Antonio Bello
Ci vuole audacia Parole ai giovani
a cura di Ignazio Pansini
edizioni la meridiana p a g i n e a l t r e
Indice
Introduzione .............................................................................................. 7 Fare luce, non scintille ............................................................................. 9 GesĂš Signore ci riconcilia con gli ultimi................................................ 20 Uniti nella gioia ...................................................................................... 31 DVD allegato .......................................................................................... 43 Come diventare costruttori di pace ....................................................... 44
Introduzione
I giovani, soprattutto i giovani. Don Tonino innanzitutto li amava. Amava cercarli, mescolarsi, cantare, stringere le loro mani, incrociare i loro sguardi, ascoltare le loro incertezze, accogliere le loro paure. E liberare i loro sogni. Sprigionare le loro energie. Sapeva che per placare la loro fame di vita bisogna offrire pane, utopia e verità, coerenza, autenticità e testimonianza. Sapeva che per attivare il dialogo era necessario essere prima ancora che dire, esporsi come persona non come maschera del proprio ruolo sociale, rischiare piuttosto che controllare. Insieme ai giovani alla ricerca del senso. Amava andarci così, a bruciapelo, senza alcuna protezione, nemmeno quella offerta dalle parole consolidate della scrittura o della dottrina. Nel dialogo profondo il valore di verità è da ricercare insieme. Solo così il dialogo si trasforma in relazione educativa, si muta in uno scambio che trasforma le persone, le matura, le arricchisce, le fa crescere. Don Tonino, in questo senso, è stato uno straordinario educatore. Come tutti gli educatori ha amato i giovani per quello che potevano diventare non per quello che erano, suscitando un incontenibile bisogno di tirare fuori la parte migliore di se stessi. Ha amato i giovani perché amava la vita. Alcuni dei numerosi interventi tenuti da don Tonino con i giovani in circostanze diverse, sono ora, per la prima volta, raccolti in queste pagine, a testimonianza di questo duplice amore. Tre interventi da leggere e uno da ascoltare e guardare per tornare ad essere audaci.
7
Fare luce, non scintille*
Ogni volta che mi trovo davanti ad un’assemblea come questa, io mi pongo sempre il problema: ma questi ragazzi di che cosa hanno bisogno? Delle mie prediche? Oppure hanno bisogno che io, insieme con loro, mi metta a scrutare l’orizzonte per vedere se spunta l’aurora? Ah! Già qualcuno sta pensando: “È caduto ormai irrimediabilmente nella retorica”. No, no. Spero di non fare questo. Vi dico soltanto che io, quanto più tempo passa, più mi accorgo che le parole, sulle nostre labbra, diventano sterili se non sono accompagnate anche dalla visualizzazione. L’audio non ha più senso, per noi, se non c’è un video. Un video che dia credibilità ai nostri gesti, alle nostre scelte, ai nostri silenzi, alle nostre sofferenze. Non si capisce più niente. I preti adoperano una loro terminologia, i politici un’altra, i sindacalisti un’altra, i tecnici un’altra. C’era un dibattito tra Nuccio Fava, che è un commentatore politico che voi conoscete – l’avete visto alla televisione tante volte – e, – questo sì lo conoscete ancora di più – Nando Martellini, il telecronista sportivo. Nuccio Fava diceva: “Io non riesco a capire perché mai la gente non riesca a comprendere bene certi linguaggi che adoperiamo quando parliamo di equilibri più avanzati. Eppure si adoperano ogni giorno. Sulle prime pagine dei giornali ci saranno perlomeno dieci righe dedicate agli equilibri più avanzati. E la gente non capisce. Io vorrei chiederlo all’uomo della strada se sa cos’è un equilibrio più avanzato. Invece voi, cronisti sportivi, parlate di cross, di dribbling, parlate di corner, di offside – eppure sono vocaboli *
Incontro con i giovani del Liceo Scientifico di Altamura (09/04/86).
9
Antonio Bello
inglesi, stranieri perlomeno – e la gente comprende”. Nando Martellini ha detto: “Sì, va bene. La differenza è questa. Che gli equilibri più avanzati, se io vado a Montecitorio, non li posso riprendere con la telecamera. Oppure se vado a Palazzo Madama non posso riprendere santuari di pietra. I santuari si costruiscono nel cuore – ne farei uno alla Madonna della Paura, alla Vergine della Paura. Perché penso che pure Lei (come me, come te, come tutti voi) ha avuto nel cuore tanta paura. La paura del domani. Anche Lei si è chiesta: che senso ha la vita?”. La vita, la vostra vita, che senso ha? Heidegger dice che è un precipitare giù. L’uomo è un essere per la morte. Siamo destinati alla morte. È un precipitare giù. Ma per noi è un andare verso. C’è un senso. C’è un disegno. Non vi fate prendere da certe mode culturali, quelle lì del catastrofismo, come oggi vengono chiamate. Quelle della civiltà – credo che voi queste cose le afferriate anche dalla stampa vostra, di giovani – rizomatica. Rizoma, sapete che cos’è? Ho visto tante riproduzioni nell’aula di scienze, tanti disegni bellissimi che avete fatto. Rizoma è una specie di tubero contorto, una specie di radice che sta sottoterra, dalle configurazioni impensate, che non ha né fusto né radichette giù. Che significa civiltà rizomatica? Come dicono questi filosofi, noi oggi siamo proprio come dei rizoma. Non abbiamo più radici nel passato e non abbiamo più uno stelo che indichi una verticalità. Viviamo così. La vita, la trama è una tela con tanti buchi. C’è uno iato. Tra tutte le esperienze degli uomini c’è una discrasia. Non c’è una tela, una trama, un filone conduttore. Non vi lasciate prendere da queste mode culturali. Anche perché oggi sta venendo fuori tutto un modo di pensare la vita, in termini diversi. La vita è interpretata come etica del volto. La vita ha un senso profondo. Io vi dovrei incoraggiare a scoprire non tanto gli scopi penultimi della vostra vita, quanto gli scopi ultimi; quanto le proiezioni ultime, quelle che
10
Ci vuole audacia
stanno lì in fondo. Questi sono i temi generatori che voi dovete fabbricare anche nelle vostre elaborazioni culturali, nei vostri dialoghi, anche nel vostro rapporto educativo con i vostri docenti, con i vostri insegnanti. Oggi sono andato a vedere le aule vostre. L’aula dove ci sono le apparecchiature, il gabinetto di lingue, e poi il gabinetto scientifico. Noi quando mai, nel passato, abbiamo avuto tanta disponibilità di mezzi? Eppure oggi c’è questa insoddisfazione di fondo. C’è questa amarezza che a volte si dipinge sul volto della gente, anche dei giovani. C’è questa incertezza del futuro. C’è questa paura nel cuore. C’è l’esperienza della finitudine che voi fate ogni momento, che cioè le cose più belle debbano finire. Che finisca quell’amicizia, che finisca la vita di un vostro caro, che finisca la gioia che state provando attualmente in famiglia per un avvenimento, che finisca anche questo fremito di cose che vi tengono impegnati. C’è l’esperienza della finitudine. Che finisca anche la vostra salute, che finisca la vostra giovinezza. Voi questi problemi ancora non ve li ponete. Però c’è gente che già quando scavalca i 16-17 anni comincia a dedurre qualche mese nella dichiarazione, non dei redditi, ma della sua cronologia. C’è la paura che debba finire: fino a quando durerà? Come certe gioie che si vivono in casa. Gli anziani sono forse più sensibili a questo: a Natale tutti a casa, si fa il banchetto, si fa il pranzo. Son tornati tutti i fratelli dall’Università, l’altro fratello che sta facendo il servizio militare, le cognate, gli amici, i nipoti. Tutti attorno alla casa dei genitori. Che bello il Natale! Imbrunisce subito, tramonta subito il sole. Sul più bello la mamma dice: “È passato Natale. Chissà se l’anno prossimo ci troviamo ancora”. Quando mia madre faceva questi discorsi, io dicevo: “Oh mamma! Insomma, sul più bello... aspetta almeno che si arrivi alla frutta!”. Ma poi è così. Perché è venuto il giorno in cui effettivamente abbiamo celebrato il Natale, in casa mia, senza mia madre. È l’esperienza della finitudine. Allora tu ti chiedi: ha senso la vita?
11
Gesù Signore ci riconcilia con gli ultimi*
Sono stato invitato a parlarvi sul tema: “Gesù Signore ci riconcilia con gli ultimi”, ma sin da quando mi è stato affidato questo tema, a me è venuto in mente di fare un colpo di mano. Ho pensato che avrei potuto spostare i termini della conversazione, ed invece che parlare di “Gesù Signore ci riconcilia con gli ultimi”, parlare di questo tema: “Gli ultimi ci riconciliano con Gesù Signore”. E ad incoraggiarmi in questo colpo di mano è stato anche il pensare che avrei dovuto parlare a dei carismatici, abituati ai colpi di vento dello Spirito, il quale si diverte con quelli che ama. Non so se io ho spostato i termini della conversazione sotto l’urto dello Spirito. So soltanto una cosa: che troverò comprensione in voi, che a questi rovesciamenti siete abituati. Comunque il tema, o lo affrontiamo per dritto – come me lo avete dettato voi – o lo affrontiamo di traverso – come intendo proporvelo io –, richiede assolutamente la spiegazione terminologica di un vocabolo: la parola “ultimi”. Perché si parla di ultimi? Perché a parlare di poveri si corre il rischio che qualcuno ti dica: “Oggi di poveri non ce ne sono più. Oggi stiamo tutti bene”. Si parla di ultimi. Si parla di ultimi perché? Perché gli ultimi ci sono sempre. Vedete, in questo momento, mentre noi stiamo parlando, si stanno concludendo i campionati mondiali di ciclismo su strada, a Montello in Veneto. Arriverà qualcuno prima, arriverà Moser, Saronni. Non so. Però anche in una gara veloce, anche se vanno a 46 chilometri orari, ci saranno gli ultimi, stasera. *
Incontro con il Movimento Carismatico 1985.
20
Ci vuole audacia
Domenica scorsa, a quest’ora (oh, non pensate che io perda il tempo alla televisione!), nel circuito di Zandvoort c’è stata una gara di Formula Uno. Anch’essa per il campionato del mondo. Ci sono state delle macchine che sono arrivate prima, ma ci sono state anche le ultime. Pure lì le ultime. Sì, anche a 200-300 all’ora ci sono gli ultimi. Ci sono gli ultimi anche nelle gare che fanno le suore all’asilo – non loro, i bambini –, le fanno fare ai bambini. Ci sono anche lì gli ultimi. Ci sono gli ultimi anche nelle corse coi sacchi. Gli ultimi ci sono sempre. E noi, come Chiesa, dobbiamo stare con gli ultimi. Chi sono gli ultimi? Sono i poveri. Quelli di ieri e quelli di oggi. Quelli che vanno in divisa e quelli che vanno in borghese. In divisa: i poveri di ieri, quelli che hanno la livrea della povertà di sempre. Sono gli accattoni. Sono i barboni. Sono quelli che non hanno dove dormire. Sono quelli che vengono a bussare a casa tua perché vogliono qualcosa. Sono questi mentecatti che tante volte troviamo agli angoli delle nostre strade, questa gente avvilita. Gli ubriachi, le prostitute. I poveri di sempre. Questi hanno la livrea. Hanno la divisa. Te ne accorgi che sono poveri. Ma poi ci sono i poveri nuovi, i poveri di oggi. Che vanno vestiti in borghese, con l’abito tagliato su misura dai sarti della nostra civiltà contemporanea. Che di povertà non hanno nulla. Forse hanno soltanto un piccolo segno da cui tu ti accorgi: una tristezza profonda negli occhi. Quelli che hanno il portafoglio gonfio e il cuore vuoto. Quelli che non sanno rapportarsi con nessuno. Quelli che non riescono a parlare. Quelli che vengono superati sempre. C’è tanta gente che viene superata! Quanta gente sta sul porto, vede partire tutti i bastimenti e lei rimane sempre lì. Questi sono i poveri di oggi. La gente incapace di parlare. La gente timida. La gente che ha avuto un profondo esaurimento nervoso e adesso ha paura di tutto. La gente che non trova un cane che gli dica “buongiorno, amico mio”. La gente che a Natale non riceve nessuna cartolina. I poveri di oggi sono questi che vivono una vita squallida, senza progetti,
21
Antonio Bello
senza ideali. Che hanno tutto nella vita, hanno una macchina – la macchina della vita – che ha la carrozzeria buona, ma non sanno dove andare. Gente senza progetti. Gente senza amore. Quanta gente c’è che non sa amare! Perché la tragedia non è non essere amati, è non amare. Non essere amati, forse, ha segnato i poveri di ieri. I poveri di oggi sono quelli che non sanno amare. Ecco, questi sono gli ultimi. Come si fa a dire che la Chiesa parlando degli ultimi fa del razzismo? Non fa del razzismo. Perché – se la Chiesa deve occupare la zona degli ultimi e stare con loro, patire con loro – in quella zona lì, un giorno o l’altro, tutti passeranno. Qui ci sono dei giovani che si intendono anche di calcio. E sanno che c’è, in difesa, la marcatura a uomo e la marcatura a zona. La marcatura a uomo è quando uno si incolla accanto all’avversario e non gli lascia spazio, non lo lascia fiatare. La marcatura a zona invece è quando, per esempio, i mediani dicono “noi occupiamo questa zona qua, chi passa di qua deve essere fermato”. Ora, quando noi diciamo che dobbiamo partire dagli ultimi noi facciamo la marcatura non a uomo, discriminando gli altri, ma la marcatura a zona. Perché, prima o poi, da quella zona degli ultimi tutti quanti passeremo. Passerete pure voi che stasera vi librate in questa atmosfera splendida, condotti dallo Spirito. Verrà anche il momento in cui voi, come Gesù, direte: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Spirito di Dio fai sentire la tua brezza, la carezza freschissima sul mio volto! Dove sei, Spirito del Signore?”. Quel giorno voi sarete gli ultimi. Gli ultimi cambiano di turno. Non so se voi avete letto quella bellissima lettera di don Milani a Pipetta. Pipetta era un ragazzo della sua scuola. Poi era uscito fuori, era diventato un pezzo grosso del Partito Comunista e organizzava anche delle rivolte sindacali. E gli scrive così: “Caro Pipetta, io seguo con attenzione quello che tu fai e sono contento anche che tu ti batti per l’uomo. Ricordati però, amico mio, che quando tu sarai andato davanti alla villa dei ricchi, e avrai urlato con gli altri tuoi compagni, e avrai preso l’inferriata di quella villa e l’avrai scossa e l’avrai sfondata, io fino ad allora starò con te. Ma quando tu
22
Ci vuole audacia
sarai entrato nella villa dei ricchi, Pipetta, il tuo don Lorenzo non lo troverai più con te. Starò ancora dall’altra parte. Starò dall’altra parte, con gli ultimi di turno”. Capite, allora, che quando noi parliamo degli ultimi intendiamo non fare delle discriminazioni, come se i ricchi fossero fuori dal raggio della nostra intelligenza e della nostra attenzione pastorale? Ma intendiamo soltanto dire che stiamo con quelli che adesso hanno più fame. Vogliamo servire non quelli che stanno facendo un’abbuffata, adesso al banchetto della vita, ma quelli che stanno raccattando le briciole da terra. Ecco: noi stiamo con gli ultimi. Questo è partire dagli ultimi. Non è un linguaggio discriminatorio.
Partire dall’Eucaristia Come paradigma io sceglierei tre parole che si trovano nel capitolo tredicesimo di S. Giovanni, laddove si parla di Gesù che parla ai suoi discepoli e poi compie il rito della lavanda dei piedi: Gesù allora si alzò da tavola, depose le vesti e si cinse un asciugatoio. Gesù si alzò da tavola. Prima di tutto significa che l’Eucaristia non sopporta la sedentarietà. Ci obbliga, ad un certo punto, ad abbandonare la mensa. Ci sollecita all’azione. Ci spinge a lasciare le nostre cadenze troppo sedentarie e a prendere delle cadenze missionarie. L’Eucaristia, a un certo momento, ci sbatte fuori. Gesù si alzò da tavola. Noi qualche volta amiamo indugiare in queste dilettazioni morose. Ci piace stare insieme, pregare insieme. Però ad un certo momento dobbiamo alzarci da tavola. Non si può rimanere nella sala da pranzo. Non possiamo permetterci il tepore di una sala ovattata dalle nostre preghiere e dai nostri incensi. Dobbiamo alzarci da tavola. E questo alzarci da tavola è così impellente, quando viene dall’Euca-
23
Antonio Bello
ristia, che obbliga anche chi ha preso sacrilegamente l’Eucaristia ad alzarsi. Ricordate? Sempre al capitolo tredicesimo di Giovanni: “Giuda, allora, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte”. Sentì il bisogno di alzarsi pure lui. Anche se la si prende indegnamente l’Eucaristia ti sbatte fuori. Ti fa alzare. Si alzò da tavola significa anche un’altra cosa: che gli altri due verbi che ci sono (depose le vesti e si cinse l’asciugatoio) hanno significato soltanto se si parte dall’Eucaristia. Se no, noi facciamo soltanto delle smanie sociologiche. Se non partiamo dall’altare, dalla preghiera, dall’Eucaristia, dall’incontro con Gesù Cristo Signore…, se noi non partiamo dalla tavola… facciamo soltanto del filantropismo. Ci diranno che siamo bravi, che organizziamo la gente, che smaniamo per i poveri. Però Gesù Cristo Signore non ha nulla a che spartire con questa nostra faccendiera smania di questo nostro sbraitare incontrollato. Bisogna partire dalla tavola. Specialmente per noi sacerdoti, se non si parte dalla preghiera, dal raccoglimento, dal colloquio con lui, dalla vita intima con lui, noi non combiniamo niente. Gesù si alzò da tavola. E poi depose le vesti. Che significa deporre le vesti? A me pare che questa espressione del Vangelo ci offra il paradigma di quello che dobbiamo fare noi. Dobbiamo deporre le vesti del nostro tornaconto, del nostro interesse, del nostro calcolo. Per rivestire la nudità della comunione. Deporre le vesti della ricchezza, del lusso, dello sfarzo, della mentalità borghese. Per vestire le trasparenze della modestia, della semplicità, della leggerezza. Dobbiamo abbandonare le vesti del dominio, dell’arroganza, dell’egemonia, della prevaricazione. Tenendo presente che la parola pauper non si oppone tanto a dives, ma si oppone a potens, uno che ha il potere. Noi dobbiamo deporre le vesti come sacerdoti, come Chiesa, come popolo di Dio. Perché a volte siamo potenti.
24
Ci vuole audacia
Io tremo di vergogna quando mi chiamano al telefono per una raccomandazione, oppure quando vengono da me e dicono: “Guarda che se vuoi, tu ottieni”, “Guarda? Alla Banca Cattolica! Dice Cattolica!”. E che c’entro io con la Banca Cattolica? Quando la gente ci scambia per esseri potenti, per persone che contano, che nella società hanno da dire la loro, che sono ascoltati, che sono riveriti, che sono temuti, non siamo più poveri! Come dovremmo acquisirla questa mentalità e farla diventare nostra? Rinunciando a queste smanie di egemonia, queste smanie di potere. Non ricorrete più ai vostri vescovi per chiedere un favore presso il tale onorevole, presso il tale deputato. Non ricorrete ai vostri vescovi ad uno ad uno. Semmai andate in dieci, in cento, in mille sotto il suo palazzo e dite: “Vescovo, mettiti a capo di noi, andiamo insieme a scuotere la sensibilità di quelli, dei tecnici che hanno in mano le leve del potere”. Gesù depose le vesti! Gesù ci riconcilia con gli ultimi. Dice a noi: “Che state facendo, voi, che invece di deporre le vesti ve le mettete?”. Deporre le vesti significa anche non far uso di un linguaggio difficile, che è diventato incomprensibile per la gente. Non riusciamo più a farci capire. Siamo difficili. Facciamo tormentare la gente perché il nostro linguaggio è diventato non più omologato col linguaggio del mondo. Se noi non deponiamo le vesti di questa nostra aulicità difficilmente la gente ci capisce. Partire dagli ultimi significa che se qui scorgo che lì c’è un architetto, e lì c’è un medico, e poi vedo che c’è un povero cristo che non ha fatto manco la prima elementare, io devo subito adattare il mio linguaggio non sulla misura dell’architetto, ma sulla misura del più povero. Deporre le vesti, per noi sacerdoti, significa diventare clero indigeno. E per voi, laici, come dicono in America Latina, significa mettersi in corpo l’occhio del povero e guardare con l’occhio del povero, con l’occhio dell’ultimo, tutta la realtà. Gesù si alzò da tavola, depose le vesti e poi si cinse un asciugatoio.
25
Come diventare costruttori di pace*
L’allegato a questo libro è da ascoltare e vedere. Non da leggere. L’ho cercato dopo essermi per caso imbattuto nel 1998, durante il periodo dell’Avvento, in un testo di don Tonino Bello. Leggendolo. Per sommi capi, stuzzicato dalla curiosità, mi soffermai nella parte inerente gli auguri natalizi, decisamente scomodi, ma colmi e traboccanti di significato! Ho cercato il video di un incontro del quale sapevo ma a cui non avevo potuto prendervi parte. L’ho guardato, ascoltato, fatto oggetto anche di un mio lavoro di tesi e soprattutto l’ho condiviso, in questi anni di insegnamento, con i miei studenti. Don Tonino Bello con la sua sconcertante semplicità esortando calorosamente i giovani ad amare la vita nelle sue molteplici espressioni, senza lasciarsi affliggere ed influenzare da quei soggetti che hanno smarrito i sogni e la speranza, disarma soprattutto noi adulti educatori. I miei studenti lo hanno ascoltato, conosciuto. Don Tonino ci ha resi complici di un’esperienza di vita più intensa vissuta tra i banchi di scuola. Le loro impressioni, i loro rimandi, i loro feedback – si dice in termine tecnico e più moderno – ci dicono della presenza ancora viva di lui: ... Le mie prime impressioni sono state, come dire, abbastanza contrastanti, non potevo credere ai miei occhi. Don Tonino Bello, un vescovo, prima, quasi rifiutato dalle gerarchie perché scomodo – vero ed evangelico… ora è agli onori degli altari, con l’inizio del processo di beatificazione. Tonino, perché è così che secondo me vorrebbe sentirsi chiamare, è stato uno di noi, un uomo come gli altri pieno di potere, messo a servizio degli ultimi, non per propri vantaggi Il DVD allegato al libro propone la conferenza tenuta in data 16 giugno 1991 ad Einsiedeln (Svizzera), luogo di culto molto noto, meta di pellegrinaggi provenienti da tutta Europa, città mariana (Madonna nera) abbazia benedettina. L’incontro a cui prese parte don Tonino si è tenuto in occasione della formazione e l’aggiornamento del Movimento Laici cottolici Italiani in Svizzera. A Fabio BRAY dobbiamo la disponibilità del video e del testo. *
44
Ci vuole audacia
personali, ma per un domani migliore e per la pace tra i popoli. La sua teoria della Pace credo sia unica nel medesimo tempo una “calda” utopia, come i suoi sogni del mattino, in base alle mie conoscenze, non esiste oggi una persona come lui… Difficile, oggi, trovare una persona che intrattenga tanti ragazzi giovani “usandoli” riuniti per discutere della Pace nel mondo. Ho custodito a lungo questo filmato come una perla preziosa. Poi ho capito che come tutti i doni andava condiviso, non solo con i miei studenti. Bisogna liberare la poesia e la profezia di don Tonino dentro di noi per “mettere a soqquadro il mondo”. Fabio BRAY*
Fabio BRAY ha origine salentine. Laureato in Sociologia Politica presso l’Università di Urbino, con una tesi dedicata alla costruzione della Pace e la contempla[t]tività in “don” Tonino Bello ha conseguito il Baccellierato in Teologia presso la Facoltà di Teologia di Lugano. Giornalista Pubblicista, collabora con diversi periodici e quotidiani. Ha vissuto per vent’anni in Svizzera tedesca, insegnando nei Corsi di Lingua e Cultura Italiana (MAE). Attualmente insegna e vive in Toscana. *
45