La Neurologia italiana 2 16

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PEDIATRIA

Sindromi epilettiche da assenza nel bambino Inquadramento clinico e cenni di terapia

> Simona Di Loreto, Carla Greco, Alberto Verrotti •

GERIATRIA

Dolore cronico non oncologico negli anziani Lo stato dell’arte sulla gestione in pazienti con e senza deficit cognitivo

> •

Rosanna Cerbo, Stefano Brauneis, Alice Mannocci

PATOLOGIE RARE

Atassia cerebellare ereditaria

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Uno studio clinico valuta gli effetti della terapia con riluzolo

> Giulia Coarelli, Silvia Romano, Giovanni Ristori et al. •

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Anno XII - n. 2 - 2016

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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it DIRETTORE RESPONSABILE Antonio Scarfoglio DIRETTORE COMMERCIALE Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it ABBONAMENTI Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 REDAZIONE Anastasia Zahova SEGRETERIA DI REDAZIONE Concetta Accarrino HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Angelo Antonini, Stefano Brauneis, Carlo Casali, Rosanna Cerbo, Giulia Coarelli, Simona Di Loreto, Michela Ferraldeschi, Marina Frontali, Carla Greco, Luca Leonardi, Alice Mannocci, Christian Marcotulli, Francesco Orzi, Cesare Peccarisi, Antonio Petrucci, Francesca Piccolo, Federica Ponzelli, Giovanni Ristori, Silvia Romano Marco Salvetti, Maria Spadaro, Nicola Vanacore, Alberto Verrotti, Maria Chiara Vulpiani

SOMMARIO 6

PEDIATRIA

Sindromi epilettiche da assenza nel bambino Inquadramento clinico e cenni di terapia Simona Di Loreto, Carla Greco, Alberto Verrotti

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Dolore cronico non oncologico negli anziani Lo stato dell’arte sulla gestione in pazienti con e senza deficit cognitivo Rosanna Cerbo, Stefano Brauneis, Alice Mannocci

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Giuliano Avanzini, Milano Giorgio Bernardi, Roma Vincenzo Bonavita, Napoli Giancarlo Comi, Milano Ferdinando Cornelio, Milano Fabrizio De Falco, Napoli Paolo Livrea, Bari Mario Manfredi, Roma Corrado Messina, Messina Leandro Provinciali, Ancona Aldo Quattrone, Catanzaro Nicola Rizzuto, Verona Vito Toso, Vicenza

COMITATO DI REDAZIONE Giuliano Avanzini, Milano Alfredo Berardelli, Roma Giovanni Luigi Mancardi, Genova Roberto Sterzi, Milano Gioacchino Tedeschi, Napoli Giuseppe Vita, Messina

PATOLOGIE RARE

Atassia cerebellare ereditaria Uno studio clinico valuta gli effetti della terapia con riluzolo Giulia Coarelli, Silvia Romano, Christian Marcotulli, Luca Leonardi, Francesca Piccolo, Maria Spadaro, Marina Frontali, Michela Ferraldeschi, Maria Chiara Vulpiani, Federica Ponzelli, Marco Salvetti, Francesco Orzi, Antonio Petrucci, Nicola Vanacore, Carlo Casali, Giovanni Ristori

PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE Elda Di Nanno STAMPA Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) COMITATO SCIENTIFICO

GERIATRIA

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PATOLOGIE NEURODEGENERATIVE

Malattia di Parkinson Perché è importante definire la fase “avanzata” della patologia Intervista ad Angelo Antonini

RUBRICH E

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NEWS DALLA LETTERATURA NEWS DAI CONGRESSI NEWS DALLE ASSOCIAZIONI la NEUROLOGIA italiana

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NEWS dalla letteratura P. SARCHIELLI, I. CORBELLI, P. CALABRESI ET AL. AND THE SAMOHA STUDY GROUP

Nei pazienti affetti da cefalea da abuso di farmaci, la valutazione del profilo psichiatrico dovrebbe essere parte integrante del percorso di cura: le conferme da uno studio clinico multicentrico ❱❱❱ European Journal of Neurology 2016; 23: 85-91 La cefalea da abuso di farmaci (MOH) è una condizione clinica estremamente invalidante, con andamento cronico, quasi quotidiano, difficile da gestire. Ha inoltre, un enorme peso a livello di salute pubblica mondiale, sia per i potenziali effetti collaterali dovuti all’uso cronico ed eccessivo dei farmaci sintomatici a livello sistemico, sia per il significativo incremento della patologia nel corso degli ultimi anni. Attualmente il numero di pazienti che giunge all’osservazione del medico per questo disturbo è in crescita, e la MOH è diventata una delle principali sfide nel trattamento delle cefalee. Pur non essendoci linee guida ben definite, l’approccio terapeutico attuale prevede la disintossicazione iniziale o l’interruzione dell’assunzione del farmaco di abuso e la successiva impostazione di un trattamento preventivo. Un problema non trascurabile e che merita di essere approfondito è l’eventuale presenza di disturbi psicopatologici nei pazienti affetti da MOH, e l’impatto che questi potrebbero avere sulla risposta alla terapia e sul rischio di ricadute. Questo studio che ha coinvolto diversi centri distribuiti sul territorio nazionale si colloca proprio in questo ambito, e aveva lo scopo di determinare l’incidenza di disturbi psicopatologici in pazienti con MOH, in confronto a soggetti affetti da emicrania episodica (EM) e soggetti sani (HC). La valutazione psicologica di tutti i partecipanti è stata eseguita attraverso scale e questionari quali, Beck Depression Inventory, Beck Anxiety Inventory, Modified Mini International Neuropsychiatric Interview (M-MINI), Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS) e Leeds Dependence Questionnaire. I gruppi di soggetti esaminati (MOH, 88 pz.; EM, 129; HC, 102) differivano significativamente per la presenza di ansia moderata/severa. Il riscontro di disturbi dell’umore e depressione si è rivelato simile nei

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soggetti MOH e in quelli EM. Sulla base dei risultati alla M-MINI, stratificati per il numero di disturbi psichiatrici, è stato rilevato come i pazienti con cefalea da abuso avessero un profilo di comorbidità psichiatriche molto complesso. Inoltre, i disturbi ossessivo-compulsivi legati all’abuso di farmaci, evidenziati dalla Y-BOCS, erano molto più rappresentati nei pazienti MOH, laddove per questo tipo di disturbi la prevalenza è risultata simile nei soggetti EM e nei controlli (12,5 per cento, 0,8 per cento e 0 per cento, rispettivamente). Lo studio dunque individua la presenza multipla di comorbidità psicopatologiche nei pazienti MOH. Su queste basi, gli Autori suggeriscono che lo studio del profilo psichiatrico venga incluso nel percorso di valutazione dei soggetti affetti da MOH, in modo da poter attuare una terapia comportamentale tempestiva che a sua volta potrebbe ripercuotersi in maniera favorevole sul trattamento e sulla gestione della cefalea da abuso. S. LATTANZI, C. CAGNETTI, M. SILVESTRINI ET AL.

Brivaracetam in “add-on” mostra un favorevole profilo di efficacia e sicurezza in pazienti adulti affetti da epilessia focale farmaco-resistente ❱❱❱ Neurology 2016; 86 (14): 1344-1352 Brivaracetam (BRV) è un farmaco antiepilettico di recente approvazione da parte dell’Ema come terapia aggiuntiva per il trattamento delle crisi parziali, con o senza generalizzazioni secondarie nei pazienti con epilessia farmaco-resistente, di oltre 16 anni di età. In questo lavoro, gli Autori hanno condotto una metanalisi per valutare il profilo di efficacia e tollerabilità di BRV sulla base dei dati disponibili in letteratura. Sono stati selezionati gli studi con disegno randomizzato, controllato verso placebo in singolo o in doppio cieco, condotti con BRV in soggetti adulti affetti da epilessia farmaco-resistente. Gli outcome presi in esame erano rappresentati da riduzione del 50 per cento o più nella frequenza delle crisi (responder al 50 per cento), libertà dalle crisi, incidenza di eventi avversi gravi correlati alla terapia, abbandono del trattamento. Per ciascun outcome è stato calcolato il risk ratio (RR) con intervallo di confidenza al 95 per cento. La metanalisi ha incluso sei trial per un totale di 2.399 partecipanti (analisi intent to treat): 1.715 per BRV


NEWS e 684 per il gruppo placebo. Per quanto riguarda la riduzione al 50 per cento o più nella frequenza delle crisi, e la libertà dalle crisi, i valori “combinati” di RR calcolati sono risultati 1,79 (1,51-2,12) per il gruppo BRV e 4,74 (2,00-11,25) per il gruppo placebo. Gli Autori hanno condotto anche una sottoanalisi rispetto allo status per il levetiracetam (LEV): in questo caso nei pazienti che facevano un concomitante uso del farmaco non sono state osservate differenze significative tra il gruppo BRV e placebo per quel che riguarda il tasso di risposta al 50 per cento. Sul fronte della tollerabilità, gli eventi avversi più comunemente associati al trattamento con BRV

sono risultati irritabilità (2,99, 1,28-6,97), stanchezza (2,19, 1,44-3,33), sonnolenza (1,97, 1,45-2,68) e capogiri (1,66, 1,19-2,31). I valori di rischio complessivi per abbandono del trattamento a causa di eventi avversi o per altre ragioni sono risultati rispettivamente 1,58 (1,04-2,40) e 1,27 (0,93-1,73). Questa metanalisi sottolinea in conclusione, che negli adulti con epilessia focale farmaco-resistente, brivaracetam in add-on si mostra efficace nel ridurre la frequenza delle crisi e sembra ben tollerato. Servono tuttavia ulteriori studi per valutarne il profilo di sicurezza sul lungo periodo come anche l’efficacia in pazienti “non LEV naïve”.

E. PALMA, J.M. REYES-RUIZ, M. INGHILLERI ET AL.

Uno studio per la prima volta identifica il muscolo come possibile target terapeutico nella sclerosi laterale amiotrofica ❱❱❱ Proceedings of the National Academy of Sciences 2016; 113 (11): 3060-5 La sclerosi laterale amiotrofica (SLA) non solo patologia del motoneurone: una ricerca di recente pubblicazione individua un ruolo nella patogenesi di questa temibile (e fatale) malattia anche per il muscolo, e dunque quest’ultimo per la prima volta viene preso in considerazione come possibile target terapeutico. Per la SLA come ben noto non ci sono attualmente cure, e il meccanismo che conduce alla sua manifestazione è ancora poco chiaro. Da anni la ricerca è impegnata nel tentativo di chiarire quali siano i fattori patogenetici implicati, e il sospetto che non fosse solo una patologia del motoneurone in realtà era già emerso. È certo comunque che si tratta di una patologia neurodegenerativa che provoca una paralisi progressiva e irreversibile della muscolatura, con perdita della normale capacità di deglutizione, articolazione della parola e del controllo dei muscoli scheletrici, fino ad arrivare alla compromissione dei muscoli respiratori e al blocco respiratorio. Questo lavoro è frutto di una collaborazione tra Università La Sapienza di Roma, Fondazione Ri.MED, Irccs San Raffaele Pisana e Università della California. Partendo dalle descrizioni di alcune alterazioni muscolari che precedono le anomalie dei motoneuroni, presso il Policlinico Umberto I sono stati arruolati 76 pazienti con SLA e 17 pazienti con un quadro di denervazione causato da altre patologie. È stata utilizzata una tecnica particolarmente innovativa basata sul microtrapianto di membrane muscolari, ottenute da biopsie effettuate da muscoli dei pazienti, in cellule uovo di una rana sudafricana (Xenopus), che ha la capacità di fondere le membrane umane esponendo tutte le proteine native sulla membrana. Inoltre con l’utilizzo di specifiche tecniche elettrofisiologiche, è stato possibile studiare le correnti dovute all’attivazione dei recettori muscolari e gli effetti di un endocannabinoide, la palmitoiletanolamide (PEA), il cui effetto sulla forza muscolare di un singolo paziente affetto da SLA era stato precedentemente dimostrato. L’ipotesi era che la PEA potesse potenziare l’attività dei muscoli che restano continuamente stimolati, come sono quelli respiratori. I risultati raggiunti hanno dimostrato come la PEA sia in grado di ridurre nei pazienti il declino della capacità vitale forzata, con significativo miglioramento della performance respiratoria. Quanto ottenuto in questo lavoro rafforza dunque l’ipotesi che il muscolo partecipi all’evoluzione della SLA, indicandolo come possibile nuovo target terapeutico e suggerendo la necessità di ricercare anche nel muscolo, e non solo nei motoneuroni, i marcatori patologici in fase pre-sintomatica di malattia.

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PEDIATRIA

SINDROMI EPILETTICHE da ASSENZA nel BAMBINO Inquadramento clinico e cenni di terapia Le sindromi da assenza costituiscono un gruppo eterogeneo di disturbi, con prognosi generalmente benigna. Una volta effettuata la diagnosi, la terapia di prima scelta è ancora oggi rappresentata dal valproato, preferibilmente ad assorbimento ritardato, e dall’etosuccimide che mostrano una percentuale di successo intorno all’85 per cento

Simona Di Loreto*, Carla Greco*, Alberto Verrotti* *Clinica Pediatrica, Università degli Studi dell’Aquila

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l termine epilessia deriva dal verbo greco epilambanein (“essere colti di sorpresa”), indicando una reazione del sistema nervoso centrale (SNC) a stimoli differenti e rappresenta uno dei disturbi neurologici più comuni, in particolare nell’infanzia e nell’adolescenza. Le prime descrizioni delle assenze, risalenti al 1705, sono di Poupart e di Tissot nel 1770, sebbene la prima analisi elettroencefalografica è stata effettuata nel 1935, quando Gibbs, Davis e Lennox descrissero la presenza di scariche di complessi punta-onda con frequenza di 3 Hz. Tale forma epilettica è stata introdotta nella classificazione internazionale delle crisi epilettiche della International League Against Epilepsy (ILAE) nel 1981: tale classificazione distinse in maniera dettagliata le crisi di assenza tipiche (CAT), indicative di un’epilessia generalizzata idiopatica, dalle crisi di assenza atipiche, riscontrate nelle epilessie generalizzate secondarie o sintomatiche. Inoltre, tutte le epilessie con CAT vennero riunite sotto la denominazione di “epilessie centro-encefaliche”. Nel 1989 e successivamente nel 2009, la commissione ILAE ha riconosciuto l’eterogeneità di tali disturbi e proposto la distinzione di tre sindromi epilettiche generalizzate idiopatiche: i) epilessia-assenza dell’infanzia (EAI), ii) epilessia-assenza giovanile (EAG) e iii) epilessia mioclonica giovanile (EMG) (1).

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DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE Si definiscono crisi di assenza gli episodi di improvvisa e transitoria perdita completa di contatto con l’ambiente circostante, talvolta accompagnati da automatismi, della durata di pochi secondi e ripetibili numerose volte durante la giornata. Possono rappresentare l’unica manifestazione clinica di questa forma di epilessia (come nel caso dell’epilessia-assenza dell’infanzia) oppure possono coesistere con altri tipi di crisi in specifiche sindromi epilettiche. Vengono classificate, in base al pattern elettroclinico, in assenze “tipiche”, “atipiche” e “assenze con caratteristiche peculiari” (assenza mioclonica e assenza con mioclonie palpebrali) (Tabella 1) (1). Le più comuni sono le assenza tipiche e si manifestano in bambini con normale sviluppo psicomotorio. Gli episodi critici cominciano e terminano bruscamente, durano da 4 a 20 secondi e non si accompagnano né sono precedute da aura né sono seguite da fenomeni postcritici. Talvolta, oltre alla perdita di coscienza con fissità dello sguardo, possono associarsi manifestazioni minori quali automatismi, clonie e movimenti tonici. Esse presentano un tipico pattern EEG caratterizzato da scariche bilaterali di complessi punta-onda alla frequenza di 3-4 Hz, sincrone e simmetriche. Le assenze atipiche hanno una diversa presentazione elet-


troclinica rispetto alle precedenti e solitamente, insorgono in bambini con deficit neurologici o con lesioni cerebrali preesistenti; hanno un’insorgenza meno brusca, una durata maggiore e una più pronunciata alterazione del tono muscolare, con comparsa di crisi atoniche, cloniche e miocloniche. All’EEG si possono osservare complessi punta-onda a frequenza minore (1,5-2,5 Hz), spesso irregolari e asimmetrici. La differenziazione delle crisi tipiche e atipiche è importante in quanto i due quadri clinici differiscono sia per storia naturale che per risposta a specifici trattamenti. Le sindromi epilettiche che presentano crisi di assenza tipiche sono l’epilessia con assenza dell’infanzia (EAI), l’epilessia con assenza giovanile (EAG), l’epilessia mioclonica giovanile (EMG) e l’epilessia con assenze miocloniche (EAM). Inoltre, dati recenti di letteratura descrivono casi di assenza insorti in bambini di età inferiore ai 4 anni, i quali potrebbero costituire una sindrome a sé stante definita “epilessia-assenza a esordio precoce” (2). w Epilessia-assenza dell’infanzia (EAI) In passato descritta come “petit mal” o picnolessia, per l’elevata frequenza e incombenza delle crisi, è una forma di epilessia generalizzata idiopatica, benigna, tipica dell’età infantile, più frequente nel sesso femminile (11,4 vs 2,5 per cento), con patogenesi geneticamente determinata. Si manifesta in bambini senza problemi neurologici e rappresenta il 10-17 per cento delle epilessie diagnosticate in età infantile (3). L’età di comparsa è abitualmente tra 4 e 10 anni, con un picco d’incidenza a 5-7 anni. La caratteristica essenziale delle crisi di assenza è la perdita di coscienza: la maggior parte dei bambini affetti ha un completo arresto delle funzioni. Nel periodo immediatamente antecedente la crisi, possono evidenziarsi lievi alterazioni, ma il concetto di deficit perictali transitori è ancora dibattuto (4). Le crisi sono assai frequenti nell’arco della giornata, a volte fino a 200 crisi al giorno. Gli automatismi sono frequenti nell’EAI e sono osservati soprattutto durante l’iperventilazione (IPV): sono prevalentemente movimenti periorali e simili per lo stesso bambino. Tuttavia, tali movimenti ripetitivi non sono presenti in tutte le crisi, anche in uno stesso bambino, e la loro presenza non è influenzata dall’età o stato di coscienza (5). Lievi movimenti tonici o clonici possono verificarsi all’inizio della crisi, senza alterazione del tono muscolare. Tra i fenomeni neurovegetativi, il pallore è comune, mentre l’incontinenza urinaria è un evento eccezionale. In una piccola percentuale di pazienti, si possono manifestare mioclonie periorali o spasmi singoli e aritmici degli arti, della testa o del tronco durante le crisi (6). La durata degli episodi critici è influenzata da fattori come eventi trigger, quali IPV e stimolazione luminosa intermittente (SLI), stato di eccitazione, privazione del sonno, assunzione di farmaci e fattori individuali (7).

TABELLA 1 CLASSIFICAZIONE DELLE CRISI CRISI GENERALIZZATE (senza apparente origine focale) TONICO-CLONICHE ASSENZA • Tipica • Atipica • Assenze con caratteristiche peculiari • Assenza mioclonica • Mioclonia palpebrale MIOCLONICHE • Mioclonica senza modificazione del tono muscolare • Mioclonica atonica • Mioclonica tonica CLONICA TONICA ATONICA CRISI FOCALI (parziali) SCONOSCIUTE SPASMO EPILETTICO

Le crisi di durata inferiore a 4 secondi o superiore a 30 non sono definibili come assenze tipiche. Tuttavia, tutti i bambini con crisi di assenza con esordio focale hanno poi manifestato nel tempo crisi con esordio generalizzato (7). Pertanto, sono stati proposti tra i criteri di esclusione la presenza di crisi con caratteristiche cliniche differenti dalle assenze tipiche, come le crisi tonico-cloniche generalizzate (CTCG) o mioclonie, prima o durante la fase attiva delle assenze, la presenza di mioclonie periorali o palpebrali e singole scosse con violenta intensità (Tabella 2). L’ILAE riconosce come entità distinte sia l’epilessia-assenza mioclonica (EAM) che l’epilessia mioclonica giovanile (EMG), escludendo dalle EAI le crisi di assenza con eventi mioclonici o le assenze di lieve entità; definisce, inoltre, come categoria distinta le crisi di assenza riflesse, che sono innescate da stimoli specifici come la SLI (1). L’esame neurologico e il quadro cognitivo dei pazienti risultano normali. Il tipico pattern EEG, rilevabile in circa il 50 per cento dei pazienti, è caratterizzato da scariche sincrone e simmetriche bilaterali di complessi punta-onda con frequenza di 3 Hz che iniziano e terminano bruscamente; spesso si osserva un recupero delle funzioni verso la fine delle crisi e, talvolta, queste possono essere inizialmente risparmiate (8). Le scariche possono sviluppare un certo grado di irregolarità soprattutto alla fine della crisi, in particolare durante la la NEUROLOGIA italiana

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PEDIATRIA

TABELLA 2

EPILESSIA-ASSENZA DELL’INFANZIA: CRITERI DI INCLUSIONE ED ESCLUSIONE CRITERI D’INCLUSIONE PER EAI

1. Età all’esordio tra i 4 e i 10 anni, picco a 5-7 anni 2. Normale sviluppo psicomotorio 3. Crisi di assenza brevi (4-20 sec) e frequenti, con improvvisa e severa perdita transitoria di coscienza. Automatismi possibili, ma privi di significato diagnostico. Sono ammesse lievi mioclonie palpebrali e oculari

4. EEG-critico: scariche generalizzate di complessi punta-onda a frequenza 3 Hz con durata variabile da 4 a 20 secondi CRITERI DI ESCLUSIONE PER EAI

1. Modesta o lieve perdita transitoria di coscienza 2. Durata <4 secondi 3. Fotosensibilità clinicamente significativa 4. Scariche di polipunte-onda lenta con frequenza >2,5 Hz con frammentazioni 5. Crisi cloniche o miocloniche severe durante l’assenza sonnolenza, il sonno e l’IPV: in queste circostanze, onde lente o complessi di diversa frequenza, morfologia e/o brevità o la transitoria interruzione delle scariche possono alterare l’EEG. IPV e SLI inducono le crisi di assenza, rispettivamente in circa l’83 e il 21 per cento dei casi. L’EEG interictale è caratterizzato da una normale attività di fondo. Scariche epilettiformi interictali a carattere focale possono essere presenti non solo nelle zone centrali, ma anche in regione frontale, temporale e parietale (7, 9). Altra anomalia registrabile nell’EEG interictale è l’attività delta ritmica intermittente in regione occipitale, descritta anche come attività delta bilaterale ritmica posteriore: essa è caratterizzata da burst ritmici con frequenza 2,5-4 Hz sopra le regioni occipitali, che si amplificano in corso di IPV e sonnolenza e si attenuano con l’apertura degli occhi e con il sonno profondo (7, 10). Infine, la presenza di picchi multipli, parossismi di punta-onda di 3-4 Hz della durata inferiore a 4 secondi, oppure scariche ictali frammentate non sono pattern tipici delle EAI e possono suggerire una peggiore prognosi. w Epilessia-assenza giovanile (EAG) L’esordio avviene in età puberale (9-13 anni) e vi è uguale distribuzione fra i sessi. È caratterizzata da crisi di assenza tipiche, con caratteristiche cliniche simili all’EAI, sebbene siano state rilevate piccole differenze quali una minore perdita di contatto con l’ambiente, un minor riscontro dell’apertura spontanea degli occhi durante la crisi e movimenti di retropulsione. Inoltre la frequenza delle crisi è minore nell’arco della giornata (1-10 volte) rispetto all’EAI, ma la durata è

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maggiore, con frammentazione delle scariche. Le crisi possono essere scatenate dalla privazione di sonno e/o dall’IPV. Nell’80 per cento dei casi si associano CTCG, spesso precedenti la comparsa delle assenze, presenti tipicamente al risveglio; inoltre nel 20 per cento dei casi sono presenti spasmi mioclonici. L’EEG intercritico è normale, con brevi burst di punta-onda o polipunta-onda. L’EEG critico mostra scariche di puntaonda a prevalenza frontale a 3,5-4 Hz (più rapide rispetto all’EAI), e frequenti grafoelementi polipunta-onda lenta. La prognosi è buona nella maggior parte dei casi e, nonostante l’associazione con CTCG possa considerarsi un fattore prognostico sfavorevole, l’uso dell’acido valproico, ed eventualmente della lamotrigina, permette un buon controllo delle crisi (10). w Epilessia mioclonica giovanile o sindrome di Janz L’esordio avviene in età puberale (12-18 anni). La sindrome è caratterizzata da crisi miocloniche massive, bilaterali, aritmiche e irregolari, con presentazione singola o a grappoli, senza perdita di coscienza. Le mioclonie interessano maggiormente gli arti superiori, causando la caduta degli oggetti dalle mani, e sono più frequenti al mattino. Nell’80-95 per cento dei casi, precedute o meno da mioclonie, possono anche associarsi CTCG. È descritta l’EMG con esordio prima dei 10 anni (30 per cento dei casi), caratterizzata da crisi d’assenza atipica, di breve durata, con perdita di contatto con l’ambiente circo-


stante di grado lieve-moderato e tipici complessi punta-onda e polipunte-onda irregolari a 3-4 Hz all’EEG critico. L’EEG intercritico è normale, anche se durante la fase di risveglio o di addormentamento si possono registrare brevi gruppi di complessi punta-onda o polipunte-onda generalizzati e irregolari. L’EEG critico è rappresentato da burst generalizzati di polipunte a 10-16 Hz, di medio-ampio voltaggio, seguiti da brevi sequenze di onde lente a 1-3 Hz. Generalmente i pazienti presentano uno sviluppo psicomotorio e neurologico normale. La terapia prevede l’uso di acido valproico in monoterapia, con una buona prognosi nell’80-90 per cento dei casi, senza possibilità di interruzione del trattamento: è infatti accertato come la sospensione determini ricadute nella quasi totalità dei casi (11). w Epilessia con assenze miocloniche (EAM) L’esordio avviene tra 1 e 12 anni, con un picco d’incidenza intorno ai 7 anni. Si caratterizza per la presenza di crisi d’assenza con distacco dall’ambiente, di entità variabile, associato a spasmi mioclonici violenti e bilaterali, soprattutto a carico degli arti, con frequente contrattura tonica prossimale. Le crisi d’assenza inizialmente possono essere l’unica presentazione clinica della malattia, con frequenza elevata, fino a dieci volte in una giornata. Nel 14 per cento dei casi possono insorgere nel sonno, risvegliando il paziente, e possono essere indotte dalla SLI. L’EEG intercritico può essere normale, anche se in un terzo dei casi può mostrare sequenze punta-onda generalizzate. L’EEG critico è rappresentato da complessi punta-onda bilaterali, simmetrici e sincroni a 3 Hz (11). È importante la diagnosi differenziale con l’EAI, poiché la prognosi è meno favorevole data la resistenza al trattamento. I pazienti possono manifestare ritardo mentale e bisogna infine considerare che l’EAM può evolvere verso altre sindromi epilettiche, quali la EMG o la Sindrome di Lennox-Gastaut (10).

EPIDEMIOLOGIA In questo eterogeneo gruppo di forme sindromiche caratteristica comune è la correlazione con l’età e la loro distribuzione risulta variabile in base alla popolazione selezionata. Il tasso di incidenza dell’EAI è stimato all’incirca pari a 6 per 100.000, mentre la prevalenza è compresa in un range di 0,4-0,7 per 1.000, in una coorte di esclusivi pazienti pediatrici. Tranne alcune eccezioni, EAI sono più frequenti nelle femmine (M/F 2:5). L’epidemiologia dell’EAG rimane a oggi in parte misconosciuta in quanto sottodiagnosticata: apparentemente meno frequente delle altre forme, rappresenta lo 0,2-2,4 per cento di alcune coorti, mentre la prevalenza stimata è 0,1 per 1.000, circa il 20 per cento di epilessie generalizzate idiopatiche. L’esatta frequenza della EMG è spesso difficile da valutare, in quanto tale diagnosi è il più delle volte tardiva o retro-

spettiva. L’incidenza stimata è circa 1 per 100.000 e la prevalenza varia da 0,1-0,2 per 1.000. La frequenza in grandi coorti di pazienti è stimata tra il 5 e il 10 per cento (12).

PATOGENESI E GENETICA Esperimenti su modelli animali hanno rivelato che il talamo e la corteccia sono entrambi coinvolti nella generazione di scariche di onde lente (13). La rete talamocorticale è costituita da tre componenti principali: (i) neuroni talamo-corticali dei nuclei di relè; (ii) le cellule piramidali del VI strato della corteccia; (iii) i neuroni GABAergici inibitori del nucleo reticolare del talamo (nRT) (4). Quando il circuito talamocorticale funziona correttamente, si verifica una raffica di oscillazioni sincronizzate con una frequenza di circa 10 Hz. In tale circuito, si generano potenziali post-sinaptici eccitatori nei neuroni GABAergici del nRT mediati da recettori NMDA (N-Metil-D-Aspartato) e non-NMDA. I canali del calcio a bassa soglia nei neuroni del nRT vengono attivati, portando alla apertura di canali sodio e avviando i potenziali d’azione. L’attivazione neuronale inibitoria induce potenziali post-sinaptici inibitori (IPSPs) nei neuroni talamo-corticali, mediata dai recettori GABAA. Durante questo stato di iperpolarizzazione, i canali del calcio a bassa soglia dei neuroni talamocorticali recuperano la loro inattivazione. I canali calcio si aprono, depolarizzano la membrana, rendendo così le cellule disponibili per la prossima scarica di potenziali d’azione. L’anormale attività di questo circuito interrompe l’alternanza di cicli eccitatori e inibitori, generando complessi punta-onda con frequenza 3-4 Hz. Oltre alle possibili anomalie nella corteccia o nelle regioni talamocorticali, sono descritti altri meccanismi che spiegano la generazione di scariche punta-onda anormali: ad esempio, la perdita dell’inibizione mediata dai recettori GABAA delle cellule reticolari del talamo induce queste cellule a produrre IPSPs più lunghi nelle cellule talamo-corticali mediati dai recettori GABAB e aumenta la bassa soglia di ioni Ca2+ (14). Analisi genetiche, effettuate sia su pazienti che in modelli animali, hanno rivelato mutazioni e suscettibilità alleliche di geni che codificano per le subunità dei recettori GABA e per i canali Ca2+. Sfortunatamente, la maggior parte di queste alterazioni sono rare e limitate a un ristretto numero di pazienti. I complessi fattori genetici coinvolti nell’attivazione delle crisi di assenza sono ancora poco chiari. Tuttavia negli ultimi anni, la ricerca di tali fattori genetici si è evoluta e l’attenzione si è focalizzata anche verso geni codificanti per canali non ionici e per nuovi approcci, come lo studio delle variazioni del numero di copie, delle alterazioni epigenetiche e del sequenziamento dell’esoma.

PROGNOSI E TERAPIA Nonostante la prognosi delle sindromi epilettiche da assenza sia complessivamente benigna, vi sono opinioni discordanti, la NEUROLOGIA italiana

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PEDIATRIA poiché la letteratura risulta carente di una casistica di follow-up a distanza confrontabile e selezionata con criteri univoci (15) . Inoltre, nel 30-50 per cento dei pazienti non trattati, è possibile la comparsa di crisi di assenza durante l’adolescenza e nell’età adulta, e la comparsa di CTCG è allora quasi una costante. D’altro canto, da uno studio effettuato su un gruppo eterogeneo di pazienti affetti da EAI e EAG, di cui il 69 per cento dei casi responsivi al trattamento anticonvulsivante iniziale, si evidenziava una completa remissione clinica in tale sottopopolazione (15, 16). Nei pazienti in cui la diagnosi viene tempestivamente formulata e nei quali la terapia risulta efficace rapidamente nel controllare le crisi e nel normalizzare l’EEG, dopo due anni di benessere è possibile ridurre gradualmente il trattamento nell’arco di un anno, fino a completa interruzione, effettuando controlli elettroencefalografici durante tale riduzio-

LE PRIME DESCRIZIONI DELLE ASSENZE RISALGONO AL 1700, MENTRE LA PRIMA ANALISI ELETTROENCEFALOGRAFICA È STATA EFFETTUATA NEL 1935 DA GIBBS, DAVIS E LENNOX ne del dosaggio. La terapia di prima scelta è ancora oggi il valproato (20-30 mg/kg/die), possibilmente ad assorbimento ritardato, con raggiungimento della dose definitiva in maniera graduale sulla base della clinica e dell’EEG. Esistono due forme di valproato utilizzabili, il divalproato e l’acido valproico, tra loro equivalenti farmacologicamente. Tale farmaco è efficace in oltre il 70 per cento dei casi di EA (17). In caso di risposta assente o incompleta al valproato, possono risultare altrettanto efficaci sia l’etosuccimide (20-30 mg/ kg/die) che la lamotrigina (5-10 mg/kg/die). Valproato ed etosuccimide sono insieme la terapia di prima linea nell’EA, mostrando una percentuale di successo in monoterapia pari all’85 per cento. Una recente revisione della letteratura sottolinea la sovrapponibilità dei due trattamenti in termini di efficacia: l’uso dell’etosuccimide è limitato soltanto per la scarsa risposta in caso di CTCG. È ampiamente dimostrata l’efficacia della lamotrigina nel trattamento delle EA. In uno studio attuale è stata comparata l’efficacia della lamotrigina e del valproato in monoterapia di prima linea nelle EA: entrambi i trattamenti sono risultati ugualmente efficaci, nonostante il controllo delle crisi sia risultato più rapido nei pazienti trattati con valproato, fenomeno attribuibile alla più rapida titolazione del valproato rispetto alla lamotrigina (18).

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Il levetiracetam può essere considerato come una valida alternativa in monoterapia, risultando particolarmente efficace nelle epilessie generalizzate: studi condotti su popolazioni pediatriche hanno dimostrato una riduzione delle crisi in oltre il 50 per cento dei casi, con una percentuale di effetti avversi compresa tra il 10 e il 30 per cento (19).

EPILESSIA-ASSENZA A ESORDIO PRECOCE L’epilessia-assenza a esordio prima dei quattro anni di vita (EAEP) è una forma rara, caratterizzata da crisi di assenza tipica, analizzata negli ultimi anni da diversi studi, ma non ancora considerata nella classificazione delle sindromi epilettiche (20). Rappresenta meno dell’1 per cento delle epilessie che si manifestano prima dei tre anni di vita, ma potrebbe comprendere circa il 9-14 per cento dei pazienti considerati affetti da EAI. Insorge generalmente tra i 12 e i 36 mesi, coinvolgendo nella stessa misura entrambi i sessi (21). I bambini presentano uno sviluppo psicomotorio nella norma e un normale esame obiettivo neurologico. Alcuni pazienti presentano storia familiare di epilessia o di convulsioni febbrili. Le crisi, caratterizzate da brusca e importante perdita di contatto con l’ambiente, sono frequenti (diverse nel corso nella giornata) e di breve durata (2-10 secondi); a volte, possono essere associate a deviazione dello sguardo verso l’alto, lievi mioclonie delle sopracciglia e flessione in avanti del capo e delle spalle. L’EEG presenta complessi punta-onda a 3-4 Hz, bilaterali, regolari, simmetrici e generalizzati. L’ampiezza dei complessi punta-onda aumenta durante la crisi e si riduce bruscamente verso la fine della stessa. Può essere presente un lieve rallentamento transitorio dell’attività di fondo, prima e al termine della crisi. Sono stati inoltre riportati parossismi generalizzati irregolari di polipunta-onda, seguiti da complessi punta-onda burst ritmici di onde delta occipitali. L’EEG intercritico mostra una normale attività di fondo (22). La diagnostica per immagini non mostra significative anomalie. L’uso di acido valproico in monoterapia è efficace nella maggior parte dei casi, mostrando una buona prognosi a lungo termine, con scomparsa delle crisi e remissione completa; solo in alcuni casi è necessario associare un secondo farmaco (etosuccimide). Ciononostante la prognosi è buona, sovrapponibile a quella dell’EAI, e soltanto alcuni casi presentano recidive a distanza (23). Sono presenti in letteratura diversi studi volti a valutare la correlazione tra l’EAEP e la mutazione del gene SCL2A1, che codifica per il trasportatore di glucosio GLUT1: solo in una minoranza di studi ne è stata rilevata la presenza (10 per cento), mentre i restanti hanno dimostrato l’assenza di tale mutazione (24, 25).


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GERIATRIA

DOLORE CRONICO non ONCOLOGICO negli ANZIANI Lo stato dell’arte sulla gestione in pazienti con e senza deficit cognitivo I risultati di uno studio multicentrico italiano, condotto in RSA, mostrano come la rilevazione del dolore e l’appropriatezza terapeutica delle forme croniche siano ancora carenti Rosanna Cerbo1, Stefano Brauneis1, Alice Mannocci2 1. Centro Hub Terapia del dolore Policlinico Umberto I, Sapienza Università di Roma 2. Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, Sapienza Università di Roma

I

costi socio-economici sono molto elevati: con 8 milioni di pazienti con dolore cronico la spesa per il Servizio Sanitario Nazionale è pari a 11,2 miliardi di euro, corrispondente a circa il 10 per cento della spesa sanitaria pubblica complessiva. Considerando i soli costi diretti quindi a carico del SSN (farmaci, ricoveri, diagnostica per paziente), ogni paziente comporta una spesa annua di 1.400 euro. Contemplando anche i costi indiretti (giornate lavorative perse, distacchi definitivi dal lavoro) si arriva a 4.557 euro paziente /anno. Quindi tra costi diretti e indiretti la spesa del dolore cronico in Italia ammonta a 36,4 miliardi all’anno, corrispondenti al 2,3 per cento del PIL (2). Anche il concetto di “cronicità” del dolore è cambiato, non più definito da un criterio temporale “da quanto tempo è presente”, ma da un criterio fisiopatologico: “il dolore è cronico quando la causa che lo ha generato non è più risolvibile e quindi si protrae oltre il normale decorso di una malattia acuta o al di là del tempo di guarigione previsto” (3). Questa nuova concezione del dolore cronico risulta essenziale anche per indirizzare l’appropriatezza della terapia farmacologica. Il dolore cronico risulta interessare una proporzione importante di persone anziane e la sua incidenza aumenta significativamente con l’età. Inoltre per l’elevata prevalenza rappresenta una malattia sociale con un elevato impatto sulla qualità di vita. L’attuale contesto epidemiologico che vede l’Italia

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con una popolazione generale sempre più anziana (Paese europeo con la più alta quota di over 65) e un aumento di persone con deficit cognitivo, esalta questo problema. Una recente indagine Demoskopea/Mundipharma su persone tra 60 e 80 anni ha evidenziato che il 74 per cento degli intervistati prova dolore cronico severo e che, nel 50 per cento dei casi il dolore limita in tutto o in parte le attività quotidiane (4). Nello studio emerge che le cause di dolore cronico più frequenti sono rappresentate da lombosciatalgia (40 per cento), artrosi (37 per cento), mal di schiena (36 per cento), cervicalgia (21 per cento), esiti di fratture (14 per cento) e solo il 3 per cento da neoplasie. Inoltre si osserva che la tendenza a sottovalutare il problema è diffusissima non solo tra i medici, ma anche tra gli stessi pazienti e si conferma che il dolore in geriatria è sottoriferito, sottostimato e sottotrattato (5). Relativamente a quest’ultimo aspetto la frequenza di prescrizione di analgesici è inversamente proporzionale all’età del paziente, in qualsiasi setting assistenziale (domicilio, ambulatorio, ricovero, RSA).

LE CRITICITÀ NELLA GESTIONE DEL DOLORE Landi et al. riferiscono che quanto più un soggetto è anziano tanto meno ha possibilità di ricevere farmaci antalgici, so-


FIGURA 1. PAIN ASSESSMENT IN ADVANCED DEMENTIA SCALE (PAINAD) (A) E NUMERICAL RATING SCALE (NRS) (B) 0

1

2

RESPIRO (Indipendente dalla vocalizzazione)

Normale

Respiro a tratti alterato. Brevi periodi di iperventilazione

Respiro alterato. Iperventilazione. Cheyne-Stokes

VOCALIZZAZIONE

Nessuna

Occasionali lamenti. Saltuarie espressioni negative

Ripetuti richiami. Lamenti. Pianto

Sorridente o inespressiva

Triste, ansiosa, contratta

Smorfie

Rilassato

Teso. Movimenti nervosi. Irrequietezza

Rigidità. Agitazione. Ginocchia piegate. Movimento afinalistico, a scatti

Non necessita di consolazione

Distratto o rassicurato da voce o tocco

Inconsolabile; non si distrae né si rassicura

ESPRESSIONE FACCIALE LINGUAGGIO DEL CORPO

CONSOLABILITÀ Fonte: Warden et al., 2003

Punteggi: il punteggio totale varia da 0 a 10 punti. Una possibile interpretazione dei punteggi è 1-3 =dolore lieve; 4-6 =dolore moderato; 7-10 =dolore forte. Questi intervalli sono basati su una scala standard 0-10 di dolore, ma non sono state dimostrate in letteratura per questo strumento

NRS 0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

Nessun dolore

prattutto oppiacei (6). I dati in letteratura segnalano che il 4070 per cento degli anziani con dolore cronico a domicilio, e il 25 per cento con neoplasia non riceve una cura antalgica. In Italia, il 36 per cento dei pazienti anziani con dolore cronico a domicilio ricorre ai medicinali solo al bisogno o, addirittura aspetta che il male passi da solo. La terapia è prescritta per lo più dal Medico di Medicina Generale (MMG) che si basa, in due casi su tre, sul racconto del paziente, senza l’utilizzo di scale di valutazione; inoltre un medico su cinque tende a minimizzare il problema dolore o consiglia di “sopportarlo”. I medici di famiglia sono 7 volte su 10 i primi prescrittori di FANS. Il 75 per cento dei pazienti rivela di assumere FANS a scopo antalgico da oltre 1 anno e quasi la metà degli anziani è costretta ad assumere anche gastroprotettori (4). Il farmaco più utilizzato contro il dolore in strutture assistenziali per anziani è il paracetamolo, seguito da FANS, COX2 e dagli oppioidi deboli (7); la terapia è somministrata quasi sempre “al bisogno”. In uno studio italiano condotto in un reparto geriatrico il 67,3 per cento dei pazienti presentava dolore moderato/severo, di

10 Il dolore più forte immaginabile

cui solo il 49 per cento riceveva terapia analgesica adeguata all’intensità del dolore (8). Lo stesso studio evidenzia che i pazienti con dolore lieve-moderato nel 91 per cento dei casi erano trattati con FANS e solo nel 9 per cento con oppioidi deboli; mentre il dolore moderato o severo era curato rispettivamente con FANS nel 69 e 27 per cento, con oppiacei deboli nel 17 e 36 per cento e solo nel 4 e 36 per cento con oppioidi forti. La gestione terapeutica del dolore cronico negli anziani, oltre alle criticità farmacologiche generali dovute proprio all’età (riduzione dell’indice terapeutico, aumentato rischio di effetti collaterali, ridotta prevedibilità degli effetti clinici), presenta due problematiche specifiche: eccessivo ricorso ai FANS e sottoutilizzo di oppioidi (9). L’eccessivo ricorso ai FANS, di cui l’Italia è tra i maggiori utilizzatori in Europa, provoca il 23 per cento dei ricoveri ospedalieri per eventi avversi da farmaci nella popolazione anziana e l’11 per cento in quella generale. Agli oppiacei si ricorre soltanto nel 6 per cento dei casi, ma si tratta per la totalità di oppioidi deboli, assunti da soli o in associazione a paracetamolo. la NEUROLOGIA italiana

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GERIATRIA Per quanto riguarda la prevalenza del dolore negli anziani con deficit cognitivo in letteratura non vi sono dati soddisfacenti, uno studio del 1984 ha osservato che varia dal 59,08% 60 45 all’80 per cento (14), così come sul management (15). 50 È comunque noto che nei pazienti con demenza la presenza di dolore influisce negativamente sull’attenzione, sulla memoria, 40 sulle funzioni esecutive ed è causa di comparsa o peggioramento di disturbi compor30 tamentali, direttamente correlati con la gravità del deficit cognitivo; quindi il dolore 21,50% 20 deve essere trattato adeguatamente anche per ridurre tali disturbi (16). Per paradosso, 10 8,17% chi sta peggio e dunque comunica peggio, 6,02% 3,01% 1,50% 1,70% è curato meno. Non è dimostrata una signi0 ficativa correlazione tra deficit cognitivo e MS M PT PC N P O prevalenza di dolore, ma è accertato che il dolore influenza più spesso disturbi comNote: dolore oncologico (0); nocicettivo somatico muscolo portamentali nei pazienti con decadimento scheletrico (MS); post-traumatico (PT); post-chirurgico (PC); cognitivo di grado severo rispetto a quelli neuropatico (N); psicogeno (P) e misto (M) di grado moderato (17). Un’ulteriore comFonte: Malara A, Cerbo R et al. Prevalenza del dolore cronico in RSA: plicanza in pazienti dementi è rappresentata studio osservazionale multicentrico. In press dal fatto che alcuni sintomi possono confondere la rilevazione del dolore: un peggioraLa difficoltà di valutare il dolore, la paura di fare danni, la ri- mento dello stato confusionale, dei comportamenti aggressivi luttanza dei familiari alla somministrazione di oppioidi negli possono rappresentare segno di deficit cognitivo o di presenza anziani sono le principali barriere per i MMG alla prescri- di dolore, come il pianto o le lamentazioni possono indicare zione di tali farmaci, ancora di più se in prima battuta e nel uno stato depressivo o dolore moderato/severo. Tali pazienti dolore severo non oncologico (10). possono esprimere il dolore diversamente rispetto a persone Lo studio Pain in Europe (11) evidenzia che il 52 per cento cognitivamente integre, in particolare nelle fasi più avanzate delle persone anziane assume farmaci per il dolore, ma di della malattia. Nella demenza avanzata sebbene le compoquesti il 27 per cento li sospende in modo autonomo: nel 64 nenti discriminative-sensoriali siano conservate, le funzioni per cento dei casi per riferita mancanza di necessità (“riesco a affettive e cognitive che sono correlate alla anticipazione del vivere soffrendo…”, “il dolore non è poi così forte…”) e nel dolore e alla reattività autonomica sono compromesse (18). 34 per cento per comparsa di effetti collaterali/altro (“farmaci Numerose sono le questioni irrisolte: nei pazienti dementi la sempre inefficaci”, “prendo troppi farmaci”, “posso diventare soglia del dolore è aumentata, diminuita o uguale rispetto alle dipendente”). persone di uguale età, integre dal punto di vista cognitivo? D’altra parte non trattare il dolore cronico, oltre a incidere La perdita di memoria influisce, e se sì, in quale modo l’insulla qualità di vita del paziente e della sua famiglia, com- terpretazione dello stimolo doloroso? Il caregiver è in grado porta conseguenze cliniche importanti: limitazioni dell’au- di comprendere il dolore del paziente demente e se sì, quale tonomia, depressione, disturbi del sonno e peggioramento o dolore: somatico o psicologico? comparsa di disturbi comportamentali e cognitivi (12). Un problema rilevante è la valutazione del dolore in persone con deficit cognitivo, in cui non è possibile utilizzare scale di autovalutazione come la NRS (Numerical Rating Scale), I PAZIENTI ANZIANI bensì strumenti osservazionali basati sul “pain behaviours” CON DEFICIT COGNITIVO in grado di rivelare le espressioni facciali e i comportamenAttualmente il 22 per cento della popolazione italiana ha ti tipici da dolore, quali la PAINAD (Pain Assessment In un’età superiore ai 65 anni (13 milioni) di cui il 7 per cento è Advanced Dementia) o la NOPPAIN (NOn communicative ultra-ottantenne (13), e determina il 44,2 per cento della spesa Patient’s Pain Assessment Instrument). Spesso è proprio l’isanitaria pubblica. Inoltre la prevalenza della demenza grave nadeguatezza dei sistemi di rilevazione in pazienti con deficit o moderata in questa fascia d’età varia tra 3-6 per cento, e se si cognitivo che porta al sottotrattamento del dolore stesso (19) comprendono anche le forme lievi, tra 6-10 per cento. e al minor utilizzo di farmaci analgesici (20). FIGURA 2. TIPOLOGIE DI DOLORE RISCONTRATE NELLO STUDIO

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DOLORE CRONICO NELLE RESIDENZE SANITARIE ASSISTENZIALI I pazienti ricoverati in residenza sanitaria assistenziale (RSA) sono pazienti complessi con alto grado di disabilità, di comorbidità e di fragilità, intesa come uno stato di maggiore vulnerabilità dell’individuo agli stress, che aumenta il rischio di scompenso psico-sociale (21,22). Queste caratteristiche più frequenti ed evidenti dopo i 75 anni sono responsabili del netto aumento del fabbisogno assistenziale. L’età dei residenti in RSA è sempre più elevata, con una media di 80 anni, con elevata frequenza di politerapia e alta prevalenza di deficit cognitivo di grado variabile (>50 per cento) (23). In RSA la prevalenza del dolore correla con molteplici cause: artrosi/artrite, problemi gastrointestinali, fibromialgia, vasculopatie periferiche, sindrome poststroke, lesioni cutanee, errate posture. L’elevata variabilità della prevalenza in letteratura, dal 25 al 50 per cento, deriva dalla differenza delle popolazioni, dei metodi e delle definizioni utilizzate negli studi (24). Ciò che emerge dalla pur esigua letteratura è che, nelle strutture residenziali, il dolore è poco misurato, la terapia antalgica scarsamente utilizzata e spesso non adeguata. Nelle “nursing home” americane presenta dolore quotidiano il 26 per cento degli assistiti, di questi il 25 per cento non riceve terapia antalgica e quando somministrata, spesso non è adeguata (25). Si pensi che un’adeguata terapia del dolore non solo induce sollievo, ma riduce l’uso di psicofarmaci. Il farmaco più comune in tali contesti è il paracetamolo (37 per cento) somministrato per lo più al bisogno, al dosaggio di 1.300 mg/die. I FANS sono molto utilizzati anche per lunghi periodi e spesso prescritti

ad alto dosaggio, mentre gli oppiacei vengono somministrati, soprattutto in Italia, poco frequentemente e per lo più a basso dosaggio (26). Questo è dovuto in parte a una formazione inadeguata del personale sanitario nel riconoscere il dolore in persone con deficit sensoriali o cognitivi, alla scarsa conoscenza della gestione del dolore di tali pazienti, alla preoccupazione di somministrare oppiacei e di provocare effetti collaterali dannosi (27).

STUDIO ITALIANO SULLA PREVALENZA DEL DOLORE CRONICO IN RSA La carenza di dati sulla gestione clinica in Italia del dolore nelle RSA ha spinto a uno studio di collaborazione tra l’Hub per la terapia del dolore Policlinico Umberto I, Sapienza Università di Roma e l’Associazione nazionale strutture per la terza età (ANASTE) per valutare la prevalenza del dolore cronico nelle RSA, in relazione alla presenza e gravità di deficit cognitivo e depressione, il carico di lavoro degli operatori e l’adeguatezza terapeutica. Tale studio attualmente in corso di stampa ha tra gli obiettivi principali: w implementare la scheda di rilevazione del dolore in cartella clinica, peraltro obbligatoria per la legge 38 del 2010; w aumentare l’adeguatezza terapeutica con miglioramento della vita dei pazienti ; w riduzione del carico di lavoro degli operatori. Lo studio ha previsto una fase formativa. Tutti gli operatori delle strutture coinvolte hanno partecipato a un corso di aggiornamento sulle modalità di rilevazione del dolore: w NRS, mezzo di autovalutazione da 0 a 10 da usare in pazienti integri cognitivamente o con deficit di lieve grado;

FIGURA 3. FARMACI ANALGESICI UTILIZZATI 100% 90% 80% 70% 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0%

Muscolo scheletrico

Psicogenico

Post chirurgico

Post traumatico P

F

Oncologico A

Neuropatico

Misto

O

Note: P, paracetamolo; F, FANS; O, oppioidi; A, adiuvanti (antipsicotici, ansiolitici, ipnotici/sedativi, antidepressivi). Fonte: Malara A, Cerbo R et al. Prevalenza del dolore cronico in RSA: studio osservazionale multicentrico. In press la NEUROLOGIA italiana

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GERIATRIA w PAINAD strumento basato sull’osservazione di cinque elementi con tre modalità di risposta da 0 a 2 (con un intervallo per la scala totale da 0 a 10) per quelli con deficit cognitivo moderato/severo (Figura 1). I pazienti arruolati quindi sono stati valutati utilizzando gli strumenti NRS e PAINAD. Sono stati somministrati inoltre tre strumenti di valutazione multidimensionale geriatrica: w Mini Mental State Examination (MMSE) per lo stato cognitivo; w scala di Cornell per la depressione nella demenza (CSDD); w qualità della vita con la Quality of Life Scale (EQ-5D). Informazioni su diagnosi etiopatogenetica, tipologia del dolore, terapia antalgica in atto al momento della rilevazione sono state aggiunte per completare il quadro clinico. Lo studio ha previsto un doppio Pain Day (PD1= T0; PD2=T1) a distanza di tre mesi. In tali giornate sono state somministrate ai pazienti di tutte le RSA partecipanti, e alla stessa ora, le scale di valutazione e l’impatto del dolore cronico. Durante l’intera durata, tre mesi, è stata monitorata quotidianamente la valutazione del dolore.

Risultati

Dei 1.068 pazienti inseriti nello studio, l’80 per cento circa presentava deficit cognitivo di vario grado. Il 54,1 per cento e il 33,9 per cento dei pazienti al T0 e al T1 rispettivamente, presentavano una diagnosi di dolore cronico. La prevalenza del dolore valutata con NRS è del 47,7 a T0 e del 39,5 per cento a T1, mentre la prevalenza del dolore valutata con PAINAD, del 50,7 a T0 e del 44,4 per cento a T1. In figura 2 è mostrata la distribuzione del tipo di dolore riscontrato nell’indagine. A T0 i pazienti con dolore erano trattati farmacologicamente nel 57 per cento dei casi e a T1 nel 69 per cento. La prevalenza totale per categorie di analgesici è risultata al T0 del 34,7 per cento per paracetamolo, 9 per gli oppioidi, 7,10 per FANS e 6,5 per cento per le altre categorie di farmaci (Figura 3) (dati personali non pubblicati). A T1 si evidenzia un incremento della prescrizione dei farmaci analgesici con una correlazione statisticamente significativa con il miglioramento dei sintomi depressivi e della qualità della vita. Lo studio ha mostrato che la rilevazione del dolore, l’appropriatezza della terapia del dolore cronico nelle RSA risultano al momento ancora carenti: il dolore è poco rilevato e molti dei pazienti residenti in RSA, con diagnosi per dolore cronico, non ricevono una terapia sufficientemente appropriata. La situazione è risultata migliore in quelle RSA in cui da anni il tema “Dolore cronico” è trattato con formazione specifica e interdisciplinare, con rilevazione del sintomo nella cartella clinica specifica e in cui sono presenti linee guida per terapia adeguata per specificità farmacologica, per dosaggio e modalità di somministrazione. Lo studio ha realizzato almeno in parte gli obiettivi: aumentata attenzione alla rilevazione del dolore; aumentata appropriatezza terapeutica, con aumento delle prescrizione degli oppioidi; miglioramento

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della qualità di vita dei pazienti. È emerso che la lotta contro il dolore non è efficace se non preceduta da una costante e qualificata attività di formazione integrata e diversificata a seconda delle figure professionali coinvolte, dai MMG all’équipe operante nelle strutture residenziali. I MMG devono essere addestrati a operare in modo interprofessionale e interdisciplinare promuovendo protocolli integrati di cura sia per il malato che per la sua famiglia, che comprendano strumenti di rilevazione del dolore, l’uso corretto di farmaci analgesici e l’adozione di strategie cognitivo-comportamentali.

APPROPRIATEZZA TERAPEUTICA Recentemente la British Geriatric Society ha realizzato delle linee guida per l’appropriatezza del trattamento del dolore nei pazienti più anziani di facile utilizzo per i medici (28). Nel documento viene sottolineato che nel paziente anziano è da preferire la via orale e, dopo appropriata titolazione, le formulazione a rilascio controllato; viene raccomandata grande cautela nell’utilizzo dei FANS e dei COX2, corretto solo quando esiste la componente infiammatoria di un dolore cronico o una sua riacutizzazione. Comunque tali farmaci vanno usati per breve tempo e, quando si utilizzano in combinazione con dosi fisse di oppioidi va ridotto il loro dosaggio, come anche quello di paracetamolo. Il dolore meccanico strutturale che si presenta tipicamente in pazienti con artrosi evoluta, quando si compie un movimento, è un dolore che persiste nel tempo, ma con le caratteristiche simili al dolore acuto fisiologico, non su basi infiammatorie, e quindi l’uso dei FANS è irrazionale e viceversa una terapia appropriata è il paracetamolo con oppiacei a rapida azione, assunti prima del movimento causa del dolore (per esempio 30 minuti prima di alzarsi dal letto). Gli oppioidi devono essere usati in tutti i pazienti con dolore cronico moderato-severo, senza un’evidente componente infiammatoria. Nell’anziano il rischio di dipendenza da oppiacei è pressoché nullo, in assenza di storia di farmacodipendenza; tali farmaci, se ben titolati sono sicuri, e in aggiunta esistono molecole e combinazioni utili per combattere gli effetti collaterali periferici, quali la stipsi. Tra gli oppiacei la scelta della molecola deve tenere conto della via metabolica utilizzata in corso di politerapia, in cui vanno evitati l’associazione di farmaci metabolizzati dal citocromo P450. Il tapentadolo per esempio non ha significativa azione sul sistema del citocromo, non ha metaboliti attivi e va a glucoronoconiugazione diretta, e inoltre ha scarsi effetti sul sistema 5HT, utile per l’alta frequenza di terapia antidepressiva concomitante. In letteratura non esiste un rapporto certo tra uso degli oppioidi e deterioramento delle funzioni cognitive, mentre è certo che il dolore non trattato può agire in questo senso.


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PATOLOGIE RARE

ATASSIA CEREBELLARE EREDITARIA Uno studio clinico valuta gli effetti della terapia con riluzolo Il lavoro presentato in questo articolo è stato condotto per verificare gli effetti del trattamento con riluzolo in pazienti affetti da atassia cerebellare ereditaria. Lo studio era randomizzato in doppio cieco, controllato verso placebo e ha avuto una durata di 12 mesi Giulia Coarelli1, Silvia Romano1, Christian Marcotulli2, Luca Leonardi2, Francesca Piccolo2, Maria Spadaro4, Marina Frontali4, Michela Ferraldeschi1, Maria Chiara Vulpiani3, Federica Ponzelli1, Marco Salvetti1, Francesco Orzi1, Antonio Petrucci5, Nicola Vanacore6, Carlo Casali2, Giovanni Ristori1 1. Centro neurologico terapie sperimentali, Ospedale Sant’Andrea, Dipartimento di neuroscienze, salute mentale e organi di senso -NESMOS, Università La Sapienza di Roma, Roma; 2. Dipartimento di scienze mediche e biotecnologie, Università La Sapienza di Roma, Roma; 3. UOS Medicina fisica riabilitativa, Ospedale Sant’Andrea, Università La Sapienza di Roma, Roma; 4. CNR, Istituto di farmacologia traslazionale, Roma; 5. Centro malattie neuromuscolari e neurologiche rare, ASO San Camillo-Forlanini, Roma; 6. Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma.

L

e atassie ereditarie sono malattie genetiche caratterizzate da disturbi progressivi dell’equilibrio e della marcia associate a dismetria degli arti, alterazioni dei movimenti oculari e disartria. Possono essere inclusi altri sintomi neurologici e non neurologici, e tali malattie sono classificate in base alla modalità di trasmissione ereditaria: autosomica dominante, autosomica recessiva, X-linked e mitocondriale. Tra

18

questo gruppo eterogeneo di malattie, le atassie spinocerebellari autosomiche dominanti e l’atassia di Friedreich sono di riscontro più frequente nella pratica clinica. Colpendo persone di giovane età (dai bambini ai giovani adulti) ed essendo il più delle volte invalidanti, queste forme hanno conseguenze importanti sui pazienti e sulle loro famiglie (che spesso presentano più di un membro affetto). Anche il peso economico

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è considerevole, stimato recentemente intorno ai 19.000€ per anno per i pazienti affetti da atassia spinocerebellare (1). Sfortunatamente, a oggi non sono disponibili trattamenti efficaci per questi pazienti, ma grandi sforzi, specialmente per le forme più comuni, si stanno compiendo per trovare nuove terapie. Nel 2014 sono stati considerati per il trattamento dell’atassia di Friedreich alcuni farmaci come la nicotinamide, inibitori


dell’istone deacetilasi (2), il chelante del ferro deferiprone e una tripla terapia con deferiprone, idebenone e riboflavina (3). Trial randomizzati per la malattia di Machado-Joseph (atassia spinocerebellare di tipo 3) sono stati condotti con vareniclina e litio (4,5) e l’uso dell’antibiotico ceftriaxone è stato studiato in modelli murini (6). A oggi non si sono ottenuti risultati significativi per questi trattamenti, né si sono confermati dati di efficacia per farmaci precedentemente proposti, come l’idebenone e l’eritropoietina (7). In un precedente trial in doppio cieco, controllato con placebo il nostro gruppo ha ottenuto risultati incoraggianti sull’effetto del riluzolo in pazienti con atassia cerebellare di varia origine (sia forme ereditarie sia forme sporadiche) (8). Il razionale di questo studio si basava su esperimenti che mostravano l’effetto positivo dell’utilizzo di molecole stimolanti l’apertura dei canali del potassio a bassa conduttanza, incluso il riluzolo (9), nella fisiopatologia dell’atassia, un filone di ricerca tuttora in fase di sviluppo (10-13). Non sono stati riportati effetti avversi legati all’utilizzo del riluzolo durante il breve periodo del trial (8 settimane). Abbiamo voluto quindi pianificare un nuovo studio di maggiore durata (12 mesi) per verificare gli effetti del riluzolo su un campione di pazienti più numeroso, ma selezionato secondo criteri d’inclusione più stringenti (le forme ereditarie più comuni nella popolazione italiana).

METODI Pazienti con atassia cerebellare ereditaria sono stati arruolati nel trial randomizzato, in doppio cieco, della durata di 12 mesi, per valutare l’efficacia del riluzolo (100 mg/die) rispetto al placebo. L’arruolamento dei pazienti è stato condotto in 3 centri neurologici italiani: Centre for Experimental Neurological Therapies (CENTERS), Dipartimento di Neuroscienze, Salute Mentale e Organi di Senso (NESMOS), Sapienza Università di Roma; Dipartimento di Scienze Mediche e Biotecnologie,

TABELLA 1

Caratteristiche demografiche e cliniche al baseline dei 2 gruppi

VARIABILI

GRUPPO RILUZOLO (N=30)

GRUPPO PLACEBO (N=30)

17/13

14/16

46,2 (11,9)

43,1 (11,5)

34 (15,7)

31,4 (11,9)

10/20

10/20

SARA score

15,3 (8,9)

16,5 (8,7)

Beck score

6,36 (4,0)

8,69 (7,25)

SF-36 (score componente fisica)*

44,95 (20,95)

48,93 (21,01)

SF-36 (score componente mentale)*

54,62 (15,53)

56,92 (29,55)

Sesso (M/F) Età (anni) Età all’esordio FA/SCA

Note: Dati espressi in medie o numeri; FA= atassia di Friedreich; SCA, atassia spinocerebellare; SARA, Scale for the Assessment and Rating of Ataxia; *SF-36 risultati ottenuti in un sottogruppo di 30 pazienti (15 del gruppo riluzolo e 15 del gruppo placebo)

Sapienza Università di Roma; Centro Neuromuscolare e di Malattie Rare Neurologiche dell’Ospedale San Camillo Forlanini. I criteri d’inclusione previsti sono stati l’età compresa tra i 14 e 70 anni e la forma di atassia cerebellare geneticamente determinata. I criteri di esclusione sono stati: forme di atassia diverse dall’atassia spinocerebellare e l’atassia di Friedreich; gravi condizioni cliniche o condizioni in cui l’uso del riluzolo potesse risultare controindicato (per esempio aritmie cardiache, malattie ematologiche o epatiche con valori di transaminasi o di bilirubina 1,5 volte maggiori rispetto al valore normale); gravidanza (donne in età fertile sono state incluse solo se d’accordo all’uso di metodi anticoncezionali) e allattamento. Il trial è stato condotto in accordo con le linee guida Good Clinical Practice e secondo la Dichiarazione di Helsinki. Il nostro comitato etico ha approvato il protocollo e ogni paziente ha firmato il consenso informato ed è stato sottoposto alla visita di screening prima dell’inizio dello studio.

I partecipanti sono stati randomizzati e assegnati con un rapporto 1:1 al gruppo riluzolo o placebo. Il riluzolo (Rilutek; Aventis Pharma SA, Antony Cedex, France) 50 mg o il placebo sono stati somministrati per via orale ogni 12 ore, per 12 mesi. Le liste per la randomizzazione sono state generate dal computer; per assegnare ogni paziente al gruppo riluzolo o al gruppo placebo è stata utilizzata una randomizzazione a blocchi permutati; il rapporto dei pazienti affetti da atassia spinocerebellare e atassia di Friedreich è stato di 2:1. L’assegnazione a uno dei gruppi non è stata resa nota né ai partecipanti né ai neurologi dello studio durante il trial. Dopo una visita di screening per valutare l’eleggibilità, è stata eseguita una visita al baseline per acquisire un’anamnesi più accurata, un elettrocardiogramma e una visita neurologica, compresa la valutazione Scale for the Assessment and Rating of Ataxia (SARA) (14). La qualità della vita è stata valutata con la versione italiana del 36-item Short Form Health Survey Questionnaire (SF-36) (15). Per otte-

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PATOLOGIE RARE

TABELLA 2

Risultati relativi agli endpoint primari e secondari GRUPPO RILUZOLO (N=28), (N%)

GRUPPO PLACEBO (N=27), (N%)

OR (95% CI)

P VALUE

Proporzione di pazienti con un punteggio SARA diminuito dopo 12 mesi

14 (50)

3 (11)

8,00 (1,95-32,8)

0,002

Non diminuito

14 (50)

24 (89)

Proporzione di pazienti con un punteggio SARA diminuito dopo 3 mesi

14 (50)

7 (26)

2,86 (0,928,89)

0,066

Non diminuito

14 (50)

20 (74)

Media delle variazioni dei punteggi SARA al mese 3 rispetto al baseline

-1,00 (1,75)

0,50 (2,28)

0,008

Media delle variazioni dei punteggi SARA al mese 12 rispetto al baseline

-1,02 (2.15)

1,67 (2,63)

0,001

5,6 ± 4,6

7,2 ± 6,2

0,29

SF-36 (score componente fisica)* al mese 12

51,3 ± 21,3

43 ± 21,3

0,29

SF-36 (score componente mentale)* al mese 12

63,4 ± 21,3

48,5 ± 28,2

0,11

Totale effetti avversi

4 (14)

2 (7)

0,70

Effetti avversi severi

0

0

2 (7)

0

ENDPOINT PRIMARIO

ENDPOINT SECONDARI

Beck score al mese 12

Aumento degli enzimi epatici

0,50

Note: Dati espressi in medie o numeri; *SF-36 risultati ottenuti in un sottogruppo di 30 pazienti (15 del gruppo riluzolo e 15 del gruppo placebo)

nere informazioni sul tono dell’umore abbiamo utilizzato la scala Beck Depression Inventory (16). Campioni di sangue venoso sono stati raccolti per le indagini ematochimiche di routine. Le seguenti procedure sono state ripetute ai vari timepoints dello studio: valutazione clinica, ECG, analisi ematiche di routine ogni 3 mesi; la scala SARA al mese 3 e 12; i questionari SF-36 e Beck Depression Inventory dopo 12 mesi. Le terapie che i pazienti assumevano prima dell’inizio dello studio sono state mantenute: 3 pazienti nel gruppo riluzolo e 2 pazienti nel gruppo placebo (tutti affetti dall’atassia di Friedreich) assumevano idebenone al dosaggio di 5 mg/kg/die; tutti i partecipanti eccetto uno per ciascun gruppo eseguivano fisioterapia.

20

Abbiamo scelto come endpoint primario la differenza del numero di pazienti tra il gruppo riluzolo e il gruppo placebo che ha riportato un miglioramento del punteggio alla scala SARA alla fine dello studio rispetto al baseline. Una differenza di almeno un punto al punteggio SARA è stata considerata clinicamente rilevante sulla base dei reports annuali di progressione dei pazienti affetti da atassia spinocerebellare (17). I cambiamenti annuali dei punteggi alla SARA nei pazienti Friedreich sono stati riportati (18) dopo il disegno del nostro studio e sono comunque risultati a supporto della scelta del nostro endpoint primario. Gli endpoint secondari includevano le differenze tra i 2 gruppi di studio nelle seguenti valutazioni: la proporzione di

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pazienti con un miglioramento al punteggio SARA a 3 mesi; la media delle variazioni dei punteggi SARA al mese 3 e 12 rispetto al baseline; i cambiamenti al punteggio SF-36 a 12 mesi; i cambiamenti al punteggio al Beck Depression Inventory a 12 mesi; il numero, il tipo e la gravità degli effetti avversi; un’analisi baropodometrica a 12 mesi. Per valutare l’efficacia clinica del riluzolo abbiamo eseguito due analisi post-hoc: la proporzione di pazienti che raggiunge un punteggio di 5,5 o inferiore alla scala SARA (indicativo di bassa dipendenza per funzioni della vita quotidiana) (19) e la proporzione di pazienti con un miglioramento in almeno 4 categorie del questionario SF-36 (scelta arbitraria basata sul miglior risultato ottenuto nel gruppo


FIGURA 1. VARIAZIONI DEI PUNTEGGI SARA AL MESE 3 E 12 PER CIASCUN PARTECIPANTE

placebo) dopo 12 mesi. Un campione di 27 partecipanti per ciascun gruppo (totale di 54 pazienti) è stato calcolato per ottenere un potere statistico dell’80 per cento e un valore α del 5 per cento per rilevare una differenza tra i 2 gruppi del 35 per cento nel rapporto di pazienti con un punteggio SARA migliorato di almeno un punto dopo 12 mesi. Questo calcolo ha preso in considerazione i seguenti precedenti: la percentuale annuale di pazienti con un miglioramento atteso (5 per cento), in accordo con la storia naturale dei più comuni genotipi (17); il più basso valore ottenuto nel nostro studio pilota precedente (miglioramento nel 5,3 per cento del gruppo di controllo) (8); la miglior correlazione tra International Cooperative Ataxia Rating Scale, usata nello studio pilota, e il punteggio SARA (r =0,953) (20). Le differenze tra i 2 gruppi sono state stimate usando il t test e odds ratio con un intervallo di confidenza del 95 per cento. È stata eseguita inoltre l’analisi intention-to-treat e un modello di regressione logistica a 12 mesi per “aggiustare” i risultati per le più rilevanti caratteristiche (età, sesso, forma genetica) dei pazienti al baseline. Sono stati considerati significativi valori p inferiori a 0,05 e le analisi sono state ottenute utilizzando il software SPSS (versione 22.0). Il trial è stato registrato sul sito ClinicalTrials.gov, numero NCT0110464.

Lo studio è stato finanziato dall’Agenzia Italiana del Farmaco, che non ha avuto nessun ruolo nel disegnare il trial, nella raccolta, nell’analisi e nell’interpretazione dei dati e nella stesura del lavoro.

RISULTATI Tra il 22 maggio 2010 e il 22 febbraio 2013 sono stati arruolati 60 degli 80 pazienti valutati eleggibili, poi assegnati in modo randomizzato al trattamento con riluzolo o con placebo. Cinque pazienti (2 nel gruppo riluzolo e 3 nel gruppo placebo) hanno ritirato il consenso prima di ricevere il trattamento, 5 pazienti (3 nel gruppo riluzolo e 2 nel gruppo placebo) sono stati persi durante il follow-up; l’analisi quindi è stata condotta su 28 pazienti del gruppo riluzolo e 27 pazienti del gruppo placebo. Le caratteristiche demografiche e cliniche al baseline non sono risultate differenti tra i 2 gruppi (Tabella 1). I risultati per il questionario SF-36 sono stati ottenuti solamente da 15 pazienti per ciascun gruppo. Le caratteristiche al baseline di questo sottogruppo non sono risultate diverse dal resto della popolazione dello studio, eccetto che per un più alto score al Beck Depression Inventory (9,55 [SD 6,07] vs 5,08 [4,64]; p =0,04), suggerendo che i pazienti con un miglior tono dell’umore sono risultati più propensi a fornire informazioni

per il questionario SF-36. Per l’endpoint primario, la proporzione di pazienti con un punteggio SARA diminuito dopo 12 mesi nel gruppo riluzolo è risultata significativamente più alta rispetto al gruppo placebo (OR 8,00, 95 per cento CI 1,95–32,83; p =0,002; Tabella 2). La differenza si mantiene significativa anche dopo l’analisi di regressione logistica a posteriori valutando il sesso, l’età e la forma clinica di atassia (OR 9,76, 95 per cento CI 2,08–45,80; p =0,004). Al terzo mese la proporzione di pazienti con un punteggio SARA diminuito non si è mostrata diversa tra i 2 gruppi (Tabella 2). Le medie dei cambiamenti dei punteggi SARA tra il baseline e il mese 3 e 12 sono risultate significativamente differenti tra i 2 gruppi, con valori della media negativi per i pazienti trattati e positivi per i pazienti del gruppo placebo (Tabella 2). I cambiamenti dei punteggi al questionario Beck Depression Inventory non sono risultati significativi tra i 2 gruppi. Le medie dei punteggi della categoria fisica e mentale dell’SF-36 non differiscono tra i 2 gruppi al mese 12 (Tabella 2). Le variazioni dei punteggi SARA al mese 3 e 12 per ciascun partecipante sono rappresentati in Figura 1. Il numero di pazienti con un punteggio SARA aumentato (indicativo di un deterioramento nell’atassia cerebellare) è stato più alto nel gruppo placebo rispetto al gruppo riluzolo: 10

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PATOLOGIE RARE

LE ATASSIE SPINOCEREBELLARI AUTOSOMICHE DOMINANTI COLPISCONO IN GENERE BAMBINI E GIOVANI ADULTI. SFORTUNATAMENTE A OGGI NON SONO DISPONIBILI TRATTAMENTI EFFICACI PER QUESTI PAZIENTI, MA GRANDI SFORZI, SPECIALMENTE PER LE FORME PIÙ COMUNI, SI STANNO COMPIENDO PER TROVARE NUOVE TERAPIE (37 per cento) dei 27 pazienti del gruppo placebo rispetto a 4 (14 per cento) dei 28 pazienti del gruppo riluzolo al mese 12 (OR 5,39, 95 per cento CI 1,51–22,54, p =0,006). Nel gruppo riluzolo, 2 pazienti hanno mostrato un aumento dei livelli degli enzimi epatici (meno di due volte il limite dei valori normali), un effetto del farmaco già riportato in altri studi (21). Il valore massimo delle transaminasi è stato raggiunto dopo 3 mesi, diminuito a un valore minore di 1,5 volte il limite normale dopo 6 mesi, poi mantenuto sopra il limite fino alla fine del trial. Per confermare la rilevanza clinica del riluzolo è stata condotta un’analisi a posteriori sui punteggi SARA e SF-36. La proporzione di pazienti che ha raggiunto un valore di 5,5 o meno alla scala SARA (indicativo di una dipendenza minima nello svolgimento delle attività della vita quotidiana) a 12 mesi è risultato significativamente differente tra il gruppo riluzolo (9/28, 32,1 per cento) e placebo (2/27, 7,4 per cento) dopo le correzioni per le caratteristiche al baseline (OR 5,87, 95 per cento CI 1,07– 32,35; p =0,04). Il rapporto dei pazienti con un miglioramento in almeno 4 items del questionario SF-36 è risultato più alto nel gruppo riluzolo (9/15, 60,0 per cento vs 1/15, 6,7 per cento; OR 21,71, 95 per cento CI 1,67–281,61; p =0,019, corretto per le variabili al baseline). Le analisi baropodometriche sono risultate non applicabili e troppo stressanti per questi pazienti, al punto che non ab-

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biamo ottenuto risultati informativi per questo endpoint.

DISCUSSIONE Questo trial conferma i risultati del precedente studio di minor durata sul potenziale beneficio dell’uso del riluzolo nell’atassia cerebellare (8). In questo studio durato 12 mesi, il farmaco sembra essere sicuro e potenzialmente efficace per i pazienti affetti da forme ereditarie. Un effetto sulla progressione della malattia è suggerito dalle variazioni nei punteggi SARA per i pazienti trattati con riluzolo: la percentuale dei pazienti con punteggi diminuiti (50 per cento) o aumentati (14 per cento) rimane stabile a 3 e 12 mesi. Al contrario i pazienti del gruppo placebo risultano peggiorati alla fine dello studio; si riduce infatti la percentuale di pazienti con punteggi SARA inizialmente diminuiti (dal 26 per cento del mese 3 all’11 per cento del mese 12) mentre cresce la percentuale dei pazienti con punteggi aumentati (dal 37 al 48 per cento), in accordo con la naturale progressione dei più comuni genotipi (17, 18, 22, 23). Potenziali fattori confondenti come un possibile effetto del farmaco sul tono dell’umore (si sta studiando l’uso del riluzolo nella depressione) (13) o la fisioterapia aggiunta a trattamenti farmacologici non appaiono plausibili; i cambiamenti ai punteggi del Beck Depression Inventory e la proporzione di pazienti che durante il trial ha praticato

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fisioterapia o ha assunto idebenone (nel caso di pazienti affetti da atassia di Friedreich) sono simili tra i due gruppi. Il meccanismo d’azione del riluzolo nell’atassia cerebellare resta ancora non del tutto chiarito. L’azione sui canali del potassio a bassa conduttanza è una plausibile ipotesi che si sta attivamente studiando (9-13). Comunque sembra verosimile un effetto pleiotropo del farmaco (24): 1. il riluzolo aumenta la ricaptazione del glutammato a livello delle sinapsi attive, diminuendo i danni prodotti dall’eccitotossicità ed esercitando un’azione neuroprotettiva che può esplicarsi a lungo termine; 2. il riluzolo stimola l’attività del canale del potassio-1 TWIK-related (TREK-1) e l’espressione intracellulare delle heat shock proteins che giocano un ruolo neuroprotettivo e bilanciano le disfunzioni della barriera ematoencefalica (trigger della componente infiammatoria che si ritrova nelle malattie neurodegenerative) (25). I limiti di questo studio derivano dagli impegnativi outcomes secondari che spesso sono risultati inadatti per i pazienti con progressiva disabilità o che non possono contare su un efficace supporto di un caregiver. Alcuni pazienti infatti, hanno trovato il protocollo stressante, per cui sono stati registrati i seguenti problemi durante lo studio: w 1. una raccolta parziale dei dati per l’analisi baropodometrica; w 2. una perdita di pazienti relativamente alta durante lo studio rispetto alla randomizzazione (17 per cento); w 3. solamente un sottogruppo di pazienti ha completato il questionario SF-36. Comunque, i risultati ottenuti supportano l’ipotesi che il riluzolo possa essere efficace nel trattamento dei pazienti con atassia cerebellare, in aggiunta alla presente indicazione per il trattamento della sclerosi laterale amiotrofica. Questi risultati suggeriscono un uso nella pratica clinica di questo farmaco, ma sono necessari nuovi studi di maggiore durata, basati su un campione più numeroso e specifico per un preciso genotipo.


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PATOLOGIE NEURODEGENERATIVE

MALATTIA di PARKINSON Perché è importante definire la fase “avanzata” della patologia

I

l programma paneuropeo “Navigate PD” è un’iniziativa educazionale nata per chiarire alcune questioni non risolte nella gestione del paziente con malattia di Parkinson non responder alle terapie tradizionali orali/transdermiche e per meglio definire il profilo del paziente candidato alle terapie cosiddette avanzate (infusione sc di apomorfina, infusione intradigiunale di levodopa-carbidopa, deep brain stimulation). Il programma ha coinvolto 103 specialisti neurologi, provenienti da 13 Paesi, e dopo una serie di incontri che si sono svolti tra aprile 2012 e luglio 2013, ha portato alla stesura di un paper di recente pubblicazione (Odin P et al. Parkinsonism and Related Disorders 2015; 21: 113344). Il documento non vuole essere una linea guida, né tantomeno sostituire le linee guida esistenti sulla gestione del Parkinson, quanto piuttosto un compendio che possa fornire informazioni aggiuntive su tematiche poco esplorate qual è appunto la gestione della malattia avanzata e della terapia in questa fase. Riportiamo in breve i punti chiave della consensus, corredati da un’intervsta a uno degli Autori, il professor Angelo Antonini, direttore dell’Unità Operativa per la malattia di Parkinson e i disordini del movimento, Irccs San Camillo di Venezia, 1a Clinica Neurologica, Università di Padova.

Recentemente sono stati pubblicati i documenti di due “panel” di esperti che hanno cercato di definire criteri condivisi per la malattia di Parkinson “avanzata”. Da dove nasce questa esigenza? ❱❱❱ La necessità di meglio definire le caratteristiche cliniche che caratterizzano la fase avanzata della malattia di Parkinson deriva dall’osservazione che molti pazienti giungono in ritardo a trattamenti come quelli infusionali o chirurgici che potrebbero invece fornire un notevole

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w I pazienti che richiedono più di 5 dosi di levodopa al giorno e presentano gravi e invalidanti fasi “OFF” (>1-2 ore/die) nonostante una terapia orale/transdermica ottimale necessitano di una rivalutazione specialistica, anche se la durata di malattia è inferiore a 4 anni. w Il declino cognitivo correlato alle fluttuazioni non motorie costituisce un’indicazione al passaggio verso le terapie avanzate. Se il declino cognitivo è lieve, la deep brain stimulation (DBS) andrebbe usata con cautela. Nei pazienti con declino cognitivo o demenza, l’infusione intradigiunale di levodopacarbidopa in molti Paesi ha sia un’indicazione terapeutica che palliativa. Le cadute sono legate al declino cognitivo e sembrano diventare più frequenti con l’introduzione delle terapie avanzate. w Il controllo non ottimale delle complicanze motorie (oppure tremore farmaco-resistente nel caso della DBS) rappresenta un’indicazione alle terapie avanzate. L’infusione intradigiunale di levodopacarbidopa oppure l’infusione sc di apomorfina possono essere prese in considerazione per i pazienti con più di 70 anni che manifestano declino cognitivo lieve o moderato, depressione severa o altre controindicazioni all’impiego della DBS.

beneficio clinico. In queste pubblicazioni abbiamo cercato di delineare il profilo del paziente che può essere candidato a queste terapie. In particolare abbiamo focalizzato la nostra attenzione sugli aspetti motori e non motori della malattia cercando di fornire al neurologo clinico uno strumento che possa avere una valenza nella pratica ambulatoriale. Un paziente che sta assumendo 5 dosi di levodopa al giorno, e ciononostante presenta due ore di “OFF” al giorno,

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è sempre da considerarsi in fase avanzata di malattia? ❱❱❱ La definizione di fase avanzata di malattia deve essere intesa come indicativa e le esigenze del paziente devono essere sempre tenute in considerazione. Ciò nonostante quando il paziente supera le quattro dosi giornaliere di levodopa e non riesce comunque ad avere una motilità adeguata per tutto il giorno è importante considerare trattamenti alternativi. Quanto conta la durata di malattia,


CONTROINDICAZIONI RELATIVE E ASSOLUTE ALL’IMPIEGO DI TERAPIE AVANZATE NELLA MALATTIA DI PARKINSON TERAPIE AVANZATE AUMENTATO RISCHIO

CONTROINDICAZIONI ASSOLUTE

DBS

w Scarsa compliance alle terapie non invasive w Età biologica >70-75 anni w Depressione severa w Condizioni che aumentano il rischio chirurgico, incluse le cardiomiopatie

w Mancata risposta alla levodopa, a eccezione del tremore a riposo w Demenza w Atrofia cerebrale severa o lesioni che possono interferire con la pianificazione della traiettoria

APOMORFINA SC

w Scarsa compliance alle terapie non invasive w Declino cognitivo lieve o demenza w Attuale o pregressa disregolazione della dopamina, punding o disturbi del controllo degli impulsi w Demenza da moderata a severa

w Mancata risposta alla levodopa w Difficoltà o incapacità del paziente o del caregiver a gestire la medicazione e il device

INFUSIONE INTRADIGIUNALE DI LEVODOPACARBIDOPA

w Scarsa compliance alle terapie non invasive w Neuropatie periferiche pregresse w Attuale o pregressa disregolazione della dopamina e punding w Demenza da moderata a severa w Paziente fragile (incapace di sostenere il peso del device)

w Mancata risposta alla levodopa w Difficoltà o incapacità del paziente o del caregiver a gestire la medicazione e il device w Controindicazioni relative o assolute alla chirurgia addominale

Fonte: Odin P et al. Parkinsonism and Related Disorders 2015; 21: 1133-44

ovvero un paziente in terapia da meno di 4 anni può essere considerato in fase avanzata? ❱❱❱ La durata di malattia rappresenta un elemento importante per confermare la diagnosi clinica. Tutte le linee guida concordano nell’affermare che la buona risposta alla terapia orale deve essere mantenuta per almeno quattro o cinque anni per avere la certezza che si tratti di malattia di Parkinson idiopatica e non di una forma atipica. Chiaramente il limite temporale deve essere valutato in base a quelle che sono le condizioni del paziente. E ancora oggi, è possibile vedere pazienti che hanno un disturbo motorio già da molti anni prima di essere diagnosticati e pertanto rapidamente sviluppano le fluttuazioni motorie che caratterizzano la fase avanzata della malattia stessa. In un suo recente lavoro si sottolinea come la levodopa tenda a perdere di efficacia nella fase finale del Parkinson. Quali conseguenze ha questo fenomeno sulla terapia? ❱❱❱ Permettetemi di precisare che la le-

vodopa non perde mai di efficacia nella malattia di Parkinson. È piuttosto la durata dell’effetto che a causa della progressiva perdita di cellule della dopamina cerebrali tende ad abbreviarsi richiedendo somministrazioni sempre più ravvicinate. In questo senso anche i farmaci come gli inibitori delle COMT o delle monoaminossidasi non consentono di estendere in maniera significativa il beneficio della levodopa orale. Questo perché lo svuotamento gastrointestinale nella malattia di Parkinson non è normale e avviene spesso in modo molto irregolare. Poiché la levodopa per essere assorbita deve raggiungere il primo tratto dell’intestino tenue e quindi passare lo stomaco spesso i pazienti non riescono ad avere un beneficio uniforme nel corso della giornata. Infatti molte delle dosi assunte per esempio nel pomeriggio non forniscono un effetto adeguato a causa dello scarso assorbimento. In conclusione quale messaggio si può

ricavare da queste nuove evidenze sul Parkinson avanzato? ❱❱❱ Direi che prima di tutto il neurologo deve prestare molta attenzione alla raccolta dell’anamnesi con particolare riferimento alla definizione dello stato motorio e psichico del paziente stesso nel corso della giornata. È inoltre importante che il neurologo discuta con il paziente delle possibilità alternative di trattamento prima che le dosi di levodopa siano eccessivamente incrementate e gli intervalli tra le dosi stesse accorciati fino a circa tre ore. Tra le varie alternative terapeutiche l’infusione duodenale di levodopa rappresenta una strategia molto efficace perché consente di sostituire il trattamento orale e di rendere uniformi le condizioni del paziente riducendo in maniera sensibile sia i periodi di scarsa motilità come anche i movimenti involontari. L’infusone duodenale di levodopa è oggi praticata in tutte le regioni italiane e rappresenta quindi una valida alternativa al trattamento orale in tutti quei pazienti che si trovino in una condizione di scarso controllo farmacologico.

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NEWS congressi MEETING ANNUALE AMERICAN ACADEMY OF NEUROLOGY, 15-21 aprile - Vancouver (Canada)

SCLEROSI MULTIPLA

Peginterferone beta-1a efficace e sicuro anche a lungo termine: le conferme dallo studio ATTAIN Nonostante lo sviluppo e l’introduzione di terapie innovative soprattutto orali per la sclerosi multipla, i farmaci “tradizionali iniettabili”, come l’interferone, rivestono tuttora un ruolo di primo piano. Si tratta infatti, di molecole ben consolidate dal punto di vista dell’efficacia e sicurezza, e che comunque meritano di essere ancora esplorate sebbene la via di somministrazione iniettiva possa sembrare più “macchinosa” e forse meno gradita al paziente rispetto a quella orale Interessanti novità riguardano il trattamento con peginterferone beta-1a e sono emerse al 68° Meeting dell’American Academy of Neurology (AAN). I nuovi dati in particolare, indicano che in soggetti adulti con sclerosi multipla recidivante-

remittente (SMRR) il peginterferone beta-1a, somministrato ogni 2 settimane secondo lo schema approvato dallo FDA, si mantiene efficace fino a 6 anni. Il peginterferone beta-1a è stato approvato da parte dell’Ente regolatorio USA per

il trattamento della SMRR nell’agosto del 2014 sulla base dei risultati ottenuti in una popolazione di partecipanti allo studio ADVANCE, trial multicentrico, randomizzato e in doppio cieco, controllato con placebo che ha coinvolto 1.516 pazienti.Nell’ADVANCE il peginterferone beta-1a sc una volta ogni 2 settimane, riduceva in modo significativo il tasso annualizzato di recidiva (ARR) a 1 anno del 36 per cento rispetto al placebo (p =0,0007). Vi era inoltre una diminuzione del rischio a 12 settimane di progressione di disabilità confermata all’EDSS del 38 per cento (p = 0,0383) rispetto al placebo. L’ef-

La molecola sperimentale OCRELIZUMAB si mostra promettente anche nella SMPP Ocrelizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato sperimentale, che colpisce in modo selettivo le cellule B CD20+. I risultati presentati a Vancouver riguardano un endpoint nuovo nella SMRR, ovvero il NEDA (No Evidence of Disease Activity, cioè nessuna evidenza di attività di malattia): il NEDA è un composito di parametri fondamentali dell’attività di malattia che ne valuta il livello di controllo. I pazienti hanno raggiunto il NEDA quando non manifestano alcuna ricaduta, né progressione della disabilità, né lesioni nuove o aumentate di volume alla RMN nel corso di un determinato intervallo di tempo. In sintesi, ocrelizumab ha un impatto significativo sulla progressione di disabilità e sul danno a livello del tessuto cerebrale sia nella SMRR che nella SMPP, e il suo effetto clinico si manifesta su diversi parametri della malattia. Negli studi di fase III OPERA I e OPERA II, il NEDA è risultato del 48 per cento con ocrelizumab rispetto al 29 per cento con interferone beta-1a in OPERA I, e del 25 per cento in OPERA II. Il trattamento con ocrelizumab era in grado di prevenire l’attività di malattia con un aumento dell’ordine del 64-89 per cento. ORATORIO è un altro studio di fase III, randomizzato in doppio cieco che valutava l’efficacia e la sicurezza di ocrelizumab (600 mg somministrati per infusione ev ogni sei mesi, con due infusioni da 300 mg a due settimane di distanza l’una dall’altra) rispetto a placebo in 732 pazienti affetti da SMPP. È stato osservato come anche in questa forma di malattia il farmaco è stato in grado di ridurre la progressione della disabilità clinica sostenuta per almeno 12 settimane. Nel complesso si tratta di risultati molto promettenti, che segnano un ulteriore passo nella lotta alla disabilità derivante dalla sclerosi multipla.

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ficacia è stata evidenziata anche sui parametri RMN, con una riduzione significativa dell’86 per cento nel numero di nuove lesioni captanti e una riduzione del 67 per cento di lesioni iperintense in T2 nuove o di recente ampliamento rispetto al placebo. I nuovi dati derivano da uno studio di estensione dell’ADVANCE, denominato ATTAIN. Nell’ADVANCE i pazienti erano stati assegnati in modo randomizzato a ricevere 125 mcg di peginterferone beta-1a ogni 2 settimane oppure ogni 4 settimane o placebo per 1 anno. Dopo il primo anno, i pazienti nel gruppo place-

bo sono stati riassegnati in modo casuale a uno dei due regimi di peginterferone beta-1a per l’anno rimanente dello studio. I pazienti che avevano completato l’ADVANCE erano eleggibili per l’arruolamento nell’ATTAIN. La popolazione intention-to-treat (ITT) includeva 730 pazienti che hanno iniziato il trattamento attivo nell’anno 1 di ADVANCE, di cui 376 in trattamento con peginterferone beta-1a ogni 2 settimane e 354 con peginterferone beta-1a ogni 4 settimane. Nel corso di 6 anni, l’ARR normalizzato è migliorato in modo significativo con peginterferone

beta-1a ogni 2 settimane rispetto al regime ogni 4 (0,188 vs 0,263; P =0,0052). In particolare, i valori aggiustati di ARR sono risultati generalmente ridotti anno dopo anno nel gruppo “ogni-2-settimane”. Un trend analogo è stato osservato anche nei parametri RMN. Per le lesioni in T2 c’è stata una riduzione del 67 per cento rispetto al placebo nel primo anno, che si è mantenuta nell’arco di 4 anni. Anche per le lesioni captanti gadolinio si è vista una riduzione dell’86 per cento nel primo anno, che poi si è mantenuta fino a 4 anni.

CONGRESSO ACCADEMIA ITALIANA LIMPE-DISMOV, 4-6 maggio - Bari

Oltre la MALATTIA DI PARKINSON Verso gli altri disturbi del MOVIMENTO Al secondo congresso dell’Accademia Italiana LIMPEDISMOV per lo studio della malattia di Parkinson e dei Disturbi del Movimento svoltosi a Bari dal 4 al 6 maggio scorsi, molta attenzione è andata alla sistematizzazione epidemiologica delle distonie, dove la mancanza di test diagnostici e marcatori biologici, insieme a un’espressività clinica estremamente variabile, per troppo tempo hanno impedito che molti casi arrivassero all’attenzione del medico o che venissero diagnosticati correttamente, con punte, inverosimili per la nostra epoca, di 34 anni di attesa fra esordio dei sintomi e corretta diagnosi

A parte la scoperta della possibilità di individuare precocemente nella saliva le alterazioni dell’alfa-sinucleina nella malattia di Parkinson a opera del gruppo diretto dal presidente Limpe-Dismov SIN Alfredo Berardelli, dell’Università la Sapienza di Roma (www.neurologiaitaliana. it), nuovi dati emergono anche nella diagnosi precoce degli altri disturbi del movimento ricavabili grazie alle nuove tecniche di imaging promosse dalla task force della EFNS e della Mov. Disor. Soc. European Section che, nelle raccomandazioni per la ricerca, sollecita per la diagnosi differenziale tra malattia di Parkinson e altri parkinsonismi degenerativi l’impiego dell’imaging funzionale cerebrale (PET, SPECT, fMRI, scintigrafia miocardica 123I-MIBG). Come ha indicato Roberto Ceravolo, del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa nella sua lecture “Imaging nei disordini del movimento”, negli ultimi 15 anni ad apportare la maggiore mes-

se di informazioni su questo aspetto della malattia di Parkinson sono state le metodiche per lo studio del trasportatore della dopamina (DAT) mediante SPECT. In particolare il marcatore 123I-FPCIT, altamente selettivo per il trasportatore, ottiene un picco di concentrazione cerebrale a 148 minuti dall’iniezione e un’imaging a 3-6 ore, evidenziando una significativa riduzione dell’uptake a livello del putamen. Peraltro fornisce un andamento longitudinale dello stato di malattia, in quanto l’uptake striatale correla proporzionalmente con la gravità del quadro clinico, svelando varianti di compromissione nigrostriatale precoce che differenziano ad esempio vero e falso parkinsonismo, tremore essenziale o tremore isolato. L’imaging funzionale del sistema dopaminergico nigrostriatale consente di valutare accuratamente l’integrità del circuito attraverso la visualizzazione dell’attività del trasportatore

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NEWS congressi della dopamina a livello presinaptico perché la SPECT con tracciante presinaptico, 123I-FP-CIT (DaTScan), può differenziare pazienti con malattia di Parkinson in fase precoce e soggetti sani: già nelle prime fasi di malattia, infatti, l’attività dopaminergica è patologicamente ridotta di almeno il 50 per cento. Allo stesso modo si possono differenziare dal parkinsonismo vascolare le sindromi parkinsoniane degenerative o il tremore di altra origine, compreso il parkinsonismo iatrogeno, condizioni non associate a degenerazione della substantia nigra e a deficit dopaminergico striatale. Il parkinsonismo iatrogeno è la più frequente forma secondaria dei Paesi occidentali e la sua diagnosi differenziale è particolarmente importante in forza della reversibilità da sospensione dell’agente farmacologico induttore. La negatività dell’imaging DAT (la scintigrafia usata nelle forme clinicamente incerte per rilevare rarefazione dopaminergica nel corpo striato e nella substantia nigra) è un criterio di esclusione diagnostico per la malattia di Parkinson, ma l’esame ha grande specificità e sensibilità per i parkinsonismi degenerativi: anche in forme di parkinsonismo vascolare o iatrogeno è spesso presente un quadro degenerativo e in molte forme di parkinsonismo degenerativo (degenerazione cortico-basale e demenza a corpi di Lewy) può verificarsi un precoce interessamento corticale, con un interessamento sottocorticale solo successivo. Queste metodiche si sono dimostrate di valido aiuto nella diagnosi precoce: in presenza anche solo di un tremore isolato la loro positività è ad esempio un indice assai probabile di rischio di fenoconversione in malattia di Parkinson. I miglioramenti diagnostici verificatisi in particolare negli ultimi 2 anni sono legati alla visualizzazione mirata della sostanza nera, dapprima con RMN a 7 Tesla (T) e poi a 3T, meto-

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dica che ha permesso una precoce correlazione anche con il disturbo delle gambe senza riposo, altro marker sindromico precoce. Dati preliminari sembrano suggerire che l’esame SPECT del DAT venga compromesso più precocemente rispetto alla risonanza magnetica, probabilmente perché il DAT in fase iniziale/preclinica è down-regolato come fenomeno compensatorio, ma tale meccanismo, inizialmente volto a compensare, diventerebbe poi la causa delle complicanze motorie e delle discinesie. Nella diagnosi precoce un altro capitolo nuovo è l’associazione fra alterazioni al DaTSCAN e alterazioni olfattive. Lo studio PARS (Parkinson Associated Risk Syndrome) presentato al XVIII Congresso internazionale sul Parkinson di Stoccolma dai ricercatori dell’Institute for Neurodegenerative Disorders di New Haven ha dimostrato che in tal caso il 46 per cento dei pazienti svilupperà entro 4 anni le manifestazioni cliniche della malattia. Cesare Peccarisi BIBLIOGRAFIA

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NEWS associazioni A.L.I.Ce. EMILIA ROMAGNA ONLUS

La campagna di sensibilizzazione che “salva il CERVELLO, ascoltando il CUORE”

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orna per il quarto anno consecutivo la campagna di prevenzione “Ascolta il tuo cuore per salvare il tuo cervello” promossa da A.L.I.Ce (Associazione per la lotta all’ictus cerebrale) Emilia Romagna, con attività rivolte alla popolazione per sensibilizzare sui fattori di rischio dell’ictus cerebrale, primo fra tutti la fibrillazione atriale (FA). La FA è causa del 15-20 per cento di tutti gli ictus trombo-embolici, e ha una prevalenza nella popolazione italiana che oscilla tra l’1 e il 2 per cento. Questo significa che nella sola Emilia Romagna i soggetti affetti da FA sono circa 60.000, con un’incidenza di circa 13.000 nuovi casi all’anno. Nei pazienti affetti da questa aritmia cardiaca, è fondamentale instaurare una terapia anticoagulante, che però spesso non viene attuata. Secondo i dati di una recente indagine, tra i ricoverati nelle

Unità di Cardiologia e Medicina italiane solo il 59 per cento dei pazienti con FA assumeva il trattamento anticoagulante orale (indipendentemente dalla diagnosi). Inoltre, molto spesso le persone non sanno nemmeno di avere questa temibile alterazione del ritmo cardiaco. Ecco perché nasce (e si ripete da quattro anni) l’iniziativa di A.L.I.Ce Emilia Romagna: l’obiettivo è dare vita ad attività di sensibilizzazione e screening, anche per dimostrare come sia semplice e rapido controllare e far emergere eventuali alterazioni del proprio ritmo cardiaco. Nel mese di maggio, cinque città della Regione, Carpi, Ravenna, Parma, Piacenza, Reggio Emilia sono state protagoniste di iniziative di informazione sulla patologia e in alcuni casi sono stati organizzati screening sulla popolazione alla

presenza di personale medicosanitario, relativamente ai principali fattori di rischio dell’ictus cerebrale, pressione arteriosa, esame dei tronchi sovraortici, e naturalmente la fibrillazione atriale. “Il nostro obiettivo è quello di aumentare la prevenzione dell’ictus, e il monitoraggio sulla popolazione per verificare la presenza di fibrillazione atriale, è di fondamentale importanza – ha dichiarato Antonia Nucera, presidente di A.L.I.Ce Emilia Romagna, in occasione della presentazione della campagna. “Le recenti evidenze scientifiche che ci vengono dalla letteratura internazionale stanno dimostrando che la percentuale di ictus cardioembolici causati dalla fibrillazione atriale sono in aumento, come è stato provato che più si effettuano controlli strutturati sui pazienti, più emergono casi di questa aritmia”.

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Pagina 205x275 2016_Genova Progetto Giovani 24/02/16 11:21 Pagina 1

XLVII CONGRESSO SOCIETÀ ITALIANA DI NEUROLOGIA Venezia, 22-25 Ottobre 2016 Polo Congressuale - Lido di Venezia

Il Congresso si articola in: Corsi di Aggiornamento a numero chiuso; Sessioni Plenarie; Workshops; Simposi, Sessioni Comunicazioni Orali e Poster, Riunione congiunta Infermieri Neuroscienze ANIN e SIN, Corso SISM, Incontri con le Associazioni Laiche. Progetto giovani È prevista l’iscrizione congressuale e un rimborso spese per l’ospitalità per 200 giovani soci della Società Italiana di Neurologia, che siano iscritti alla Scuola di Specializzazione in Neurologia o che non abbiano ancora compiuto i 35 anni di età. L’iniziativa è riservata a coloro che presenteranno entro il 31 maggio 2016 un contributo scientifico come primo autore. Il Comitato Scientifico del Congresso selezionerà i contributi meritevoli di essere premiati con il Progetto Giovani. Per le modalità di presentazione consultare il sito web www.neuro.it al link “XLVII CONGRESSO DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI NEUROLOGIA”.

PRESIDENTE DEL CONGRESSO Leandro Provinciali COMITATO DI PRESIDENZA Mauro Silvestrini Marco Bartolini Simona Luzzi COORDINATORI Francesco Paladin Rocco Quatrale Paolo Tonin Vito Toso

COMITATO ORGANIZZATORE LOCALE

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA SIN

Aurora Angeleri Roberto Baruffaldi Claudia Cagnetti Maura Danni Maria Del Pesce Paolo Di Bella Nicoletta Foschi Marco Guidi Giovanni Lagalla Francesco Logullo Michele Ragno Mario Signorino Ruja Taffi

Studio ConventurSiena Via del Cavallerizzo, 1 53100 Siena Tel: 0577 270870 - 285040 Fax: 0577 289334 E-mail: info@neuro.it

Sin

SOCIETÁ ITALIANA DI NEUROLOGIA

SITO SIN www.neuro.it link “XLVII Congresso SIN”


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20/05/16

11:21

Merck sostiene

#MSDay24 #strongerthanMS

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Impegno, attenzione e ricerca nella Sclerosi Multipla

MAT/59/16 del 10/05/2016

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