Medico e paziente 6 2019

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MP Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLIV n. 6 - 2018

FRATTURE DA FRAGILITÀ

L’impatto della contraccezione ormonale combinata in donne a rischio per familiarità

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COMUNICAZIONE MEDICO-PAZIENTE

Nuovi dati riaprono la discussione sul ruolo del trattamento farmacologico

Uno strumento vincente per potenziare il successo terapeutico

MEDICINA DI GENERE

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CARCINOMA ALLA MAMMELLA


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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

> Domenico D’Amico

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sommario

Nell’immaginario collettivo alcune patologie vengono percepite

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tipicamente come “maschili”. Tra queste rientrano senza dubbio le

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CARCINOMA ALLA MAMMELLA

cardiopatie, molto più diffuse nella donna di quanto si possa pensare, tanto che nel complesso esse costituiscono la prima causa di decesso nella popolazione femminile sopra i 65 anni. Si tratta di patologie molte volte misconosciute anche in ambito medico. La diagnosi spesso avviene tardivamente, anche per la presenza di sintomi aspecifici. Da non trascurare il fatto che nella donna si fa molta meno prevenzione. La popolazione femminile è attenta e scrupolosa verso gli screening ginecologicioncologici, ma è molto meno sensibile verso i controlli e la prevenzione delle patologie cardiovascolari. Per tutti questi motivi, vogliamo richiamare l’attenzione sull’approccio genere-specifico alle cardiopatie, invitando il Medico a sensibilizzare le proprie pazienti sul tema, tuttora in penombra

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Cardiopatie nella donna Focus sulle patologie genere-specifiche

Letti per voi medicina/oncologia

medicina/cardiologia

Carcinoma alla mammella L’impatto della contraccezione ormonale combinata in donne a rischio per familiarità

Sebbene sottostimate, le malattie

La correlazione tra contraccezione

Per questo motivo è importante

ormonale combinata e tumore alla

focalizzare l’attenzione

mammella in donne a rischio per

su un approccio diagnostico

familiarità è un tema controverso.

genere-specifico

Alcune interessanti indicazioni al

Carlo Campana

riguardo ci giungono dallo studio pubblicato in queste pagine Giovanni Grandi, Martina Caroli, Cristina Guidi, Federica Anceschi, Fabio Facchinetti

cardiovascolari rappresentano nel complesso la principale causa di decesso nella donna.

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Sanità Professione La comunicazione nella relazione medico-paziente Un efficace strumento per potenziare il successo terapeutico

I nostri migliori auguri per un sereno Natale ed un prospero 2019

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Maurizio Cusani

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Farminforma

MEDICO e PAZIENTE | 6.2018 |

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Numero 6.2018 - anno XLIV

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Direttore editoriale Anastassia Zahova Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Folco Claudi, Piera Parpaglioni, Cesare Peccarisi

Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. R.O.C. N° 10464. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.

Comitato scientifico

Redazione WEB Alessandro Visca Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino

Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna

Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Hanno collaborato a questo numero: Federica Anceschi, Carlo Campana, Martina Caroli, Maurizio Cusani, Fabio Facchinetti, Giovanni Grandi, Cristina Guidi, Arturo Zenorini Foto di copertina: 123RF Archivio Fotografico Direttore responsabile Sabina Guancia Scarfoglio

Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM Prof. Rocco Maurizio Zagari Professore associato di Gastroenterologia, Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche (DIMEC), Università di Bologna

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SINDROME DEL TUNNEL CARPALE

Neuroprotezione e attività antalgica con L-ACETIL-CARNITINA

T

ra le neuropatie più diagnosticate, riveste particolare rilevanza la sindrome del tunnel carpale (CTS) che riguarda il 3,8 per cento della popolazione e colpisce prevalentemente le donne. Come è noto la causa risiede nella compressione del nervo mediano nel suo passaggio attraverso il canale carpale e i sintomi includono dolore neuropatico, parestesia, disestesie e disabilità motoria funzionale. Se l’intervento chirurgico – che consiste nell’incisione del legamento trasverso del carpo, in grado di alleviare la compressione stessa – rimane il trattamento risolutivo nei casi più severi, è anche vero che questa opzione non deve essere riservata a

tutti i pazienti e spesso una terapia medica, specie nelle fasi iniziali o con sintomatologia moderata, è sempre più di frequente ritenuta l’approccio di prima scelta. Occorre dire che le opzioni terapeutiche per molte neuropatie sono state supportate da un numero importante di studi clinici mentre i potenziali trattamenti per la forma compressiva risultano decisamente trascurati dalla letteratura. Un’importante eccezione in questo senso viene da un recente studio clinico coordinato da Giorgio Cruccu, dell’Università Sapienza di Roma (Cruccu G et al. CNS Drugs, 2017 Dec;31(12):110311). Dallo studio è emerso come la L-acetil-carnitina (LAC) abbia

I

evidenziato un effetto neuroprotettivo in pazienti con varie neuropatie periferiche, inclusa la CTS, e studi recenti su piccoli mammiferi hanno dimostrato l’azione centrale della LAC in modelli sperimentali di dolore, sia neuropatico che infiammatorio. Tali premesse hanno portato i ricercatori a testare l’efficacia della LAC su conduzione nervosa, dolore e funzionalità delle mani in pazienti con CTS da lieve a moderata. A questo scopo è stato condotto uno studio multicentrico, in cieco, clinico e neurofisiologico della durata di 4 mesi su 82 pazienti (120 mani) con CTS. Nei primi 10 giorni i partecipanti sono stati trattati con iniezioni intramuscolari di LAC 500 mg due volte al giorno (BID) e nei successivi 110 giorni con somministrazione per os di una compressa di LAC da 500 mg BID. I pazienti - valutati al basale e dopo 10, 60 e 120 giorni - sono stati tutti sottoposti a uno studio

l Malmö Breast Tomosynthesis Screening Trial (MBTST) è un trial prospettico, di popolazione disegnato per studiare l’accuratezza della tomosintesi mammaria a una sola proiezione, una nuova tecnica mammografica tridimensionale in grado di produrre immagini quasi-tomografiche, che ha dimostrato di offrire potenzialmente una migliore rilevazione delle lesioni durante lo screening per il tumore della mammella, rispetto alla tradizionale mammografia digitale a due proiezioni. Lo studio ha coinvolto 14.851 donne di età compresa tra 40 e 74 anni afferenti allo Skåne University Hospital a Malmö, in Svezia, sottoposte a mammografia digitale a due visualizzazioni (craniocaudale e obliqua mediolaterale) seguita da tomosintesi digitale del seno con ridotta compressione nella proiezione obliqua mediolaterale (con angolo di tomosintesi di 50°) in una visita di screening. Le immagini sono poi state valutate e interpretate in cieco da due gruppi indipendenti costituiti da sei radiologi ciascuno. L’outocome primario era la determinazione della sensibilità e della specificità delle due diverse metodiche. Nel corso dei due anni di follow-up, sono stati diagnosticati 139 tumori della mammella su 14.848 donne sottoposte a screening (<1 per cento). La sensibilità della tomosintesi è risultata più elevata di quella della mammografia digitale (81,1 vs. 60,4 per cento) a fronte di una specificità leggermente inferiore (97,2 vs. 98,1 per cento). La percentuale di tumori rilevati è risultata significativamente superiore con la tomosintesi che con la mammografia digitale (8,7 tumori per 1.000 donne sottoposte a screening vs. 6,5/1.000). Secondo gli Autori la metodica di tomosintesi a ridotta forza di compressione del seno utilizzata per lo screening del tumore della mammella offre alcuni vantaggi sia rispetto alla mammografia digitale a due proiezioni (una più elevata sensibilità, con una minima perdita di specificità) sia rispetto alla stessa tomosintesi, ma a due proiezioni (minore dose di radiazione e minore impegno nella lettura dei risultati dello screening).

Prevenzione oncologica

Confronto tra tomosintesi a singola proiezione del seno e mammografia a due proiezioni nel Malmö Breast Tomosynthesis Screening Trial: uno studio prospettico di popolazione sull’accuratezza diagnostica delle due metodiche

● Zackrisson S, Lång K et al. Lancet Oncol 2018 Oct 12. pii: S1470-2045 (18) 30521-7

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di conduzione del nervo mediano e ai questionari BCTQ (Boston Carpal Tunnel Questionnaire) e NPSI (Neuropathic Pain Symptom Inventory). L’endpoint primario era la velocità di conduzione sensoriale (SCV) del nervo mediano. Al termine dei 4 mesi di valutazione clinica è stato riscontrato un miglioramento significativo sia dell’SCV (p <0,0001) sia di tutte le misure neurofisiologiche sensoriali. Inoltre, i punteggi sintomatologici BCTQ sono diminuiti del 39 per cento mentre quelli funzionali del 18 per cento (entrambi p <0,0001), con riduzione evidente dei sintomi già dopo 10 giorni di trattamento. Nel corso dei 4 mesi di trattamento tutti i tipi di dolore si sono ridotti in modo significativo (p <0,0001), a eccezione del dolore lancinante. La dimensione dell’effetto variava dal 38 al 56 per cento, con il massimo sollievo nel caso di dolori da stretta e pressorio spontanei e nel dolore pressorio evocato (p <0,0001).Durante la sperimentazione non si sono verificati eventi avversi gravi e si è rilevata solo una modesta quota di eventi di entità lieve-moderata non correlati al trattamento. Il miglioramento lineare delle variabili sensoriali NCS (Nerve Conduction Study) supporta l’effetto neuroprotettivo della LAC, probabilmente mediato da vari meccanismi che, in ultimo, si fondano sul ripristino dell’attività mitocondriale dei neuroni. Anche se i risultati NPSI basati sulla percezione del dolore da parte dei pazienti non forniscono prove affidabili sull’origine del dolore, sia esso nocicettivo o neuropatico, secondo gli Autori supportano comunque l’attività anti-nocicettiva del farmaco. I meccanismi coinvolti potrebbero essere diversi, come l’induzione dell’espressione dei recettori mGlu2 che, nel midollo spinale, regolano negativamente il rilascio di glutammato, oppure l’interessamento delle vie colinergiche. In conclusione, lo studio supporta questo tipo di approccio farmacologico nei pazienti con CTS. Infatti,

il trattamento con la LAC ha dimostrato un’azione neuroprotettiva e un impatto positivo sulla funzione sensoriale e sul dolore. In particolare, nella CTS di entità lieve-moderata la LAC: ha migliorato la velocità di conduzione sensoriale del nervo mediano e le altre misure neurofisiologiche sensoriali; ha ri-

dotto in modo significativo tutti i tipi di dolore, probabilmente a causa sia della sua azione neuroprotettiva che delle sue proprietà anti-nocicettive centrali; si è dimostrata un trattamento ben tollerato e non sono stati riferiti eventi avversi gravi. ● Cruccu G, Di Stefano G et al. CNS Drugs 2017; 31: 1103-11

Cardiologia

Nuovi dati mettono in discussione il trattamento farmacologico in pazienti a basso rischio CV e con ipertensione lieve

L’

avvio di un trattamento farmacologico antipertensivo in soggetti a basso rischio cardiovascolare (CV) e con ipertensione lieve è una questione annosa. Gli studi spesso hanno portato a risultati non conclusivi e anche le raccomandazioni internazionali sono spesso contradditorie. Trattare o non trattare? È un quesito che al momento non ha avuto una risposta concreta, anche se qualche indicazione ci giunge dai risultati di questo lavoro, secondo cui un trattamento con farmaci antipertensivi in pazienti con innalzamento pressorio lieve non è associato a un minor rischio di decesso o di malattia CV, e anzi correla con un aumentato rischio di eventi avversi. Da qui, il suggerimento degli Autori, seppure in controtendenza con le linee guida dell’ACC e dell’AHA, di essere cauti nell’iniziare il trattamento. Ricordiamo che il documento ACC-AHA raccomanda la terapia in tutti i soggetti con PAS >140 mmHg o PAD >90 mmHg. Il rischio di mortalità e di eventi CV è stato valutato su dati rappresentativi della popolazione del Clinical Practice Research DataLink tra gennaio 1998 e settembre 2015. I partecipanti (età 18-74 anni) avevano una diagnosi di ipertensione lieve, ovvero PA 140/90 mmHg-159/99 mmHg, in assenza di

trattamento e di patologie CV pregresse. In un modello di regressione di Cox, sono stati confrontati 19.143 soggetti (età media 54,7 anni) trattati con altrettanti soggetti non trattati, sovrapponibili per caratteristiche cliniche e demografiche. Durante il follow up medio di 5,8 anni, non è stata riscontrata alcuna associazione tra trattamento antipertensivo e mortalità (HR 1,02, CI 95 0,88-1,17); trend analogo anche per il rischio di sviluppare patologie CV (HR 1,09, CI 95 0,95-1,25). Nei pazienti trattati è stato per contro registrato un incremento del rischio di eventi avversi tra cui, ipotensione (HR 1,69), sincope (HR 1,28), anomalie elettrolitiche (HR 1,72) e danno renale acuto (HR 1,37). Secondo gli Autori, non vi sono prove concrete dei benefici derivanti da un trattamento farmacologico in pazienti con ipertensione lieve e a basso rischio CV. I dati andrebbero considerati con cautela a causa di fattori confondenti che potrebbero non essere stati presi in esame, tuttavia pongono l’accento sulla necessità di valutare molto attentamente il profilo di beneficio-rischio di un trattamento antipertensivo in questa categoria di pazienti. ● Sheppard JP, Stevens S et al. Jama Intern Med 2018; 178 (12): 1626-34

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medicina

oncologia

Carcinoma alla mammella L’impatto della contraccezione ormonale combinata in donne a rischio per familiarità La correlazione tra contraccezione ormonale combinata e tumore alla mammella in donne a rischio per familiarità è un tema controverso. Alcune interessanti indicazioni al riguardo ci giungono dallo studio pubblicato in queste pagine Giovanni Grandi, Martina Caroli, Cristina Guidi, Federica Anceschi, Fabio Facchinetti Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche Materno-Infantili e dell’Adulto Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

I

l carcinoma mammario (CM) è il tumore più diagnosticato nella donna, in cui circa un tumore maligno su 3 è un CM. Considerando la frequenza nelle varie fasce di età, i CM rappresentano il tumore più frequentemente diagnosticato tra le donne sia nella fascia di età 0-49 anni (41 per cento), sia nella classe di età 50-69 anni (35 per cento), sia in quella più anziana, maggiore di 70 anni (22 per cento). È inoltre la prima causa di morte oncologica nelle diverse età della vita, rappresentandone il 30 per cento prima dei 50 anni, il 22 per cento tra i 50 e i 69 anni, il 15 per cento dopo i 70 anni. Si sta osservando una continua tendenza alla diminuzione della mortalità per CM negli ultimi anni (circa 2,2 per cento/anno) attribuibile alla maggiore diffusione di programmi di diagnosi precoce e quindi all’anticipazione diagnostica e anche ai progressi terapeutici. La sopravvivenza a 5 anni in donne con CM oggi in Italia è pari all’87 per cento (1). Il rischio di CM aumenta con l’aumentare dell’età e questa correlazione potrebbe essere legata al continuo e progressivo stimolo proliferativo endocrino che subisce l’epitelio mammario nel corso degli anni, associato al progressivo danneggiamento del DNA e all’accumularsi di alterazioni epigenetiche con modificazioni dell’equilibrio di espressione tra oncogeni e oncosoppressori. Sono stati identificati diversi fattori di rischio per CM tra cui: il menarca precoce e la menopausa tardiva, la nulliparità, il mancato allattamento, l’elevato consumo di alcol, di grassi animali e di fibre vegetali, l’obesità, il diabete, l’ipertensione arteriosa, la pregressa radioterapia sul torace e la familiarità. Anche se la maggior parte dei carcinomi mammari sono forme sporadiche, il 7 per cento risulta essere legato a fattori ereditari, il 25 per cento determinato dalla mutazione di due geni: BRCA1

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e BRCA2. In queste donne il rischio di ammalarsi di CM nel corso della vita è pari a 65 per cento nelle BRCA1 e al 40 per cento nelle BRCA2 (2). I geni BRCA1 e BRCA2 sono stati identificati nei primi anni Novanta, con i test genetici che sono diventati clinicamente disponibili nel 1996. I geni BRCA1 e BRCA2 sono localizzati rispettivamente sui cromosomi 17 e 13 e sono compatibili con la vita solo in eterozigosi. Entrambi questi geni sono piuttosto grandi e contengono almeno 20 esoni (regioni codificanti) che coprono circa 80.000 coppie di basi. I database internazionali definiscono centinaia di diverse mutazioni patogene. La maggior parte di queste mutazioni altera il quadro di lettura, con conseguente formazione di un codone di arresto prematuro che genera una proteina accorciata. Altre mutazioni, invece, possono interessare i siti di splicing ai confini degli esoni o coinvolgere alterazioni genomiche maggiori. Le semplici mutazioni missenso, dove c’è una sostituzione di una singola base, rappresentano le mutazioni patogenetiche meno frequenti (3). Nella popolazione generale, si stima che circa 1 su 500 è portatore di una mutazione in BRCA1 o BRCA2 (4). La mutazione BRCA si associa anche a un aumentato rischio di sviluppare il tumore dell’ovaio: in particolare, la BRCA1 ha circa il 45 per cento di rischio di sviluppare un tumore ovarico mentre la BRCA2 ha un rischio del 18 per cento nel corso di tutta la vita (5).

Correlazione tra terapia con CHC e carcinoma mammario Attualmente nei Paesi sviluppati, i contraccettivi ormonali combinati (CHC) sono i metodi di contraccezione più utilizzati: ne


fanno uso circa 29 milioni di donne. La “pillola” tradizionale è in generale composta da un ormone estrogeno e uno progestinico. Negli ultimi 60 anni, essa si è costantemente evoluta. Dopo i primi tentativi con il mestranolo, l’uso di etinil-estradiolo (EE) è divenuto predominante per decenni fino a pochi anni fa. Le dosi di EE all’inizio di 50 µg sono state gradualmente ridotte fino a 15 μg. Allo stesso tempo, numerose generazioni diverse di progestinici sono stati testati per avere prodotti che si adattino meglio alle esigenze individuali. In particolare si è partiti da progestinici simili al testosterone con proprietà androgeniche (i cosiddetti progestinici di prima generazione) per utilizzare sempre nuove molecole con proprietà androgeniche neutre o anche anti-androgeniche (6). La sostituzione dell’EE con l’estradiolo, l’estrogeno naturalmente secreto dalle cellule della granulosa delle ovaie, è stato davvero difficile a causa del mancato raggiungimento di un livello soddisfacente di controllo del sanguinamento, ma si è reso possibile solo negli ultimi anni con l’introduzione di specifici regimi multifasici e progestinici con spiccato effetto di stabilizzazione dell’endometrio (7). L’effetto dell’utilizzo dei CHC durante la vita riproduttiva di una donna e il loro conseguente rischio di carcinoma mammario è sempre stato un argomento di grande interesse e un’importante questione di discussione. Dati sperimentali suggeriscono che gli estrogeni rivestono un ruolo centrale nello sviluppo del CM esercitando sulle cellule tumorali uno stimolo proliferativo, mentre l’azione del progestinico è molto più controversa. Infatti sembra che esso possa avere sia un’azione proliferativa che anti-proliferativa a seconda del fenotipo cellulare e del microambiente in cui esso agisce. Il CHC può esercitare effetti differenti a seconda dell’età e dello stato di sviluppo del tessuto mammario (8). I numerosi studi che sono stati eseguiti per approfondire e spiegare se vi sia o meno una correlazione tra la CHC e il rischio di CM in donne senza rischio familiare non hanno attualmente trovato una risposta univoca. Esistono studi prospettici di coorte che dimostrano un aumentato rischio di CM in donne che hanno utilizzato il CHC per 5 o più anni rispetto a donne che non l’hanno utilizzato (8,9). In particolare, da un recente studio prospettico di coorte condotto in Danimarca che ha coinvolto

donne tra i 15 e i 49 anni, è emerso che il rischio relativo (RR) aumenta lievemente, da 1,09 (95 per cento CI, 0,96- 1,23) in coloro che hanno utilizzato il CHC per meno di un anno, a 1,38 (95 per cento CI, 1,26-1,51) nelle donne che lo hanno utilizzato per più di 10 anni, circa un extra tumore mammario per ogni 7.700 donne che usano la pillola per un anno. Tale rischio sembrerebbe rimanere aumentato anche per i successivi 5 anni dopo la loro sospensione (9). Questi dati non risultano concordi con un altro ampio studio prospettico recentemente pubblicato che ha analizzato l’incidenza longitudinale di carcinomi (mammario, cervicale, colon-rettale, endometriale, ovarico, linfatico ed emopoietico) in donne che hanno assunto il CHC, che non ha trovato un aumento del rischio di CM, confermando invece l’importante effetto protettivo sul tumore dell’ovaio con un RR di 0,67 (95 per cento CI 0,50-0,89) (10). Emerge inoltre, come ci sia una correlazione inversa tra l’età in cui si inizia ad assumere il CHC (sotto i 20 anni) e il rischio aumentato di CM (8). Infatti nel mondo occidentale l’età della prima gravidanza si è attualmente posticipata rispetto alla fine degli anni Settanta. Per questo motivo i CHC vengono assunti dalle donne in età sempre più precoce e sicuramente prima dell’instaurarsi della gravidanza che gioca un ruolo protettivo nei confronti del tessuto mammario, in quanto determina una differenziazione tissutale che sembra ridurre il rischio di carcinoma alla mammella (8). Una metanalisi che ha analizzato 54 studi da 25 Paesi suggerisce inoltre, un effetto promotore da parte della terapia con CHC nei confronti delle lesioni mammarie presistenti. Tuttavia in molti studi emerge che poi la mortalità per CM in donne che hanno utilizzato il CHC sia equivalente o inferiore rispetto alle donne che non l’hanno assunto; probabilmente questo aspetto potrebbe essere correlato alla maggiore attenzione e aderenza allo screening mammografico da parte di questa popolazione considerata a maggior rischio (11,12). Anche nelle pazienti portatrici della mutazione BRCA1 e 2 che hanno utilizzato il CHC esiste un lieve aumento del rischio di CM con un HR di 1,47 (95 per cento CI 1,16-1,87) (13), soprattutto se usato prima della prima gravidanza, sebbene questo dato non sia stato poi confermato (14). Tale rischio tuttavia, è ampiamente controbilanciato dalla riduzione dell’incidenza del

• Lo studio analizza un ambito ancora poco esplorato ovvero la potenziale correlazione tra assunzione di contraccettivi ormonali combinati (CHC) e rischio di tumore al seno in donne con predisposizione genetica o familiare. • Nel complesso, emerge che l’uso di CHC non si associa con un aumento dell’incidenza di carcinoma mammario, indipendentemente dalla durata di utilizzo, e dunque l’impiego della “pillola” contraccettiva sarebbe sicuro anche in questa classe di pazienti che tendenzialmente temono di più i possibili effetti negativi delle terapie ormonali.

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medicina

oncologia

Tabella 1 Classificazione del rischio secondo i criteri di Modena utilizzati nello studio17 Alto rischio

Classificazione

Almeno 3 parenti diagnosticati con CM (o tumore dell’ovaio) in 2 generazioni differenti

Un caso di CM/tumore dell’ovaio è un parente di primo grado degli altri due

Almeno un caso è stato diagnosticato prima dei 40 anni o se il CM è bilaterale

X

X

X

X

X

X

X

Ereditario (HBC/HBOC) Sospetto ereditario (SHBC/SHBOC)

CM diagnosticato prima dei 35 anni, indipendentemente dalla storia familiare

Comparsa precoce (EOBC)

CM e tumore dell’ovaio nella stessa donna, indipendentemente dalla storia familiare

Tumore al seno e all’ovaio (BOC)

Rischio intermedio X

Familiare (FBC/FBOC) X

X

CM nel maschio, indipendentemente dalla storia familiare

tumore ovarico che è fortemente aumentato nella popolazione di donne con mutazione BRCA1 e 2; per cui l’utilizzo di CHC non viene assolutamente precluso a queste pazienti, soprattutto le BRCA1, in cui il rischio di tumore dell’ovaio è molto alto (8). Molto controverso infine è l’effetto dell’uso dei CHC in donne con una semplice storia familiare di CM (familiari di primo grado) a causa della scarsità di studi presenti in letteratura, della carenza del loro significato statistico e della disomogeneità sia nelle popolazioni valutate, sia nella definizione di una storia familiare di CM (15,16).

Lo studio Per questo motivo abbiamo recentemente condotto uno studio retrospettivo di coorte insieme agli oncologi del Centro per lo studio dei tumori eredo-familiari dell’Azienda OspedalieroUniversitaria Policlinico di Modena diretto dalla dott.ssa Laura Cortesi, valutando le caratteristiche della vita riproduttiva di 2.527 cartelle cliniche di pazienti che avevano effettuato una valutazione oncologica fra maggio 2010 e gennaio 2016. Le donne senza storia familiare non sono state considerate (17). In particolare abbiamo incluso le donne categorizzate secondo i criteri di Modena (Tabella 1). L’incidenza del CM in queste donne presente nel nostro database è stata poi confrontata con un’altra banca dati indipendente, il Registro dei tumori di Modena.

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Familiare fortemente sospetto (SFBC/SFBoc) Tumore maschile al seno (MBC)

L’uso di CHC di ogni donna è stato attentamente valutato con specifici questionari. Tutti i nomi commerciali dei CHC utilizzati (pillole, anelli vaginali o cerotti) sono stati inseriti nel database. Per la parte estrogenica, è stata considerata la dose massima di EE utilizzata. Inoltre sono stati raccolti i diversi tipi di progestinici. Se una donna aveva utilizzato diversi tipi di progestinici, tutti sono stati considerati e inclusi nell’analisi finale. Di queste donne, il 4,5 per cento è stato confermato portatore di mutazioni BRCA, il 72,2 per cento presentava un rischio elevato, mentre il 23,3 per cento era a rischio intermedio. In tutta la popolazione, abbiamo osservato che il menarca tardivo dopo 12 anni (HR 0,71; 95 per cento CI 0,55-0,92; p =0,01) era un fattore protettivo per CM. Al contrario, la tarda età alla prima gravidanza (>30 anni) rappresentava un fattore di rischio (HR 1,66, 95 per cento CI 1,14-2,41, p =0,008). Tra le donne valutate, 452/1.470 (30,7 per cento) non avevano mai usato la pillola, mentre le altre l’avevano usata per un periodo <5 anni (517/1.470, 35,2 per cento), tra 5 e 10 anni (294/1.470, 20,0 per cento) e per più di 10 anni (207/1.470, 14,1 per cento). Non abbiamo trovato alcuna caratteristica specifica dei tumori mammari (infiltrazione, recettore ormonale e stato HER2, esordio precoce, diagnosi multipla) nelle utilizzatrici di CHC (p >0,05). Nel complesso, l’uso di CHC non è stato associato a un aumento del rischio di incidenza del CM (rischio cumulativo: mai usato 0,17, utilizzatrici 0,20, p =0,998), indipendentemente dalla


durata d’uso. In un modello di regressione di Cox con interazione dei diversi gruppi di rischio, i risultati sono stati confermati (Tabella 2) (riferimento: non utilizzatrici di CHC). Le formulazioni esatte e la durata d’uso sono state chiaramente riferite da 543 donne (quindi aggiunto alle non utilizzatrici, l’analisi finale è stata eseguita su un totale di 995 soggetti). Solo 11/543 (2,0 per cento) donne avevano utilizzato un preparato con ≥50 μg di EE. I progestinici più usati erano il gestodene (GSD) (n =199), il desogestrel (DSG) (n =155) e il ciproterone acetato (n =112) (CPA). La durata media dell’uso di CHC era comparabile tra le diverse formulazioni (p =0,384). La dose di EE non ha influenzato il rischio di CM (rischio cumulativo: 2,37, 95 per cento CI 0,53-10,1; non utilizzatrici 0,18, EE <20 μg 0,04, EE ≥20 μg 0,16, p =0,259). Il rischio non differiva tra le pillole contenenti diversi progestinici (p =0,669). Tuttavia, il rischio di CM tendeva a essere più alto, anche se non significativamente, nelle utilizzatrici di CHC contenenti LNG (rischio cumulativo: utilizzatrici di LNG 0,37 vs 0,17 di non utilizzatrici di pillola, p =0,748), mentre una tendenza verso un rischio ridotto è stata osservata nelle utilizzatrici di CHC contenenti DSG (rischio cumulativo: utilizzatrici DSG 0,09; p =0,333). La diminuzione è diventata significativa nelle utilizzatrici di CHC contenenti GSD (rischio cumulativo: utilizzatrici GSD 0,05; p =0,040) o CPA (rischio cumulativo: utilizzatrici CPA 0,01; p =0,036). Ciò che sembra emergere è quindi che il rischio sia più alto con i progestinici androgeni, molto più basso con progestinici androgenici più deboli e ancora più basso con i progestinici anti-androgeni. Il testosterone infatti è un riconosciuto fattore di rischio per il CM (18), e considerazioni simili sono state fatte in donne in postmenopausa senza storia familiare che utilizzano terapia ormonale sostitutiva, in cui l’uso di un progestinico an-

La mortalità per tumore al seno mostra un trend in calo, attribuibile alla maggiore diffusione dei programmi di screening, e dunque all’anticipazione diagnostica, e alla disponibilità di nuove terapie drogeno sembrava aumentare il rischio di CM più che l’uso di un progestinico non androgenico (19). Il meccanismo proposto potrebbe dipendere dall’aumento delle SHBG (sex hormone binding protein) causato da EE che è potenzialmente protettivo per lo sviluppo del CM, che aumenta di più con progestinici anti-androgenici in associazione con EE (20).

Considerazioni conclusive Il nostro studio dimostra quindi che l’uso di CHC non è associato a un aumento generale del rischio di CM in una popolazione con predisposizione genetica o familiare. Questo effetto non dipende dalla durata dell’uso della pillola. Il rischio è indipendente dalla dose di EE, sebbene nel nostro gruppo solo il 2 per cento delle donne avesse usato un preparato con ≥50 μg di EE. Alcune pillole contenenti progestinici comunemente usati, come GSD, DSG e CPA, si sono dimostrate anche associate a una tendenza, a volte significativa, verso un rischio ridotto di CM. Secondo i risultati di questo nostro studio (17), l’utilizzo di pillola sarebbe sicuro anche in questa classe di pazienti con una familiarità per CM che tendenzialmente temono di più i possibili effetti negativi delle terapie ormonali, e sono completamente in accordo con le linee guida dell’OMS del 2015 che non precludono in alcun modo l’assunzione di CHC nelle pazienti con familiarità per CM (21).

Tabella 2. Rischio cumulativo di CM a 60 anni a seconda della durata di utilizzo di CHC in ogni gruppo di rischio (riferimento: non utilizzatrici di CHC) Gruppo di rischio

HR

CI 95 %

p

Utilizzo di CHC <10 anni

Intermedio

0,84

0,37-1,90

0,682

Utilizzo di CHC >10 anni

Intermedio

0,54

0,12-2,43

0,422

Utilizzo di CHC <10 anni

Alto

1,02

0,64-1,65

0,922

Utilizzo di CHC >10 anni

Alto

1,22

0,64-2,33

0,547

Utilizzo di CHC <10 anni

Altissimo (BRCA)

1,65

0,72-3,77

0,238

Utilizzo di CHC >10 anni

Altissimo (BRCA)

1,04

0,23-4,76

0,961

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11


medicina

oncologia

bibliografia 1. AIOM-AIRTUM-Fondazione AIOM. I numeri del cancro in Italia 2017. www.aiom.it 2. Chen S, Parmigiani G. Meta-analysis of BRCA1 and BRCA2 penetrance. Journal of Clinical Oncology 2007; 25(11): 13291333. 3. Andrews L et al. Hereditary Ovarian Cancer and Risk Reduction. Best Practice & Research Clinical Obstetrics and Gynaecology 2017 May; 41: 31-48. 4. Whittemore AS et al. Prevalence and contribution of BRCA1 mutations in breast cancer and ovarian cancer: results from three U.S. population-based case-control studies of ovarian cancer. Am J Hum Genet 1997; 60(3): 496-504. 5. Antoniou A et al. Average risks of breast and ovarian cancer associated with BRCA1 or BRCA2 mutations detected in case Series unselected for family history: a combined analysis of 22 studies. Am J Hum Genet 2003; 72(5): 1117-30. 6. Grandi G et al. Pharmacokinetic evaluation of desogestrel as a female contraceptive. Expert Opin Drug Metab Toxicol 2014 Jan; 10(1): 1-10. 7. Grandi G et al. Estradiol in hormonal contraception: real evolution or just same old wine in a new bottle. Eur J Contracept Reprod Health Care 2017 Aug; 22(4): 245-246. 8. Cibula D et al. Hormonal contraception and risk of cancer. Human Reproduction Update, 2010 Advanced Access publication on June 12, 2010; Vol.16, No.6 pp. 631–650. 9. Morch LS et al. Contemporary Hormonal Contraception and the Risk of Breast Cancer. N Engl J Med 2017; 377: 2228-39. 10. Iversen L et al. Lifetime cancer risk and combined oral contraceptives: the Royal College of General Practitioners’ Oral Contraception Study. Am J Obstet Gynecol. 2017 Jun Epub 2017 Feb 8.; 216(6): 580-1; 580-9.

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medicina

Cardiologia

Cardiopatie nella donna Focus sulle patologie genere-specifiche Sebbene sottostimate, le malattie cardiovascolari rappresentano nel complesso la principale causa di decesso nella donna. Per questo motivo è importante focalizzare l’attenzione su un approccio diagnostico genere-specifico Carlo Campana S.C. Cardiologia-UTIC, ASST- Lariana Ospedale Sant’Anna, Como

U

na crescente attenzione è da tempo indirizzata agli aspetti genere-specifici di numerose patologie. Si tratta di un approccio assolutamente appropriato anche in ambito cardiologico, in cui da tempo sono emerse e caratterizzate peculiarità genere- specifiche per molte patologie cardiache. Peculiarità che peraltro sono state messe in evidenza sia in ambito eziologico che fisiopatologico e diagnostico-terapeutico. Vi sono forme di cardiopatia ischemica specifiche della donna come la cardiomiopatia peripartum, ovvero osservate con maggior frequenza nella donna come per esempio molte varianti di cardiopatia associate a obesità, sindrome metabolica e diabete mellito, che caratterizzano solitamente, per quanto riguarda l’esordio, la 5° e 6° decade di vita. Anche la cardiopatia ischemica si presta a un inquadramento genere-specifico, con l’espressione di forme cliniche più riferibili alla donna, come la sindrome X cardiaca e la cardiomiopatia da stress (sindrome di Takotsubo) di più recente inquadramento clinico e fisiopatologico. Infine nello scompenso cardiaco a funzione sistolica conservata si osserva una non trascurabile maggiore prevalenza nella donna: si tratta di scompenso cardiaco in cui la frazione di eiezione del ventricolo sinistro (FEVS) in termini di funzione ventricolare sinistra si presenta normale o solo lievemente ridotta; si associa spesso alla presenza di ipertensione arteriosa, di coronaropatia, e spesso anche a dilatazione del ventricolo sinistro anche in assenza di significativa patologia della valvola mitralica. È doveroso inoltre sottolineare che, in linea generale, le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte nella donna, tuttora in presenza di una sottostima correlata ad alcune limitazioni della potenzialità diagnostica.

La cardiopatia ischemica Sotto il profilo clinico e diagnostico un aspetto di grande rilievo

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nella cardiopatia ischemica è rappresentato certamente dalla maggior complessità e ambiguità della diagnosi: nella donna è sovente più complesso pervenire a diagnosi di angina pectoris per la frequente non specificità e ambiguità dei sintomi. A livello ezio-patogenetico è comunemente accettato che l’azione degli estrogeni contribuisca a ritardare lo sviluppo e la progressione di aterosclerosi e che pertanto nella donna nel periodo fertile l’unico rilevante fattore di rischio per lo sviluppo di malattia coronarica è il fumo, laddove praticato. In linea generale inoltre, proprio alla luce di queste considerazioni lo sviluppo di malattia coronarica nella donna e, più in generale, di malattia cardiovascolare, si presenta circa 7-10 anni più tardivamente rispetto all’uomo. L’azione degli estrogeni si esprime in modo ampio a livello metabolico, sui lipidi, sui fattori coinvolti nell’infiammazione e sui fattori della coagulazione; l’avvento della menopausa è pertanto associato con un brusco cambiamento del profilo di rischio dello sviluppo di aterosclerosi coronarica. In questa fase di età della donna, anche le variazioni del peso corporeo e le variazioni di distribuzione del grasso , con profili di obesità centrale , sono da considerare come fattori aggiuntivi di rischio e rappresentano una vera e propria premessa allo sviluppo di sindrome metabolica e di diabete mellito di tipo 2. Rilevanti modificazioni coinvolgono anche la regolazione della pressione arteriosa con tendenza alla comparsa di ipertensione arteriosa sistolica; queste modificazioni sono correlate sotto il profilo fisiopatologico a un’iperattivazione del sistema reninaangiotensina-aldosterone (RAAS). Il progressivo sviluppo di ipertensione arteriosa è un rilevante fattore di rischio per l’insorgenza di malattia coronarica; esso contribuisce inoltre alla comparsa di ipertrofia ventricolare sinistra e ai quadri sopra citati di scompenso cardiaco, caratterizzati da funzione sistolica conservata. Anche l’ipercolesterolemia compare sovente in età post-menopausale, con incrementi della colesterolemia totale e


LDL dell’ordine del 10-14 per cento. La presentazione clinica della cardiopatia ischemica e l’interpretazione conseguente di diversi esami diagnostici si presenta spesso più complessa nella donna rispetto all’uomo; d’altra parte non è raro che nella donna si riscontrino quadri clinici caratterizzati da dolori toracici molto suggestivi per angina pectoris in assenza di significativa coronaropatia dei vasi coronarici epicardici (Tabella 1). È ragionevole pensare che la presenza frequente di alterazioni aspecifiche dell’elettrocardiogramma in condizioni basali e la presenza di vasi coronarici epicardici di dimensioni inferiori a quelle osservabili in proporzione nell’uomo, contribuiscano a una minore sensibilità e specificità dei test di ricerca di ischemia.

La cardiomiopatia da stress (sindrome di Takotsubo)

• Considerare un approccio diagnostico generespecifico in ambito cardiologico è di primaria importanza, dal momento che le patologie cardiovascolari rientrano tra le principali cause di decesso nella donna. • La diagnostica delle cardiopatie nella donna merita attenzione, soprattutto nel contesto della diagnosi in acuto della cardiopatia ischemica. • La sintomatologia a volte può essere confondente, e a parità di condizione alcuni accertamenti possono avere minore potere predittivo rispetto a quanto accade nell’uomo

Questo tipo di cardiomiopatia è stata oggetto di un recente inquadramento clinico e fisiopatologico. È da considerare in linea generale rara (prevalenza 2-3 per cento nei Paesi occidentali) ed è rilevata con un’assoluta prevalenza nella donna (90 per cento circa dei casi) in età post-menopausale, con interessamento di soggetti oltre la sesta decade di vita. Il quadro di esordio si sovrappone classicamente a quello di una sindrome coronarica Cardiomiopatia peripartum acuta, per caratteristiche del dolore e dell’elettrocardiogramma. Si registra inoltre, un aumento degli enzimi miocardici, espressione È una forma di cardiomiopatia potenzialmente mortale che insordi necrosi, con incremento tuttavia meno rilevante di quello osge in modo caratteristico nell’ultimo trimestre di gravidanza o nel puerperio ed è caratterizzata da più o meno severa disfunzione servabile in caso di infarto miocardico acuto vero e proprio. Sotto ventricolare sinistra associata a scompenso cardiaco. Si tratta il profilo diagnostico, un elemento caratterizzante è il quadro ecocardiografico del ventricolo sinistro che presenta alterazioni settoriali di Tabella 1 Profilo di differenze cliniche e strumentali tra cardiomeccanica legate alla presenza di ischemia miocardica funzionale (vasospasmo) e quadro ipoacinesia, che richiamano la forma di secondario a patologia coronarica ostruttiva uno strumento di pesca giapponese (che ha fornito l’eponimo di Takotsubo). Spasmo coronarico Angina stabile cronica A fronte della presentazione clinica di media o elevata gravità si associa il rilieFrequenza Meno frequente Più frequente vo coronarografico di vasi indenni e si osserva generalmente una progressiva Età Più giovane Più anziana ripresa della cardiomeccanica e una risoluzione delle alterazioni segmentarie Sesso Femminile Maschile descritte; di conseguenza la prognosi è generalmente favorevole. Caratteristica Etnia Giapponesi Non esiste una prevalenza comune di queste situazioni cliniche è specifica la presenza come dato anamnestico recente di forti stress emozionali inseFumo, dipendenza da farmaci, alcol, Classici fattori di rischio riti nel contesto di donne che per età Fattori di rischio cardiovascolare e situazione sociale possono risultare iperventilazione, emotivamente più fragili. beta-bloccanti Sotto il profilo eziologico si ritiene che si possa trattare di una vera e propria Manifestazione Notte-mattina presto No circadiana cardiomiopatia causata da un danno iperacuto da catecolamine, eventualSforzo mente associato a disfunzione del Sforzo/riposo Sforzo/riposo microcircolo e a episodi transitori di ECG Elevazione segmento ST Depressione segmento ST vasospasmo coronarico.

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medicina

Cardiologia

Tabella 2 Criteri diagnostici della cardiomiopatia peripartum Classici 1.

Insorgenza di scompenso cardiaco nell’ultimo mese di gravidanza o nei primi 5 mesi dopo il parto

2.

Nessuna causa identificabile per scompenso cardiaco

3.

Assenza di cardiopatie documentate prima dell’ultimo mese di gravidanza

Aggiuntivi 1.

Indicazione ecocardiografica rigorosa di disfunzione ventricolare sinistra:

a.

Frazione di eiezione <45 per cento

e/o b. Frazione di accorciamento sistolico <30 per cento c.

Diametro telediastolico indicizzato del ventricolo sinistro >2,7 cm/m2

di un quadro clinico che insorge in una donna senza presunta precedente cardiopatia; d’altra parte nei Paesi occidentali e in generale in quelli a elevato livello sociale, si registrano abituali controlli durante la gravidanza in grado di diagnosticare eventuali cardiopatie presistenti. L’incidenza in questi Paesi è variabile tra 1 ogni 1.000-4.000 parti a termine; oltre il 50 per cento dei casi si registra in donne di età maggiore di 30 anni, con una prognosi sensibilmente migliorata nell’ultima decade, caratterizzata da un recupero funzionale della frazione di eiezione (> 50 per cento) in oltre il 70 per cento dei casi (Tabella 2). Nel corso degli anni sono state proposte diverse ipotesi eziologiche, da quella emodinamica, a quella vasculo-ormonale, e infine a quella dominata da un substrato genetico. L’ipotesi più accreditata è quella di una disfunzione ventricolare presistente attivata da ormoni prodotti nell’ultimo trimestre di gravidanza.

Scompenso cardiaco con funzione sistolica conservata (HFpEF) Un numero rilevante di pazienti con scompenso cardiaco sintomatico, associato inoltre a segni classici di tale sindrome, hanno una funzione ventricolare sinistra (LVEF) normale (HFpEF) o modestamente ridotta (mid range HFEF). Rispetto ai pazienti con scompenso cardiaco a funzione sistolica ridotta (LFrEF), si tratta in genere di soggetti più anziani e più spesso di sesso femminile. In molti registri osservazionali e studi clinici, la quota di pazienti donne nello scompenso cardiaco a funzione sistolica ridotta era pari al 30-35 per cento, mentre era intorno al 50 per cento nel caso di funzione sistolica conservata o lievemente ridotta. In queste forme di scompenso cardiaco si ravvisa una maggiore rappresentazione eziologica dell’ipertensione arteriosa, è presente più frequentemente fibrillazione atriale persistente e/o permanente e una dilatazione atriale sinistra. Dai dati della letteratura emerge che non vi è una differenza sostanziale tra i due quadri di scompenso cardiaco in termini prognostici; d’altra parte molti studi clinici disegnati con l’obiettivo

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di verificare l’efficacia di ACE-inibitori e sartanici sugli endpoint principali nello scompenso cardiaco a funzione sistolica conservata non hanno mostrato i risultati attesi; uno studio di rilievo è attualmente in corso con l’obiettivo di verificare l’efficacia in tale contesto dell’associazione farmacologica sacubitril-valsartan.

Conclusioni La diagnostica delle cardiopatie nella donna merita particolare attenzione, soprattutto nel contesto della diagnosi in acuto della cardiopatia ischemica; la sintomatologia talvolta può essere confondente: a parità di condizione, alcuni accertamenti diagnostici possono risultare dotati di minor potere predittivo rispetto a quanto accade nell’uomo. Certamente in questo contesto sono descritte più forme funzionali tipo vasospasmo o correlate a disfunzione microvascolare, pur in presenza di normalità dell’albero coronarico valutabile alla coronarografia. In termini epidemiologici altrettanto importante è il problema dello scompenso cardiaco a funzione sistolica conservata che colpisce con maggior prevalenza la donna e presenta sovente manifestazioni acute di instabilizzazione particolarmente pericolose.

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la nuova versione del sito e n i l n o www.medicoepaziente.it cambia volto!

Il nuovo sito si presenta come una galassia, che ha come centro la figura del Medico di Medicina generale. www.medicoepaziente.it non è un portale generico, e nemmeno la versione elettronica della rivista, ma un aggregatore di contenuti, derivanti da una pluralità di fonti, che possano essere utili al Medico di Medicina generale nel suo lavoro quotidiano.

www.medicoepaziente.it

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sanità

professione

La comunicazione nella relazione medico-paziente Un efficace strumento per potenziare il successo terapeutico Numerosi lavori pubblicati in letteratura focalizzano l’attenzione sul ruolo della comunicazione nell’ambito del rapporto medico-paziente. Vi è sempre maggiore consapevolezza del fatto che una buona strategia comunicativa sia fondamentale per garantire il successo di una terapia. È significativo al riguardo il contributo di Maurizio Cusani, docente presso l’Istituto Riza di Milano, che pubblichiamo in questo spazio. Il dottor Cusani, facendo riferimento alla propria esperienza (di oftalmologo),offre interessanti spunti di riflessione che possono essere di utilità non solo per il clinico, ma più in generale per tutto il personale sanitario che quotidianamente affianca i pazienti nel loro percorso di cura

Maurizio Cusani medico oculista; consulente GOAL, docente di Enneagramma presso Istituto Riza psicosomatica, Milano

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na buona comunicazione con il paziente non riduce solo i conflitti medico-legali, ma è uno strumento molto efficace per il successo terapeutico perché migliora il rapporto medico-paziente in termini di fidelizzazione e compliance. Il buon senso ce l’ha sempre detto, ma una interessante metanalisi pubblicata nel 2016 su Plos One da John Kelley e colleghi del Massachusetts General

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Hospital, ha documentato, grazie all’analisi statistica, prendendo in considerazione parametri facilmente misurabili come la pressione arteriosa e i livelli glicemici ematici, che specifiche tecniche per migliorare la relazione umana possono davvero fare la differenza per la prognosi di una malattia. In pratica un medico in grado di prestare attenzione alle emozioni dei propri pazienti, sostenendoli nella conoscenza della malattia e della terapia prescritta, ha effetti positivi almeno quanto alcune terapie farmacologiche considerate standard ed è superiore, in alcuni studi, all’effetto dell’aspirina nel ridurre l’incidenza dell’infarto del miocardio o all’influen-

za delle statine sul rischio di eventi cardiovascolari. L’effetto “placebo” quindi, non è solo una suggestione sciamanica, ma un mezzo utilizzabile ed efficace per attivare benefici processi biochimici endocerebrali, presumibilmente ipotalamici, mediante proteine a corta catena come endorfine, citochine, ecc. che a loro volta moduleranno le risposte psichiche, neurologiche, immunologiche ed endocrine come ci insegnava la psicosomatica e come prova la moderna branca scientifica della psiconeuroimmunoendocrinologia (PNEI). Per di più il nuovo concetto di “placeboma” ci dice che sussistono notevoli differenze nella risposta positiva al placebo (o negativa al nocebo) da parte di diverse tipologie di pazienti andando a complicare ulteriormente la validità delle sperimentazioni in “doppio cieco”. Peraltro la nuova deontologia professionale, oltre che la moderna legislazione, come asseverano recentissime sentenze della Cassazione, ci indica come l’alleanza terapeutica impone una comunicazione chiara, semplice e proporzionale alla capacità di comprensione del paziente che deve saper compartecipare all’azione terapeutica. Quindi da una comunicazione normativa e paternalistica, come nel coaching, è definitivo, ormai, che si debba passare a una comunicazione partecipativa, come nel counceling. Comunicare dunque, non è solo fornire informazioni esatte e scientificamente ineccepibili, ma renderle chiare e mettere in comune le decisioni che il paziente dovrà responsabilmente acquisire per la propria salute.


Il tempo, un elemento di valore nella comunicazione Il tempo dedicato alla comunicazione, quindi, è fondamentale per la terapia. Purtroppo le nuove esigenze aziendali sottraggono tempo al curante. Nathalie Wenger e colleghi, ricercatori presso l’Ospedale Universitario di Losanna, nel 2017 hanno osservato e studiato l’operatività di 36 medici durante il loro periodo di formazione. Si è così evidenziato che durante i turni di giorno i medici hanno trascorso oltre il 50 per cento del loro tempo in attività indirettamente correlate ai pazienti, come la compilazione della cartella clinica, o collaborando con i colleghi, o alla ricerca di informazioni necessarie per il trattamento dei pazienti e per smistare e trasferire i pazienti in altri reparti di cure e hanno trascorso solo il 2 per cento circa del loro tempo a comunicare con i pazienti e le famiglie. Complessivamente, durante i turni di

lavoro, i medici hanno trascorso circa il 45 per cento del tempo lavorativo davanti al computer. David I. Rosenthal e Abraham Verghese, medici internisti americani, in un articolo pubblicato nel 2017 sul New England Journal of Medicine osservano che in passato la maggior parte del tempo veniva svolto principalmente al capezzale del letto del paziente, dove medici, assistenti e studenti si riunivano e si scambiavano impressioni e pareri, e il fulcro del rapporto medico-paziente risiedeva nel contatto umano, nella capacità del medico di esaminare un corpo anche attraverso i propri sensi, nella capacità della mano umana di toccare, diagnosticare, curare. Questo avveniva anche in campo oftalmologico dove fino a 30-40 anni fa non erano rari reparti oculistici specializzati con 50 e più letti. Oggi invece la figura del medico focalizzato sullo schermo anziché sul paziente è ormai un cliché culturale e Verghese,

al di là della retorica per cui al centro dell’attività sanitaria sta l’umanità del paziente, ha coniato una parola per questa rappresentazione digitale del paziente: l’iPatient. Soprattutto negli Stati Uniti, l’intero sistema sanitario si basa su questa entità virtuale e fornisce incentivi per la sua creazione e il suo mantenimento. Certo, l’iPatient ottiene complessivamente sulla carta ottime cure, ma le esperienze dei pazienti reali sono tutt’altra questione. E questo si esprime, per esempio, in un’insoddisfazione che aumenta le sue pretese sui risultati e amplifica la conflittualità medico-legale. Anche le competenze apprese dagli studenti di medicina e dai medici di oggi non sono quelle tradizionali, necessarie per fare una buona anamnesi o per ricostruire la storia clinica del paziente, ma piuttosto quelle per apprendere l’arte di un buon esame, gestire documentazioni, accettazioni e dimissioni nell’era elettronica. Sventuratamente non si può tornare

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sanità

professione

L’enneagramma quale strumento per valorizzare le qualità intrinseche Un elemento, forse il più importante e il più trascurato, è la comunicazione che lo stesso oftalmologo fa con sé stesso. La scuola Junghiana e il sistema di Myers Briggs evidenziano diverse tipologie umane ognuna con particolari talenti e proprio per questo, come un rovescio della medaglia, con particolari fragilità relazionali di cui non siamo consapevoli. Quindi esistono oftalmologi particolarmente precisi che risultano ai pazienti tetri, altri molto pragmatici che risultano falsi, altri competenti che risultano criptici ecc. Esistono sistemi che insegnano a chiunque di noi quali siano le proprie qualità intrinseche che magari non sono sufficientemente valorizzate e le fragilità che possono invece essere gestite in modo appropriato. Personalmente insegno uno di questi strumenti chiamato “Enneagramma Psicologico” indietro, ma è ineccepibile che l’uso del Pc limiti il tempo a disposizione del medico e crei una separazione quasi fisica fra il terapeuta e il paziente. Un altro elemento essenziale nella comunicazione è che il linguaggio è meno importante del metalinguaggio. Il metaverbale, assai meno facilmente controllabile, si esprime con lo sguardo, le espressioni del volto, l’annuire, il gesticolare, la postura e uno stile complessivo che può essere passivo, aggressivo o assertivo anche se volessimo nascondere agli altri il nostro reale stato d’animo. Ed è molto importante essere veri e autentici dando spessore alle pause e ai silenzi in un ascolto attivo. È sbagliato immaginare di riversare durante la visita, parlando e parlando, tutte le nostre osservazioni imbambolando il paziente già sotto tensione. È stato calcolato che dopo un’ora il 70 per cento delle informazioni che erano state date a un paziente, a cui si era fatta diagnosi di glaucoma cronico per la prima volta, era stato dimenticato. È noto che dal 25 al 35 per cento dei pazienti affetti da glau-

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di scuola americana, agli psicologi del master di psicosomatica dell’Istituto Riza di Milano dal 1999 e alla scuola di naturopatia dello stesso istituto dal 2002, e ho il piacere di formare allievi che si stanno facendo strada. Due di questi (Anna Martini e Cristian Deaglio) dal giugno del 2015 a oggi nell’ambito del Programma di Formazione della Fondazione Ospedaliera Mazzali di Mantova hanno tenuto due corsi ECM di primo livello intitolati “Enneagramma: migliorare le relazioni iniziando da sé stessi” ai dipendenti di diverse categorie professionali (dirigenti medici e non, personale infermieristico e impiegatizio) in due fasi di 8 ore ciascuna con giochi pratici e di ruolo (role playing) e altri due ECM di secondo livello destando grande interesse e partecipazione. Speriamo che questi siano buoni semi e segni per il nostro futuro.

coma cronico non segue con precisione le indicazioni, che circa il 75 per cento dei renitenti ritenga che non siano veramente rilevanti e che circa il 10 per cento dei pazienti affetti da glaucoma sa benissimo che non segue adeguatamente le terapie in corso. È inevitabile, quindi, che nel ripensamento del nostro ruolo, bisogna affidarsi a tecniche di ottimizzazione del poco tempo a nostra disposizione per migliorare la nostra capacità comunicativa. Il focusing (mettere a fuoco) è quella abilità con cui l’oculista richiama l’attenzione del paziente su uno specifico punto. Per esempio: “Questa compressa (o collirio) va assunta una volta al giorno alla stessa ora per sempre. È importante, Valeria. Una volta al giorno alla stessa ora. Per sempre”. In questo caso l’oftalmologo cerca di sottolineare il messaggio in diversi modi: 1) Usando il termine “importante”; 2) Riferendosi alla paziente con il proprio nome; 3) Ripetendo due volte le modalità di

assunzione del farmaco prescritto; 4) Sottolineando con un tono di voce appropriato il termine “sempre”. La capacità di sintesi invece è la breve riformulazione di alcuni elementi essenziali già forniti in precedenza dall’oculista. Per esempio: “Con il glaucoma si può diventare ciechi, ma curandolo bene lei non peggiorerà”. Oppure “Possiamo utilizzare queste compresse per fermare o frenare la sua maculopatia”. La sintesi necessita di termini semplici, forti e ben comprensibili proporzionali alla capacità del paziente. Il cheking back skill o verifica infine, è il controllo dell’altrui comprensione, cioè l’ultimo passaggio prima del congedo che caratterizza gli scambi comunicativi in una consultazione clinica ed è costituito dall’interrogarsi e interrogare su quanto il paziente ha compreso e si deve portare a casa. Alcuni esempi di tale tecnica sono costituti da interventi quali: È tutto chiaro? oppure Mi può ripetere quanto detto, per cortesia?


e n i l n o

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Prix Galien Italia

I vincitori dell’edizione 2018

Il premio Galeno è senza dubbio il riconoscimento più prestigioso nel settore dei farmaci e dei dispositivi medicali. I vincitori di quest’anno non hanno deluso le aspettative

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a sclerosi multipla è una delle patologie che più delle altre ha conosciuto negli ultimi anni una rivoluzione in termini di innovazione terapeutica. Uno dei protagonisti di questa trasformazione è ocrelizumab, anticorpo monoclonale sviluppato da Roche e approvato nell’Unione Europea per il trattamento della sclerosi multipla nelle forme recidivante e primariamente progressiva. È per questo che al farmaco è stato attribuito il Prix Galien Italia 2018, per la categoria “Farmaci biologici”. Gli altri vincitori di quest’anno sono nusinersen, sviluppato da Biogen, unico farmaco modificante la malattia indicato per l’atrofia muscolare spinale 5q (SMA), nella categoria “Farmaci

orfani”; darvadstrocel, di Takeda, indicato per il trattamento delle fistole perianali complesse in pazienti adulti affetti da malattia di Crohn, nella categoria “Terapie avanzate”; sitagliptin, di MSD, indicato nei pazienti adulti con diabete mellito di tipo 2 per migliorare il controllo glicemico, in mono, duplice e triplice terapia orale nella categoria “Real world evidence”. Da segnalare anche le menzioni speciali, andate a dupilumab, di Sanofi, anticorpo monoclonale ricombinante umano IgG4 indicato nel trattamento della dermatite atopica dell’adulto moderata-grave; al vaccino esavalente di MSD per difterite, tetano, pertosse, poliomielite, malattia invasiva da Haemophilus influenzae di tipo b

Positivi i dati preliminari del progetto CENTROperCENTO Roche

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na corretta diagnosi molecolare è fondamentale per una prognosi favorevole nei casi di carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC), un tumore che colpisce ogni anno 32.000 soggetti nel nostro Paese. Per sensibilizzare la classe medica su questo tema, Roche ha avviato il progetto CENTROperCENTO, interpellando 60 centri oncologici in tutto il territorio nazionale e coinvolgendo oncologi, anatomopatologi, pneumologi interventisti e altri specialisti. I risultati preliminari, relativi a metà dei centri, per un totale di 29 interviste a oncologi e 22 ad anatomopatologi, sono stati resi noti in un recente incontro tenutosi a Roma. Ne emerge che l’attenzione verso la diagnosi molecolare è già forte. L’85 per cento dei centri coinvolti infatti, fa riferimento a un PDTA o documenti formalizzati in cui la diagnosi molecolare è prevista. L’86,5 per cento degli oncologi richiede questo tipo di test e in particolare il 75 per cento richiede il test per ALK.

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(Hib) e virus dell’epatite; e infine a canakinumab di Novartis, anticorpo monoclonale completamente umano anti-interleukina 1β, oggetto da anni di estensivo sviluppo clinico per diverse patologie rare su base autoinfiammatoria. “Individuare farmaci innovativi è sicuramente un obiettivo per l’industria farmaceutica, ma è fondamentale anche e soprattutto per migliorare la salute dei pazienti”, ha dichiarato, in occasione della premiazione, Salvatore Cuzzocrea, rettore dell’Università di Messina e membro del board scientifico del Premio. “Tuttavia, non bisogna correre il rischio di definire ‘innovativo’ qualunque nuovo medicinale immesso in commercio”.

Quest’ultimo è particolarmente importante, perché se viene accertata la presenza di tale mutazione, per il paziente si apre la possibilità di beneficiare delle nuove terapie farmacologiche a bersaglio molecolare. Una delle criticità spesso rilevate riguarda i tempi di accesso alla terapia personalizzata. Secondo l’indagine, circa il 6 per cento dei pazienti con NSCLC viene sottoposto a chemioterapia di prima linea senza diagnosi molecolare, ma solo sulla base di valutazioni cliniche. Un altro problema rilevante è che la diagnosi di tumore del polmone viene formulata quando ormai non è più operabile. Diventa perciò cruciale poter effettuare una biopsia, che fortunatamente viene garantita dal 75 per cento dei centri interpellati. “Questi dati dimostrano ancora una volta la necessità di migliorare l’accesso dei pazienti alle terapie a bersaglio molecolare e di lavorare per comprimere i tempi di risposta dei test molecolari, rendendo così possibile un inizio di cura tempestiva”, ha spiegato Silvia Novello, professoressa di Oncologia medica dell’Università di Torino. “Va altresì sottolineato che la raccolta di questi dati è fondamentale per avere dati reali e aggiornati al fine di ottimizzare i processi di diagnosi e di cura”.


Abiogen Pharma-Italfarmaco Osteoporosi e fratture da fragilità: un’iniziativa nazionale per migliorare la prevenzione

“F

ai la prima mossa. Cura le tue ossa” con questo titolo è stata presentata lo scorso 30 novembre la più ampia iniziativa mai ideata nel nostro Paese per la prevenzione dell’osteoporosi, che ha riunito ben 11 società scientifiche, Federfarma, ANMAR Onlus e Senior Italia Federanziani e che è stata realizzata con il supporto incondizionato di Abiogen Pharma e Italfarmaco. “L’osteoporosi è una malattia silenziosa e progressiva, i cui costi economici e sociali possono essere contenuti partendo dagli strumenti esistenti, Nota 79 e linee guida, e sviluppando una collaborazione costruttiva in grado di far convergere verso un comune obiettivo medici, pazienti e familiari, istituzioni a livello nazionale e locale” ha commentato così il progetto Stefano Gonnelli, presidente SIOMMMS. “La diagnosi tardiva spesso conseguente solo alla prima frattura, il non rispetto del percorso terapeutico tracciato dalla Nota 79 e finalizzato alla prevenzione delle fratture successive, la mancata aderenza ai trattamenti, figlia di una scarsa consapevolezza delle conseguenze: sono questi i limiti da contrastare per contribuire alla sostenibilità del sistema sanitario e garantire cure e salute alla popolazione anziana che sempre di più abita il nostro Paese.” La campagna attraverso la condivisione di conoscenze ed esperienze vuole riportare alta l’attenzione sul tema delle fratture da fragilità, proporre soluzioni concrete per una migliore gestione dell’osteoporosi e del paziente con frattura, sottolineare l’importanza dell’appropriatezza e della persistenza terapeutica.

Al via una campagna di sensibilizzazione sulle infezioni intraospedaliere

3M Salute

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ntibiotico-resistenza e infezioni contratte in ambito ospedaliero sono all’attenzione della comunità scientifica da tempo, come anche dei mass media. Eppure, nel nostro Paese la sensibilizzazione verso questo annoso problema non sembra aver portato i frutti sperati. Secondo i dati del Centro Europeo Malattie Infettive, oggi in Italia la probabilità di contrarre infezioni durante un ricovero è del 6 per cento, con 530mila casi ogni anno. Numeri tutt’altro che rassicuranti e che pongono il nostro Paese all’ultimo posto in Europa. Ogni anno si stimano 7.800 decessi per infezioni acquisite in ambiente ospedaliero, ovvero il doppio delle morti per incidenti stradali. L’impatto è devastante se si considera poi, che rappresentano

un rischio fatale quanto la somma delle maggiori malattie infettive: influenza, tubercolosi e HIV. È prioritario aumentare la consapevolezza dei cittadini e sensibilizzare gli operatori sanitari sul tema della prevenzione e dell’antibiotico-resistenza, affinché il Piano Nazionale di Contrasto dell’Antimicrobico-Resistenza 2017-2020, del Ministero della Salute, entri a far parte definitivamente dei programmi condivisi e applicati da regioni e ospedali. In questa direzione va la campagna lanciata da 3M, “Ospedale Senza Infezioni”, che ha da un lato l’obiettivo di informare meglio i cittadini, e dall’altro diffondere un programma d’azione condiviso con gli operatori sanitari verso l’adozione di sempre più efficaci modelli di prevenzione.

Assosalute La stagione influenzale: le previsioni degli esperti

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on meno di 5 milioni di soggetti colpiti con un’intensità mediobassa: sono queste le caratteristiche della stagione influenzale di quest’anno. È questa la previsione formulata da Fabrizio Pregliasco, dell’Università degli Studi di Milano e direttore sanitario dell’IRCCS Galeazzi di Milano. Il dato fondamentale per poter dare una stima è che nell’emisfero australe la stagione influenzale ha bassi livelli di diffusione, con prevalenza del virus AH1N1, anche se non è possibile capire, in questa fase, se ci sarà un contributo anche del virus B, e le condizioni possono cambiare in modo radicale in tempi brevi. “Quanto successo lo scorso anno è da tenere come monito: ci aspettavamo una stagione nella norma, e invece si è rivelata come una delle stagioni influenzali più pesanti degli ultimi anni, con 5 milioni di soggetti colpiti solo in Italia, un valore da primato”, ha spiegato Pregliasco. “Molto dipenderà dalle condizioni meteorologiche: una stagione più lunga e più fredda porterebbe quasi sicuramente molti più pazienti di quelli previsti”. Per quanto riguarda i vaccini, la nuova composizione prevede tre componenti: A/ Michigan/45/2015 (H1N1), già presente nel vaccino dello scorso anno; A/Singapore/INFIMH-16-0019/2016 (H3N2), che è una nuova variante; B/ Colorado/06/2017 (Lineaggio B/Victoria), anch’essa una nuova variante. In aggiunta a questi, l’Organizzazione mondiale della Sanità raccomanda, nel caso di vaccini quadrivalenti, anche l’inserimento del virus B/ Phuket/3073/2013-like (lineaggio B/Yamagata). Il nuovo vaccino, in sintesi, contiene due nuove varianti antigeniche: una di tipo A, sottotipo H3N2, che sostituisce il ceppo A/ Hong Kong/4801/2014 e una di tipo B, che sostituisce il ceppo B/Brisbane/60/2008.

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