L'arte di risalire

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Alfredo Formosa - Stefano Pallanti

Elena Campanini - Alfredo Formosa

L’arte di risalire Storie di campioni per le sfide di noi comuni mortali

Stress? No grazie, sono resiliente!

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Elena Campanini - Alfredo Formosa

L’arte di risalire Storie di campioni per le sfide di noi comuni mortali


Indice generale CAPITOLO I - “IL NUOTO È UNO SPORT COMPLETO!” 1. Sport palestra di vita .......................................................................................... 7 2. Lo sportivo post-moderno .............................................................................. 17 3. Sport resiliente................................................................................................... 36 CAPITOLO II - STORIE DI CAMPIONI 1. Ai limiti dell’impossibile................................................................................. 47 Alessandro Cuor di Leone................................................................................. 48 “Herminator” .................................................................................................... 53 Il Signore degli Anelli........................................................................................ 58 Luci nel buio....................................................................................................... 62 2. Quelli che non…............................................................................................... 66 “Thorpedo” ........................................................................................................ 67 “O Fenômeno” ................................................................................................... 71 Il Campione Fragile .......................................................................................... 76 Il Re Deposto ..................................................................................................... 80 3. Il miracolo continua ........................................................................................ 86 CAPITOLO III - LA RESILIENZA, QUESTA SCONOSCIUTA 1. “Resalio”, quindi esisto .................................................................................... 90 2. I meccanismi della resilienza ......................................................................... 97 3. Diversamente resilienti ................................................................................. 110 CAPITOLO IV - L’ARTE DI RISALIRE 1. I grandi esempi dello sport ........................................................................... 121 2. Doping? No grazie ......................................................................................... 159 3. Come aumentare e allenare la resilienza .................................................... 172 4. Resilienza per tutte le età .............................................................................. 179 CAPITOLO V - CONCLUSIONI .............................................................................. 190

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PREFAZIONE Sto passeggiando per Via Senato a Milano in un piacevole fine pomeriggio di settembre inoltrato. Oggi c’è stato il vento tutto il giorno e la serata si preannuncia limpida e tersa, condizioni non del tutto abituali per la metropoli meneghina, quasi sempre immersa nella sua costante coltre di smog. Ma oggi no, il cielo è blu e sta iniziando a scomporsi nella variopinta tavolozza di colori di un tramonto degno del suo nome. Sto tornando verso Piazza del Duomo provenendo da Via Montenapoleone dove non mi sono dato allo shopping selvaggio a causa di imprescindibili problemi di budget, ma dove ho trascorso un paio d’ore da Cova, uno dei più bei caffè milanesi, in amena conversazione con la Dottoressa Elena Campanini, psicologa clinica, nonché psicologa dello sport e istruttrice di mindfulness. Proprio la mindfulness, la versione “occidentalizzata” della meditazione buddista, doveva essere l’argomento dell’incontro e della conseguente chiacchierata di oggi. Da tempo mi ero interessato a questa tecnica meditativa, avevo trovato molta documentazione online e avevo letto un paio di libri favolosi del suo legittimo padre e guru, il Prof. Kabatt-Zinn, che la utilizza nel suo centro in Massachusetts per la gestione e la riduzione dello stress. E proprio per quello, per gestire e ridurre lo stress, mi sarebbe interessato seguire un corso ben fatto di mindfulness, senza dover essere costretto a un viaggio oltre oceano. Così avevo contattato la dottoressa che conosco da alcuni anni e per questo ci eravamo dati appuntamento in centro per un caffè. L’alternativa, ovvero parlare di mindfulness al San Raffaele, non mi entusiasmava affatto, visto che l’ambiente dell’ospedale mi intristisce e deprime non appena ne varco il cancello. Le storiche pareti di Cova mi sembravano molto più rilassanti e accoglienti. La chiacchierata era iniziata e tranquillamente andata avanti da circa mezz’ora quando, non so neanche io come, l’attenzione si era spostata dalla “consapevolezza del qui ed ora” alle recenti vicende delle Olimpiadi di Londra 2012, focalizzandosi in modo particolare sulle performance eccezionali degli atleti delle Paralimpiadi. 5


Sia la Dottoressa che il sottoscritto siamo due grandi appassionati di sport, entrambi amanti dell’acqua, anche se sotto due stati fisici differenti. Lei, nuotatrice, la predilige nella sua forma liquida, io, appassionato sciatore, la preferisco solida e gelata. Comunque sempre di passione per l’acqua si tratta! Abbiamo iniziato a parlare di come lo sport fosse cambiato negli ultimi decenni, di come una volta fosse più pulito e vero, pur rimanendo sempre e comunque un elemento fondamentale per il benessere psicofisico dell’individuo, un potente anti-stress fondamentale per scoprire e migliorare le proprie doti di resilienza. Sì, la resilienza, la facoltà di affrontare le difficoltà della vita, superarle e uscirne addirittura migliorati. Così come era successo ad alcuni campioni dello sport che erano stati capaci di affrontare e superare gli esiti di incidenti terribili tornando a essere vincenti nello sport e nella vita, mentre altri non ci erano riusciti sprofondando nella depressione e nell’abuso di alcol e di sostanze tossiche: anche i fenomeni dello sport hanno un rapporto speciale e molto personale con la resilienza, facoltà che, come il fisico e la mente del campione, va allenata e migliorata anche da noi comuni mortali per permetterci delle performance incredibili nella vita di tutti i giorni Mentre sto per raggiungere Piazza del Duomo, cerco di riordinare nella mia mente i vari passaggi delle quasi due ore di conversazione per non fare svanire nell’oblio tanti argomenti e tanti spunti veramente interessanti per affrontare e superare i problemi del quotidiano, stress compreso: ci sarebbe da scriverci un libro!

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CAPITOLO I - “IL NUOTO È UNO SPORT COMPLETO!”

1. Sport palestra di vita “È un sacrificio portare mio figlio in piscina, ma il nuoto è uno sport completo!” Questa è una frase che ho sentito tante volte ripetere dalla mia materna genitrice impegnata in conversazioni salottiere o telefoniche con altre mamme con le quali si vantava di questa sua iniziativa sportiva proiettata al benessere del suo pargolo. Proprio mia madre, che stava allo sport come un diabetico alla Sacher Torte1, l’antisportiva per eccellenza, aveva colto il messaggio che l’attività sportiva gridava a grande voce negli anni sessanta: fare sport fa bene e fa crescere forti e sani. Magari un po’ ignoranti, ma sani. E questo era il suo grande spauracchio; lei, insegnante vecchia maniera di italiano e storia, temeva comunque che il benessere fisico avrebbe rubato preziose ore ad Alessandro Manzoni e alla calata degli Unni. Ma l’amore materno aveva avuto il sopravvento e io ero stato iniziato a molte discipline sportive, alcune delle quali mi sono rimaste nel sangue e pratico ancora oggi con grandi soddisfazioni, nonostante abbia già passato la cinquantina. 1. Sacher Torte La Torta Sacher, dal nome del celebre pasticceria viennese, è il dolce austriaco per eccellenza ed è una delle torte al cioccolato più apprezzate e conosciute al mondo. Servita spesso con panna montata, ha la caratteristica di essere, oltre che buonissima, molto calorica, e quindi poco indicata a chi ha problemi di peso.

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“La stessa sorte era toccata a me”, interviene Elena, “quando la pediatra pronunciò la fatidica frase al cospetto dei miei genitori preoccupati per l’ennesima polmonite asmatica della loro figliolina magrolina e con le occhiaie.” E continua: “In quell’anno mi capitò di tutto. L’arrivo, nell’ordine, della piscina tre volte alla settimana, di un fratellino inatteso e della promozione in terza elementare (cosa che, negli anni sessanta aveva il suo bel significato, perché voleva dire iniziare a studiare sul serio) mi avevano creato una situazione di stress non indifferente a coronamento di un inverno costellato di bronchiti asmatiche e febbroni da cavallo. Ogni volta che mi ammalavo ero costretta a interrompere scuola e nuoto con la conseguente corsa in salita verso il recupero. Mio padre, dopo ogni malattia si raccomandava, accompagnandomi in piscina: “non prendere freddo che poi ti riammali”. E la cosa puntualmente avveniva, suffragando il pensiero dello psicologo R. Nerton che nel 1948 parlava di “profezia che poi si avvera”, ovvero “una supposizione che, per il solo fatto di essere pronunciata, fa avvenire quanto supposto, confermandone la veridicità”. Oggi la si chiamerebbe in modo meno elegante e intellettuale la “classica gufata” alla quale le femminucce replicano con un’alzata degli occhi al cielo, i maschietti, molto più terra terra, con una toccatina a specifiche zone dell’apparato di riproduzione! Ma come poter evitare gli sbalzi di temperatura fra dentro e fuori l’acqua, dal piano vasca agli spogliatoi e poi dall’ambiente caldo-umido che caratterizza tutte le piscine all’aria aperta? Impossibile! Alla fine restavano due sole possibilità: o “scappare” dal nuoto o “combattere” contro le avversità ambientali e provare a sopravvivere agli eventi. Siccome nuotare mi piaceva e non andavo in dispnea come quando correvo o saltavo, 8


continuai ad andare in piscina, nonostante le innumerevoli influenze: di smettere di nuotare proprio non ne volevo sentir parlare! E fu proprio così. La mia ostinazione e perseveranza fu premiata. Magicamente quello fu l’ultimo anno in cui mi si poté definire una bambina “cagionevole di salute”. Guarita! Fortificata! E da quell’anno ebbe inizio anche il cambiamento della visione che avevo di me stessa: da una bimba che doveva preservarsi dal correre, fare sforzi, ridere e che doveva imbacuccarsi di sciarpe per evitare di ammalarsi, a una che non prende mai un raffreddore, che può uscire con la testa bagnata in pieno inverno, che può sottoporsi a vari tipi di stress con l’idea di avere delle buone probabilità di farcela.” Mia madre invece non mi aveva subito abbandonato alle pure acque ricche di cloro della piscina, ma aveva avuto altre gatte da pelare. Infatti ero piuttosto “vivacino”, come si diceva all’epoca e, se ai giardinetti c’era qualcuno che si menava, con buona approssimazione uno dei contendenti ero io. Non che fossi un attaccabrighe, ma il 50% di sangue siciliano che mi scorre nelle vene già all’epoca invocava privacy e tranquillità. Se qualcuno veniva a turbare il mio microcosmo, lo menavo. E poi mi rimettevo tranquillamente a giocare. Questo non piaceva affatto a mia madre che, su suggerimento della solita pediatra, mi portò in una palestra di judo dove sarei stato finalmente libero di picchiarmi come e quando volevo, ma rispettando delle regole entrate in vigore alcuni millenni fa e, quindi, assolutamente indiscutibili. Il mio istruttore era entusiasta perché nei combattimenti mi avventavo sull’avversario come un dobermann sull’osso. Poi qualcosa mi scattò nella testa. Mi calmai di colpo rendendomi conto delle mie potenzialità. Potevo buttare per terra anche un ragazzo molto più grande di me sfruttando la sua stessa energia, ma 9


usando la tecnica solo per difesa, mai per attacco. Diventai molto cosciente del fatto che avrei potuto fare seriamente del male a qualcuno fuori dal tatami2 , anche se l’idea che più erano grandi e grossi e più erano facili da buttare a terra decisamente non mi dispiaceva. Devo dire, a onor del vero, che tutta questa saggezza iniziò di colpo un giorno in cui mi stavo divertendo a fare lo sbruffone durante le mosse di riscaldamento. Il mio maestro non mi disse niente ma, quando fu il momento di iniziare i cosiddetti “combattimenti”, organizzò tutte le coppie di bambini lasciando fuori il sottoscritto. Quello che per un attimo fu solo un dubbio colorato di terrore si materializzò poi in realtà con la frase a me indirizzata: “tu oggi combatti con me”. Fu bellissimo. Tutto quello che vidi in quei 10 lunghissimi minuti fu il soffitto della palestra alternato al colore blu del tatami. Terminato il combattimento con l’inchino all’avversario, passai i 10 minuti successivi a rimettere a posto il kimono, riposizionare le tonsille e la cistifellea che se se ne erano andate a spasso e decidere che sarebbe stato meglio fare il pirla magari in altre circostanze. Esaurita poi la fase delle arti marziali, ecco che il richiamo dell’acqua echeggiò nelle orecchie materne e via, verso il mondo di corsie, tavolette, ciabatte e verruche. Seguirono molti sport, visto che ero poco propenso all’agonismo e, una volta acquisita la tecnica, mi stufavo. Quindi feci un po’ tutti gli sport classici e la cosa di cui devo veramente ringraziare mia madre è stato il fatto che non mi aveva mai buttato allo sbaraglio. Da buona professoressa 2. Tatami È un tradizionale tappeto giapponese composto da pannelli affiancati fatti con paglia di riso intrecciati e pressati. Sul tatami, dove si cammina rigorosamente scalzi, i Giapponesi fanno un po’ di tutto (dormono, prendono il tè, chiacchierano). Nelle arti marziali praticate in occidente corrisponde a una sorta di tappeto gommoso sul quale si svolgono esercizi e combattimenti (judo, karate, ecc).

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non ammetteva l’autodidatta, nemmeno nel tennis. Così mi aveva sempre affidato a un istruttore per iniziare un nuovo sport. Lui mi avrebbe “impostato bene”, come diceva sempre, e poi mi sarei potuto divertire con i miei amici. E devo dire che questo fu sempre e comunque vero. Le nostre esperienze appena descritte erano, e sono, comuni a tanti bambini che si sono avvicinati al mondo dello sport non solo per diletto o velleità agonistiche (dei genitori...), ma anche per motivi di salute. In ogni modo la parola d’ordine era “fortificarsi”, nel corpo e nello spirito! E a noi è andata anche bene. Elena è diventata una nuotatrice di livello e un’ottima professionista, io invece ringrazio il cielo che all’epoca la sindrome ADHD3 non fosse stata ancora inventata perché sarei stato tirato su a psicofarmaci, invece che a pastasciutta e calci nel sedere!

Fare Sport fa bene! “E tutto questo perché fare sport fa bene!” commenta Elena. “Non è uno dei tanti luoghi comuni del tipo “non ci sono più le mezze stagioni” o “si stava meglio quando si stava peggio”. Certo, anche sullo sport sono state scritte tante frasi ovvie e sono state sviluppate tante false credenze. Probabilmente in ciascuna affermazione c’è un fondo di verità, ma non tutto deve essere preso come oro colato, anche se la fonte è autorevole. D’altra parte come poter conciliare la famosa frase 3. ADHD È l’acronimo di Attention Deficit Hyperactivity Disorder, ovvero il disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Per alcuni si tratta di una nuova patologia psichiatrica che rende i bambini disattenti, iperattivi, difficilmente gestibili dai genitori e con difficoltà di integrazione. Per altri è solo un modo per vendere gli psicofarmaci ai ragazzini, come il famigerato Ritalin. Negli USA pare che ne siano affetti almeno 5 milioni di bambini: un po’ tantini!

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“mens sana in corpore sano” che il poeta Giunio Giovenale scrisse intorno al 127 d.C. con “Lo sport è l’unica cosa intelligente che possano fare gl’imbecilli” scritta nel 1928 dallo scrittore Mino Maccari, o con quella di Rita levi Montalcini “Il corpo non importa, ciò che conta è la mente”?” Sicuramente ciascuno tira l’acqua al suo mulino. Quello che sappiamo per certo è che l’uomo è stato programmato per muoversi, per essere in attività. Se abbiamo gambe e braccia, probabilmente ci sono state regalate per spostarci anche rapidamente e non per metterle sotto la tavola (nel caso delle gambe) e per allungarle nel frigorifero alla ricerca di una birra (le braccia, naturalmente!). Certo, nella notte dei tempi correre velocemente non voleva dire avere un paio di milioni di dollari di sponsorizzazione dalla Nike4 , ma significava ritornare sani e salvi nella propria caverna senza essere stati “assaggiati” da un T-rex 5 o da qualche altra bestiolina feroce. E poi ci sono state le guerre, calamità naturali di ogni tipo, le grandi migrazioni, tutte situazioni dove, volente o nolente, per portare a casa la pellaccia occorreva “muoversi”, e alla svelta. Erano tutti modi di fare attività sportiva senza investire un patrimonio in attrezzature e palestre, ma rimanendo in forma, spesso magri e muscolosi. Si trattava di sopravvivere! Qualcosa ci è rimasto nel DNA che ci portiamo appresso al giorno d’oggi, anche se non siamo più capaci di aprire un cancello senza l’ausilio di un telecomando. Noi ci siamo evoluti molto in 4. Nike Nota società statunitense che produce e commercializza abbigliamento e attrezzature sportive in tutto il mondo, famosa anche per accaparrarsi a suon di milioni di dollari i migliori testimonial nel mondo dello sport. 5. T-rex Sta per Tyrannosaurus rex, un mostro preistorico bipede e carnivoro che poteva misurare fino a 13 metri di lunghezza (coda compresa) e pesare fino a 7 tonnellate.

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fretta, mentre il nostro patrimonio genetico no, lui ha bisogno di molti anni, centinaia, forse migliaia. Però gambe e braccia non si sono nel contempo atrofizzate, i muscoli pure, e quindi è meglio tenere in forma il corpicino che porta in giro la nostra mente e il nostro spirito. Forse è per questo che nell’immaginario collettivo “lo sport fa bene alla salute” e dunque vi è l’aspettativa quasi magica che problemi respiratori e allergici, dismorfismi e paramorfismi6 della colonna vertebrale, del piede e del ginocchio, oggi anche problemi di ipertensione, sovrappeso e obesità, possano trovare nello sport una soluzione curativa. Anche se la realtà purtroppo non è proprio così: lo sport spesso aiuta, ma non sempre risolve. Chi si aspetta di dimagrire facendo sport, senza che vi sia contemporaneamente un cambiamento delle abitudini alimentari, sta coltivando una pia illusione, che verrà presto delusa. Ne ho conosciuti tanti che, dopo essersi massacrati correndo per chilometri o nuotando come una triglia impazzita, si buttavano letteralmente ai piedi del frigorifero che diventava una sorte di totem inneggiante all’esistenza di Dio, per poi scatenarsi nel divorare quantità enormi di cibo con piglio animalesco, condendo il tutto con intingoli, salsine e una bella bottiglietta di grignolino o di Coca Cola. E poi si lamentavano perché non perdevano un etto e la digestione non era più quella di una volta! Tornando ai bambini, Elena precisa che “le motivazioni più comuni che possono spingere un genitore a far iniziare una pratica sportiva al proprio figlio possono essere molteplici: fare del movimento, imparare una disciplina sportiva, mi6. Dismorfismi e paramorfismi Il paramorfismo è un’alterazione della morfologia corporea. Ha origine da squilibri muscolarilegamentosi dovuti a una vita scorretta che, protratti nel tempo, in un organismo non giunto a maturità ossea, tendono a diventare dismorfismi, coinvolgendo anche il normale accrescimento osseo. (fonte: Wikipedia)

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gliorare le condizioni di salute e prevenire l’insorgenza di patologie, imparare a stare in gruppo e socializzare, sviluppare la competizione. Ma ogni genitore in cuor suo confida che l’attività motoria, svolta a qualunque livello, faccia sì che il proprio cucciolo si possa fortificare sia nel corpo che nel carattere. Effettivamente lo sport e l’attività motoria hanno una ricaduta positiva su molti fronti. Vivere il corpo in movimento offre un’opportunità unica e indispensabile alla sopravvivenza e alla formazione della persona; grazie al movimento ognuno ha l’opportunità di conoscere se stesso in relazione con l’ambiente e adattarvisi con efficacia; e ha l’opportunità di imparare a conoscere le proprie potenzialità e i propri limiti, ad autoregolarsi nella gestione dei propri bisogni e delle proprie emozioni e si confronta di conseguenza anche con quelli degli altri; impara le regole sociali e di convivenza comunitaria, può sperimentare e allenarsi efficacemente nella “capacità di farcela”, esperienza fondamentale per dare una base solida alla propria autostima.” E non esiste una scadenza temporale per diventare uno sportivo. Ci sono persone che hanno iniziato a praticare sport come il tennis o lo sci in età matura con eccellenti risultati. Come per tutte le cose, e a qualunque età, il primo ingrediente per fare le cose per bene è il buon senso. Sconsigliato sempre il “fai-da-te” se non si hanno nozioni chiare e precise su come funzioniamo. Diventare allenatori di se stessi non è poi così semplice. Oggi troviamo su Internet un sacco di informazioni e di consigli per trovare o ritrovare la forma perfetta, ma è un po’ come per le diete: ce ne sono di tutti i colori, e non tutte vanno bene. Come una dieta a sola base di banane ci permetterebbe certo di appenderci per i piedi al lampadario buono di casa, provocandoci 14


però degli scompensi alimentari decisamente pericolosi, così una pratica sportiva non equilibrata può avere degli effetti decisamente disastrosi, qualche volta irreversibili. Quante volte ho visto nel parchi di tante città esseri umani ossessionati dall’adipe in eccesso o dall’imminente prova costume correre nelle prime ore del pomeriggio, in pieno luglio, magari dopo una bella “amatriciana”, sotto il sole cocente, coperti dalla testa ai piedi nel tentativo di sudare come in una sauna: esperimento per un dimagrimento lampo o prove tecniche di infarto del miocardio? O altri che dopo 15 anni di totale inattività e vita sedentaria decidono di rimettersi di botto a fare sport e si presentano su un circuito da jogging partendo come dei tarantolati per fermarsi rantolanti dopo il primo chilometro. Lo sport ha delle regole come le ha il nostro corpo e queste devono essere rispettate. Per questo sarebbe necessario affidarsi a un preparatore atletico qualificato, anche solo per arrivare pronti alla partitella di calcetto con gli amici: non tutti sono obbligati a partecipare alla Maratona di New York per sentirsi dei veri sportivi! L’attività fisica deve essere ben equilibrata e commisurata alle nostre reali condizione psicofisiche e non a quelle che ci siamo inventati o che pensiamo di imporci. A queste condizioni diventa un vero toccasana per corpo, mente e spirito, a condizione che la pratica sportiva sia svolta con una certa costanza e continuità. In questo caso che cosa succede dentro di noi quando siamo impegnati in una rilassante seduta di jogging? Innanzi tutto il sistema cardiovascolare funziona meglio, si abbassa la pressione arteriosa, aumenta l’efficienza cardiaca e si riduce il battito a riposo. Il sangue diventa più fluido, riducendo il rischio di infarto, si riduce il livello del colesterolo (quello definito “cattivo”). Anche l’apparato gastro-intestinale lavora meglio e pure la digestione ne 15


trae giovamento. Se poi l’attività fisica viene coordinata con una valida dieta, allora vi saranno anche dei benefici sulla linea, con una riduzione del peso corporeo, un’autentica benedizione per il nostro sistema muscolo-scheletrico, per le articolazioni, per la postura che ci permette, tra l’altro, di respirare meglio e quindi di ossigenare meglio il sangue. Migliora il sistema immunitario e anche la vita sessuale, sia nell’uomo sia nella donna, viene ad essere molto più appagante e soddisfacente. Lo sport ci fa stare meglio a livello fisico e ci fa invecchiare meno, visto che ha un profondo effetto anti-aging. Fa anche molto bene al cervello, dato che stimola la produzione delle cellule cerebrali, migliora i processi cognitivi e già in giovane età aumenta le capacità di apprendimento, mentre in età meno giovane aiuta la memoria. Inoltre, pare che sia un ottimo elemento per prevenire le malattie cerebrali in genere. A livello psicologico è un potente antistress: un atteggiamento sportivo corretto ci permette di scaricare le tensioni della giornata e pare che sia in grado di ridurre nell’organismo i livelli di cortisolo, il cosiddetto “ormone dello stress”. Ho voluto parlare di un “atteggiamento sportivo corretto”, perché, se così non fosse, si potrebbe avere un effetto boomerang imbarazzante. Porsi ad esempio degli obiettivi troppo difficili da raggiungere, sottoporsi ad allenamenti troppo duri e troppo faticosi, chiedere troppo a se stessi, vuole dire aggiungere altro stress a quello che uno deve già normalmente gestire, col rischio di iniziare a fare i conti con una diminuzione delle performance e un aumento esponenziale dei rischi di infortunio. Lo sport insegna a soffrire, a rispettare gli impegni presi, a perseguire degli obiettivi, ad aumentare la propria autostima. E infine anche lo spirito ne ha giovamento. La fatica, la ricerca del limite portano l’atleta, anche quello amatoriale, a prendere 16


coscienza di se stesso, del proprio io, del proprio vero modo di essere, calandosi nel momento presente, nel “qui ed ora”, il punto centrale e fondamentale del processo meditativo. Sì, fare sport può diventare molto facilmente una pratica di profonda meditazione e il benessere non solo fisico che proviamo al termine di una corsa, di una sciata o di una bella partita di tennis non è altro che il regalo fatto al nostro spirito da uno stato meditativo che abbiamo raggiunto, molto probabilmente senza saperlo!

2. Lo sportivo post-moderno Elena e io, quasi coetanei, abbiamo iniziato a fare sport un bel po’ di anni fa, quando non esistevano ancora i Personal Trainer, i Body Builder, i Bike Rider, i Coach e così via. A scuola c’era il professore di ginnastica (che mia madre odiava, chiunque esso fosse, per il solo fatto che non correggeva i compiti a casa e si fregiava del titolo di professore senza aver sudato sui libri), sui campi da tennis e sulle piste da sci scorrazzavano i vari “maestri” rigorosamente abbronzati e “sciupa femmine”, mentre gli istruttori si occupavano di calciatori, corridori, saltatori, ciclisti, nuotatori e così via. Quando poi si diventava bravi, allora gli istruttori si trasformavano improvvisamente in allenatori e lì iniziavano ad avere diritto di vita o di morte sul neo-atleta! Quello che accomunava queste figure, apparentemente diverse, ma separate solo da una terminologia lessicale, era la grande passione per lo sport. Si trattava normalmente di atleti, o ex atleti che, per pura passione o per sbarcare il lunario, si dedicavano a trasmettere le regole e le arti dello sport ai ragazzini. Insieme alle tecniche regalavano delle perle di saggezza e di buon vivere, perché all’epoca lo sport aveva delle regole, un’etica. Lo sportivo dava un’immagine positiva di sé, non solo perché era in forma 17


e sprizzava energia da tutti i pori, ma perché era leale, generoso, sapeva che cosa voleva dire soffrire e aiutare gli altri in difficoltà. Fare sport permetteva, tra l’altro, un contatto con l’aria aperta e con la natura. Certo, alcune specialità, come la ginnastica o lo judo, presupponevano la presenza di una palestra, mentre per altre una struttura coperta e chiusa era soltanto un rifugio per i mesi invernali duranti i quali era decisamente imbarazzante scorrazzare in mutande e canottiera con dieci gradi sotto zero. Questo non valeva naturalmente per il calcio, per lo sci, per la corsa campestre, per quelle discipline difficilmente circoscrivibili in aree così piccole da poter essere coperte. E lì valeva tutto, perché le condizioni meteo avverse facevano parte del gioco e chi si arrendeva davanti al nubifragio, al campo ghiacciato o alla tormenta di neve veniva gentilmente invitato dai compagni di squadra a buttarsi sulla danza classica o sulla ginnastica artistica! Non veniva messa a dura prova solo la tenuta di muscoli e tendini, ma anche la qualità di bronchi e pleure. Diciamo poi che una volta lo sport dilettantistico non poneva le sue fondamenta sulla ricerca del benessere, ma sulla sfida, sulla ricerca del risultato, della vittoria, del confronto, sulla capacità di giocarsela contro se stessi e con gli altri. Lo sport era fatica, sudore, lacrime, rabbia, orgoglio, il tutto mixato da un profondo rispetto per l’avversario, dall’agonismo più sfrenato calmierato dall’accettazione della sconfitta. Tutto si basava sulla centralità dell’atleta, e questo valeva anche per il professionista. Le attrezzature tecniche avevano un peso marginale, perlomeno al livello dei comuni mortali. Se eri bravo potevi battere quello ricco ma imbranato, nonostante sfoggiasse l’ultimo paio di sci usati in coppa del mondo o un paio di scarpe 18


da calcio arrivate direttamente dal campionato brasiliano. Se avevi i piedi a banana potevi anche metterti le mutande di Pelé7, ma i piedi rimanevano tali! Erano tutti insegnamenti ed esperienze che venivano proiettate nella vita di tutti i giorni. Chi aveva sputato sangue sui campi sportivi era più predisposto a farlo anche sul lavoro, più capace di soffrire, di affrontare e superare momenti difficili della propria esistenza. Per questo si diceva che lo sport è “una palestra di vita”. Ho scritto appositamente “si diceva”, perché oggi non sono più certo che le cose stiano così. Quello di cui sono sicuro, e che anche mia madre, campionessa condominiale di salto con la corda, e la mamma di Elena avevano intuito, è che fare sport fa bene. Faceva bene quando abbiamo iniziato a farlo noi, fa bene anche oggi, quando molte cose sono cambiate.

L’album di fotografie E a proposito di cambiamenti Elena inizia a parlare di fotografie: “Recentemente, frugando in mezzo a una libreria in casa, mi sono imbattuta in una vecchia scatola di cartone che racchiude le foto di famiglia; è sempre emozionante riguardare le foto. Come siamo cambiati! Quanto tempo è passato! In una busta a parte ne ho trovate alcune che attirano particolarmente l’attenzione; sono le foto degli “sportivi di famiglia”. Mentre le guardo una a una, mi viene in mente un libro letto qualche tempo fa di Linda Berman, una 7. Pelé Pseudonimo universalmente noto di Edson Arantes do Nascimento, detto anche O Rei (Il Re), calciatore brasiliano ormai entrato nella leggenda come il migliore giocatore di tutti i tempi. Giocò negli anni ’60 e ’70 vincendo praticamente tutto. Nel 2011 è stato proclamato “Patrimonio storico-sportivo dell’Umanità”.

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psicoterapeuta americana, che della fotografia ha fatto uno strumento di indagine, per esaminare una vasta gamma di atteggiamenti individuali, familiari, nonché culturali e sociali dei suoi pazienti. La Berman sostiene che le foto parlano; effettivamente parlano attraverso un linguaggio iconografico, che apre con facilità la porta al mondo dei sensi. Una foto può sollecitare ricordi, emozioni, profumi, sapori e scatenare sequenze d’immagini, parole e relazioni legate a quel momento rappresentato nella foto stessa. Le foto condensano in un’immagine un accorpamento di contenuti emotivi e sociali straordinari; è per questo che alle fotografie, nel bene e nel male, ci teniamo così tanto. Queste foto effettivamente parlano, parlano della storia sportiva della mia famiglia, ma anche della storia sportiva in Italia dal dopoguerra ad oggi. A un certo momento l’occhio mi cade su una foto che raffigura una giovane scolaresca di una classe femminile durante l’ora di ginnastica: è un cortile di un edificio molto antico, le ragazze in gruppo eseguono ordinatamente in maniera sincrona esercizi molto aggraziati a corpo libero, tutte indossano pantaloncini neri e maglietta bianca. Subito dopo lo sguardo si sposta su un’altra foto di un giovane con un ciuffo fluente, che palleggia un pallone sotto canestro. L’atleta indossa una maglia con scritto “VIRTUS” e il numero 5. Ai tempi le divise sportive avevano profondi significati valoriali, di ruolo e di appartenenza. Per poterle indossare bisognava necessariamente far parte di quel gruppo o di quella squadra e bisognava meritarselo, dimostrando il proprio valore e le proprie capacità competitive. Sono foto degli anni ’50, un momento particolare della storia dello sport in Italia. Infatti, in capo a qualche anno la “gin20


nastica” sarebbe diventata “educazione fisica”. Queste parole, che noi oggi usiamo come dei sinonimi, hanno invece in origine significati molto diversi e testimoniano la lunga e travagliata evoluzione della concezione dello sport e del movimento in Italia e in Europa. “Ginnastica” è una parola di origine greca (gymnòs: nudo e tecnè: arte) che intende l’esercizio fisico e il movimento come propedeutico al servizio militare e dunque alla guerra. Questo era ciò che si prevedeva che i maschi facessero con il corpo a quei tempi e quindi l’addestramento educativo era orientato a quel fine. Le femmine, invece, venivano indirizzate alla ginnastica perché vi era la convinzione che rendesse più leggiadre, favorisse l’approccio alla musica e alla danza, nonché l’armonia e la bellezza del corpo. Queste due visioni della ginnastica sopravvissero nel tempo, fino ad arrivare al XIX secolo, momento in cui nel 1811 Ludwig Jahn fondò a Berlino la prima scuola di formazione allo sport per giovani. Questa scuola era riservata a giovani particolarmente inclini al patriottismo e che miravano alla fortificazione del corpo e del carattere attraverso l’allenamento della forza e della disciplina. Questa concezione dell’attività motoria prese piede anche in Italia e nel 1833 la ginnastica entrò nelle Accademie Militari come preparazione psicofisica dei soldati. Nel periodo fascista venne esasperata la visione della pratica sportiva come strumento fondamentale per la fortificazione del corpo e dello spirito: negli uomini era finalizzata a formare dei valorosi soldati, mentre nelle donne per formare delle sane e solide educatrici, atte a procreare e ad allevare le future leve militari. In quel periodo furono sciolte tutte le società sportive sorte precedentemente e inglobate nell’Opera Nazionale Balilla, 21


ente educativo che si premurava di educare la gioventù italiana alle imprese belliche anche attraverso la ginnastica. Con la caduta del Fascismo l’ordinamento scolastico fu completamente rivisto. Nel 1958 l’educazione fisica divenne una materia scolastica e sostituì definitivamente la “ginnastica”, intesa come addestramento alla guerra, diventando educazione allo sport con il fine di “... interessare i giovani all’esercizio fisico, come fonte di salute e di sana ricreazione; d’infondere, anche mediante adeguate competizioni, la consapevolezza delle proprie capacità, il senso della lealtà e della cooperazione, di concorrere alla formazione del carattere e della personalità dei giovani”. (Fonte: Art. n.1 Ordinamento dell’Attività Sportiva Classica, O.M. 22 novembre 1961)

Lo sport viene visto come esercizio finalizzato al combattimento e al miglioramento della forza, della resistenza, del superamento dell’ostacolo, dell’annientamento del nemico (sport agonistico), oppure come strumento per coltivare alcuni aspetti della salute della persona in senso lato; da una parte la salute mentale, dall’altra quella fisica. In tal senso si può proprio dire che lo sport sia nato come palestra di vita; per le femmine e i maschi dell’epoca l’educazione fisica, così come poi è stata successivamente definita, era proprio un modo per esercitarsi a stare al mondo. Certo, a stare nel mondo di allora, quando i ruoli sociali e familiari erano ben netti e distinti: le donne dovevano essere forti e risolute per occuparsi della casa, dell’educazione dei figli, nonché soddisfare i bisogni del marito, mentre gli uomini combattevano le loro battaglie che nell’arco dei secoli hanno visto nemici con connotazioni diverse. Oggi le foto che circolano sono molto diverse. Sono foto digitali, che si scattano e si possono modificare e cancellare 22


molto facilmente. Non si trovano più nelle scatole di scarpe. Stanno su un CD, su una pagina Facebook e vanno alla velocità della luce, come le carriere di chi le pratica. Oggi lo sport lo si fa per star bene e per rafforzarsi, ma lo si pratica anche perché è di moda e “fa figo”. Per questo abbiamo assistito all’esponenziale nascita delle palestre.”

Lo Specchio della Società “Se il modo di “muoversi” di un singolo organismo può essere un rivelatore molto schietto delle sue condizioni psicobiologiche e ambientali, le stesse rivelazioni possono esserci riguardo a gruppi di persone, di comunità e di nazioni. Se semplicemente esaminiamo i medaglieri delle Olimpiadi nel corso della storia, ci rendiamo immediatamente conto che lo sport è uno specchio fedele della società, della politica e dell’economia interna di un paese, della situazione internazionale, degli equilibri di potere fra continenti. Mentre nel medagliere delle Olimpiadi del 1908 di Londra al primo posto troviamo la Gran Bretagna, seguita dagli Stati Uniti, e l’Unione Sovietica era solo al dodicesimo posto, nel 1968, alle Olimpiadi di Città del Messico, gli Stati Uniti sono al primo posto, seguiti dall’Unione Sovietica; queste due potenze si disputeranno i primi gradini del podio fino ai giorni odierni, fino a quando proromperà nel 1984 la Cina, piazzandosi quarta assoluta. La Cina incalzerà le grandi potenze fino alle Olimpiadi del 2008 in cui si posizionerà al primo posto. Inutile ricordare che nel frattempo la caduta del muro di Berlino ha cambiato la geografia politica ed economica dell’Europa e che la Cina nel frattempo si è imposta ai vertici delle maggiori potenze economiche mondiali. 23


È ancora impressa vividamente nella nostra memoria collettiva la foto storica del podio dei 200 metri piani delle Olimpiadi di Città del Messico del 1968: Tommie Smith, primo classificato, infrangendo il muro dei venti secondi con il tempo di 19,83, e il suo compagno di squadra John Carlos, classificatosi terzo. Durante la premiazione essi si presentano senza scarpe e con un guanto nel pugno sinistro, che alzeranno in segno di protesta a sostegno dei diritti umani e contro la guerra in Vietnam. Ancora più recente la guerra fredda fra URSS e USA, misurata a suon di record e di medaglie, fino alle Olimpiadi di Pechino, che sono state teatro di manifestazioni di protesta di carattere socio-politico. Infatti, durante la sfarzosa e quasi opulenta cerimonia di apertura, in tutto il mondo vi erano manifestazioni che ci ricordavano l’occupazione cinese del Tibet e la mancanza del rispetto dei diritti umani da parte della Cina. Tutto questo per avvalorare la tesi, che spesso è diventato un luogo comune, che “lo sport è lo specchio della società”. Ma che cosa è cambiato nello sport dagli anni cinquanta a oggi? Riprendiamo un attimo la scatola da scarpe, perché le fotografie aiutano e l’attenzione cade su quelle che ritraggono la generazione successiva: i ragazzi degli anni ’70. Sono foto in bianco e nero e spuntano i primi scatti a colori, ormai un po’ sbiaditi e tendenti al giallognolo. Ritraggono squadre di giovani atleti che giocano e fanno sport insieme. Era il periodo in cui tutto veniva fatto in gruppo. Lo sport era uno sport sociale, praticato per stare insieme e per far parte di una squadra. L’aggregazione e l’appartenenza erano le motivazioni principali che spingevano i genitori ad avviare allo sport i propri figli, a prescindere dal fatto che la disciplina 24


fosse individuale o di gruppo. Lo sport in quel periodo era inteso come attività essenzialmente ricreativa, la cui spinta non eludeva necessariamente quella agonistica, anzi! L’atleta gareggiava per sé, ma soprattutto per la squadra, perché si sentiva parte di essa; erano gli anni d’oro dei centri di avviamento allo sport cosiddetto di “massa”; AICS (Associazione Italiana Cultura e Sport), UISP (Unione Italiana Sport Popolare), CUS (Centro Universitario Sportivo), DLF (Dopolavoro Ferroviario): questi acronimi sono sufficientemente esplicativi della valenza socio-politica che aveva lo sport in quel momento in Italia. D’altra parte questa concezione dello sport era contemporanea alla nascita delle grandi realtà industriali, momento in cui fu forte l’impegno da parte delle stesse aziende a investire le proprie risorse su iniziative a vantaggio della vita extralavorativa dei lavoratori. Intorno alle aziende, infatti, nascono i cosiddetti “villaggi operai”, spesso corredati da scuole di vario ordine e grado e impianti sportivi. Una realtà cittadina italiana che si è sviluppata su queste basi è Metanopoli, insediamento alle porte di Milano, nato per volere di Enrico Mattei intorno all’industria della lavorazione del metano agli inizi degli anni ’50. Negli anni ’70, grazie al boom economico, molte realtà sportive nate come circoli ricreativi per lavoratori (come la SNAM a Metanopoli), pur mantenendo fede ai principi dello sport con finalità ricreative, formano atleti di prim’ordine, che si impongono sul panorama nazionale e internazionale. Gli anni ’70 sono quelli che segnano maggiormente l’inizio della visione dello sport come spettacolo. Si assiste di conseguenza a una maggiore attenzione all’estetica delle divise 25


sportive. Le pesanti tute in cotone o in lana vengono sostituite con divise in tessuti lucidi e leggeri, che facilitano l’esecuzione del movimento e valorizzano i fisici prestanti degli atleti. È l’inizio della nascita dell’industria dello sport. Lo studio di nuovi materiali tessili ad alta tecnologia si affinerà a tal punto da dar luogo negli anni 2000 al fenomeno del doping tecnologico, di cui parleremo più avanti. Accanto ai nomi storici delle società sportive, riportati sulla divisa, compaiono i primi sponsor commerciali. Basti ricordare i campionati di pallacanestro di quei tempi in cui giocavano la Symmenthal di Milano, l’Ignis di Varese, la Mens Sana Sapori di Siena, la Synudine di Bologna, la Saclà di Asti. L’atleta di alto livello si trasforma in un professionista ad alta specializzazione. Le squadre non sono più composte da soggetti provenienti da uno stesso luogo geografico o da una stessa comunità, ma sono acquisiti dalle società previo regolare contratto. L’atleta si delinea sempre di più come individuo solo che entra ed esce dalle squadre, senza mai identificarcisi fino in fondo, e cominciano le grandi fatiche degli allenatori nel formare lo “spirito di squadra”. La “cultura del narcisismo”, intesa anche come impossibilità di sopportare i propri limiti, s’infiltra insidiosamente nel mondo dello sport; negli anni ’60 avevano suscitato molto scalpore le morti dei ciclisti Knut Jensen e Tommy Simpson per aver fatto uso di anfetamine durante le gare, ma risultarono dei casi isolati. Purtroppo, dopo le Olimpiadi di Mosca del 1980, non fu più possibile considerare il problema del doping come un evento raro: era ormai un fenomeno che si stava pericolosamente diffondendo fra molti atleti di ogni ordine e grado. Nel 1984 furono, infatti, pubblicati dati allarmanti che riguarda26


vano un tasso di mortalità altissima per malattie “strane” fra gli ex-olimpionici dell’Unione Sovietica. Le Olimpiadi di Atene del 2004 saranno tristemente ricordate come quelle con il record olimpionico di casi di doping accertati. Gli anni 2000 vedono dilagare il problema del doping anche fra i dilettanti e i giovani, fino a diventare un fenomeno ritenuto particolarmente appetibile dal commercio illegale e dalla criminalità organizzata. Una recente ricerca eseguita dal CONI in collaborazione con l’ISTAT ha stimato che solo in Italia il mercato delle sostanze proibite è di circa 650 milioni di euro all’anno e cresce del 25-30% ogni anno. Il giro d’affari in Europa è di circa 900 milioni di euro, mentre a livello mondiale è di circa quattro miliardi. Il secondo farmaco più venduto al mondo è l’eritropoietina (EPO)8 e il terzo è l’ormone somatotropo (GH), entrambe sostanze dopanti che vengono utilizzate rispettivamente per aumentare il numero dei globuli rossi, e di conseguenza ossigenare meglio il sangue, e per aumentare la massa muscolare. Poiché queste sostanze sono all’indice dei controlli antidoping da molto tempo, è da pensare che la maggior diffusione sia fra gli atleti dilettanti, quelli che bonariamente potremmo chiamare “della domenica”. Sono proprio loro che acquistano con facilità anche anabolizzanti per uso veterinario e approfittano del commercio via Internet per non incorrere in grane.” 8. EPO L’eritropoietina è un ormone prodotto principalmente dai reni, e poi dal fegato e dal cervello. Prodotto in laboratorio, diventa un farmaco utile per curare le anemie e favorire il recupero di pazienti sottoposti a chemioterapia. Nel doping serve per aumentare il numero dei globuli rossi nel sangue al fine di aumentare il trasporto di ossigeno nei tessuti migliorando le performance sportive.

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