quella della sclerosi multipla (2,5 casi per 100mila abitanti per anno), ma una prevalenza bassa, perché è rapidamente mortale. La definizione di malattia rara, infatti, si basa sulla prevalenza, non sull’incidenza. L’azienda che si occupa dello sviluppo della molecola ha quindi, chiesto all’EMA la designazione di TUDCA come farmaco orfano per la SLA, ottenendola.
Ciò significa che, nel momento in cui emergessero risultati positivi, all’azienda sarebbero garantititi dieci anni di sviluppo facilitato e l’esclusiva su quella specifica indicazione del farmaco. Così TUDCA è rientrato nei criteri del bando Horizon 2020. Siamo risultati i primi in tutta Europa; il progetto è stato approvato senza tagli e da lì è iniziato tutto. Ora, insieme ai partner dello studio, abbiamo definito i dettagli del protocollo che è attualmente in valutazione da parte del Comitato Etico di Humanitas, che coordina. La sperimentazione sta per partire e durerà 18 mesi. All’inizio della mia carriera ho svolto molta ricerca di base; per questo difendo e promuovo una ricerca clinica fondata sulle conoscenze biologiche. Lo studio sulla SLA infatti, include la misura di diversi marcatori biologici nel liquor e nel plasma: i neurofilamenti, un marcatore legato alla progressione di malattia, e le metalloproteinasi, legate al meccanismo d’azione del farmaco. L’analisi di questi dati complementari completerà lo studio clinico. Grazie al finanziamento ottenuto dalla Commissione europea aumentano le speranze di cambiare l’evoluzione della sclerosi laterale amiotrofica.
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DEMENZE
PREVENZIONE della MALATTIA di ALZHEIMER LE PICCOLE COSE CHE POSSONO FARE LA DIFFERENZA A cura della Redazione (Cesare Peccarisi)
La Dementia Action Week di quest’anno punta l’attenzione sull’importanza della prevenzione. Agire sui fattori di rischio modificabili potrebbe rappresentare un’arma efficace (e potente) per contrastare lo sviluppo di una delle patologie a maggiore impatto clinico, economico e sociale dei nostri tempi
I
46 milioni di persone affette da demenza oggi nel mondo sembrano destinati a triplicare nel 2050 arrivando a 131 milioni. Con lo slogan “Small Actions That Make A Huge Difference”, le piccole cose che possono fare la differenza, si è svolta parallelamente alla recente Giornata mondiale Alzheimer (21 settembre) anche la Dementia Action Week, che ha coinvolto famiglie e caregiver facendo emergere ciò che sembra mancare alla prevenzione clinica che spesso arriva a giochi fatti perché i fattori che entrano in causa in questa malattia sono moltissimi (ambientali, vascolari, metabolici, genetici, infiammatori ecc.) e prevenire la loro evoluzione patologica quando si sono instaurati è quantomai difficile, se non impossibile, tant’è che i numerosi farmaci finora impiegati hanno portato a una serie di trial infruttuosi. L’errore è stato concentrarsi su quello che è considerato il principale determinante della malattia, la proteina patologica beta-amiloide, che è solo uno dei tanti fattori e che, pur iniziando ad accumularsi già a partire dai 40 anni, non sempre porta a malattia. In una buona percentuale delle persone di mezza età una PET o una f-RMN ne evidenzierebbero infatti già la presenza, ma un controllo imaging a tappeto dei cinquantenni non è la giusta via
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di prevenzione. Occorre piuttosto che questi soggetti prestino più attenzione alle small actions that make a huge difference, perché si trovano in un momento della vita in cui possono correggere un futuro che non è già scritto: il ruolo dell’ereditarietà nella malattia di Alzheimer è appena del 2 per cento. Lo studio FINGER dei ricercatori del Karolinska University Hospital di Stoccolma diretti da Miia Kivipelto, è il primo e più ampio tentativo di sistematizzare i fattori che possono prevenire la malattia a monte della prevenzione clinica (riquadro). Coinvolgendo Centri di mezza Europa, l’anno scorso sempre il Karolinska ha avviato il simile MIND-AD Study per verificare se fitness, dieta, controllo dei fattori di rischio cardiovascolare e training cognitivo possono prevenire la malattia: 150 soggetti MCI (mild cognitive impairment) vanno 2 volte a settimana in palestra con la guida di un fisioterapista, sono seguiti da un dietologo e conducono un training cognitivo programmato a computer e poi verificato dal neuropsicologo. Ma anche i risultati del MIND-AD dipendono dalla tempestività con cui saranno riconosciuti i sintomi: agire sui primissimi segni di malattia è spesso
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segue a pagina 26
ELEMENTI CHIAVE PER LA PREVENZIONE Dieta: mediterranea, ma
più focalizzata su pesce, olio d’oliva, frutta e verdura, con poco sale e poco zucchero
Attività fisica: esercizi sia
di forza che di resistenza, meglio se in compagnia per socializzare: lunghe camminate, ginnastica aerobica in piscina, palestra
Check personale:
controllare pressione arteriosa, peso, glicemia e colesterolo
Esercizi mnemonici:
tenere allenata memoria e attenzione, per esesmpio con le parole crociate, leggendo libri, imparando una nuova lingua o uno strumento musicale: basta variare le attività e affrontare sfide sempre nuove
LA STORIA DELL’ALZHEIMER COMINCIA NELL’ANTICA TERRA DEI FARAONI La malattia di Alzheimer potrebbe essere stata descritta 4mila anni prima di quello che crediamo: un geroglifico egizio del 2000 a.C. illustra infatti il caso di un anziano che secondo gli psichiatri di allora diventava sempre più infantile notte dopo notte. Lo riporta il numero speciale che l’editore statunitense John Wiley & Sons ha preparato per la Dementia Action Week (consultabile fino al 30 giugno su wiley.com). La paternità di questa malattia era comunque controversa già prima di questa scoperta. Come racconta Orso Bugiani nella sua dotta prefazione al libro di Bruno Lucci “Gaetano Perusini. L’allievo di Alois Alzheimer” recentemente pubblicato in Italia dalla SVSB Edizioni, l’attribuzione è stata a lungo in bilico fra Alois Alzheimer e il friulano Gaetano Perusini, tant’è che ancora nel 1971 George Arthur Jervis su Pathology of the Nervous System edito da McGraw-Hill segnalava che in Italia la malattia è chiamata malattia di Alzheimer-Perusini.
Di fatto, mentre Perusini frequentava la Scuola di Monaco, Alzheimer lo mandò a studiare il cervello della sua prima paziente, Auguste, una donna di 51 anni descritta nel 1907. Per quanto lo stesso Alzheimer abbia riconosciuto i meriti del suo allievo nel 1911, la Scuola di Monaco non lo fece. Addirittura accadde che il manoscritto dove Perusini parlava della malattia, consegnato nel 1908 per un volume in programmazione nel 1909, fosse stampato nel 1910 uscendo così contemporaneamente al trattato di Kraepelin (dove fu proposto l’eponimo di “malattia di Alzheimer”) e dove Kraepelin si guardò bene dal citare Perusini. Sarà stato solo un disguido tecnico? Molti illustri neurologi italiani e stranieri hanno comunque riconosciuto negli anni a Perusini i suoi giusti meriti e nel 2015, per il centenario della sua morte, gli è stato dedicato anche un francobollo commemorativo.
la NEUROLOGIA italiana
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DEMENZE
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inconcludente e individuare i pazienti nelle prime fasi è peraltro laborioso e costoso. “Il fallimento dei farmaci è derivato dal fatto che i pazienti arrivano dai medici troppo tardi” –spiega il professor Stefano Sensi del CESI-Met di Chieti (Centro di Eccellenza per lo Studio dell’Invecchiamento e Medicina Traslazionale). “È difficile disporre di farmaci in grado di contrastare processi che hanno lavorato nell’ombra per anni. Dobbiamo dunque agire prima: su Trends in Neuroscience un nostro opinion paper disamina una serie di inteventi farmacologici e non (stimolazione cognitiva, fitness, rTMS) utili a prevenire o almeno ritardare l’insorgenza della malattia. La chiave è agire per tempo e in maniera coordinata sui fattori modificabili con misure facili e corrette”.
LA MALATTIA DI ALZHEIMER: IL DIABETE DEL CERVELLO? Secondo uno studio pubblicato su PNAS dai ricercatori giapponesi dell’Università di Tsukuba diretti da Kazuya Suwabe 10 minuti di esercizio aerobio lieve incrementano le connessioni deputate a funzioni cognitive e mnesiche del giro dentato dell’ippocampo. L’attività fisica ha un’azione immediata sulla plasticità neuronale (Figura 1). L’effetto è mediato dalla proteina neuronale BDNF (brain derived neurotrophic factor) la cui concentrazione nell’ippocampo aumenta di 3-5 volte 2 ore dopo l’esercizio fisico. Nel 2011 Arthur Kramer dell’Università dell’Illinois ha indicato su PNAS che si può far regredire di 1 o 2 anni l’involuzione ippocampica da età sempre grazie a un aumento del BDNF che
innesca un processo di neurogenesi nel giro dentato, fenomeno inducibile anche tramite fitness mentale. La neurogenesi porta ad aumentare la riserva cognitiva: basta mantenere allenata la mente facendo per esempio le parole crociate, leggendo libri o imparando sempre cose nuove. È anche possibile modulare farmacologicamente il BDNF agendo sul GLP1 (glucagone-like peptide-1), ormone intestinale che mantiene costante la glicemia (Figura 1). In un recente studio su modello animale sovrapponibile alla mezza età dell’uomo, i ricercatori del CESI-Met di Chieti hanno incrementato i livelli di BDNF con l’ipoglicemizzante exenatide, migliorando la memoria visuospaziale. La neurologa Suzanne Marie de la Monte della Brown University ha definito l’Alzheimer “Diabete di tipo 3” considerandolo una forma di diabete che colpisce selettivamente il cervello.
FIGURA 1. I FATTORI IMPLICATI NELLA NEUROGENESI Stile di vita
• Cessazione del fumo • Dieta • Interventi metabolici
Salute vascolare
Interventi vascolari
BDNF-mimetici
• Exenatide • Sostanze psichedeliche a basso dosaggio • BDNF-mimetici di nuova generazione
BDNF Neurogenesi e plasticità neuronale
Esercizio
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Cervello sano Funzioni cognitive conservate
Disfunzione neuronale Atrofia cerebrale Demenza
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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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Vitamina B12
Una molecola preziosa per il sistema nervoso A cura di Marina Melone, Clemente Dato, Guglielmo Capaldo
L
a carenza di vitamina B12 si caratterizza per un’associazione di sintomi ematologici e neurologici. Sul piano ematologico, è causa di anemia megaloblastica che può accompagnarsi a macrocitosi o ipersegmentazione di cellule polimorfonucleate, e nelle forme più gravi può coinvolgere le altre linee cellulari, configurando il quadro di una pancitopenia. Va sottolineato che le anomalie ematologiche possono mancare al momento della sintomatologia neurologica, e la loro assenza non pregiudicare, perciò, la diagnosi di sindrome carenziale. Gli aspetti neurologici dipendono dalla deficitaria sintesi di mielina, con secondaria degenerazione spongiosa della sostanza bianca dell’encefalo, del midollo spinale e delle guaine mieliniche dei nervi spinali. L’espressione neurologica della sindrome carenziale è estremamente variabile, a seconda del distretto affetto. L’insorgenza dei sintomi è insidiosa, con disturbi di sensibilità ai quattro arti: possono essere riferite parestesie e deficit della sensibilità profonda; la valutazione neurologica può inoltre evidenziare un’instabilità nella marcia e un’atassia da deficit di informazione. Nelle fasi tardive, il coinvolgimento delle colonne anterolaterali del midollo spinale determina una sindrome piramidale con la presenza di ipostenia, spasticità e segno di Babinski, e possibile comparsa del segno di Lhermitte. L’interessamento encefalico può determinare rallentamento psicomotorio, disturbi cognitivi, dispercettivi e psichiatrici. Recenti studi hanno dimostrato una forte associazione fra i livelli circolanti di B12 e le prestazioni cognitive, suggerendo che la sua integrazione sia utile nella prevenzione delle demenze. Più rari sono i disturbi del visus, la disautonomia o i disturbi dello stato di coscienza. La carenza può essere causata da molteplici fattori e/o condizioni; oltre all’insufficiente apporto alimentare, possiamo citare l’anemia perniciosa, la gastrite atrofica, l’ipocloridria, l’infezione da Helicobacter pylori, o la sovracrescita batterica intestinale, l’uso e l’abuso dei farmaci gastroprotettori o dei biguanidi come la metformina. Altra condizione importante è l’intervento di chirurgia bariatrica, che prevede una resezione di porzioni di stomaco variabili in base al tipo di intervento. In questo caso si va incontro a un decremento di produzione del fattore intrinseco e quindi a una compromissione
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parziale o totale dell’assorbimento di B12, con conseguenze a medio-lungo termine che si ripercuotono in una correlazione diretta tra deficit di assorbimento e quindi deplezione di B12 e sintomatologia neurologica. Il dosaggio ematico è fondamentale per individuare pazienti che potrebbero beneficiare di un’integrazione. Il sospetto di carenza deve essere sollevato anche nei pazienti che manifestano esclusivamente segni neurologici o ematologici, poiché sono possibili presentazioni incomplete. Va inoltre segnalato che i disturbi mieloproliferativi ed epatici possono mascherare la carenza agli esami di laboratorio, poiché alterano la quantità di proteine plasmatiche che legano questa vitamina. Viceversa, condizioni quali la gravidanza, l’uso di contraccettivi orali e la carenza di folato possono determinare un falso positivo, suggerendo una carenza di B12 pur in presenza di livelli normali. Di fatto, l’esistenza di fattori di rischio per carenza (restrizioni alimentari, patologia gastrointestinale, età avanzata) in presenza di una sintomatologia neurologica non spiegata rappresenta di per sé un’indicazione al dosaggio. L’approccio terapeutico alla carenza di vitamina B12 è suppletivo, per via parenterale o orale. La terapia classica comprende iniezioni intramuscolari quotidiane di 1.000 μg di vitamina B12 per la prima settimana, seguite da iniezioni a cadenza settimanale per un periodo di almeno due mesi. Non vi sono prove che superare queste dosi possa accelerare il recupero neurologico; tuttavia, un incremento della frequenza della somministrazione è stato praticato con successo nei pazienti con sospetto malassorbimento. Oggi sono inoltre, disponibili formulazioni sublinguali innovative, con efficacia pari o superiore alla terapia parenterale. Tali formulazioni hanno il vantaggio di essere assorbibili mediante la mucosa orale; in questo modo, esse superano l’ostacolo rappresentato dal deficit o dall’assenza del fattore intrinseco, una proteina essenziale per un assorbimento efficiente della vitamina, che accomuna numerose cause di carenza. A questo si aggiunge naturalmente la maggiore compliance da parte del paziente nei confronti di un trattamento sublinguale anziché iniettivo. Un trattamento tempestivo è fondamentale per favorire la regressione della sintomatologia neurologica. La maggior parte del miglioramento sintomatico si verifica durante i primi 6-12 mesi di terapia. La necessità di una diagnosi precoce è sottolineata dall’osservazione che la regressione della sintomatologia è tanto più completa quanto più precoce è l’inizio del trattamento.
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NEWS farmaci ROCHE
Sclerosi multipla: via libera dell’AIFA per ocrelizumab
O
crelizumab, recentemente sviluppato da Roche per il trattamento della sclerosi multipla, è ora disponibile anche nel nostro Paese. AIFA ha infatti ammesso il farmaco alla rimborsabilità in fascia H: è questo l’ultimo passo di un lungo iter approvativo basato su una solida base di efficacia e sicurezza, dimostrata negli studi clinici sia per la forma di malattia recidivante (SMR) sia per quella primariamente progressiva (SMPP). “Si tratta di una vera rivoluzione copernicana: questo è un giorno che resterà nella storia della sclerosi multipla”, ha sottolineato all’incontro di presentazione del farmaco (3 ottobre, Milano) Giancarlo Comi, direttore del Dipartimento di Neurologia e dell’Istituto di Neurologia sperimentale (INSPE), dell’Università “Vita-Salute San Raffaele” IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. “Ocrelizumab ha la peculiarità unica di attaccare un tipo specifico di linfociti B, ovvero quelli che esprimono il recettore CD20. È noto che queste cellule svolgono un ruolo chiave nell’aggressione che il sistema immunitario scatena contro le cellule nervose e la guaina mielinica che le ricopre, causa dei sintomi che si associano alla sclerosi multipla”. “I dati ottenuti nell’ambito degli studi regi-
strativi – ha continuato Comi – hanno dimostrato l’elevata potenza del farmaco, la cui efficacia è risultata superiore a quella dell’interferone ß-1a ad alte dosi, il trattamento più frequente per le forme di malattia in ricaduta e remissione, nel ridurre l’attività clinica e sub-clinica di malattia. Ocrelizumab grazie al suo profilo peculiare di efficacia e sicurezza viene a colmare importanti bisogni insoddisfatti nella gestione delle forme recidivanti della sclerosi multipla e nello stesso tempo costituisce il primo e unico trattamento per le forme primariamente progressive.” Conferme di efficacia per ocrelizumab sono emerse anche dalle estensioni in aperto dei trial OPERA, che sono state presentate al 34° Congresso ECTRIMS, svoltosi dal 10 al 12 ottobre scorso, a Berlino. I pazienti SM che hanno iniziato la terapia con ocrelizumab in fase precoce e hanno continuato il trattamento a lungo termine mostrano tassi di recidiva annualizzati più bassi e una notevole riduzione della progressione della disabilità rispetto ai pazienti che sono passati a ocrelizumab dalla terapia con interferone ß-1a. Lo studio riguarda pazienti degli studi di fase III OPERA I e OPERA II seguiti per tre anni dall’inizio dell’estensione in aperto. I partecipanti
hanno continuato la terapia con ocrelizumab o sono passati dalla terapia con interferone ß-1a a ocrelizumab. I ricercatori hanno analizzato specifici risultati di efficacia, tra cui il tasso annualizzato di recidiva aggiustato, il tempo di inizio della progressione della disabilità confermata a 24 settimane e il cambiamento rispetto al basale nel punteggio medio aggiustato della Expanded Disability Status Scale. I risultati hanno mostrato che l’88,6 per cento dei pazienti che sono entrati nel periodo di estensione in aperto ha completato lo studio. I pazienti che hanno continuato la terapia con ocrelizumab hanno mantenuto tassi annualizzati di recidiva bassi per tutto il periodo di tre anni. Inoltre, i pazienti passati a terapia con ocrelizumab hanno ridotto i tassi annualizzati di recidiva da 0,20 (pre-switch) a 0,10 a un anno, a 0,08 a due anni e a 0,07 a tre anni. Rispetto ai pazienti che hanno cambiato terapia, tra i soggetti che l’hanno proseguita è stata rilevata una quota inferiore di casi di progressione di invalidità confermata nell’anno precedente lo switch e durante il periodo di estensione di tre anni (7,7 vs 12 per cento pre-switch, 10,1 vs 15,6 per cento all’anno uno, 13,9 vs 18,1 per cento all’anno due, 16,1 vs 21,3 per cento all’anno tre).
AbbVie L’azienda si conferma con la migliore reputazione in Italia
A
bbVie è l’azienda del settore farmaceutico con la più elevata reputazione in Italia confermando anche quest’anno la prima posizione nella classifica di Italy Pharma RepTrak® 2018, redatta da Reputation Institute. “Questo rappresenta per noi un risultato estremamente importante, che ci sprona a mantenere alto e rafforzare il nostro impegno prioritario nelle attività di ricerca e sviluppo, dove sono oltre 8.800 le persone dell’azienda che lavorano nel mondo, con studi in corso in più di 70 paesi” commenta così l’importante riconoscimento Fabrizio Greco, amministratore delegato di AbbVie
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NUMERO 3 · 2018 la NEUROLOGIA italiana
Italia, che ricorda inoltre come quest’anno l’azienda sia salita al primo posto anche nella classifica delle imprese del settore farmaceutico con la migliore reputazione dal punto di vista delle associazioni dei pazienti, redatta in base all’indagine condotta in Italia da PatientView, resa nota a luglio 2018. In Italia, l’azienda conta circa 1.300 dipendenti, di cui 800 impegnati nello stabilimento di Campoverde di Aprilia (LT), che esporta la sua produzione in oltre 110 paesi e si contraddistingue per gli elevati standard qualitativi.
farmaci NEWS DISTROFIA DI DUCHENNE
In un’analisi preliminare di dati real life, ataluren rallenta la progressione della patologia nella popolazione pediatrica
S
ono stati da poco resi noti i dati preliminari del primo registro internazionale di pazienti con Duchenne trattati con ataluren (STRIDE), che sottolineano il beneficio clinico a lungo termine della terapia, quando usata di routine nella pratica clinica, nel ritardare la perdita muscolare irreversibile nei bambini con distrofia di Duchenne causata da una mutazione non senso. Ataluren (PTC Therapeutics) è una terapia di ripristino delle proteine (nel caso specifico la distrofina), ed è autorizzata nell’Unione Europea per il trattamento della mutazione non senso nella distrofia muscolare di Duchenne in pazienti deambulanti di età pari o superiore a due anni. Il registro STRIDE è nato 3 anni fa con lo scopo di permettere alla comunità scientifica di raccogliere dati clinici basati sulla pratica clinica. Stando ai risultati, i bambini e gli adolescenti che ricevono ataluren nel “mondo reale” continuano a camminare per più anni rispetto ai non trattati, e hanno un
minor declino clinico. Un’analisi time-toevent per la perdita di deambulazione ha dimostrato che i pazienti trattati avevano un’età media di perdita della deambulazione di 16,5 anni, ovvero fino a 5 anni più tardi rispetto alla progressione naturale della malattia nei bambini non trattati. I dati sono stati presentati al recente congresso annuale della World Muscle Society (2-6 ottobre, Mendoza, Argentina). ”Questi dati iniziali sono molto incoraggianti perché forniscono la prima prova di real world evidence dell’impatto di ataluren quando usato routinariamente a lungo termine”, ha sottolineato Eugenio Mercuri, professore di neurologia pediatrica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. “Stiamo vedendo bambini che hanno manifestato i primi sintomi clinici di Duchenne a circa 3 anni di età che sono ancora in grado di camminare considerando che senza terapia sarebbero già costretti su una sedia a rotelle, il che è veramente importante per i pazienti e le loro fami-
glie”. L’analisi è basata su dati raccolti su 216 pazienti di 11 Paesi europei e Israele: la maggior parte di questi pazienti non era stata precedentemente arruolata in alcun trial clinico con ataluren. I partecipanti avevano un’età media di 9,8 anni alla prima valutazione e avevano avuto una diagnosi di Duchenne da mutazione non senso a circa 5 anni. Quasi il 90 per cento era stato trattato in precedenza o stava ancora ricevendo corticosteroidi. ”Mantenere il più a lungo possibile la deambulazione in un bambino con Duchenne è cruciale non solo per mantenere l’indipendenza ma anche, e soprattutto, per ritardare il rapido declino funzionale che di solito segue la perdita di deambulazione, compresa la perdita dell’uso delle braccia che sono essenziali nella vita quotidiana e le complicazioni respiratorie e cardiache”, ha precisato Filippo Buccella, uno degli Autori dello studio e advocate dei pazienti affetti da Duchenne.
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NUMERO 3 2018
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