A Capo Nord bisogna andare due volte

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Valeria Alpi giornalista e formatrice, specializzata sulla comunicazione sociale e sui temi della diversità e del disagio. Lavora per il Centro Documentazione Handicap di Bologna occupandosi di cultura inclusiva, in particolare sui temi dell’accessibilità, della sessualità e della violenza di genere. È caporedattrice di “BandieraGialla”, un giornale on-line di informazione sociale.

I disabili che viaggiano possono mostrarsi al mondo, diventare visibili, con dei corpi e delle richieste specifiche. Costringono a rivedere la cultura sulla diversità e a riadattare, per quanto possibile, l’esistente. Non restiamo chiusi in casa solo perché è troppo complicato uscire. Invadiamo i luoghi! Modifichiamoli a vantaggio di tutti.

A Capo Nord bisogna andare due volte

Valeria Alpi

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Valeria Alpi

A Capo Nord bisogna andare due volte STORIA DI UN VIAGGIO ACCESSIBILE TRA LIMITI E RISORSE

ISBN 978-88-6153-751-4

P

i libri di acca arlante Scopri i contenuti multimediali

Euro 14,50 (I.i.)

9 788861 537514

I libri di accaParlante si occupano di accessibilità non solo fisica, ma anche alla comunicazione, alla conoscenza, alla cultura, al fare e saper fare, alla relazione con la diversità. La collana, naturale evoluzione della rivista “HP-Accaparlante” del Centro Documentazione Handicap di Bologna, propone approfondimenti di taglio divulgativo ed esperienziale ed è uno strumento necessario per educatori, operatori sociali e insegnanti. Per chi ha che fare direttamente o indirettamente con la disabilità, ma anche per chi pensa di non averne bisogno. Perché il lavoro culturale da fare è convincerci insieme che la disabilità non riguarda solo una categoria di cittadini ma è questione che riguarda la comunità tutta.


Valeria Alpi

A Capo Nord bisogna andare due volte Storia di un viaggio accessibile tra limiti e risorse


INDICE

Perché Capo Nord 7 Come ci si prepara a un viaggio accessibile 11 Il contesto di fiducia 13 Quando in famiglia c’è un deus ex machina 19 Organizzare l’accessibilità a distanza 25 Scegliere cosa visitare, tra verifiche ed esclusioni 29 Scegliere dove dormire, tra opzioni giuste e sbagli 33 I racconti degli altri viaggiatori e il bollino di accessibilità 37 Anche il limite ha il suo perché 41 L’adattamento 43 Diario di viaggio numero uno 49 Sentori di solitudine 55 Oltre il Circolo polare artico 59 Un gradino di troppo 63 Una cicatrice indelebile 69 Diario di viaggio numero due 73 Di nuovo al di là del Circolo polare artico 77 A Capo Nord bisogna andare due volte 81 Un disabile può modificare l’ambiente 85 L’accessibilità relazionale 87 Sulla strada 93



PERCHÉ CAPO NORD

È tutta colpa di Google se un giorno ho preso l’auto e da sola, partendo da Bologna, la mia città, l’ho diretta verso Capo Nord. E se, due anni dopo, ci sono ritornata. Mi ricordo di non avere mai desiderato davvero di andare fin lassù, nel punto più a nord d’Europa raggiungibile in auto. Certo, Capo Nord è qualcosa a cui si pensa, una sorta di viaggio della mente, di suggestione, per qualcuno un sogno nel cassetto. C’è un film cui sono molto legata, La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, dove i due fratelli protagonisti all’inizio della storia desiderano e progettano di andare a Capo Nord. Nessuno dei due riuscirà nell’intento che verrà portato a termine, a fine film, dal figlio di uno dei due. Poiché quella pellicola è per me una pioggia di emozioni, anche il mito di quel viaggio mi aveva particolarmente colpita. Ma andare a Capo Nord non mi sembrava realizzabile, e quello che mi sembra impossibile di solito non lo desidero. Viaggio tanto, da molti anni, ma viaggio dove penso di potercela fare, mentre posti più complessi come ad esempio l’India o il Perù non fanno parte dei miei desiderata. È buffo perché si potrebbe sognare lo stesso l’impossibile, però forse il mio essere nata con una disabilità motoria mi ha portata ad avere consapevolezza di quello che davvero si può e quello che non si può. Su Capo Nord per me regnava un grande “non si può” per colpa di una sorta di pregiudizio che avevo su quel luogo. Ero convinta, infatti, che a Capo Nord ci fosse la neve tutto l’anno. E per me la neve è un ostacolo insormontabile: sulla neve non riesco a compiere alcun passo, neppure con un manto di pochi centimetri. Tra l’altro quando ero più 7


piccola mia madre ogni tanto mi portava in ufficio da lei, e un suo collega con la passione per la moto mi parlava di Capo Nord come meta preferita dai motociclisti, ma mi diceva anche di non trovare compagni di viaggio e di non avere il coraggio di andare da solo, perché avrebbe incontrato strade deserte, isolate, senza la possibilità di chiedere aiuto, con la neve e il ghiaccio sulla carreggiata. Insomma descriveva un ambiente impossibile per me, e io ci avevo creduto. Mi ricordo che quando, a metà degli anni Novanta, arrivò Internet in Italia e nelle università, non mi passò minimamente per il cervello di cercare Capo Nord, di verificare il meteo a quelle latitudini. Né lo feci negli anni seguenti, quando cominciammo a usare Internet per qualunque cosa. Per me c’era la neve lassù, anche in pieno agosto, e l’equazione neve uguale impossibilità era come un mantra, qualcosa che mi ripetevo ogni volta che una lucina della voglia di viaggiare si accendeva anche su Capo Nord. Mi immaginavo ogni tanto di potere attrezzare l’auto con le gomme giuste, di potere guidare tutti quei chilometri, ma poi cosa avrei fatto? Sarei arrivata fin lassù ma non sarei potuta scendere dall’auto? Gli anni passarono, fino a un’estate del 2015. Quell’anno avevo un’auto nuova, che quindi avrebbe potuto affrontare viaggi lunghi senza problemi. Venivo anche da alcune estati trascorse nel sud Italia, dove adoro il cibo, la luce del sole potentissima, la gentilezza e l’accoglienza delle persone, ma dove è anche tutto più complicato quando si ha una disabilità motoria. Le barriere architettoniche sono ancora troppe, e i posteggi per i disabili non vengono purtroppo rispettati. Questo in effetti succede anche al nord, diciamo è un’usanza tipicamente italiana. Avevo già sperimentato, in passato, dei viaggi al nord della Francia o della Germania, e avevo trovato ambienti più comodi per me. Sentieri naturalistici adattati anche ai disabili motori, posteggi handicap sempre liberi, facilitazioni di vario tipo, rampe un po’ ovunque. Desideravo tornare in nord Europa, 8


e avendo già visitato le latitudini nordiche di Francia, Germania, Spagna, Paesi Bassi, Belgio, mi rimaneva la Danimarca. Mi misi a studiare la mappa dell’Europa, far di conto delle distanze chilometriche e delle ore di guida da una città all’altra, e a un certo punto mi accorsi che Copenaghen era veramente vicina alla Svezia, divisa solo dal ponte di Øresund. Perché allora non fare anche una “gita fuori porta” in Svezia, a Malmö? Ma Malmö non era poi così distante da Göteborg e Göteborg non era distante da Oslo. Insomma in appena sei ore di auto da Copenaghen c’era Oslo, la Norvegia! Oslo tra l’altro era una di quelle città che avevo preso in considerazione più volte per una visita di qualche giorno partendo in aereo da Bologna. Tuttavia mi ero anche documentata sulla possibilità poi di muoversi a Oslo e avevo visto che, nonostante fosse una città abbastanza attenta alla disabilità, aveva ancora dei mezzi pubblici purtroppo inaccessibili per me. Perché allora non approfittare del viaggio in Danimarca per arrivare fino a Oslo con la mia auto, così da essere comoda negli spostamenti? A volte mi si ribatte che potrei prendere un aereo e noleggiare un’auto in loco. Non è possibile, perché la mia auto ha degli adattamenti al volante che consentono la guida anche a chi ha una disabilità motoria, e non si trovano auto a noleggio con questi adattamenti, almeno non in Europa. Comunque, si diceva, iniziai a cercare cosa poter vedere a Oslo, ed è a quel punto che Google mi fece uno scherzetto. In base alla profilazione dei gusti e degli interessi, nei giorni seguenti cominciò a farmi comparire, nella colonna a destra della mia bacheca di Facebook, una serie di consigli sulla Norvegia. In pratica Google si era preso il diritto di espandersi, di non fermarsi a Oslo e dirmi: “Guarda, Oslo è solo una minuscola parte di Norvegia, anzi non è nemmeno Norvegia, perché la Norvegia è altro: sono i fiordi, i paesaggi sconfinati, le strade tortuose tra le montagne e quelle ‘lunari’ che portano a Capo Nord”. Non contento, Google mi fece comparire un video di un certo Stefano Tiozzo che oggi è molto 9


famoso come blogger di viaggio e fotografo naturalistico, all’epoca conosciuto da pochi. Stefano Tiozzo era stato a Capo Nord da solo, con la sua auto, partendo da Torino, e nel bellissimo video che aveva realizzato dichiarava anche che era il suo primo viaggio da solo, che era il suo primo viaggio in auto, che certo aveva sofferto un po’ la solitudine perché non abituato, ma che i paesaggi nordici lo avevano ampiamente ricompensato e gli avevano fatto compagnia. Inoltre, cosa più importante, era stato a Capo Nord in agosto e nel video… non c’era la neve! Per la prima volta mi resi conto che a Capo Nord in estate puoi trovare una temperatura di 10-12 gradi, magari un po’ più bassa se c’è vento o nebbia o pioggia, ma comunque mai e poi mai la neve. Cominciai quindi a prendere in seria considerazione la possibilità di replicare il viaggio di Tiozzo, tra l’altro io godevo di due vantaggi: avevo già fatto altri viaggi da sola e avevo già fatto altri viaggi lunghi in auto. Ad esempio ero stata in Normandia e Bretagna, 5.800 km in tredici giorni; poi nei Pirenei, nei Paesi Baschi e in Aquitania, con quasi 8.000 km in ventidue giorni. Capo Nord, per le tappe che volevo fare io, avrebbe probabilmente richiesto 10.000 km ma in fin dei conti “solamente” 2.000 km in più rispetto a quello che avevo già fatto e che sapevo di poter fare. Per la prima volta Capo Nord era reale, una possibilità, un sentire e un desiderare. L’emozione era alle stelle. Ma era tardi, era già luglio, era troppo complicato realizzare un viaggio del genere da lì ad agosto e inoltre avevo ormai promesso a una mia amica di trascorrere le vacanze insieme. Provai a convincerla ad andare in Danimarca, per me sarebbe stata una sorta di preparazione atletica, ma lei desiderava il sole, il caldo, il mare dove fare il bagno e quindi, quell’anno, tornammo nuovamente in Sicilia. Il 2016, però, non era lontano.

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COME CI SI PREPARA A UN VIAGGIO ACCESSIBILE

Finita l’estate del 2015 mi misi a studiare seriamente per l’anno dopo: il progetto “Go to the Nord” era avviato. Lo so, lo so, si scrive Go to the North, solo che Go to the Nord cominciò a essere un modo buffo con cui un mio collega di lavoro e grande amico chiamava “in codice” questo viaggio. Non avevo ancora voglia di svelare le carte con gli altri, non mi andava di raccontare che stavo progettando questa “pazzia”, non avevo voglia di sentirmi dire che, appunto, fosse una pazzia. Era solo ancora un progetto, con parecchi dubbi da risolvere e anche parecchie ansie, ma che nel mio collega Massimo aveva trovato un punto di appoggio. Lui era già stato a Capo Nord in passato, con altri due amici, non in auto dall’Italia, ma prendendo un aereo fino a Helsinki, poi un altro aereo interno alla Finlandia fino a Oulu e poi un’auto a noleggio fino a Capo Nord, da restituire a Oulu, per poi tornare in aereo a Helsinki e di nuovo a Bologna. Certo il loro viaggio era stato diverso da quello che avevo in mente io, ma Massimo conosce bene la mia disabilità e le difficoltà che posso avere in un viaggio, e quando gli dissi quello che volevo fare gli brillarono gli occhi istantaneamente. Non ebbe alcun dubbio che quel viaggio, in auto, per me fosse possibile. Ma come si arriva a questo punto? Può una persona disabile fare un viaggio del genere? Può, in generale, viaggiare? Certo, può, e deve anche. Tuttavia per arrivare ad avere un po’ di autonomia personale, che ti spinga a desiderare un viaggio e che ti consenta di progettarlo, occorre anche un’autonomia di contesto di vita, di educazione, di 11


crescita che permetta l’uscita da casa. Il cosiddetto “contesto di fiducia” come lo chiamiamo al Centro Documentazione Handicap di Bologna, dove lavoro. Un contesto, a partire dalla famiglia, che ti infonda fiducia anche nella pur minima capacità residua, un contesto dove, per esempio, se tu riesci a muovere un solo dito di una mano si possa credere che tu con quel dito potrai sollevare il mondo, senza sentirti limitato e incapace. Ma come si costruisce un contesto di fiducia?

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IL CONTESTO DI FIDUCIA

Innumerevoli manuali di psicologia dello sviluppo e di educazione raccontano come la formazione del sé parta dallo sguardo della famiglia. Il bambino, fin da piccolissimo, cerca l’approvazione dello sguardo dei genitori, in particolare della madre. Qualunque movimento faccia, anche solo avvicinarsi gattonando verso una pallina, prevede che poi il bambino si giri, prenda in mano la pallina e la mostri alla madre, e in quel momento c’è bisogno che la madre lo guardi e gli rimandi qualcosa di positivo, così il bimbo sarà più sicuro delle sue azioni e di se stesso. La figura materna, dunque, aiuta il bambino a metabolizzare le esperienze e lo stimola a scoprire il suo sé, offrendogli l’opportunità di sperimentare gli effetti del suo stesso comportamento attraverso il supporto sociale e il concatenarsi di stimoli e reazioni. La madre è una sorta di specchio che rimanda riflesso il senso di sé. Crescendo, ci saranno anche degli “altri” significativi con cui entrare in relazione, e costruire una immagine di sé in base a quella che gli altri rimandano su di noi. Un bambino disabile, spesso, si deve confrontare con situazioni più complesse: innanzitutto certi movimenti gli sono impediti, magari non riesce a spostarsi da solo nello spazio, non riesce a raggiungere gli oggetti o a tenerli in mano. Questo ritarda lo sviluppo e la costruzione del senso di sé. Inoltre, spesso, per fortuna non sempre, il bambino disabile non viene ricambiato con sguardi positivi, almeno non subito. Magari non riesce a stare seduto e lo si guarda, anche senza volere, con compassione; oppure riesce ad afferrare la pallina e giocarci, ma lo si guarda comunque 13


con preoccupazione perché si riconoscono in lui delle difficoltà, è come se i genitori per primi non credessero nelle risorse del proprio figlio. Perché quando nasce un bambino disabile i genitori devono scontrarsi con alcune emozioni molto forti. C’è la delusione, più che altro la delusione delle aspettative, quelle aspettative che hanno tutti i padri e le madri quando scoprono che da lì a nove mesi avranno una piccola creatura che sarà la loro gioia, il loro futuro, la loro eredità nel mondo, e già si vedono nonni senza pensare a quante variabili ci sono nella vita, al punto che non è assolutamente detto che tutte le aspettative da genitore verranno realizzate pur con figli sanissimi e perfetti. Un figlio disabile tira un po’ il freno della felicità, quanto meno all’inizio. C’è poi il senso di colpa di avere “creato la disabilità”. C’è il confronto con gli altri, a partire dai parenti, gli amici, i vicini di casa o i colleghi che pensano “Poverini, che sfortuna hanno avuto”. C’è spesso la comunicazione sbagliata da parte dei medici, quel modo tremendo di dare la cosiddetta prima informazione sullo stato di salute del neonato, come se si stesse dicendo “La sua auto ha il motore rotto, non potrà fare più chilometri”. C’è l’ansia per il proprio figlio, per quello che potrà fare, se potrà farlo, cosa succederà nel “dopo di noi”, quella parte di vita che prosegue dopo la morte dei genitori. Tutte emozioni normali e comprensibili che avrebbero bisogno fin da subito di una rete di sostegno, magari da parte di altri genitori che le hanno già vissute, o di associazioni, o di figure psico-educative. Finché non si impara ad avere uno sguardo di fiducia sul proprio figlio, inevitabilmente il figlio crescerà con dei limiti che non derivano solo dal suo deficit ma dal non avere imparato a gestire pienamente tutte le sue risorse. Risorse in cui spesso non credono neppure i genitori. Se ci pensiamo, abbiamo tutti almeno un amico o amica che ha qualche insicurezza dovuta al rapporto con i genitori, o al rapporto che i genitori hanno avuto tra loro. Nel caso di un figlio disabile è solo tutto amplificato e il disabile può avere 14


meno accesso a una piena conoscenza di sé. Quando infatti la tua autonomia è scarsa, e hai sempre bisogno degli altri per qualunque azione, dallo spostarti al lavarti, al mangiare eccetera, hai meno conoscenza diretta del tuo corpo: è come se, paradossalmente, il tuo corpo fosse più conosciuto dagli altri che non da te. È difficile allora mettersi in gioco, buttarsi nella mischia della vita come chiunque altro, capire dove si può aumentare l’autonomia e dove invece ci sarà sempre bisogno di aiuto. La persona disabile, a volte, ha anche delle difficoltà in più a trovare degli altri significativi, oltre ai genitori, con cui entrare in relazione e costruirsi una propria identità, spesso manca una parte importantissima che è il confronto con il gruppo dei pari, con gli amici della stessa età, con cui scoprire nuove parti di sé e degli altri. Quando nacqui io, sembravo una bimba normalissima, anche se mangiavo poco perché mi stancavo subito e mi addormentavo. Raccontano che la mia bisnonna, con la saggezza degli anziani e di chi aveva visto molti neonati, ripeteva sempre “Questa bambina è malata, ha qualcosa che non va”, ma ovviamente veniva additata come menagramo. Quando i neonati dovrebbero iniziare a stare seduti e a sostenersi da soli, io mi rovesciavo da tutte le parti, sembravo molle come una gelatina. Ero anche piena di lividi perché appena mi appoggiavano cadevo di lato o davanti. Cominciai ad avere anche tutta una serie di problemi di salute, dalla pertosse a varie polmoniti a un idrocefalo, e passai i primi anni quasi sempre in ospedale tra la vita e la morte. A due anni e mezzo ancora non camminavo. Nessun medico capiva cosa potessi avere: c’era chi diceva che avessi danni neurologici causati dalla pertosse, chi sosteneva che semplicemente dal cervello non partissero gli impulsi per comandare i muscoli, chi diceva che non avrei mai camminato ma soprattutto mai capito, che sarei stata una specie di vegetale. E tutti consigliavano ai miei genitori di fare altri figli perché da me non avrebbero mai avuto soddisfazioni. Mio nonno materno decise di non 15


ascoltare i responsi dei medici e di agire. Mi costruì una palestra con le sue mani: delle parallele alla mia altezza, con camminamento antiscivolo, dove potevo provare a fare qualche passo sorreggendomi; una spalliera dove provare a fare dei piegamenti; una scala doppia, dove da un lato c’erano dei gradini, ricoperti di linoleum per non scivolare, ad altezza normale che si congiungevano tramite un ripiano e dei gradini ad altezza più piccola, così da testare varie tipologie di difficoltà. Mi faceva esercitare ogni giorno, poi metteva i miei piedi sopra i suoi e mi faceva camminare tramite le sue gambe. A tre anni stetti in piedi per la prima volta da sola e a quattro anni camminavo, male ma camminavo. Fu a quell’età che tramite una biopsia muscolare ebbi anche la diagnosi della mia malattia, una miopatia genetica rarissima: in pratica dentro alle mie cellule muscolari ci sono pochissimi mitocondri e quei pochi che ci sono hanno forme molto diverse dalla norma. Con i mitocondri che non funzionano bene non si crea l’energia per poi determinare il movimento, e non creando energia ci si stanca anche subito. Non creando movimento, non riesco a correre, a saltare, faccio fatica a camminare, non riesco a salire i gradini se non con un appoggio come un corrimano, non ho la forza per trasportare pesi, ho un equilibrio incerto dovuto anche a uno scheletro che si è deformato durante la crescita per la mancanza di sostegno da parte della muscolatura. In realtà, da grande e grazie al famigerato Google, ho scoperto che la mia malattia prevede esattamente i passaggi che ho compiuto: dopo i tre anni avrei camminato comunque, ma l’aiuto del nonno è una bella storia che mi ricorda sempre il nonno dell’alpe nel cartone animato Heidi. Se ci pensiamo, il nonno di Heidi non fece nient’altro che creare un contesto di fiducia per la giovane Clara, l’amica in carrozzina. Al di là del lieto fine forse troppo favolistico di riuscire a fare camminare Clara, il nonno si rese conto che la carrozzina non riusciva ad andare su per i monti e costruì un’apposita sedia per 16


trasportare Clara e permetterle di fare esperienze all’aperto assieme ai suoi amici, come tutti gli altri bambini, mentre la famiglia di Clara la teneva segregata in casa, pensando che il contatto con l’esterno avrebbe potuto farle del male. Nella vita di ogni disabile ci vorrebbe un deus ex machina come il nonno di Heidi, che potrebbe essere un genitore, un nonno o una nonna, uno zio, un cugino, un amico, un medico, un insegnante, un fisioterapista o qualunque altra persona che ruoti intorno alla vita di una persona con disabilitĂ . Nel mio caso il nonno di Heidi è stato un nonno vero.

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Valeria Alpi giornalista e formatrice, specializzata sulla comunicazione sociale e sui temi della diversità e del disagio. Lavora per il Centro Documentazione Handicap di Bologna occupandosi di cultura inclusiva, in particolare sui temi dell’accessibilità, della sessualità e della violenza di genere. È caporedattrice di “BandieraGialla”, un giornale on-line di informazione sociale.

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