La Neurologia italiana 4 2018

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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

Patologie del motoneurone

SLA e alimentazione, quale relazione? I potenziali benefici della dieta mediterranea

> Elisabetta Pupillo, Ettore Beghi •

Patologie neurodegenerative

Il paziente con malattia di Parkinson Un percorso riabilitativo intensivo multidisciplinare Frazzitta, Paola Ortelli, Rossana Bera, Michele Franciotta, > Giuseppe Laura Lucca, Gabriella Bertotti, Davide Ferrazzoli •

Farmacologia

Il desametasone nelle patologie del sistema nervoso centrale e periferico Nuove prospettive per un farmaco classico

> Domenico Foti, Chiara Cappellini •

MP

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Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI - € 3,00

Anno XIV - n. 4 - 2018


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Per ulteriori informazioni sugli abbonamenti 02 4390952 | info@medicoepaziente.it


Anno XIV - n. 4 - 2018

Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

Anno XIV - n. 4 - 2018

MP

Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel. 02 4390952 - Fax 02 56561838 Registrazione del Tribunale di Milano n. 781 del 12/10/2005 - Filiale di Milano

Sommario 8

SLA e alimentazione quale relazione?

info@medicoepaziente.it Direttore editoriale Anastassia Zahova

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Patologie del motoneurone

I potenziali benefici della dieta mediterranea

abbonamenti Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952

Elisabetta Pupillo, Ettore Beghi

redazione Folco Claudi, Piera Parpaglioni, Cesare Peccarisi

Il paziente con malattia di Parkinson

12 Patologie neurodegenerative

Un percorso riabilitativo intensivo multidisciplinare

segreteria di redazione Concetta Accarrino

Giuseppe Frazzitta, Paola Ortelli, Rossana Bera, Michele Franciotta, Laura Lucca, Gabriella Bertotti, Davide Ferrazzoli

progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno

18 Farmacologia

Hanno collaborato a questo numero

Il desametasone nelle patologie del sistema nervoso centrale e periferico

Ettore Beghi, Rossana Bera, Gabriella Bertotti, Chiara Cappellini, Diego Cavrenghi, Davide Ferrazzoli, Domenico Foti, Michele Franciotta, Giuseppe Frazzitta, Laura Lucca, Paola Ortelli, Elisabetta Pupillo

direttore commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it

Nuove prospettive per un farmaco classico

Stampa Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG)

Domenico Foti, Chiara Cappellini

28 Medicina e societĂ

Comitato scientifico Giuliano Avanzini, Milano Giorgio Bernardi, Roma Vincenzo Bonavita, Napoli Giancarlo Comi, Milano Ferdinando Cornelio, Milano Fabrizio De Falco, Napoli Paolo Livrea, Bari Mario Manfredi, Roma Corrado Messina, Messina Leandro Provinciali, Ancona Aldo Quattrone, Catanzaro Nicola Rizzuto, Verona Vito Toso, Vicenza

Comitato di redazione Giuliano Avanzini, Milano Alfredo Berardelli, Roma Giovanni Luigi Mancardi, Genova Roberto Sterzi, Milano Gioacchino Tedeschi, Napoli Giuseppe Vita, Messina

Rischi neurologici da taser Dal disturbo post-traumatico da stress alla morte improvvisa nel paziente epilettico A cura della Redazione (Cesare Peccarisi)

rubrich e

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news

dalla letteratura

congresso sin

dalle aziende

30 news speciale 34 news

Direttore Responsabile Sabina Guancia Scarfoglio

la neurologia italiana

numero 4 2018

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NEWS dalla letteratura A. Labate, R. Baggetta, A. Gambardella et al.

Una luce sul déjà-vu epilettico e fisiologico: i risultati di uno studio di coorte multicentrico ❱❱❱ European Journal of Neurology 2018 Sep 5. doi: 10.1111/ ene.13806 [Epub ahead of print]

Le informazioni circa l’esistenza di un continuum tra il déjà vu fisiologico e quello epilettico sono tutt’ora scarse. Lo stesso si può dire dei dati epidemiologici nella popolazione italiana di questo fenomeno. L’obiettivo di questo studio era d’identificare la distribuzione epidemiologica del déjà vu sul territorio italiano e, secondariamente, di cercare specifiche caratteristiche che possano permettere di discriminare tra la forma epilettica e la forma non epilettica. Nello studio sono stati coinvolti

1.000 soggetti complessivamente, di cui 543 controlli (di cui 313 donne, con età media 40 anni) e 457 pazienti epilettici (di cui 260 donne, con età media 39 anni). I soggetti sono stati reclutati da 10 centri neurologici distribuiti sul territorio. Su tutte le popolazioni è stato condotto uno screening usando come test l’Italian Inventory for Déjà Vu Experiences Assessment (I-IDEA) oltre a un approfondito questionario sull’epilessia. È emerso che il 69 per cento dei soggetti epilettici ha riferito di aver sperimentato un “riconoscimento” e che il 13,2 per cento ha riferito che questa sensazione si è verificata da poche volte al mese ad almeno una volta alla settimana, rispetto al 7,7 per cento del gruppo controllo. Inoltre, una maggiore quota di pazienti epilettici (6,8 vs 2,2 per cento) ha riferito di aver avuto la sensazione “che tutto intorno non fosse reale” con una frequenza da poche volte al mese ad almeno una volta alla settimana. Tra gli epilettici, inoltre, la sensazione di riconoscimento ha generato spavento (22,3 vs 13,2 per cento) e un senso di oppressione (19,4 vs 9,4 per cento). Un quinto dei pazienti ha sperimentato il riconoscimento durante

P. Annunziata, C. Cioni, S. Severi et al.

Fingolimod riduce i livelli di proteine giunzionali dell’endotelio cerebrale e la migrazione in vitro di cellule mononucleate del sangue periferico nei pazienti affetti da sclerosi multipla ❱❱❱ Scientific Reports 2018 Oct 18; 8(1): 15371. doi: 10.1038/s41598-018-33672-9 Nella sclerosi multipla, una fase cruciale di una cascata di eventi che portano al danno infiammatorio alla mielina e agli assoni è l’espansione di cloni di linfociti attivati e autoreattivi che aderiscono all’endotelio della barriera emato-encefalica e successivamente migrano nel parenchima cerebrale. Al mantenimento dell’integrità anatomica e funzionale della barriera emato-encefalica contribuiscono alcune proteine giunzionali dell’endotelio cerebrale: claudina-5, occludina e zonula occludens. Queste tre proteine sono rilevabili nei fluidi biologici e rappresentano quindi un possibile marker in vivo dell’integrità funzionale della barriera emato-encefalica come recentemente riscontrato in alcuni studi sull’ictus ischemico. Finora non esistevano dati sugli effetti di fingolimod, primo farmaco orale approvato per il trattamento della sclerosi multipla, sui livelli circolanti di claudina-5, occludina e zonula occludens. A colmare la lacuna arriva ora uno studio prospettico della durata di 12 mesi, condotto su 20 pazienti presso l’Unità di Neuroimmunologia clinica del Dipartimento di Scienze mediche, chirurgiche e neuroscienze dell’Università di Siena. Dall’analisi dei parametri clinici e di imaging di risonanza magnetica è emerso che il rapporto claudina/occludina era correlato positivamente con il numero di nuove lesioni T2 alla risonanza magnetica sia al basale sia dopo 12 mesi di trattamento. Inoltre il rapporto claudina/zonula occludens era correlato negativamente con i livelli di disabilità al basale e a 12 mesi. Alla fine del periodo di trattamento, inoltre, da alcuni test condotti in vitro è emerso che la migrazione delle popolazioni di linfociti T e B e i monociti circolanti era significativamente ridotta. Questi risultati dimostrano nuovi effetti del fingolimod sulla riparazione della barriera emato-encefalica, che potrebbero contribuire a impedire il passaggio delle cellule autoreattive circolanti nel parenchima cerebrale. Pertanto, sono di stimolo a studiare ulteriormente i rapporti tra le proteine giunzionali come nuovo promettente biomarcatore del danno della barriera emato-encefalica.

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numero 4 · 2018 la neurologia italiana


NEWS dalla letteratura gli attacchi. Solo i pazienti epilettici, indipendentemente dall’eziologia, hanno risposto fermamente di aver avuto una sensazione di riconoscimento durante gli attacchi: la domanda n. 14 del test I-IDEA consente quindi di discriminare tra soggetti epilettici e controlli. La capacità di ricordare i sogni e la frequenza di viaggio sono risultati per la maggior parte correlati ai déjà vu nei soggetti epilettici, indicando che il network della memoria visuale potrebbe essere coinvolto nel déjà vu epilettico. S. Abu-Rumeileh, N. Mometto, P. Parchi et al.

Demenze frontotemporali: i livelli di NfL nel fluido cerebrospinale si confermano biomarker surrogati di neurodegenerazione e gravità ❱❱❱ Journal of Alzheimer’s Disease 2018; 66(2): 551-63

I livelli delle catene leggere dei neurofilamenti (NfL) nel fluido cerebrospinale e dei principali biomarcatori per la malattia di Alzheimer (MA) sono stati valutati in diverse coorti di pazienti affetti da demenza frontotemporale (FTD), gruppo che comprende un ampio spettro di patologie. Tuttavia, tra gli studi emerge un’evidente discordanza in termini di distribuzione dei valori tra le differenti sindromi cliniche e le sottostanti proteinopatie, a detrimento dell’accuratezza diagnostica. In questo studio, gli Autori hanno misurato i livelli di NfL nel fluido cerebrospinale, di tau totale (t), di tau fosforilata (p) e di amiloide-β (Aβ)42 in 38 controlli sani e in 141 soggetti con diagnosi di FTD basata su parametri clinici, genetici o su biomarcatori, e in 60 soggetti con diagnosi di MA. Inoltre, hanno condotto una serie di analisi secondarie su due sottogruppi di soggetti con definita o probabile degenerazione lobare frontotemporale con patologia tau (FTLD-TAU, n = 42) o patologia TDP43 (FTLD-TDP, n = 36). Sia il gruppo FTD sia il gruppo MA avevano un incremento significativo di NfL rispetto ai controlli, con valori massimi raggiunti nei casi in cui la FTD era associata a sclerosi laterale amiotrofica (p <0,001). I pazienti con FTLD-TDP probabile e definita avevano livelli di NfL significativamente più elevati e valori di p-tau/ t-tau più bassi rispetto ai casi di FTLD-TAU probabile e definita. L’NfL ha dimostrato di poter essere utilizzata con una soddisfacente accuratezza diagnostica per distinguere tra FTD e controlli (AUC 0,862 ±0,027) e ha fornito un’accuratezza (AUC 0,861 ±0,045) confrontabile con quella del rapporto p-tau/t-tau (AUC 0,814 ±0,050), con una sensibilità dell’80 per cento e specificità dell’81, nella discriminazione tra FTLD-TAU probabile/definita

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numero 4 · 2018 la neurologia italiana

e FTLD-TDP probabile/definita. In conclusione, i dati supportano l’uso dei livelli di NfL quale biomarcatore surrogato di neurodegenerazione e severità di malattia in pazienti con FTD. In particolare, dimostrano un buon valore diagnostico per l’NfL e per il rapporto p-tau/ttau nella discriminazione tra FTLD-TAU e FTLD-TDP. C. Costa, M. Romoli, P. Calabresi et al.

Malattia di Alzheimer ed epilessia a esordio tardivo di origine sconosciuta: due facce della patologia beta-amiloide ❱❱❱ Neurobiology of Aging 2018; 73: 61-7 Le ricerche condotte in passato hanno dimostrato che la patologia amiloide riveste un ruolo rilevante nell’epilessia. Eppure ci sono dati molto scarsi sulla possibile correlazione tra beta-amiloide e progressione della malattia di Alzheimer tra i pazienti con epilessia a esordio tardivo di origine sconosciuta. In questo studio osservazionale, prospettico, multicentrico, sono stati arruolati 40 adulti con epilessia a esordio tardivo, ma non affetti da demenza, insieme con 43 controlli sani, appaiati per sesso e per età. Tutti i pazienti hanno completato test neuropsicologici, oltre a una valutazione dei biomarcatori di malattia di Alzheimer del fluido cerebrospinale (Aβ1-42, tau totale, e tau fosforilata). Il follow-up per verificare il declino cognitivo medio è stato di tre anni. Al basale, l’età e le prestazioni in termini di declino cognitivo erano simili a quelli dei controlli sani, ma i pazienti con epilessia a esordio tardivo hanno mostrato una significativa prevalenza di Aβ1-42 del fluido cerebrospinale (CSF) patologica (<500 pg/ml; 37,5 per cento), con il 7,5 per cento che mostrava un profilo di biomarcatori del fluido cerebrospinale simile a quello dell’Alzheimer. In particolare, il 17,5 per cento dei pazienti con epilessia a esordio tardivo di origine sconosciuta ha avuto una diagnosi di demenza di Alzheimer, mentre nessun caso di questo tipo si è verificato tra i controlli sani. Pazienti con epilessia a esordio tardivo di origine sconosciuta e con livelli di Aβ1-42 patologici avevano un hazard ratio di 3,4 (CI 0,665-17,73) per la progressione verso la demenza di Alzheimer al follow-up. I pazienti con epilessia a esordio tardivo di origine sconosciuta hanno un’alta prevalenza di CSF Aβ1-42 anomala e dunque sono a maggiore rischio di progressione verso la demenza di Alzheimer rispetto ai controlli sani, e perciò il loro declino cognitivo dovrebbe essere monitorato.


Patologie del motoneurone

SLA e alimentazione quale relazione? I potenziali benefici della dieta mediterranea Elisabetta Pupillo, Ettore Beghi Laboratorio di malattie neurologiche, IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, Milano

Un regime alimentare basato sulla dieta mediterranea sembrerebbe esercitare effetti benefici sulla sclerosi laterale amiotrofica. L’aumento del rischio di malattia legato ad alcuni nutrienti tuttavia, è oggetto di discussione

L’

eziologia della sclerosi laterale amiotrofica (SLA) è ancora ignota. Si presume che sia dovuta a una combinazione di fattori ambientali e genetici. Anche l’alimentazione è stata studiata per verificare se vi fossero cibi che mostrassero un effetto protettivo o dannoso sull’insorgenza o sulla prognosi della malattia. Analizzando la metodologia con cui sono state condotte in passato le indagini, si può notare che il disegno dello studio nella maggior parte dei casi non era adeguato all’obiettivo proposto, la popolazione coinvolta era disomogenea e non vi era una numerosità adeguata agli obiettivi proposti. Di conseguenza non si è riusciti a definire in modo chiaro se e come l’alimentazione giocasse un ruolo nell’insorgenza o nella progressione della SLA.

Disegno dello studio Sulla base di queste considerazioni abbiamo pensato di condurre uno studio

8

osservazionale caso-controllo (rapporto 1:1) in tre regioni italiane (Lombardia, Piemonte e Valle D’Aosta, Puglia) come appendice di uno studio osservazionale più ampio condotto in Europa. I pazienti con SLA sono stati intervistati durante le visite ambulatoriali di routine. I controlli sono stati individuati tramite i medici di Medicina Generale delle stesse regioni in cui sono stati reclutati i casi, dovevano avere lo stesso sesso del caso corrispondente e un’età di +/- 5 anni. A entrambi i gruppi abbiamo chiesto di compilare un questionario validato per la popolazione italiana, al fine di raccogliere le abitudini alimentari, indagando l’assunzione settimanale o mensile e le dosi di tutti i gruppi di alimenti disponibili. In aggiunta, abbiamo raccolto informazioni demografiche, sul fumo di tabacco, sull’indice di massa corporea (BMI) e dati clinici relativi all’insorgenza e alla diagnosi di SLA (nei soli casi). I cibi elencati nel questionario sono stati scomposti in macronutrienti, micronutrienti, acidi grassi e chilocalorie totali.

numero 4 · 2018 la neurologia italiana

Gli alimenti sono stati suddivisi in 21 gruppi: latte e yogurt, caffè e tè, pane bianco, pane integrale, pasta e riso, minestre, carne bianca, carne rossa, carne di maiale e insaccati, pesce, uova, formaggio, verdure crude, verdure cotte, legumi, patate, agrumi, altra frutta, dessert, zucchero, bevande alcoliche. Poiché in uno studio precedente condotto sulla popolazione italiana avevamo osservato un’associazione inversa tra consumo di caffè e insorgenza della SLA, abbiamo deciso di suddividere la categoria del caffè in sottogruppi: caffè decaffeinato, tè, caffè con caffeina. La suddivisione ci avrebbe così consentito di comprendere se la caffeina fosse responsabile dell’associazione. Abbiamo suddiviso i gruppi di alimenti e i nutrienti in quartili in base alla quantità di assunzione per quantificare l’eventuale associazione tra gruppi di alimenti/singoli nutrienti e l’insorgenza della SLA. La misura dell’associazione è stata effettuata con l’odds ratio (OR) e il relativo intervallo di confidenza al 95 per cento (IC 95%).

I risultati dello studio Abbiamo intervistato 212 casi e 212 controlli. Per la descrizione del campione si vedano le tabelle 1 e 2. I due gruppi erano ben bilanciati per abitudini relative al fumo, assunzione di caffè e di bevande alcoliche e chilocalorie totali assunte, mentre il BMI era più basso nei casi rispetto ai controlli. L’analisi


Tabella 1

Caratteristiche dei pazienti SLA (n=212) N

%

Bulbare

51

24,1

Spinale

157

74,1

4

1,9

Definita

52

24,5

Sito di insorgenza

Toracico/respiratorio Categoria El Escorial Possibile

48

22,71

Probabile

91

42,9

Probabile supportata da esami di laboratorio

21

9,9

Media

IQR

Età alla diagnosi (anni)

64,0

56,1-69,7

Età di esordio (anni)

62,6

54,9-68,5

Durata di malattia alla diagnosi (mesi)

9,2

6,0-15,1

Tempo intercorso tra la diagnosi e l’intervista (mesi)

5,6

3,4-9,3

ALSFRS-R

40,0

34,0-44,0

Note: IQR, range interquartile; ALSFRS-R, ALS Functional Rating Scale - Revised

statistica ha mostrato come l’assunzione di alcuni alimenti fosse inversamente associata alla SLA; tra questi, caffè e tè (OR =0,29, 95% IC 0,14-0,60), pane integrale (OR =0,55, 95% IC 0,31-0,99), verdure crude (OR =0,25,

95% IC 0,13-0,52), agrumi (OR =0,49, 95% IC 0,25-0,97). Separando il caffè in sottocategorie, si nota una diminuzione significativa del rischio nel gruppo del caffè decaffeinato (OR =0,18, 95% IC 0,06-0,57) e del tè (OR =0,36, 95% IC

Figura 1. Correlazioni tra alimenti/nutrienti e SLA Grassi vegetali

Folati

Vitamina E

Sodio

Acido glutammico Zinco

0,19-0,67), ma non per il caffè caffeinato. Abbiamo invece osservato un incremento del rischio per la carne rossa (OR =2,96, 95% IC 1,46-5,99) e carne di maiale e insaccati (OR =3,87, 95% IC 1,86-8,07). I grassi vegetali, i folati e la vitamina E sono risultati inversamente associati alla SLA (rispettivamente, OR =0,25, 95% IC 0,11-0,57; OR =0,41, 95% IC 0,18-0,91; OR =0,40, 95% IC 0,18-0,92), mentre assunzione di proteine, proteine animali, sodio, zinco, acido glutammico sono risultati direttamente associati alla malattia (rispettivamente OR =2,96, 95% IC 1,08-8,10; OR =2,91, 95% IC 1,33-6,38; OR =3,96, 95% IC 1,45-10,84; OR =2,78, 95% IC 1,017,83; OR =3,63, 95% IC 1,08-12,2).

Considerazioni conclusive Il nostro studio ha mostrato come l’assunzione di alcuni gruppi di alimenti e nutrienti sia differente nei casi e nei controlli. Abbiamo cercato quindi di interpretare i nostri risultati (Figura 1). Tè e caffè decaffeinato. Sono stati condotti numerosi studi con risultati contrastanti. L’acido clorogenico, uno dei componenti del caffè, agisce sui radicali liberi; i lipidi del caffè hanno proprietà antinfiammatorie. Un effetto neuroprotettivo del caffè è stato notato in altre malattie neurodegenerative come il morbo di Parkinson. Pane integrale. Il pane integrale è ricco di fibre. L’assunzione di fibre diminuisce i livelli dei marker dell’infiammazione. Frutta e verdura. Sono ricche di vitamine e minerali antiossidanti; proteggono dallo stress ossidativo e agiscono sui radicali liberi. Vitamina E. I risultati sono contrastanti. Negli studi sull’animale si è visto che la vitamina E è in grado di diminuire l’incidenza e la progressione della malattia, senza esercitare alcun effetto sulla sopravvivenza. Gli studi sulle cellule hanno mostrato un effetto neuroprotettivo. Tuttavia, quando la vitamina E è stata somministrata ai pazienti come integratore alimentare non si è notato al-

la neurologia italiana

numero 4 2018

9


Patologie del motoneurone

Tabella 2

Distribuzione dei casi SLA (n=212) e dei controlli (n=212) in base ad alcune variabili selezionate SLA

Controlli

N

%

N

%

Lombardia

87

41,0

87

41,0

Piemonte

87

41,0

87

41,0

Puglia

38

17,9

38

17,9

<50

25

11,8

24

11,3

50-54

22

10,4

20

9,4

55-59

24

11,3

19

9,0

60-64

42

19,8

37

17,5

65-69

44

20,8

48

22,6

70-74

30

14,1

33

15,6

75+

25

11,8

31

14,6

Femmine

94

44,3

94

44,3

Maschi

118

55,7

118

55,7

p-value

Regione

Carne di maiale, insaccati, carne rossa, zinco e sodio. Non vi sono

Età (anni)*

Sesso*

BMI

(kg/m2)

0,0479

Sottopeso (<18,5)

14

6.6

6

2.8

Normale (18,5 – 24,9)

115

54,3

98

46,2

Sovrappeso (25 – 29,9)

63

29,7

80

37,7

Obeso (≥30)

20

9,4

28

13,2

Fumo di tabacco

0,5586

Mai

94

44,3

100

47,2

118

55,7

112

52,8

Consumo di alcol 62

29,3

58

27,4

150

70,7

154

72,6

Consumo di caffè

0,1791

Mai

30

14,1

21

9,9

182

85,9

191

90,1

Media

IQR

Media

IQR

1.856

1.571 – 2.239

1.892

1.552 – 2.223

Assunzione di energia totale (kcal)

0,8732

Note: *Variabili con cui sono stati appaiati casi e controlli; BMI, body mass index (indice di massa corporea); IQR: range interquartile.

10

numero 4 · 2018 la neurologia italiana

studi che abbiano dimostrato una loro correlazione con la SLA. Non possiamo pertanto escludere un’associazione casuale. Acido glutammico. Il glutammato è una sostanza tossica per il motoneurone e potrebbe quindi contribuire alla patogenesi della SLA. Il nostro studio ha mostrato una debole associazione con il rischio di SLA. In conclusione, si può notare come la dieta mediterranea (che include numerosi dei fattori alimentari risultati protettivi nel nostro studio) (Figura 1) potrebbe esercitare un effetto benefico sulla SLA, come già verificato per altre patologie. L’aumento del rischio di SLA associato all’assunzione di alcuni alimenti è perciò ancora controverso e richiede ulteriori indagini alla luce del profilo genetico di ciascun paziente. bibliografia

0,6663

Mai

cun effetto benefico sulla sopravvivenza né sulla progressione della malattia. Questi studi però sono stati condotti su campioni piccoli e per breve tempo. Folati. Una deficienza di folati è stata riscontrata in pazienti con diverse malattie neurologiche (SLA, Parkinson, Alzheimer). I folati sono in grado di diminuire la tossicità di alcuni contaminanti alimentari come per esempio, l’arsenico.

• Decarli A, Franceschi S, Ferraroni M et al. Validation of a food-frequency questionnaire to assess dietary intakes in cancer studies in Italy. Results for specific nutrients. Ann Epidemiol 1996; 6: 110-8. • Gnagnarella P, Parpinel M, Salvini S et al. The update of the Italian food composition database. J Food Comp Analysis 2004; 17: 509–22. • Salvini S, Parpinel M, Gnagnarella P et al. Banca dati di composizione degli alimenti per studi epidemiologici in Italia. Milan, Italy: Istituto Europeo di Oncologia, 1998.


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Patologie neurodegenerative

Il paziente con malattia di Parkinson Un percorso riabilitativo intensivo multidisciplinare La riabilitazione ha acquisito un ruolo di primo piano nell’ambito di un approccio multidimensionale e multidisciplinare al paziente con malattia di Parkinson. Il percorso MIRT, complementare alla terapia farmacologica, prevede una presa in carico a 360 gradi del paziente Giuseppe Frazzitta, Paola Ortelli, Rossana Bera, Michele Franciotta, Laura Lucca, Gabriella Bertotti, Davide Ferrazzoli

L

Dipartimento riabilitazione Malattia di Parkinson e Gravi cerebrolesioni, Ospedale “Moriggia-Pelascini”, Gravedona ed Uniti, Como

a malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa ad andamento cronico-progressivo che interessa il sistema dopaminergico, modulatore dell’azione dei nuclei della base. L’invecchiamento generale della popolazione e il prolungarsi della vita lavorativa fanno sì che sempre più frequentemente siano interessati da questa malattia soggetti ancora lavorativamente attivi, rendendo di grande rilievo sociale, oltre che scientifico, la ricerca di terapie efficaci che la contrastino.

Il trattamento farmacologico: vantaggi e limiti La terapia farmacologica ha cambiato in questi anni l’aspettativa di vita dei pazienti parkinsoniani, che oggi è solo di poco inferiore a quella della popolazione generale; purtroppo quello che non è riuscita a modificare è la qualità di vita di questi pazienti, una delle peggiori tra quelle delle persone affette da patologie neurologiche. La malattia di Parkinson è un disturbo del movimento che interessa specificatamente l’espressione dell’azione nelle sue componenti automatiche. Bradicinesia, rigidità e tremore rappresentano la classica triade sintomatologiaca iniziale della malattia, che poi evolve portando allo sviluppo di instabilità posturale e alterazioni del cammino (freezing, festinazione),

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della postura (camptocormia, sindrome di Pisa) e dell’equilibrio, che tipicamente sono scarsamente o non responsivi alla terapia farmacologica. I disturbi cognitivi, della motilità fine, dell’eloquio e della deglutizione rappresentano altre importanti problematiche costitutive della malattia. Il progressivo aumento del dosaggio farmacologico, spesso messo in atto per contrastare l’evoluzione clinica della malattia (anche in presenza di disturbi scarsamente farmaco-responsivi), oltre a non determinare benefici effettivi, è responsabile dello sviluppo di ulteriori problematiche quali le discinesie, le fluttuazioni motorie, freezing in fase “on” e disturbi comportamentali (comportamenti compulsivi, sindrome da disregolazione dopaminergica). Anche il ricorso a terapie di fase avanzata, come il posizionamento di J-PEG per la somministrazione di duodopa o l’impianto di uno stimolatore cerebrale profondo (DBS), sono associate a numerose complicanze ed effetti collaterali, e andrebbero quindi riservate esclusivamente a casi ben selezionati.

Il ruolo della riabilitazione La riabilitazione dal 1950 si propone come possibilità terapeutica, integrante e soprattutto complementare. Un numero sempre maggiore di pubblicazioni scientifiche testimonia come la riabilitazione ricopra un ruolo determinante nel trat-


tamento di pazienti con malattia di Parkinson, Figura 1. Treadmill plus soprattutto per gli aspetti meno responsivi alla terapia farmacologica. In particolare, una revisione Cochrane della letteratura (Mehrholz e coll. 2015) ha confermato come il tapis roulant sia uno strumento efficace nel modificare i parametri del cammino nel paziente parkinsoniano. L’utilizzo di cues esterni (stimoli) e feedback si è inoltre dimostrato essere utile nel migliorare il freezing nei pazienti parkinsoniani. L’utilizzo del tapis roulant con cues visivi e feedback uditivi (treadmill-plus) (Figura 1) è stato per la prima volta studiato dal nostro gruppo che ha oggettivato la maggiore efficacia di questo strumento sul freezing in confronto all’utilizzo dei soli cues (Frazzitta et al. Mov Disord 2009). Altro dato estre- durante le riunioni d’équipe cui partecipano tutte le figure mamente importante riguarda l’azione neuroplastica della ria- coinvolte nel progetto. bilitazione intensiva, come è stato ampiamente evidenziato sia nel contesto della ricerca di base che indirettamente sull’uo- w Intenso mo. In una revisione della letteratura inerente tale argomento, Il nostro protocollo dura 4 settimane e prevede 5 sedute ineffettuata dalla prof.ssa Petzinger (Lancet Neurology 2013), tensive a settimana, più una seduta di esclusivo allenamento si legge come “un trattamento riabilitativo che preveda eser- alle macchine il sabato. Il lavoro giornaliero per il paziente è cizi goal-based e un’attività aerobica migliora sia gli aspetti così suddiviso: cognitivi che motori andando a influire sulla componente au- • 1 ora di trattamento front-to-front con un fisioterapista (+ tomatica del movimento in pazienti in stadio medio-moderato eventuale idro-kinesiterapia); di malattia, grazie a un’azione di tipo neuroplastico”. • 1 ora di allenamento alle macchine in piccoli gruppi (max 4/5 pazienti) con supervisione di fisioterapisti esperti in roIl percorso MIRT botica; • 1 ora di ergoterapia/terapia occupazionale di gruppo con teBasandoci su questi filoni di ricerca abbiamo sviluppato un rapisti occupazionali; percorso riabilitativo intensivo e multidisciplinare rivolto alle • Logopedia, tre volte alla settimana. Possono essere effettuapersone affette da malattia di Parkinson, e in particolare a co- te anche sedute individuali della durata di 45 minuti/die, per 5 loro che presentano disturbi che non rispondono alla terapia giorni alla settimana; farmacologica: disturbi della marcia, freezing del cammino, • Gruppi psico-educativi con neuropsicologa, neurologo e fidisturbi della postura (camptocormia e sindrome di Pisa), sioterapista; disturbi dell’equilibrio (responsabili di numerose cadute e • Eventuali sedute neuropsicologiche individuali; comorbilità ortopediche), fluttuazioni motorie, discinesie e • Valutazione nutrizionistica ed eventuale prescrizione di diete distonie. Il nostro percorso prende il nome di Multidiscipli- ad hoc per il paziente; nary Intensive Rehabilitation Treatment (MIRT). Il MIRT è • Danzaterapia. pensato per essere un trattamento motorio-cognitivo atto al ri-apprendimento di schemi d’azione automatici alterati nella Il trattamento front to front malattia di Parkinson. Gli scopi di questo trattamento sono principalmente quelli di intervenire sulla funzionalità della “macchina corpo” trattando le problematiche osteo-muscolo-articolari (diminuzione w Multidisciplinare Il paziente viene preso in carico da tutti i componenti dei ranges of motion - ROM, retrazioni muscolari, perdita di dell’équipe ognuno dei quali effettua una valutazione speci- elasticità tendinea, deficit di reclutamento muscolare). Quefica: neurologo, fisiatra, fisioterapista, logopedista, terapista ste sono dovute all’ipertono che caratterizza la malattia oltre occupazionale, nutrizionista, neuropsicologo, infermiere. che alla riduzione dell’ampiezza del gesto (ipocinesia) e sono Ciascuna figura coinvolta nel percorso raccoglie, sulla base responsabili di una sempre maggiore e progressiva difficoltà delle competenze specifiche, il maggior numero di informa- nell’esecuzione di movimenti e gesti più o meno complessi. zioni riguardo la condizione clinica del paziente, sulla base Durante la seduta si esegue una mobilizzazione passiva podelle quali viene sviluppato un percorso riabilitativo mirato e lidistrettuale finalizzata al recupero dei ROM, al ripristino costruito intorno alle problematiche di ogni singolo soggetto. delle normali lunghezze muscolari, nonché alla correzione, Tale percorso viene rivalutato e modificato settimanalmente ove possibile, delle alterazioni posturali. Si parte sempre dalla neurologia italiana

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Patologie neurodegenerative

Figura 2. Esempio di esercizio in vasca riabilitativa

la mobilizzazione del tratto cervicale associata a “pompage”, quest’ultimo per favorire il rilassamento e una conseguente maggiore compliance durante la seduta. Si prosegue con una mobilizzazione degli arti superiori associata a stiramenti prolungati e a movimenti ritmici veloci per vincere la rigidità extrapiramidale. Anche gli arti inferiori vengono mobilizzati e sottoposti a stretching, con particolare attenzione alla TT e a tutta la catena posteriore. Il trattamento della colonna è fondamentale in questa fase della terapia: si lavora sullo svincolo dei cingoli per la mobilità di tronco e bacino - sia passivamente che attivamente - da sdraiati, da seduti e in posizione ortostatica. Il paziente viene addestrato ai passaggi posturali e ai trasferimenti (soprattutto sit to stand). Si eseguono anFigura 3. Pedana stabilometrica

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che esercizi in posizione prona e in stazione eretta, esercizi di coordinazione con o senza feedback visivo (specchio) e cues uditivo (metronomo). Si lavora sul ciclo del passo, sui cambi di direzione e sulla larghezza della base d’appoggio, utilizzando sia cues che strategie di controllo volontario. Nei pazienti con gravi disturbi dell’equilibrio, severe alterazioni della postura (sindrome di Pisa, camptocormia) e grave freezing in fase on, tre volte alla settimana la seduta front-tofront è svolta in vasca riabilitativa (Idroterapia) (Figura 2): questo consente di poter lavorare su tutti i piani dello spazio in un ambiente con ridotta gravità in cui l’ipertono flessorio risulti ridotto, facilitando così l’intervento del fisioterapista sulle diverse alterazioni posturali. L’ambiente acquatico è inoltre favorevole nel ridurre il rischio e la paura di cadere. Il trattamento alle macchine I macchinari utilizzati presso il nostro centro, per testare e allenare i pazienti con malattia di Parkinson, sono di seguito elencati con la loro indicazione principale: • Gait trainer (treadmill plus) (Figura 1). Riapprendimento dello schema corretto del cammino: riduzione dell’asimmetria del passo, diminuzione della cadenza e aumento della lunghezza del passo; • Pedana stabilometrica (Figura 3). Training dell’equilibrio statico in mono e “dual task”, con l’utilizzo di feedback visivo (bio-feedback); • Pedana dinamica. Stimolazione sensoriale, aumento della mobilità dell’articolazione tibio-tarsica e ripristino della “ankle strategy”, con l’utilizzo di feedback visivo; • Cicloergometro (Figura 4). Riduzione dell’asimmetria nella generazione della forza muscolare degli arti inferiori mediante utilizzo di feedback visivo; • Crossover (Figura 5). Allargamento della base d’appoggio, coordinazione arti superiori/arti inferiori, reclutamento muscoli stabilizzatori di tronco e bacino, miglioramento dell’equilibrio; • Lokomat (Figura 6). Ricondizionamento stazione eretta e schema del passo negli stadi avanzati di malattia e nei parkinsonismi atipici (paralisi sopranucleare progressiva, atrofia multisistemica).


Figura 4. Cicloergometro

• Realtà virtuale (Figura 7). Training che sfrutta l’engagment cognitivo-motorio in particolare tramite esercizi in dual-task; • Gait trainer musicale. Utilizza la sollecitazione cinetica del tappeto in movimento, unitamente a quella uditiva, rappresentata dal ritmo di semplici brani musicali, sfruttando la capacità di entreinment (ovvero di adeguamento al ritmo), per lo più ben conservato nei pazienti parkinsoniani. Il trattamento in ergoterapia/terapia occupazionale Per i pazienti affetti da malattia di Parkinson compiere gesti usuali può risultare estremamente difficoltoso. Allacciare le stringhe delle scarpe, svitare il tappo di una bottiglia d’acqua, abbottonare la camicia o apparecchiare la tavola possono trasformarsi in ostacoli insuperabili, tali da rendere il paziente dipendente in queste attività. Le cause sono legate ai sintomi Figura 5. Crossover

motori (rigidità, instabilità posturale, bradicinesia e tremore) che rendono difficoltose le attività di manualità, soprattutto fine (basti pensare alla micrografia come esempio dell’interessamento della motricità fine e di precisione della mano), considerando inoltre che ogni attività della vita quotidiana (ADL) rappresenta un compito di “dual task” che, come noto, è compromesso nei pazienti parkinsoniani. La seduta di terapia occupazionale, svolta in piccoli gruppi, consiste in una serie di esercizi mirati e finalizzati al raggiungimento di un utilizzo funzionale delle capacità motorie recuperate o vicariate, atte a incrementare l’autonomia delle attività della vita quotidiana anche attraverso il miglioramento della manualità stessa. Prioritario è inoltre che il miglioramento della performance occupazionale si traduca in un incremento della qualità della vita per il paziente. Gli strumenti utilizzati variano a seconda del setting proposto che, sebbene di gruppo, è orientato sulle specificità cliniche individuali. Di conseguenza, il trattamento del terapista occupazionale si può concentrare su una o più delle seguenti aree di intervento: • Attività manuali: esercizi mirati a incrementare le abilità di manualità fine e grossolana, di coordinazione bimanuale e di dual tasking in attività manuali; gli esercizi vengono praticati utilizzando oggetti di comune uso, come barattoli, monete, bottiglie, corde di diversi diametri per creare nodi o trecce, biglie di vetro, posate ecc.; • Scrittura: esercizi di pre-scrittura, di copiatura e di logica puntando a un graduale aumento della dimensione dei caratteri e al recupero di una scrittura adeguata; • Attività creative e ludiche: collage, ritaglio, puzzle di diversa complessità, pittura e disegno, origami, cucito e lavoro a maglia, giochi di carte, shangai, giochi di logica; • Attività della vita quotidiana: apparecchiare la tavola, servire con vassoio, preparare il caffè, vestirsi, svestirsi, allacciarsi le scarpe, stendere i panni, riordinare la cucina, eseguire l’igiene personale in bagno e gestire correttamente i passaggi posturali in tutti gli ambienti domestici; si pone inoltre particolare attenzione alle necessità occupazionali dei pazienti in età lavorativa. Il trattamento logopedico Nella popolazione parkinsoniana, i disturbi comunicativoverbali e le difficoltà deglutitorie possono essere altamente invalidanti. Una riduzione dell’attività sociale, dello stato nutrizionale, nonché un maggior rischio di complicanze respiratorie concorrono alla diminuzione della qualità di vita dei pazienti e dei caregivers. Comunicare efficacemente nei contesti professionali, chiacchierare con gli amici, chiedere informazioni a un estraneo o parlare al telefono sono attività di vita quotidiana centrali nella vita di ogni persona che, a causa di caratteristici disturbi fono-articolatori, diventano difficili da compiere per il paziente parkinsoniano. L’eloquio in corso di malattia di Parkinson è solitamente caratterizzato da voce flebile e astenica, rigidità la neurologia italiana

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Patologie neurodegenerative

Figura 6. Lokomat

Figura 7. Realtà virtuale

facciale, disartria ipocinetica, tremore bucco-linguale e/o modificazioni prosodiche del timing d’eloquio, incapacità di calibrare la voce. Compito della presa in carico logopedica è proprio quello di favorire una maggior consapevolezza del disturbo fonatorio nei pazienti, spronandoli a esercitare un output motorio vocale più efficace e ad apprendere quelle strategie che possano rendere l’eloquio più intelligibile. Per ottenere tali risultati vengono allenate le competenze respiratorie e di coordinazione pneumo-fonica, la tenuta vocale e l’elasticità cordale, l’ampliamento dei movimenti articolari a livello buccale e il ritmo d’eloquio. Il training viene proposto in piccoli gruppi di lavoro che favoriscono l’attività di scambio e dialogo e permettono di ricevere feedback diretti durante l’esercizio. In caso di pazienti con necessità specifiche, si propongono trattamenti individuali, che possono avvalersi della metodica Lee-Silverman Voice Treatment (LSVT) Loud, basata sugli stessi principi chiave di allenamento che guidano la plasticità attività-dipendente. Il disturbo deglutitorio può essere causa di uno scarso apporto nutrizionale e di una ridotta idratazione che spesso conducono a complicanze internistiche che peggiorano nettamente lo stato di salute del paziente. Al fine di oggettivare problematiche deglutitorie pur non ancora lamentate dal singolo, ogni paziente viene valutato nelle prime 24-48 h dall’ingresso in reparto tramite esame obiettivo delle strutture e delle funzioni oro-faringee. Detta valutazione si avvale di prove deglutitorie effettuate sotto osservazione da parte della logopedista e\o, laddove necessario, a mezzo di esami strumentali (videofluorografia, fibrolaringoscopia) che ne oggettivino la natura e l’entità. L’oggettivazione di problematiche in tal senso comporta possibili modificazioni reologiche della dieta e accorgimenti per l’assunzione di farmaci e terapie. Inoltre, un percorso specifico di monitoraggio del pasto e counselling informativo e istruttivo per paziente e care-giver, viene affiancato al lavoro pratico sulle abilità di coordinazione apnea-deglutizione, sul rinforzo dell’adduzione cordale e sul lavoro attivo che il paziente svolge durante le sedute di gruppo. L’obiettivo è quello di favorire il miglioramento dei meccanismi di deglutizione spontanea, una migliore gestione del bolo alimentare e l’acquisizione di strategie valide per l’assunzione in sicurezza del pasto, al fine di migliorarne la qualità di vita e ridurre il carico assistenziale. Il gruppo psicoeducativo Il gruppo psicoeducativo ha come scopo specifico quello di accompagnare il paziente par-

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kinsoniano in percorsi finalizzati alla conoscenza della malattia e del processo di cura. Spesso i pazienti non sono in grado di distinguere ciò che è sintomo della malattia da ciò che è effetto collaterale delle terapie farmacologiche, né di distinguere quali sintomi rispondono alle terapie dopaminergiche e quali no. Questa mancanza di informazione genera frequenti equivoci, che hanno come effetto quello di indurre i pazienti a comportamenti dannosi, come l’abbandono di attività possibilmente ancora eseguibili con adeguate strategie di gestione delle stesse, oppure la richiesta di incrementi immotivati e pericolosi del dosaggio di farmaci. La prima eventualità porta a una precoce e immotivata riduzione dell’autonomia personale nonché alla riduzione della qualità della vita del paziente e dei familiari che lo accompagnano. Del resto, la seconda, ovvero l’esposizione a un dosaggio esagerato di farmaci induce non soltanto allo sviluppo di effetti collaterali, ma anche a una condizione di addiction, essendo la dopamina il proncipale neurotrasmettitore coinvolto nel sistema del reward. In ultimo riteniamo importante che i pazienti comprendano l’esigenza di svolgere un’attività motoria specifica in modo continuativo al fine di rallentare l’evoluzione della malattia stessa, sfruttando la neuroplasticità quale fenomeno cruciale al fine di contrastare la neurodegenerazione. A tale scopo, ogni paziente, insieme ai co-degenti ricoverati nella medesima settimana, partecipa a quattro incontri a cadenza settimanale. I primi due incontri si svolgono con la presenza della sola neuropsicologa, mentre i restanti due si avvalgono della presenza del medico e del fisioterapista rispettivamente. Gli argomenti trattatati sono gli stessi per ciascun incontro: 1. La malattia nelle sue principali caratteristiche: la cronicità che ne determina la non guaribilità pur permettendone la cura;

la neurodegenerazione e la neuroplasticità (come condizioni antitetiche ma compresenti), la caratterizzazione della malattia come motoria e le forti implicazioni degli aspetti nonmotori, il concetto di malattia multisistemica e multi-neurotrasmettitoriale; 2. Interplay cognitivo-motorio-motivazionale ed emozionale del sistema colpito dalla malattia di Parkinson: le fasi del motor learning e dell’action modulation; le implicazioni dei sistemi cognitivo-motivazionale-emotivo e motorio nella gestione delle azioni (o comportamenti motori); 3. La terapia farmacologica e i suoi effetti sul sistema motivazionale ed emotivo; 4. La riabilitazione motoria: come dare specificità al trattamento della malattia di Parkinson. I pazienti mostrano sempre molto interesse per gli incontri di gruppo e partecipano molto attivamente agli stessi, sia ponendo molte domande, sia portanto le personali testimonianze. Il tutto genera esperienze virtuose e gratificanti di condivisione e accrescimento reciproco. La psicoterapia individuale Laddove si riscontrino nodi problematici individuali, tali da inficiare l’adeguata capacità di affrontare il percorso di cura nella sua globalità, il paziente può essere accompagnato anche a mezzo di una breve psicoterapia individuale. La frequenza e la durata degli incontri varia molto da caso a caso, così come variabile risulta la tipologia di tecnica psicoterapeutica utilizzata in ciascun contesto. Le tematiche più frequentemente affrontate sono quelle legate all’accettazione della malattia, alla costruzione di un’adeguata immagine di sé, nonché all’elaborazione di problematiche relazionali spesso secondarie alla malattia stessa.

Bibliografia • Frazzitta G, Maestri R, Uccellini D, Bertotti G, Abelli P. Rehabilitation treatment of gait in patients with Parkinson’s disease with freezing: a comparison between two physical therapy protocols using visual and auditory cues with or without treadmill training. Mov Disord 2009; 24: 1139-43. doi: 10.1002/mds.22491. • Mehrholz J, Kugler J, Storch A, Pohl M, Hirsch K, Elsner B. Treadmill training for patients with Parkinson’s disease. Cochrane Database Syst Rev 2015; 9: CD007830. doi:10.1002/14651858.CD007830.pub4. • Petzinger GM, Fisher BE, McEwen S, Beeler JA, Walsh JP, Jakowec MW. Exercise-enhanced neuroplasticity targeting motor and cognitive circuitry in Parkinson’s disease. Lancet Neurol 2013; 12: 716-26. doi: 10.1016/S1474-4422(13)70123-6. • Frazzitta G, Maestri R, Ghilardi MF, Riboldazzi G, Perini M, Bertotti G, Boveri N, Buttini S, Lombino FL, Uccellini D, Turla M, Pezzoli G, Comi C. Intensive rehabilitation increases BDNF serum levels in parkinsonian patients: a randomized study. Neurorehabil Neural Repair 2014; 28: 163-8. doi: 10.1177/1545968313508474. • Frazzitta G, Maestri R, Bertotti G, Riboldazzi G, Boveri N, Perini M, Uccellini D, Turla M, Comi C, Pezzoli G, Ghilardi MF. Intensive rehabilitation treatment in early Parkinson’s disease: a randomized pilot study with a 2-year follow-up. Neurorehabil Neural Repair 2015; 29: 123-31. doi: 10.1177/1545968314542981. • Ferrazzoli D, Ortelli P, Zivi I, Cian V, Urso E, Ghilardi MF, Maestri R, Frazzitta G. Efficacy of intensive multidisciplinary rehabilitation in Parkinson’s disease: a randomised controlled study. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2018. pii: jnnp-2017-316437. doi: 10.1136/jnnp2017-316437.

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Farmacologia

Il desametasone nelle patologie del sistema nervoso centrale e periferico Nuove prospettive per un farmaco classico La revisione focalizza l’attenzione su una molecola, il desametasone, ampiamente nota per la sua efficacia antinfiammatoria e gli impieghi clinici. Le recenti acquisizioni sui meccanismi molecolari potrebbero tuttavia allargarne ulteriormente i campi di applicazione Domenico Foti1, Chiara Cappellini2

I

1

Neurochirurgo, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana; 2 Dottore di ricerca in patologia molecolare e cellulare

corticostreroidi sono una famiglia di mediatori biologici prodotti dalla parte corticale delle ghiandole surrenali e responsabili del controllo di numerosi processi fisiologici quali il metabolismo, la regolazione del bilancio elettrolitico, l’infiammazione e, più in generale, la risposta agli stress (1). Sulla base del loro effetto preponderante i corticosteroidi vengono divisi in due classi, i mineralcorticoidi (MC), attivi nel bilancio dei sali minerali, in particolare del sodio e del potassio, e i glucocorticoidi (GC), così chiamati in quanto fondamentali nel controllo del metabolismo del glucosio. Il cortisolo, comunemente denominato “ormone dello stress”, è il più importante mediatore endogeno nell’uomo con azione glucocorticoide. Agisce modulando i mediatori biochimici responsabili della risposta allo stress, e così facendo dirige l’adattamento e la risposta agli insulti esterni nel nostro organismo. Qualsiasi condizione di stress, sia essa dovuta a infiammazione, dolore, infezione, ma anche semplicemente ad affaticamento psico-fisico, ha come conseguenza l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisario (HPA). Tali stimoli causano l’eccitazione dell’ipotalamo che risponde rilasciando il fattore di rilascio della corticotropina (CRF), il quale agisce sull’ipofisi anteriore provocando il rilascio dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH). L’ACTH in ultima analisi stimola la parte corticale delle ghiandole surrenali a produrre ormoni glucocorticoidi come il cortisolo (Figura 1).

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Una volta in circolo il cortisolo è trasportato agli organi bersaglio dando inizio a un gran numero di effetti metabolici, fra cui l’aumento della glicemia, la stimolazione della gluconeogenesi e la mobilitazione di aminoacidi e acidi grassi dal fegato (2-3). Ma, a dispetto del loro nome, il ruolo dei glucocorticoidi non si limita agli effetti metabolici. La capacità di sopprimere un gran numero di indici infiammatori fa di queste molecole i più potenti antinfiammatori attualmente disponibili per il trattamento di patologie sia acute che croniche. L’uso dei glucocorticoidi nella pratica clinica continua ad aumentare di anno in anno, anche a fronte dell’aumento delle patologie croniche in una popolazione in continuo invecchiamento (4). Negli ultimi 50 anni, infatti, il chiarimento dei meccanismi di azione e della struttura dei glucocorticoidi endogeni ha portato alla sintesi di ormoni glucocorticoidi con azione analoga al cortisolo, mediante modificazione chimica delle molecole endogene. L’azione mineralcorticoide e glucocorticoide dei farmaci di sintesi varia in maniera apprezzabile da una molecola all’altra, cosi come l’emivita e l’efficacia antinfiammatoria. Fra i molti cortisonici di sintesi attualmente disponibili, il desametasone, analogo sintetico del cortisolo, grazie alla lunga emivita plasmatica e biologica, e all’elevata potenza antinfiammatoria, è da sempre un corticosteroide di elezione nella


osservati in seguito all’utilizzo di altri farmaci come lo stesso prednisolone o l’idrocortisone. L’aggiunta dei gruppi fluoro e metile al prednisolone, infatti, fa sì che il desametasone presenti un’attività glucocorticoide notevolmente più alta rispetto al prednisolone e ad altri steroidi sintetici, e nel contempo la più bassa attività mineralcorticoide: 0 se riferita a un valore 1 assegnato al cortisolo. La presenza del 16α–metile riduce inoltre la reattività del chetone in posizione 20 (Figura 2) e aumenta la stabilità del prodotto nei confronti del metabolismo e quindi l’emivita plasmatica (9). La tabella 1 mostra il confronto fra il desametasone e gli altri glucocorticoidi in termini di effetti sulla ritenzione di sodio, potenza antinfiammatoria ed emivita. Ma cosa rende conto dell’altissima potenza antinfiammatoria e quindi dell’efficacia del desametasone? Come tutti gli ormoni glucocorticoidi, il desametasone è una piccola molecola lipofila in grado di attraversare la membrana cellulare, e una volta all’interno della cellula svolge la sua azione mediante il legame con un recettore citoplasmatico specifico, il recettore dei glucocorticoidi (GR). Il gruppo metilico del desametasone sembra essere molto più efficace del 16-α-ossidrile come antinfiammatorio, in quanto aumenta la lipofilia e quindi l’affinità con il recettore GR. Il desametasone ha un’affinità per il GR da 20 a 30 volte più elevata rispetto al cortisolo (10). Grazie a tali caratteristiche il desametasone ha un elevato potere antinfiammatorio già a dosaggi 35 volte più bassi del cortisone, e da 7 a 5 volte inferiori a quelli di prednisone, prednisolone e metil-prednisolone, e un’emivita biologica molto più alta (Tabella 1). A fronte della specificità di legame con il GR, la struttura chimica del desametasone fa sì che esso presenti una bassissima capacità di attivazione del recettore mineralcorticoide e quindi un altissimo profilo di sicurezza in termini di ritenzione idrica (11).

Figura 1. Effetti fisiologici dei corticosteroidi

Fonte: Rehn T et al. N Engl J Med 2005; 353: 1711-23

cura di numerose patologie infiammatorie ed è stato inserito dall’Organizzazione mondiale della sanità nella lista dei Farmaci Essenziali (5). Le caratteristiche che fanno del desametasone lo steroide di prima scelta nella cura di molte patologie è la totale assenza di attività mineralcorticoide, l’elevato potere antinfiammatorio e la rapidità di azione a fronte di un eccellente profilo di sicurezza, sia quando somministrato per via sistemica (orale Figura 2. Struttura chimica del cortisolo e dell’analogo o parenterale) che in procedure a più sintetico desametasone, ottenuto mediante l’aggiunta di un alto rischio come l’iniezione epidurale gruppo metile in posizione 16 e del fluoro in posizione 9 nelle sindromi neuropatiche (6-8).

Caratteristiche farmacologiche Sintetizzato tramite modificazione chimica del prednisolone (a sua volta modificazione chimica del cortisolo) il desametasone, o 9-α-fluoro-16-αmetil-prednisolone, è stato appositamente disegnato per ottenere uno steroide che avesse un’alta efficacia farmacologica, senza gli effetti collaterali legati alla ritenzione idrica la neurologia italiana

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Farmacologia

Tabella 1

Confronto fra i principali corticosteroidi

Il desametasone ha la più elevata potenza antinfiammatoria a fronte di un’attivita mineralcorticoide 0, assegnando il valore 1 al cortisolo CORTICOSTEROIDE

POTENZA ANTINFIAMMATORIA

POTENZA DI RITENZIONE DI SODIO

DURATA DI AZIONE (emivita biologica in ore)

Dose equivalente (mg)

DESAMETASONE

25

0

36-72

0,75

CORTISOLO

1

1

8-12

20

CORTISONE

0,8

0,8

8-12

25

PREDNISONE

4

0,8

12-36

5

PREDNISOLONE

4

0,8

12-36

5

METILPREDNISOLONE

5

0,5

12-36

4

TRIAMCINOLONE

5

0

12-36

4

BETAMETASONE

25

0

36-72

0,75

Fonte: modificata da Shimmer and Funder in Goodman and Gilman’s. The Pharmacological Basis of Therapeutics, 12th edition. McGraw Hill Ed. 2011

Farmacodinamica: meccanismi di azione genomici e non-genomici Una volta legato il recettore citoplasmatico, il complesso desametasone-GR trasloca nel nucleo dove svolge numerose funzioni di regolazione genica, sia a livello trascrizionale che post-trascrizionale. I meccanismi alla base dell’effetto antinfiammatorio e immunosoppressore del desametasone, come degli altri glucocorticoidi, sono stati in buona parte chiariti dalla ricerca di base. Il legame del complesso farmaco-recettore a specifiche regioni sul DNA dei geni target regola sia l’aumento dell’espressione genica - con un meccanismo noto come trans-attivazione - sia la repressione di geni chiave nella catena infiammatoria - meccanismi di trans-repressione. Un terzo meccanismo prevede infine fenomeni di interazione proteina-proteina all’interno del nucleo che in ultima analisi portano all’inibizione della trascrizione di geni pro-infiammatori (tethering-transrepression) (3). Sono questi i cosiddetti meccanismi genomici di regolazione dei corticosteroidi. Il complesso GC-GR è quindi in grado di legare numerosi geni e proteine chiave del metabolismo e della risposta infiammatoria e la specificità e l’affinità di legame dipendono da numerosi fattori, come la concentrazione del farmaco, la presenza di proteine che co-regolano l’efficienza e la specificità di legame con il DNA e con altre proteine regolatorie, la specificità di tessuto (12). La trans-attivazione, ad esempio, è un fenomeno tessutospecifico che in massima parte presiede alla regolazione degli effetti metabolici del desametasone, e quindi è legato prevalentemente agli effetti collaterali ad alto dosaggio e a lungo termine. Gli effetti antinfiammatori e immunosoppressori sono prevalentemente conseguenza di fenomeni di trans-repressione, sia trascrizionale che post-trascrizionale. Studi in vitro e in vivo in modelli animali hanno dimostrato che fenomeni di

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trans-repressione sono responsabili dell’azione antinfiammatoria del desametasone mediante l’inibizione dell’espressione di geni master-regolatori dell’infiammazione e del differenziamento come AP-1 e NF-kB. Sia che preveda regolazione dell’espressione genica diretta sul DNA, o fenomeni tethering Figura 3. Effetti genomici e non-genomici dei glucocorticoidi Il grafico rappresenta una schematizzazione degli effetti dose-risposta sulla base delle evidenze sperimentali e cliniche

Fonte: Buttergeit et al. Ann Rheum Dis 2002; 61(8): 718-22


Figura 4. Potenza relativa di alcuni glucocorticoidi Effetto antinfiammatorio lento (dopo 30 minuti) in (A) ed effetto non genomico, rapido (B). La potenza antinfiammatoria è riferita al cortisolo

di interazione proteina-proteina, la trans-repressione determina in ultima analisi l’inibizione della sintesi di citochine proinfiammatorie che bloccano il differenziamento dei linfociti pro-infiammatori o ne promuovono l’apoptosi (13-15). Tutte queste azioni del desametasone sono comunque dipendenti dal legame con il GR e da fenomeni di traslocazione intracellulare e di modificazione fisico-chimica che avvengono nell’arco di ore. Tuttavia, alcuni degli effetti clinici del desametasone sono troppo rapidi perché possano essere descritti con meccanismi genomici. L’efficacia rapida del desametasone fu osservata inizialmente da Merry e collaboratori nei pazienti con insufficienza adrenalinica acuta (16). Croxtall e collaboratori hanno dimostrato in una linea cellulare di adenocarcinoma umano che il desametasone è in grado di inibire in maniera rapida il rilascio di acido arachidonico (AA), con un meccanismo dipendente dal legame con GR, ma indipendente dalla regolazione della trascrizione. Rapidissimi cambiamenti nello stato di fosforilazione della fofsfolipasi cPLA2, nell’ordine di secondi o minuti, bloccano la sintesi di acido arachidonico senza che ci siano cambiamenti nei livelli di espressione del gene (17). Studi successivi evidenziano un ruolo chiave della fosforilazione e defosforilazione dell’annexina-1 nel blocco della sintesi di AA a pochi secondi dal legame desametasone–GR (18). Meccanismi non-genomici sono quindi anch’essi responsabili dell’azione antinfiammatoria del desametasone e rendono conto degli effetti rapidi. Sono stati descritti tre diversi meccanismi non-genomici: • effetti non genomici mediati dal legame con GR • meccanismi di interazione aspecifica farmaco-membrane cellulari

• meccanismi di interazione specifica con un recettore GR di membrana. Questi ultimi in particolare sono responsabili dell’effetto immunosoppressore rapido e diretto sui linfociti e sui monociti nei siti di infiammazione (19). Ad alte concentrazioni, il desametasone è in grado inoltre di intercalarsi alle membrane cellulari modificandone le caratteristiche fisico-chimiche e modulando l’attività di proteine di membrana (20). Tutti questi fenomeni, genomici e non-genomici, spiegano la molteplicità di effetti clinici del desametasone, effetti che variano come specificità e tempi a seconda della via di somministrazione e del dosaggio utilizzato (21). La figura 3 descrive i meccanismi di azione prevalenti dei glucocorticoidi a seconda del dosaggio utilizzato (come mg di prendnisolone equivalenti: 0,75 mg di desametasone sono equivalenti a 5 mg di prednisolone). Gli effetti genomici producono un effetto terapeutico apprezzabile già a dosaggi medio-bassi, ma non prima di 30 minuti. Gli effetti non genomici sono invece rapidi e si osservano già dopo pochi minuti dalla somministrazione, avvengono anch’essi già a dosaggi medio-bassi, impattando maggiormente sull’effetto totale mano a mano che il dosaggio aumenta, fino a diventare massimali ad altissimi dosaggi (>100 mg equivalenti di prednisolone), che, come vedremo in seguito, si utilizzano ad esempio nella terapia iniziale in caso di sindromi neurologiche acute. La figura 4 mostra il confronto fra azione genomica (lenta) e non genomica (rapida) di alcuni dei glucorticoidi più utilizzati. Il desametasone se confrontato ad esempio con il betametasola neurologia italiana

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Farmacologia ria è la disfunzione del microcircolo nella sede del tumore in seguito alla compromissione della barriera ematoencefalica. In condizioni fisiologiche la barriera ematoencefalica è formata da cellule endoteliali che, formando giunzioni serrate con i processi degli astrociti e dei periciti, impediscono la diffusione passiva di molecole idrofile esogene nel sistema nervoso centrale. Quando la barriera è danneggiata, come ad esempio nei tumori cerebrali o nei traumi cranio-encefalici, plasma e proteine si riversano nel parenchima cerebrale causando l’edema e l’aumento della pressione interstiziale. Ciò può determinare un aumento della pressione intracranica che in alcuni casi può condurre a danni neurologici permanenti e, nei casi più gravi, anche a morte. L’analisi istologica della barriera ematoencefalica in pazienti malati di tumori cerebrali, sia primari che metastatici, mostra giunzioni serrate anomale, l’assottigliamento della membrana basale, con l’alterazione dell’interazione fra periciti e astrociti, un aumento dell’attività pinocitotica e la presenza di fenestrazioni. Il fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF) è il principale responsabile della perdita di integrità della barriera ematoencefalica nei tumori cerebrali. Tutti i tumori del sistema nervoso centrale, gliomi, meningiomi e tutti i tumori secondari mostrano una sovra-regolazione del VEGF (25). Altri meccanismi molecolari potenzialmente coinvolti nella formazione dell’edema sono tutt’oggi materia di studio. I leucotrieni e le prostaglandine, metaboliti dell’acido arachidonico prodotti nella sede del tumore, sono responsabili dei danni alla barriera ematoencefalica e favoriscono la formazione e la progressione dell’edema (26). Anche l’ossido nitrico (NO), prodotto dall’enzima NOS (nitric oxide sinthase) aumenta nei siti di crescita tumorale e la sovra-espressione di NOS è indice di malignità. Inoltre, essendo un potente vasodilatatore, oltre a favorire la crescita delle cellule tumorali, l’NO sostiene la progressione dell’edema (27). Evidenze cliniche e sperimentali mostrano che il desametasone è efficace nel migliorare l’edema in maniera rapida sia inibendo la sintesi di VEGF e di iNOS (NOS inducibile) con meccanismi di regolazione genomica, che attraverso la regolazione non-genomica della sintesi dell’acido arachidonico mediante l’inibizione della ciclossigenasi di tipo II (28-29). Meccanismi non genomici, e quindi rapidi, sono alla base anche della regolazione della permeabilità della barriera ematoencefalica. Alcuni studi in sistemi animali mostrano che il desametasone è in grado di diminuire la permeabilità della barriera ematoencefalica mediante la sovra-regolazione di molecole di adesione che compongono le giunzioni serrate fra le cellule endoteliali (claudine e oc-

Figura 5. Numero di pubblicazioni per anno riguardanti il desametasone sul portale PubMed

ne che ha una potenza antinfiammatoria non genomica equivalente presenta il vantaggio di un effetto rapido non genomico 10 volte superiore (22). Il chiarimento dei meccanismi molecolari alla base di tale effetto ha aperto la strada negli ultimi anni a molteplici applicazioni terapeutiche. Il desametasone quindi, è un farmaco classico, ma per il quale le recenti scoperte stanno aprendo la strada a nuovi impieghi e sviluppi, come dimostra l’aumento di studi sia sperimentali che clinici negli ultimi anni (Figura 5).

Utilizzo clinico del desametasone nelle patologie neurologiche w Efficacia anti-edema e antinfiammatoria nei tumori cerebrali Gli steroidi furono introdotti nella pratica clinica per la cura dei tumori cerebrali più di 50 anni fa, quando il prof. Ingraham, dell’ospedale pediatrico della Harvard Medical School, utilizzò per primo il cortisone per trattare l’edema postoperatorio in pazienti con cranio-faringioma (23). Circa dieci anni dopo, la dimostrazione che il desametasone era efficace nell’alleviare l’edema dovuto alla presenza di tumori cerebrali ha rivoluzionato la cura di queste patologie (24). Da allora, il desametasone è diventato lo steroide di elezione per la cura dell’edema peritumorale. Agisce rapidamente migliorando l’edema, ha un effetto duraturo grazie alla lunga emivita, e presenta un ottimo profilo di sicurezza, dal momento che non causa ritenzione idrica e non induce psicosi, se non molto raramente (6). L’edema associato ai tumori cerebrali è estremamente comune ed è tipicamente di natura vasogenica. La causa prima-

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cludine). Altri meccanismi di azione non-trascrizionali del poi da un mantenimento con 4-24 mg al giorno suddivisi in desametasone prevedono il riarrangiamento e il legame delle dosi multiple, sia per via orale che endovenosa. Un protocollo VE-caderine al citoscheletro, con una diminuzione rapida del- comune per il mantenimento è di 4-16 mg al mattino in base la permeabilità capillare (30). alle caratteristiche della malattia e alle condizioni del pazienDa un punto di vista clinico il desametasone è quindi lo ste- te. Anche in caso di neoplasia midollare (intra-assiale o extraroide di gran luga più utilizzato nella cura degli edemi peri- assiale) il desametasone viene usato alla dose di 4-8 mg al tumorali, anche in virtù dell’efficacia nel diminuire il dolo- mattino sia nel pre- che nel post-operatorio. Nel caso di un re, la nausea e il vomito e migliorare l’appetito dei pazienti, quadro neurologico molto grave o di edema diffuso, la dose sia in fase pre- e post-operatoria che durante la radioterapia iniziale può essere aumentata fino a 100 mg valutando il qua(31). Dal momento che l’avvento di nuovi farmaci biologici dro clinico generale e tenendo sotto controllo eventuali effetti e di nuove tecniche di imaging non invasive ha notevolmente collaterali: “as high as necessary, as lower as possible” (35). migliorato la prognosi di questi pazienti, il trattamento con corticosteroidi riveste oggi un’importanza fondamentale per w Il desametasone è efficace nella cura migliorare lo stato di salute durante le terapie. Il desametaso- delle neuropatie periferiche e mostra un profilo ne in particolare è un caposaldo nella terapia farmacologica di sicurezza superiore rispetto agli altri steroidi delle neoplasie che originano dalle cellule gliali o gliomi (i Le radicolopatie rappresentano le patologie spinali di gran quali costituiscono da soli quasi il 40 per cento dei tumori lunga più frequenti e assumono spesso un carattere cronico intracranici) e di altre neoplasie come i meningiomi, le meta- con effetti debilitanti sulla qualità di vita del paziente. Generalmente la causa è la compressione meccanica sulla radice stasi cerebrali e i linfomi. Grazie alla lunga emivita (36-72 ore) e alla rapidità di azione, del nervo, ma l’eziologia può essere multifattoriale, con quauna sola somministrazione al giorno di desametasone è effi- dri clinici che comprendono anche fattori ambientali, infiamcace nel migliorare l’edema e limitare quindi gli effetti dovuti matori e immunologici (36). alla massa tumorale, oltre ad avere un potente e rapido effetto Nel caso in cui la causa della nevralgia sia la compressione, molto spesso si verifica la degenerazione del tessuto interverantinfiammatorio e antiemetico (32). Anche i linfomi, sia primari che secondari, rispondono rapi- tebrale e la fuoriuscita di materiale discale dalla sede (ernia del damente alla somministrazione di desametasone, utilizzato disco), con conseguente infiammazione della radice nervosa come terapia iniziale per limitare la diffusione del tumore, che può causare forti dolori con distribuzione dermatomerica grazie a un effetto diretto sul controllo del ciclo cellulare ed eventuali deficit motori con compromissione della forza (attraverso l’inibizione della MAPK, mitogen-activated ki- muscolare segmentaria (Figura 6). Generalmente la radicolopatia è monosegmentaria, ovvero interessa una singola radice nase) e sull’apoptosi dei linfociti B e T (33). Le evidenze cliniche mostrano quindi che il desametasone è senza dubbio Figura 6. Lo schema mostra un disco intervertebrale lo steroide di elezione nel trattamento degenerato con fuoriuscita di materiale dal nucleo dei tumori cerebrali e riveste un’impolposo attraverso la fissurazione anulare portanza cruciale sia nelle fasi pre- e Il tessuto erniario comprime la radice del nervo causando post-operatorie che durante la terapia l’infiammazione e il dolore con farmaci biologici o la radioterapia, anche nel caso di tumori resistenti e nei casi in cui si scelga di non ricorrere nuovamente alla chirurgia e alla chemo- e radioterapia. Per quanto riguarda i dosaggi e i tempi di somministrazione non è possibile definire una linea guida unanime. L’eterogeneità delle patologie oncologiche cerebrali e del quadro di salute secondario richiede un’attenta valutazione individuale del caso clinico e la scelta individuale della dose e dei tempi di tapering a seconda della risposta del paziente. Nei pazienti con sindrome neurologica acuta si utilizza generalmente una dose giornaliera iniziale alta (10-20 mg) per Fonte: Risbud, Shapiro. Nat Rev Rheumatol 2014; 10(1): 44–56 somministrazione endovenosa seguita la neurologia italiana

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Farmacologia nervosa, più frequentemente a livello cervicale e lombare. La figura 7 illustra la corrispondenza fra i segmenti vertebrali e le aree sensoriali (dermatomeri) colpite dal quadro irritativo (dolore, parestesie, disestesie, allodinia). Si definisce brachialgia (o anche cervicobrachialgia) la sindrome dolorosa che si irradia in uno dei territori delle radici del plesso brachiale (C5-T1). A questo dolore si possono associare, in vario grado, anche disturbi della sensibilità e della forza muscolare distrettuale (deltoide, bicipite brachiale, triFigura 7. Corrispondenza fra le radici spinali e le regioni sensoriali interessate dalla radicolopatia

Fonte: https://dundeemedstudentnotes.wordpress.com/ 2012/03/19/radiculopathy/

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cipite brachiale, muscoli dell’avambraccio, muscoli intrinseci della mano). Analogamente a livello lombo-sacrale, lombocruralgia e lombosciatalgia identificano le sindromi dolorose con irradiazione a carico delle radici del plesso lombo-sacrale (L1-S1). La distribuzione del dolore e dei disturbi sensitivi è come sempre dermatomerica e i deficit di forza muscolare possono colpire i muscoli ileopsoas, quadricipite femorale, muscoli della loggia anteriore della gamba, tricipite surale, in ordine cranio-caudale. Le radicolopatie toraciche sono estremamente rare (37). Gli approcci terapeutici disponibili sono molteplici, dai trattamenti farmacologici con farmaci antidolorifici e antinfiammatori ai trattamenti non farmacologici non invasivi, dalle terapie infiltrative alla chirurgia nei casi più resistenti. L’utilizzo dei corticosteroidi per via sistemica è una pratica di uso comune per il trattamento delle radicolopatie oramai da diversi decenni e, trattandosi di patologie a carattere prevalentemente infiammatorio, risulta di elevata efficacia sia nelle fasi acute che croniche. Uno dei primi studi a riguardo, pubblicato nel 1975, riporta i benefici della terapia con desametasone (somministrazione intramuscolo per una settimana, 64 mg il primo giorno e poi tapering fino a 8 mg dal 5° al 7° giorno) su 100 pazienti con ernia del disco lombare. Più dell’80 per cento dei pazienti mostrava miglioramenti apprezzabili nella mobilità e nel dolore nelle prime 24-48 ore e in un follow-up di 15 mesi, evidenziando da subito anche un miglioramento dell’edema radicolare nell’analisi mielografica, senza effetti collaterali di rilievo (38). Da allora il desametasone è ampiamente impiegato nelle patologie discali, sia cervicali che lombari, e il suo utilizzo si è consolidato negli anni con vari schemi terapeutici. Ad esempio, nella cervicobrachialgia e nella lombosciatalgia/ lombocruralgia in fase acuta sono risultate efficaci posologie di 8 mg i.m. al mattino per 3-7 giorni, con eventuale tapering per 2-4 giorni. Stesso utilizzo può prospettarsi in caso di lombalgia acuta meccanica o nelle riacutizzazioni della forma cronica, sia di origine anteriore (ernia intrasponginosa, degenerazione dei piatti somatici, fissurazione dell’anulus e altre cause di dolore discogeno) che posteriore (sindrome delle faccette articolari). L’efficacia clinica è ampiamente spiegata dalla potenza antinfiammatoria e immunosoppressiva del farmaco. La fisiopatologia delle radicolopatie discali infatti, è correlata alla degenerazione del disco intervertebrale, che si verifica in conseguenza di traumi o infezioni, e del conseguente rilascio locale di citochine pro-infiammatorie come il TNF-alfa e le interleuchine IL-1β e IL-6. Le citochine promuovono una cascata di eventi patogenetici, che inizia con la migrazione e l’attivazione di cellule del sistema immunitario, e prosegue con gli eventi molecolari che portano alla senescenza, alla degenerazione e all’apoptosi delle cellule del disco, con conseguente danno alla radice e dolore (Figura 8) (36). Il desametasone inibisce il rilascio di mediatori dell’infiammazione attraverso il blocco della sintesi della fofsfolipasi A2 e quindi del pathway dell’acido arachidonico, limitando così


possono essere causa di disabilità permanenti e anche di morte. Un panel di esperti della Food and Drug Administration (FDA) ha analizzato in maniera sistematica i dati presenti in letteraDisc herniation tura allo scopo di redigere le norme di sicurezza per l’iniezione epidurale di Inflammation steroidi (SUI, Safe Usage Indication) Immunological Foraminal reaction e ha decretato che il rischio di eventi compression PLA2 Cytokines avversi gravi in seguito all’iniezione di steroidi non è trascurabile. Il rischio più alto è sicuramente l’iniezione intraTNF-α Arachidonic acid IL-1α, IL-1β, IL-6, IL-8 arteria, che può causare embolie ed eventi ischemici sia a livello locale che nelle arterie cerebrali (per tale motivo Thromboxane Leukotrienes No si raccomanda l’iniezione di una piccola quantità di mezzo di contrasto per verificare la posizione precisa dell’ago). Confrontando le pubblicazioni in letteratura per l’iniezione epidurale di Nerve dysfunction Pain tutti i corticosteroidi, la FDA ha decretato che il desametasone deve essere il Fonte: Stafford et al. British Journal of Anaesthesia 2007; 99 (4): 461–73 farmaco di prima scelta per l’iniezione epidurale nelle radicolopatie, dal la degenerazione delle strutture discali e migliorando il qua- momento che gli eventi avversi gravi, per quanto rarissimi e dro sintomatico (39). non descritti in maniera sistematica in letteratura, non sono Per questi motivi la terapia con desametasone è tuttora una mai causati dall’iniezione di desametasone (43). Il motivo è componente fondamentale nell’approccio multimodale per che il desametasone fosfato, al contrario degli altri corticola cura delle patologie radicolari, sia come terapia sistemica, steroidi disponibili per iniezione, è completamente solubile, orale o parenterale, che locale. La disponibilità di tecniche mentre tutti gli altri formano particolati in soluzione: il metildi imaging e fluoroscopiche più raffinate ha permesso infat- prednisolone forma gli aggregati di più grandi dimensioni, il ti l’affermarsi negli ultimi anni delle metodiche di iniezione triamcinolone di medie dimensioni e il betametasone i più picepidurale, che permettono il rilascio del farmaco in maniera coli (44). Tali aggregati possono formare emboli se iniettati locale e specifica. Il farmaco viene iniettato direttamente nello nell’arteria vertebrale e hanno dimensioni sufficienti da blocspazio epidurale intorno alla radice nervosa sotto la guida di care il flusso sanguigno nelle arteriole o nelle arterie cerebrali. un fluoroscopio e questo permette sia una più rapida e specifi- Studi condotti su animali mostrano che l’iniezione di steroidi ca efficacia, sia la riduzione della dose somministrata e quin- particolati nell’arteria vertebrale o nella carotide interna prodi della probabilità di eventuali effetti metabolici dovuti alla voca un immediato rallentamento del flusso e l’aggregazione somministrazione del farmaco per via sistemica (40). dei globuli rossi con conseguenti danni cerebrali gravi (inStudi clinici mostrano che l’iniezione di desametasone fosfato farto) così come osservato in alcuni case-report nell’uomo. per via epidurale transforaminale (1,5 ml, 10 mg/ml) è effica- Tali eventi non si verificano se nelle arterie si inietta il desace nella risoluzione della lombosciatalgia quanto l’iniezione metasone (45). L’analisi sistematica dei database MEDLINE di triamcinolone (1,5 ml, 40 mg/ml), lo steroide inizialmente (Ovid), EMBASE e Cochrane mostra inoltre che il desamepiù utilizzato in questa terapia. 1-2 iniezioni sono sufficienti tasone (7,5-10 mg per iniezione epidurale, transforaminale per una marcata riduzione della sintomatologia in un follow- o interlaminare) è efficace quanto gli steroidi particolati nel up totale di 3 mesi (41-42). risolvere la sintomatologia radicolare cervicale (46). Inoltre, La via di iniezione transforaminale è la più diffusa nella cura uno studio clinico multicentrico condotto su 60 pazienti con delle radicolopatie. Le possibili complicanze di tale tecnica ernia del disco lombare mostra che il desametasone ha un’efsono generalmente minori, non comportano danni permanenti ficacia equivalente al betametasone nel migliorare la sintomae si risolvono nell’arco di pochi giorni (esacerbazione del do- tologia, sia a breve che a medio e lungo termine (2 settimane, lore, crisi vaso-vagale, mal di testa e puntura accidentale della 3-6 mesi, più di 6 mesi) (47). dura madre). Le linee guida FDA raccomandano quindi di utilizzare il deTuttavia, seppure molto raramente, l’iniezione può causare sametasone come farmaco steroide di prima scelta per l’iniedanni molto gravi a livello del sistema nervoso centrale che zione epidurale (sia transforaminale che interlaminare) nelle Figura 8. Schema della patogenesi molecolare della radicolopatia infiammatoria causata da ernia del disco

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Farmacologia radicolopatie, sia per la comprovata efficacia, paragonabile se non superiore a quella degli steroidi particolati classicamente utilizzati, sia per il più elevato profilo di sicurezza, dal momento che essendo completamente solubile, non causa complicanze neurologiche gravi se iniettato accidentalmente a livello arterioso (43, 8). Attualmente il desametasone è disponibile in Italia in tre formulazioni: desametasone compresse, desametasone fosfato bisodico iniettabile e desametasone fosfato bisodico in goc-

ce. Le formulazioni iniettabili sono presenti nel dosaggio di 4 mg/ml e di 8 mg/2ml mentre le gocce nella concentrazione di 2mg/ml con flacone da 10 ml o 30 ml. Per quanto riguarda le formulazioni orali le gocce hanno il vantaggio di offrire una più veloce comparsa d’azione e un’elevata flessibilità di dosaggio utile in caso di associazione tra la terapia parenterale e quella orale o per realizzare uno schema terapeutico e/o di tapering quanto più possibile paziente specifico (1 goccia equivale a 0,0666 mg).

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Medicina e società

rischi neurologici da taser Dal disturbo post-traumatico da stress alla morte improvvisa nel paziente epilettico A cura della Redazione (Cesare Peccarisi)

I taser sono le pistole elettriche di cui sono dotate le forze dell’ordine statunitensi (e a breve lo saranno anche quelle italiane) per contrastare la criminalità. Ma si tratta davvero di armi innocue e prive di rischi?

S

econdo uno studio pubblicato lo scorso 11 ottobre sul Journal of Urban Health dai ricercatori della Harvard Chan School diretti da David Hemenway il rischio di essere uccisi negli Stati Uniti con armi da fuoco dalla polizia (oltre mille casi l’anno) è molto più elevato rispetto agli altri Paesi industrializzati dove, peraltro, la frequenza di civili armati è minore: fra le 2.934 vittime USA registrate dal 2015 al 2017 aveva infatti un’arma da fuoco il 56 per cento. È pertanto comprensibile la buona accoglienza riservata ai cosiddetti taser, le pistole elettriche di cui sono state dotate le forze dell’ordine americane per opporsi ai criminali, riducendoli all’impotenza tramite una scossa elettrica che non provoca morte senza effetti collaterali permanenti. I taser, adottati fra i primi da Panama e Somalia negli anni Novanta, arriveranno anche in Italia in dotazione alla polizia locale.

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Ma siamo certi che i taser non provochino danni? Un recente studio dell’Australasian Military Medicine Association pubblicato sul Journal of Military and Veterans’ Health sottolinea come sia improprio definire questi strumenti armi non letali perché possono provocare danni collaterali, talora gravi. La scarica di 50kV ha basso amperaggio e agisce sul sistema nervoso periferico. Una singola scarica può disabilitare un intera gamba per un po’ di tempo, una seconda fa crollare a terra chi è colpito e una della durata di 5 secondi lo “mette KO” per un quarto d’ora agendo sulla funzionalità cardio-respiratoria.

Quali danni neurologici L’esposizione a scariche elettriche provoca notoriamente anche danni collaterali di tipo neurologico: i dati più consistenti provengono da casi verificatisi in

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ambito lavorativo che testimoniano un aumentato rischio soprattutto di danni neurologici periferici, ma anche di cefalea, vertigine e crisi comiziali. Uno studio sulle sequele riportate dai dipendenti della EDF, la Electricité de France, in incidenti non fatali da shock elettrici, indica che, dopo le ustioni da contatto, quelle più frequenti sono neuropsichiatriche e fra queste il PTSD (disturbo post-traumatico da stress) e i disturbi neurologici periferici, enfatizzando come in questi soggetti sia fondamentale un precoce intervento specificatamente di tipo neuropsichiatrico. Un altro studio dei ricercatori olandesi delle Università di Utrecht, Tilburg, Nijmegen, Schiedam e Groningen diretti da Anke Huss ha indagato il rischio per un’altra malattia neurologica, quella di Parkinson, senza rilevare però aumenti significativi. Delle sequele neurologiche da shock elettrico si erano occupati anche gli italiani dell’Irccs Maugeri di Pavia che nel 1991 avevano definto quella che potremmo chiamare distrofia di Cesare Bonezzi dal primo firmatario del lavoro che pubblicarono sulla rivista di Medicina del Lavoro, dove descrivono l’insorgenza di acroparestesia urente, astenia e impaccio motorio a carico dell’arto superiore, con allodinia e anidrosi senza evidenza di lesioni cutanee in un 47enne poche ore dopo che aveva toccato un cavo con una tensione di 380 volt. Nei mesi successivi la sua sintomatologia non cambiò di molto, ma si associarono i segni di un’iperattività autonomica con iperidrosi, edema, atrofia cutanea e


ungueale e ipersudorazione. A distanza di un anno si sviluppò una distrofia simpatica riflessa che secondo gli Autori derivava dal danno eletttrico indotto a carico delle fibre simpatiche periferiche o dei gangli cervicali. Quasi trent’anni dopo sono ancora ricercatori italiani, ma dell’Università di Padova, a occuparsi, insieme ai colleghi dell’Università di Beira in Mozambico delle sequele dello shock elettrico in un 30enne venuto a contatto con corrente di 220 volt attraverso un cavo scoperto. Ne è emerso il primo caso in letteratura (presentato nella sezione poster del recente congresso SIN, di Roma) di interessamento controlaterale di un nervo cranico, che in questo caso potremmo chiamare paralisi faciale di Giulia Toldo dalla prima Autrice dello studio, una paralisi del settimo insorta a distanza di 4 giorni dall’esposizione e risoltasi in 24 ore. Peraltro, tranne una scottatura di 3 cm nell’area di contatto, il paziente non presentò altri sintomi risultando normale all’esame obiettivo neurologico e un follow up non fu possibile essendo egli residente in Mozambico. Gli Autori del lavoro sottolineano come, nonostante vari studi sugli effetti immediati e ritardati dell’insulto elettrico, siano invece carenti quelli sui meccanismi che inducono danni neurologici a distanza e segnalano alcune delle ipotesi

che sono state finora formulate: 1) danno ischemico da progressiva occlusione microvasale, 2) alterazioni delle proteine e/o del DNA intracellulare, 3) variazioni conformazionali delle proteine e/o dei pori di membrana, 4) rilascio in circolo di cortisolo e radicali liberi che vanno ad agire a distanza.

VOLTAGGI ELETTRICI E MANIFESTAZIONI CLINICHE ATTESE

w Morte improvvisa in corso di crisi epilettica (SUDEP)

• 6-8 mA: scossa percepita da una donna

Resta infine il capitolo delle crisi convulsive indotte da scariche elettriche che Luigi Galvani descriveva già nel 1790 nel suo libro De viribus electricitatis in motu musculari commentarius, arrivando a scoprire il fenomeno dell’inibizione vagale e della bradicardia da stimolazione riflessa spinale. Negli ultimi anni è emersa la stretta correlazione fra attività cardiaca, disregolazione autonomica e SUDEP, la morte improvvisa in corso di crisi epilettica, e il rischio di provocarla in soggetti predisposti andrebbe sempre considerato. Chi utilizza un taser può infatti essere ignaro dell’eventuale diatesi comiziale della sua vittima, condizione, che stando a uno studio pubblicato l’anno scorso su Neurology, è peraltro spesso misconosciuta anche agli stessi specialisti neurologi.

• 7-9 mA: scossa percepita da un uomo

• 1 mA: impercettibile, eventuale formicolio • 3-5 mA: scossa percepita da un bambino

• 16 mA: massimo voltaggio di scossa sopportabile • 17-20 mA: tetania muscoli scheletrici • 20-50 mA: paralisi muscoli respiratori • 50-100 mA: soglia per fibrillazione ventricolare • oltre 2A: asistolia • 15-30 A: scossa da corto circuito domestico • 240 A: massima scossa da corto circuito domestico USA Note: mA, milliAmpére; A, Ampére

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NEWS XLIX Congresso SIN, 27-30 ottobre 2018 - Roma

narcolessia e cataplessia Evoluzioni cliniche e farmacologiche Patologia spesso misconosciuta, la narcolessia torna all'attenzione grazie ai recenti progressi compiuti in ambito eziopatogenetico e terapeutico

I

recenti sviluppi in campo terapeutico hanno portato all’attenzione il tema della narcolessia cui è stato dedicato un simposio, nell’ambito del 49° Congresso SIN di Roma, dal titolo “Sonno, sogni, allucinazioni e disturbi del movimento: la narcolessia". Durante l’incontro, Giuseppe Plazzi, Professore Associato di neurologia dell’Università di Bologna, ha presentato il Progetto Red Flag della Narcolessia, promosso dall’Associazione Italiana Narcolettici e Ipersonni (AIN), che ha coinvolto esperti di questa malattia e rappresentanti di numerose Società Scientifiche, nonché dell’Istituto Superiore di Sanità. Il progetto ha definito segni e sintomi di allarme della narcolessia individuabili da qualsiasi medico, come alterazioni del sonno e turbe metaboliche quali obesità e sovrappeso (1). È noto che questa malattia provoca improvvisi attacchi di sonno incoercibile, ma pochi sanno che, a distanza di oltre un secolo dalla sua prima definizione clinica, a cura di Jean Baptiste Edouard Gèlineau nel 1880 e di Karl Friedrich Otto Westphal nel 1877 (2,3,4), viene ancora riconosciuta con un ritardo medio di 14 anni dall’esordio, essendo spesso scambiata per epilessia (lo stesso Westphal parlò nella sua prima descrizione di attacchi di epilessia larvata) oppure per eventi ictali, quando fra i suoi sintomi è presente la cataplessia, che consiste in un’improvvisa caduta da perdita del tono muscolare. Un’altra comune confusione diagnostica è quella con le apnee del son-

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no (obstructive sleep apnea, OSA) i cui continui microrisvegli notturni da ipossia determinano sonnolenza diurna, uno dei sintomi cardine anche della narcolessia, con conseguenti iter di valutazione differenziale che ritardano la corretta diagnosi. La narcolessia inizia tipicamente prima della seconda decade di vita, con picchi a 15 e 25 anni di età (5), ma stanno aumentando i casi fra i maggiorenni. Prosegue nella vita adulta, senza differenze di frequenza fra uomini e donne e con una prevalenza di 1 caso ogni 2mila soggetti in USA e 4 ogni 10mila in Europa. La narcolessia è classificata dal Ministero della Salute italiano fra le malattie rare, ma è sottodiagnosticata anche rispetto agli standard di frequenza di queste patologie e il riconoscimento delle sue caratteristiche cardinali da parte del medico può farla riemergere dalla situazione di misdiagnosi in cui è a lungo rimasta. Esistono due tipi di narcolessia. La narcolessia di tipo 1 si presenta con: 1. Immediata comparsa di sonno REM all’addormentamento, senza le fasi morfeiche che generalmente lo precedono, con diretto addormentamento profondo nella fase dei sogni, come può essere evidenziato tramite esame MSLT (multiple sleep latency test) da associare all’usuale esame polisonnografico (6); 2. Eccessiva sonnolenza diurna con episodi di addormentamento ad esempio davanti al computer o alla

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guida dell’auto e accessi di sonno incoercibile; 3. Attacchi di cataplessia che consistono in perdite improvvise del tono muscolare, spesso scatenate da emozioni, sia positive che negative, che durano da pochi secondi a pochi minuti. La cataplessia è legata alla tipica perdita del tono muscolare che si riscontra nella fase REM del sonno (7); 4. Paralisi del sonno che sono fasi di temporanea incapacità a muovere gli arti che si possono verificare all’addormentamento e al risveglio; 5. Allucinazioni ipnagogiche e ipnopompiche, anch’esse correlate all’intrusione del sonno REM nelle fasi di addormentamento o di risveglio. Se terrifiche (ad es. visione di insetti sui muri o percezione di strani rumori per casa), tali allucinazioni possono essere scambiate per sintomi psichiatrici. Nella narcolessia di tipo 2 manca la cataplessia. Il rinnovato interesse per questa malattia deriva dal fatto che negli ultimi anni stanno emergendo nuovi dati eziopatogenetici e terapeutici (8). Pochi giorni prima del Congresso SIN di Roma, ad esempio, i ricercatori svizzeri diretti da Federica Sallusto hanno pubblicato su Nature (9) uno studio che ha documentato per la prima volta i meccanismi di autoimmunità, mediati da linfociti T, che distruggono i neuroni che producono l’ipocretina, il neurotrasmettitore chiave nella regolazione dei ritmi sonno-veglia. La perdita di queste cellule comporta la mancanza di ipocretina nel liquido


congressi cefalorachidiano che caratterizza la narcolessia di tipo 1, insieme alla presenza del sintomo cataplessia. I risultati dello studio di Sallusto e colleghi confermano le ipotesi di Emmanuel Mignot della Stanford University, uno dei maggiori esperti mondiali di narcolessia, che nel 2009 ipotizzò che, all’origine della narcolessia, ci fosse un processo di autoimmunità, favorito da mutazioni dei geni del sistema di istocompatibilità HLA (10). Bloccando tale reazione autoimmune, in futuro sarà possibile evitare la perdita dei neuroni produttori di ipocretina, ma oggi le uniche cure disponibili sono quelle che controllano i sintomi della narcolessia. Fra i prodotti usati, ci sono amfetaminici, neurostimolanti, antidepressivi, benzodiazepine ecc. (11), con effetti collaterali anche pesanti che il provigil, approvato nel ’98, prometteva di risolvere, salvo poi indurre fra l’altro cefalea e insonnia paradossa. Di recente la FDA ha approvato, dopo l’EMA (12), il sodio ossibato nella fascia d’età compresa fra 7 e 17 anni, ma anche questo farmaco provoca effetti collaterali come enuresi, nausea, vomito, calo ponderale e dell’appetito, vertigine e cefalea. Pitolisant, una svolta nel trattamento In Europa, l’EMA ha approvato nel 2016 pitolisant, oggi disponibile per il trattamento della narcolessia di tipo 1 e 2, con o senza cataplessia, in 16 Paesi europei. La molecola presenta una safety migliore tant’è che, in virtù del suo meccanismo d’azione del tutto nuovo, è stata rapidamente autorizzata dall’AIFA lo scorso anno anche per l’Italia, inserendola nella classe C, che crea problemi di accesso al prodotto ai narcolettici di alcune Regioni italiane. Pitolisant è il primo farmaco a stimolare in maniera selettiva i neuroni istaminergici, importanti per la promozione della veglia, della vigilanza

e dell’attenzione. Inoltre, nello studio Harmony CTP pubblicato l’anno scorso su Lancet Neurology, il pitolisant ha ridotto del 75 per cento la frequenza settimanale degli episodi di cataplessia (13, 14). Molteplici sono i vantaggi associati al trattamento con pitolisant, come peraltro evidenziato nel parere espresso dal Committee for Orphan Medicinal Products (Comp) dell’EMA. Si tratta del primo farmaco che agisce su entrambi i principali sintomi della narcolessia (eccessiva sonnolenza diurna e cataplessia), oltre che su quelli meno frequenti (allucinazioni ipnagogiche e ipnopompiche, paralisi del sonno ecc.), con un profilo di tollerabilità e una semplicità di assunzione (1 o 2 compresse in unica somministrazione al mattino) significativamente migliori, rispetto a modafinil e sodio ossibato. Infatti, modafinil è indicato solo per la sonnolenza, è uno psicostimolante con rischi di abuso, e inoltre andrebbe prescritto con cautela nei pazienti a rischio cardiovascolare; il sodio ossibato invece agisce essenzialmente sulla cataplessia, è una molecola stupefacente ed è inoltre gravata da uno schema di assunzione per così dire “macchinoso” (per prendere la seconda dose il paziente dovrebbe svegliarsi durante la notte!). Pitolisant è indicato nell’adulto con narcolessia sia di tipo 1 che 2 e i risultati dello studio HARMONY III eseguito dai ricercatori francesi di Montpellier e della Pitiè-Salpetrier di Parigi, che sono stati presentati al congresso SIN di Roma, ne hanno confermato

l’efficacia a lungo termine (15). È in corso uno studio anche su pazienti di età compresa fra 6 e 17 anni, i cui risultati non saranno disponibili prima del 2019. Oltre alle cure farmacologiche, per la gestione di questa malattia sono utili anche modificazioni delle abitudini di vita, come confermato da uno studio eseguito dai ricercatori dell’Università del Kansas, diretti da Jackie Bhattarai e pubblicato di recente su Sleep (16). Per concludere, possiamo dire che la disponibilità di pitolisant rappresenta una svolta nel trattamento della narcolessia. Se finora l’approccio di terapia prevedeva infatti l’assunzione di due farmaci (modafinil+sodio ossibato oppure modafinil+antidepressivo nel caso di intolleranza al sodio ossibato), la monoterapia con pitolisant oltre ad apportare un significativo miglioramento dei sintomi è estremamente semplice da gestire per il paziente, prevedendo un’unica somministrazione al mattino.

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Sclerosi multipla L’approccio personalizzato al trattamento La disponibilità di molecole dal meccanismo d'azione innovativo accanto a farmaci d'uso consolidato avvicina sempre più il traguardo della terapia a misura di paziente

L

a ricerca farmacologica nell’ambito della sclerosi multipla (SM) è particolarmente vivace, il che ha portato ad avere a disposizione un ampio ventaglio di opzioni terapeutiche in breve tempo. Un percorso di ricerca che è partito nei primi anni Novanta con l’approvazione dell’interferone (IFN) beta e ora è approdato a terapie sempre più selettive. In questo scenario così dinamico e variegato è opportuno comprendere come utilizzare al meglio i farmaci d’uso consolidato e le nuovi opzioni terapeutiche per una strategia terapeutica personalizzata. Se ne è parlato in un simposio dal titolo “20 anni di Merck in sclerosi multipla: presente e futuro” che si è tenuto in occasione del 49° Congresso SIN di Roma. L’attenzione è stata focalizzata sui dati in real world di pazienti con attività di malattia lievemoderata, ben illustrati da Damiano Paolicelli, di Bari. Grazie a questo tipo di studi è infatti possibile avere indica-

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zioni affidabili su quale debba essere l’approccio più adatto per un tipo di paziente, sulla base dell’andamento della malattia. Al riguardo, non possiamo non citare il Registro italiano sclerosi multipla. “A oggi, il Registro colleziona più di 50.000 record, registrati da più di 130 centri italiani”, ha spiegato Paolicelli. “Grazie anche alla partecipazione di 28 centri, abbiamo ottenuto i dati che hanno permesso di selezionare, per un confronto head to head, tre coorti: pazienti naïve che iniziavano con IFN ad alta dose e lo mantenevano fino all’ultimo followup; pazienti che switchavano da IFN a fingolimod; pazienti naïve che iniziavano con un atteggiamento più aggressivo, cioè con fingolimod, e lo mantenevano fino all’ultimo followup. L’endpoint primario includeva la progressione di disabilità confermata a tre mesi. Escludendo i pazienti che avevano meno di due anni di osservazione, che non avevano come unico

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shift di terapia il fingolimod o che non avevano un periodo di shift maggiore di tre mesi, abbiamo alla fine ottenuto una corte di 1.152 pazienti distribuiti in tre gruppi: 166 stayers di fingolimod, 874 stayers di IFN ad alta dose, 112 pazienti che switchavano; 42 pazienti sono stati eliminati perché, utilizzando come outcome la progressione della disabilità a tre mesi, avevano meno di tre visite con valutazione di EDSS”. Le conclusioni di questa analisi preliminare dimostrano che iniziare il trattamento con fingolimod non previene la progressione di disabilità più di quanto non faccia una sequenza terapeutica che comincia con IFN 44 mcg, per poi passare a fingolimod. Tali evidenze di real world dimostrano che l’IFN 44 mcg ha un ruolo importante nell’algoritmo terapeutico della sclerosi multipla, in particolar modo nei pazienti naïve con attività lieve/ moderata di malattia, in considerazione dei suoi effetti sugli outcome


congressi a lungo termine, in particolare sulla progressione di disabilità. Farmaci ben noti, ma anche molecole nuove: Pietro Annovazzi di Milano ha centrato il suo intervento sulla cladribina compresse, da poco disponibile per il trattamento della SM recidivante ad elevata attività. Una molecola dal percorso registrativo lungo, che è stata definitivamente approvata lo scorso anno da EMA. Il farmaco agisce selettivamente dopo attivazione all’interno dei linfociti T e B. La molecola attivata induce apoptosi e non lisi cellulare. Questo aspetto la differenzia da molti altri farmaci approvati per la SM e spiega l’ottimo profilo di tollerabilità del farmaco. Dal punto di vista dell’efficacia, gli studi clinici hanno permesso di avere a disposizione dati su pazienti che hanno una storia di trattamento e poi di osservazione molto lunga senza trattamento. Quel che emerge è che cladribina compresse mantiene un’efficacia prolungata sui parametri clinici, di risonanza e sul NEDA anche nei pazienti non trattati (studio CLARITY EXTENSION). I dati sulla sicurezza, confermati anche da quanto presentato al recente congresso ECTRIMS, mostrano la linfopenia legata al meccanismo d’azione e il rischio infettivo conseguente (herpes virus) come aree di attenzione (sotto i 500 linfociti/mm3). Per quanto riguarda il rischio di neoplasie, spiega Annovazzi “i dati mostrano che l’incidenza di neoplasia è la stessa rispetto alla popolazione generale mondiale con stessa età e periodo di osservazione e la frequenza non aumenta nel follow up, e questo è importante. Un altro dato importante per la sicurezza è che non c’è un tropismo”. In merito alla pratica clinica e la selezione del paziente, continua Annovazzi, “ritengo che, per il prolungato effetto, sia sicuramente un ottimo farmaco dal punto di vista induttivo come prima terapia e che, visti anche i dati sui pazienti non responder, possa ave-

re lo spazio nella ripresa di malattia dopo la prima linea di trattamento”. In merito allo screening dei pazienti, è consigliabile una risonanza magnetica al basale, test per HIV, HCV, HPV, varicella, quantiferon, pap test, emocromo, funzionalità renale e funzionalità epatica (tenendo conto che le controindicazioni riguardano solo una compromissione renale ed epatica severa). Se il paziente non è immune alla varicella è opportuna la vaccinazione, e dopo 6 settimane dall’ultima dose può assumere il farmaco; se è quantiferon-positivo con TBC latente, non c’è controindicazione assoluta: può affrontare la terapia eradicante e dopo un mese iniziare l’assunzione di cladribina compresse. Il farmaco è controindicato nei casi di neoplasia maligna attiva, “considerando i dati presentati” aggiunge Annnovazzi “anche per questo farmaco non mi sento di raccomandare altro se non lo screening raccomandato per età e sesso nella popolazione generale”. Per quanto concerne la modalità di somministrazione, dipende anche dal peso del soggetto: un ciclo di farmaco nel primo mese, un ciclo al secondo mese; poi, al secondo anno, un nuovo ciclo e un altro a distanza di un mese; a seconda del peso, si va da minimo 4 cpr in cinque giorni per i pesi “piuma” fino a un massimo di 10 cpr per i pesi massimi, sopra i 110 Kg. “Nel nostro Centro”, spiega Annovazzi, “per monitorare il paziente facciamo un controllo regolare dell’emocromo due mesi dopo il ciclo di terapia e sei mesi dopo; in presenza di una linfopenia di grado 3, cioè sotto i 500 linfociti/ mm3, monitoriamo il paziente più intensamente, cioè una volta al mese. Oltre a ciò effettuiamo anche un emocromo tra il primo e il secondo ciclo di compresse del primo anno” . Annovazzi ha concluso sottolineando che le evidenze disponibili suggeriscono che cladribina compresse presenta caratteristiche farmacocineti-

che e farmacodinamiche ideali per il trattamento di una patologia come la SM, con un grande potenziale induttivo a lungo termine, un profilo di sicurezza con dati corposi e un burden minimo per il paziente e il centro. Il “take home message” dunque, è attuare una personalizzazione del trattamento. Come ha ricordato nel suo intervento Lucia Moiola, di Milano “Occorre scegliere i diversi trattamenti per le differenti fasi di malattia, avendo sempre come obiettivo ambizioso il NEDA, tenendo conto delle opzioni terapeutiche a disposizione oggi”. È necessario scegliere il farmaco più adatto in quel determinato momento di malattia sulla base dei fattori prognostici, favorevoli e sfavorevoli, dei marker clinici di risposta, come il numero di ricadute, la localizzazione delle lesioni ecc. Occorre tener conto anche di fattori individuali, come le comorbilità, il desiderio di una gravidanza, i disturbi cognitivi, ma anche del profilo di rischio/beneficio dei farmaci. La definizione di algoritmi terapeutici è complessa e sfidante. Con il paziente naïve, bisogna chiedersi se parte con fattori prognostici favorevoli o sfavorevoli. Se sono sfavorevoli, allora si sceglierà un’induction therapy con farmaci con questo potenziale. Se invece sono favorevoli è possibile scegliere una strategia di escalation, partendo da farmaci di prima linea che includono gli immunomodulanti. In tal caso occore seguire il paziente per valutare la risposta clinica e radiologica, e in caso di una progressione di malattia optare per uno switch a terapie di seconda linea, tenendo conto dell’efficacia e della sicurezza di ciascun farmaco nel lungo termine. Per cladribina compresse, i centri italiani stanno raccogliendo i dati disponibili dal follow up degli studi clinici condotti negli anni passati; sarà importante avere a disposizione questi dati per supportare le strategie terapeutiche con dati di real-world.

la neurologia italiana

numero 4 2018

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NEWS farmaci

a vitamina B12, anche nota come cianocobalamina, è un micronutriente essenziale per il corretto metabolismo delle cellule nervose. Insieme all’acido folico, la vitamina B12 è infatti un cofattore fondamentale all’azione dell’enzima metionina sintetasi per le reazioni di metilazione nel sistema nervoso e per garantire l’integrità della guaina mielinica. La carenza di vitamina B12 è caratterizzata da un’associazione di importanti sintomi neurologici, risultati dalla deficitaria sintesi della guaina mielinica. Tale sintomatologia ha un rapido esordio, benché i valori sierici di vitamina B12 possano risultare ancora nella norma, e se non opportunamente trattata si osserva un inesorabile decorso. Tra i principali sintomi si anno-

verano parestesie, deficit della sensibilità profonda, riduzione di riflessi, spasticità muscolare, alterazione dell’umore e disturbi cognitivi; inoltre la valutazione neurologica può individuare una instabilità nella marcia, condizione tipica del deficit di questa vitamina. Recenti studi hanno dimostrato che i principali interventi di chirurgia bariatrica, il regime alimentare vegano e la terapia farmacologica cronica con biguanidi e gastroprotettori, in primis, comportano un’importante alterazione dell’assorbimento fisiologico di vitamina B12. La rivoluzione nel trattamento della carenza di vitamina B12 è rappresentata da una formulazione sublinguale, 1.000 mcg, con assunzione settimanale di efficacia pari o superiore alla terapia parenterale. Tale formulazione ha il vantaggio di essere assorbibile dalla mucosa orale, bypassando l’ostacolo rappresentato dal deficit o dall’assenza del fattore intrinseco, glicoproteina secreta dalle cellule parietali gastriche essenziale per l’assorbimento della vitamina B12. A questo si aggiunge la maggiore compliance da parte del paziente nei confronti di un trattamento sublinguale anziché iniettivo. Un trattamento tempestivo nei soggetti a rischio risulta quindi fondamentale per favorire la regressione della sintomatologia neurologica.

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pharmaelle

La vitamina B12 è indispensabile per l’integrità del sistema nervoso A cura di Diego Cavrenghi

L

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