Daniela Federici Psicoterapeuta, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana (Spi) e dell’International Psychoanalytical Association (IPA). È autrice di: Il gioco dell’analisi. Creatività e responsabilità nella relazione psicoterapeutica (Foschi editore, 2012); Senso di responsabilità e relazione psicoterapeutica (Clinamen, 2008) con F. Rizzi e L. Tomaselli; ha partecipato al testo collettaneo (a cura di F. Munari e F. Pozzi) Pulsione e fantasia (Antigone, 2015). È autrice di diversi articoli e recensioni su riviste specialistiche. Vive e lavora a Parma.
Che processo relazionale, affettivo, motivazionale si attiva tra le persone che sono in una relazione educativa? Quali sono gli ingredienti di quella speciale metamorfosi immaginata da Neruda, che permette di fare con l’altro “ciò che la primavera fa col ciliegio”, di essere né troppo precoci né troppo in ritardo, determinanti e determinati, ma anche capaci di affiancarsi rispettosamente alla fragilità, alla creatività e alla bellezza altrui? Come e quando si ascolta e si dà valore alla voce e ai desideri del “ciliegio”? Pensare il futuro per i propri figli significa costruire una struttura mentale che è cruciale per il Sé, lo orienta su una prospettiva lungo un arco temporale, è una funzione vitale. Quanto riusciamo a trasformare le angosce di quest’epoca di precarietà per trasmettere ai nostri figli una prospettiva aperta sul loro a-venire? Se l’educare ha a che fare con l’insegnare a vivere, a che mondo li attrezziamo? Educare riguarda la possibilità di aiutare i nostri ragazzi a fare esperienza in modo creativo, per un ben-essere che sia l’essere bene di un’esistenza piena e appropriata. Affrontare il tema con una dichiarata tensione etica, per gli autori significa dialogare stimolando dubbi e domande, sostare nell’incertezza, alla ricerca di una comprensione profonda del significato dei ruoli e delle emozioni in gioco.
Insieme per le edizioni la meridiana hanno curato Dialoghi per un’etica delle relazioni amorose (2016).
ISBN 978-88-6153-610-4
Euro 16,00 (I.i.)
9 788861 536104
Dialoghi per un’etica delle relazioni educative A cura di S. Fallini-D. Federici
Sara Fallini Psicologa, psicoterapeuta, psicosocio-analista presso lo Studio di Psicoterapia Consulenza e Formazione. Ha Organizzato nel 2009 i seminari “Psiche Mafiosa. Vincoli familiari ed emancipazione del soggetto” e “Ciclo crisi. Emozioni individuali e sociali nella crisi economica”. Vive e lavora a Parma.
A cura di Sara Fallini-Daniela Federici
Dialoghi per un’etica delle relazioni educative “I tuoi veri educatori e plasmatori ti rivelano qual è il vero senso originario e la materia fondamentale del tuo essere, qualche cosa di assolutamente ineducabile e implasmabile. In ogni caso difficilmente accessibile, impacciato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere nient’altro che i tuoi liberatori. E questo è il segreto di ogni formazione, essa non procura membra artificiali, nasi di cera, occhi occhialuti: piuttosto ciò che potrebbe dare questi doni è soltanto l’immagine degenerata dell’educazione. Essa invece è liberazione.” Friedrich Nietzsche
Con contributi di: E. Ceccarelli, R. Ceni, E. Musi, A. Reggianini, I. Ruggiero, A. Saracco
QUADERNI di
A cura di Sara Fallini-Daniela Federici
Dialoghi per un’etica delle relazioni educative Con contributi di: E. Ceccarelli, R. Ceni, E. Musi, A. Reggianini, I. Ruggiero, A. Saracco
Indice Le emozioni dell’educare di Sara Fallini ..................................................................................... 7 “Si cresce solo se sognati” di Daniela Federici .......................................................................... 13 SEMINARIO 19 MARZO 2016 Introduzione di Sara Fallini ................................................................................... 33 Aver cura della vita affettiva per aiutare a crescere di Elisabetta Musi ............................................................................ 39 La matematica s’impara esplorando e sbagliando di Alberto Saracco ............................................................................ 67 Dibattito con Elisabetta Musi e Alberto Saracco .......................................... 79 SEMINARIO 16 APRILE 2016 Introduzione di Umberto Cocconi ......................................................................... 93 La giustizia tra responsabilità dell’autorità e responsabilità della speranza di Elisa Ceccarelli ............................................................................. 97 Insegnare è una cosa grossa di Alberto Reggianini .................................................................... 109 Dibattito con Elisa Ceccarelli e Alberto Reggianini .................................... 119 SEMINARIO 7 MAGGIO 2016 Introduzione di Daniela Federici ........................................................................ 131
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Funzioni genitoriali tra infanzia e adolescenza di Irene Ruggiero ............................................................................ 137 Tempo, gesto, ethos. La musica e il senso del limite di Riccardo Ceni ............................................................................. 155 Dibattito con Irene Ruggiero e Riccardo Ceni ............................................. 167 Profili dei relatori .......................................................................... 179
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Le emozioni dell’educare di Sara Fallini
Voglio fare con te ciò che la primavera fa coi ciliegi P. Neruda
Quando deve affrontare un secondo parto è naturale che una donna senta di avere un po’ più di esperienza: non è più una neofita e spesso il parto è più veloce. In molti casi però, pur conoscendo la bellezza che la attende, conosce anche il dolore del travaglio; il suo atteggiamento allora può essere più riflessivo, ponderato e cauto, anziché caratterizzato dallo slancio entusiastico della principiante. È stato un po’ così anche il nostro rapporto con la seconda edizione dei seminari “Ma ci hai pensato?” svoltasi nella primavera del 2016. Ancora intenti a svezzare il primo ciclo di eventi – i cui testi stavano per essere ultimati e dati alle stampe – ci siamo ritrovati, prima con il desiderio di concepire e, poco dopo, con la necessità di dare alla luce e accudire un nuovo ciclo di seminari, questa volta riguardanti le relazioni educative; per certi versi la naturale prosecuzione dei precedenti Dialoghi, incentrati sul tema delle relazioni amorose. Riflessività e cautela hanno dunque caratterizzato sin dall’inizio il nostro impegno organizzativo, sentimenti che, a ben vedere, hanno molto a che fare anche con il compito di educare e con le relazioni educative. Mettere al mondo, occuparsi degli aspetti concreti e materiali dell’educazione, così come della crescita e della cura, non basta1. Educare mette di fronte sin dalle prime battute – oltre al desiderio di far le cose per bene e di trarne felicità – a respon7
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sabilità, prudenza, scelte, dubbi, astinenza, fermezza, fatica, ricordi, consapevolezza. Educare, oggi più che mai, implica atteggiamenti interiori che hanno a che fare con l’accompagnare, il fermare e il lasciare andare, a volte con seri problemi di “frizione”. Nel parlare delle emozioni2 che compaiono in una relazione educativa, ci si accorge di essere di fronte a una relazione particolare: nonostante entrambe le parti in gioco abbiano una propria responsabilità, queste parti non sono “alla pari”, come succede in una relazione amorosa. La relazione educativa è la relazione asimmetrica per eccellenza ovvero una relazione nella quale una persona è nel ruolo di guida, di aiuto a fuoriuscire ed esprimersi (ex-ducere) e l’altra è nel ruolo di chi è guidato, di chi è aiutato a esprimersi e a diventare se stessa/o. Come si declinano questi due ruoli? Che processo relazionale, affettivo, motivazionale si attiva tra le persone che sono in una relazione educativa? Quali sono gli ingredienti di quella speciale metamorfosi immaginata da Neruda, che permette di fare con l’altro “ciò che la primavera fa col ciliegio”, di essere né troppo precoci né troppo in ritardo, determinanti e determinati, ma anche capaci di affiancarsi rispettosamente alla fragilità, alla creatività e alla bellezza altrui? Come e quando si ascolta e si dà valore alla voce e ai desideri del “ciliegio”? Volendo continuare ad affrontare il tema con una dichiarata tensione etica, che per noi significa dialogare stimolando dubbi e domande, sostare nell’incertezza, alla ricerca di una comprensione profonda del significato dei ruoli e delle emozioni in gioco, ben presto un altro grappolo di domande si è aperto a pioggia sul nostro gruppo di lavoro. Ci sarà ancora qualcuno che ha il desiderio e il coraggio di esplorare, che ha ancora il tempo di perdersi e ritrovarsi insieme a noi intorno a questi temi? Qualcuno accetterà che non ci siano ricette pronte, sulle quali esprimere eventualmente un “like”, ma che ci si debba confrontare con le questioni educative affrontando le emozioni e i climi anche non facili di cui sono portatrici? Troveremo di nuovo donne e uomini, e perché no, bambini e bambine, disponibili a condividere con noi, con i relatori e con gli altri partecipanti, un atteggiamento pensoso3? 8
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No, non ce lo potevamo assolutamente nascondere: se quello di educare è uno dei tre mestieri che Sigmund Freud definì impossibili, dialogare pensosamente di educazione in grande gruppo non sarebbe stato da meno. Quando poi, dopo tante domande, finalmente si è trattato di passare all’azione e iniziare a invitare persone che si confrontassero con noi sull’argomento a partire da punti di vista formativi e professionali molto eterogenei tra loro4, ci siamo inaspettatamente ritrovati, per un po’, a inseguire personaggi glamour e popolari, pensando che solo scrittori di moda o blogger ci avrebbero garantito successo e follower, anche a dispetto della qualità. Il nostro gruppo di lavoro in quel momento stava sperimentando esattamente quello che vivono molte mamme e papà, molti educatori e insegnanti, quando sentono che il loro impegno e lavoro, pur essendo molto importante e svolto con scrupolo e qualità, sembra invisibile, dato per scontato, poco valorizzato, al punto di sentirsi “di serie B” rispetto ad altre attività più appariscenti, redditizie e di indiscutibile successo. Dietro a questa paura di non essere visti, o quella altrettanto irrazionale di fare un flop, c’è la paura, quasi innominabile, ma sempre presente nelle figure educative, di non essere abbastanza bravi, di essere troppo imperfetti nei propri vestiti di tutti i giorni. Le persone che si occupano di educazione sentono inoltre di non poter mai avere risultati certi. Al senso di incertezza e impotenza che ne deriva c’è chi reagisce cercando continuamente delle soluzioni e c’è chi reagisce trovando una posizione sufficientemente comoda nella quale sostare e attendere che le gemme del piccolo albero fioriscano e scoprire solo a quel punto che frutto darà. È stato dunque l’ascolto di tutto quanto stava affiorando a guidarci, finalmente in modo chiaro e saldo, nella scelta dei relatori per i tre seminari: una pedagogista, un matematico, una magistrata in pensione, un pittore, una psicoanalista e un musicista, accomunati da una profonda qualità esistenziale, da una passione per ciò che fanno e dal cogliere profondamente il senso dell’educare. Con loro abbiamo sentito di poter rendere più digeribili ed elaborabili le emozioni della relazione educativa. 9
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Qual è oggi la funzione educativa della scuola e com’è cambiata, se è cambiata, alla luce dell’attenzione sempre maggiore alla relazione interpersonale e alle emozioni? Quanto è importante il coinvolgimento di chi apprende e delle sue emozioni quando l’oggetto dell’apprendimento è qualcosa di apparentemente difficile, come la matematica, o quando nella relazione educativa compare una frustrazione, un limite o un no? Che ruolo e importanza reciproca hanno nelle relazioni educative di una società post-tradizionale, e forse già post-moderna, l’autorità, con le sue regole e la sua capacità di mettere dei limiti, da una parte, e la libertà e creatività dall’altra? Quale atteggiamento relazionale e quali percorsi formativi possono aiutare bambini e bambine, ragazze e ragazzi a fare esperienze di crescita consapevoli e armoniose, anche in presenza di difficoltà, complicazioni e ostacoli, che sempre si presentano nella vita? Queste sono alcune delle domande che abbiamo rivolto ai nostri ospiti. Abbiamo riflettuto insieme, inoltre, con il supporto di numerosi film; dopo averne visti tanti5, i film che abbiamo scelto – Una volta nella vita (Francia, 2014), Father and Son (Giappone, 2013) e I nostri ragazzi (Italia, 2014) – ci hanno offerto numerosi stimoli sulle sfide educative che si trova ad affrontare la genitorialità contemporanea. Il nostro è stato, e rimane, uno strano gruppo di curatori: una psicoterapeuta psicosocioanalista, una psicoanalista e un sacerdote, insegnante e teologo. Noi tre insieme siamo portavoce della possibilità di dialogare tra concezioni diverse della vita e della possibilità di costruire un campo comune. Abbiamo condiviso un desiderio e un progetto, ci siamo conosciuti nella differenza e abbiamo iniziato un dialogo molto “educativo”, che è proseguito con questo nuovo percorso. Progettare questi seminari, scegliere i film, invitare relatori tanto diversi tra loro, costruire un contenitore istituzionale avendo in mente come target tutta la cittadinanza, è stata una scelta molto precisa, una scelta di prendersi cura del benessere cittadino. Imbastire storie ricche di contenuti e stili diversi, scandirle in tappe successive, insieme al riproporsi delle circostanze e dei luoghi dell’incontro, ha reso questo ciclo di seminari e film una 10
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piccola abitudine che forse è divenuta un rito6. Per questo l’abbiamo pensato di nuovo così. Lascio la conclusione di questa prefazione a un piccolo “ciliegio”, incontrato in Fuocoammare, film documentario di Gianfranco Rosi su Lampedusa. Si tratta di Samuele, grande costruttore di fionde dall’occhio pigro. In tanti momenti del film lo vediamo intento a giocare, a sperimentare, a studiare approssimativamente i libri di testo scolastici e a dialogare, curioso, attento e desideroso di crescere, con gli adulti a lui vicini. A un punto il ragazzino è ripreso mentre insegna a un amico a forgiare una fionda nel legno di pino. I suoi dodici anni non gli impediscono di essere già un ottimo educatore che, ultimata la fionda, dice al compagno, in stretto dialetto lampedusano: Ma ci vuole passione, perché altrimenti, senza passione... Samuele
22 novembre 2016
Note 1
Ho parafrasato liberamente il celebre titolo di Luigi Zoja, Nascere non basta, Cortina Editore, Milano 1985; libro incentrato sulla scomparsa di un’importante istituzione culturale: l’iniziazione. Scrive Zoja: “Sembra di poter distinguere diversi tentativi di rinascita della iniziazione e dei gruppi esoterici ad essa legati. [...] Lo schema di fondo dell’iniziazione è costituito da un ‘passaggio’, che può essere visto come un passaggio dal profano al sacro; e contemporaneamente come un passaggio attraverso fasi di morte e rinascita”. Quanta della complessità del compito edu11
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cativo può essere stata accentuata dal venir meno di questa importante istituzione e dei suoi riti, pur non venendo meno la domanda, più o meno latente, di rigenerazione? Penso che questo tema possa essere una interessante chiave di lettura di molti discorsi che attraversano i nostri seminari. La psico-socioanalisi le chiama emozioni di ruolo, emozioni tipiche e ricorrenti in un certo ruolo sociale o professionale, piuttosto che essere legate principalmente alla storia della persona. Laura Ambrosiano dice che “la pensosità esprime una ricerca e una osservazione che non conduce a soluzioni definitive, non impegna in coerenze con le credenze acquisite. I significati che essa trova-scopre hanno lo statuto di un mito, insaturo e incerto, non di una ipotesi scientifica”. Si veda Ambrosiano L., Corruttori e corrotti. Ipotesi psicoanalitiche, Mimesis, Milano 2016. La scelta di creare per i nostri Dialoghi degli abbinamenti inusuali, inizialmente strani anche per i nostri ospiti, viene da un’artista che ho incontrato per caso al padiglione francese della Biennale di Venezia del 2007. Si tratta di Sophie Calle che un giorno ricevette una e-mail in cui l’uomo che amava la lasciava e terminava la lettera con la frase “Prenez soin de vous”, “Abbi cura di te”. L’artista francese decise di elaborare il suo lutto sentimentale chiedendo a 107 donne, di estrazione sociale e professioni molto diverse tra loro, di commentare questa lettera e le sue ultime parole. È così che il suo addio è diventato prima un libro e poi una mostra. Poiché i film hanno un enorme e veloce potere evocativo mi piacerebbe nominare alcuni di quelli visti: Whiplash, Quattro minuti, L’onda, Monsier Lazhar, Les choristes, La famiglia Belier, Class Enemy, Dancing with Maria, Io sono Mateusz, Fuocoammare. Uno di quei riti di cui Antoine de Saint-Exupéry lamentava la scarsità nella vita degli uomini e delle donne di oggi.
“Si cresce solo se sognati”1 di Daniela Federici Non vi è realizzazione personale senza società, né società al di fuori dei processi di crescita collettiva degli individui che la compongono D.W. Winnicott
Nell’Emilio Jean-Jacques Rousseau ha definito l’educazione “il mestiere di insegnare a vivere”. L’educazione è un’esperienza fondamentale della nostra esistenza, perché non si tratta solo di acquisire nozioni per rapportarsi con il mondo e con gli altri, ma di apprendere una capacità di pensare, una capacità riflessiva che ci metta in grado di leggere e significare la nostra esperienza e quella degli altri. Questo intreccio di competenze cognitive, e insieme emotive, relazionali e sociali, dovrebbe essere in grado di espandersi, di apprendere ad apprendere così da potersi elaborare ulteriormente e creativamente, perché la vita non fa che esporci a continui cambiamenti richiedendo sempre nuovi adattamenti. “Il bambino non è un contenitore che deve essere riempito ma un fuoco che deve essere acceso”, diceva Montaigne. L’etimologia del verbo educare richiama al condurre fuori, a una funzione maieutica che porta qualcuno ad emergere, a farlo esprimere per realizzare le proprie potenzialità. Per questo abbiamo messo l’accento sulle “relazioni educative”, perché ogni apprendimento passa attraverso una relazione e la qualità di quella relazione segnerà profondamente la possibilità di appassionarci a una materia e il modo in cui la faremo nostra. Oggi si parla molto di crisi della funzione educativa e dal momento che ogni sapere e ogni missione educativa sono determi13
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nate culturalmente, questa crisi non può che essere in relazione con i cambiamenti nel panorama socio-culturale in cui ci troviamo a vivere. Crisi di per sé non è un termine negativo, krisis significa rottura di continuità, può quindi costituire anche un’opportunità. Ma che si stia dalla parte dei nostalgici, quelli che “andava meglio prima”, o che si plauda ai cambiamenti degli ultimi decenni, è indubbio che abbiamo a che fare con scenari profondamente trasformati che vanno compresi per meglio indirizzarli.
Funzione d’autorità e nuovi modelli educativi Una delle trasformazioni che ha indubbie ricadute sulla funzione educativa è l’indebolimento del ruolo simbolico dell’autorità. Pensiamo solo al fatto che oggi le regole non sono più considerate un valore, ma piuttosto un arbitrio poco tollerabile che limita le nostre libertà. La libertà è un valore primario per l’essere umano, ma in questa nostra epoca individualista, che ci abbaglia con il miraggio che ciascuno possa essere o fare qualsiasi cosa, l’affermazione delle proprie libertà ha preso declinazioni arroganti. Non è difficile riscontrare desideri che si pensano diritti, che piegano ai propri imperativi anche le istanze morali. Se si modifica la nostra scala dei valori, questo influenzerà anche ciò che si trasmette ai propri figli attraverso l’educazione; ma non intendo occuparmi di questo, mi limito a considerare solo come questo contesto socio-culturale non sostenga più gli adulti nell’esercizio della funzione d’autorità. Nelle famiglie frasi come “Finché sei in questa casa fai quello che dico io!”, tramandavano nelle generazioni il tradizionale rapporto verticale genitori-figli. C’erano dei principi organizzatori gerarchici che traghettavano prescrizioni, limiti, divieti. Tutto questo oggi è diventato più difficile da far valere, perché contestato il modello autoritario di adulti che si imponevano senza negoziare consensi né dover fornire ragioni, i genitori cercano ora un rapporto orizzontale e cameratesco con i propri figli, e tutto diventa dialogico. Se non c’è più un’autorità riconosciuta in quanto tale né dei precetti tramandati di una disciplina dalla quale ci si vuole dif14
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ferenziare, ogni famiglia deve istituire da capo i propri modelli educativi basando le regole su criteri personali. In questo modo gli adulti sono chiamati in causa ogni volta in prima persona, e non è per niente facile esercitare autorevolezza. Ma questo è un compito fondante, un aspetto essenziale dell’educare, perché l’assunzione del senso delle regole riguarda il riconoscimento dell’alterità, dell’esistenza di qualcuno con cui negoziare i propri desideri. Provo a tracciare solo alcune considerazioni, decisamente semplificate, sulla trasformazione socio-culturale nei rapporti genitori-figli2. I figli mediamente nascono più tardi, magari si è atteso di consolidare situazioni lavorative e quando lo si “programma” può capitare di fare fatica ad averlo. Se ne fanno meno, spesso uno soltanto (la media nazionale supera di poco l’unità), la famiglia è diventata nucleare e il welfare è quello che è; si è preoccupati per come accudirlo, mantenerlo, per il futuro che dovrà affrontare. Elementi come questi, insieme a una diffusa cultura sui bisogni dell’infanzia, mettono il bambino al centro di una considerazione e di attenzioni complessivamente maggiori che in passato. Immaginate genitori (specie le madri, oggi chiamate alla sfida di conciliare la maternità con la realizzazione nella professione) che si sentono in colpa perché il lavoro li tiene lontani per tutta la giornata. Quanto si patisce, nel poco tempo passato con i figli, di dover confliggere per negoziare delle regole? Figuriamoci se a un certo punto la coppia si separa, con tutte le complicazioni emotive che ne conseguono: il senso di inadeguatezza, le insicurezze, le competizioni, i weekend alterni. Privi di riferimenti, pressati dai confronti con gli altri adulti e dai diktat culturali, non è poi così difficile pensare che il modo migliore per evitare le tensioni e conquistare l’amore dei figli, sia di provare a renderli felici non scontentandoli mai. È il mito moderno della happy childhood, dei genitori identificati con i bisogni dei figli più che con il mandato parentale di essere l’autorità contro cui un figlio può crescere. Nelle famiglie il registro si impernia sull’affettività, cercando di creare una dimensione del tutto armonica dei rapporti. Per esempio: non ci si vuole più far obbedire con la minaccia delle punizioni, quindi ci si aspetta l’intesa per amore, per identifica15
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zione con un buon clima (per non dispiacere alla mamma, per non deludere il papà). Ci si aspetta che i figli si auto-regolino in modo da non doverli sgridare, che “capiscano” doveri e restrizioni, così che non debbano essere imposti e non siano motivo di attrito. Insomma, i nuovi patti educativi comunicano che la contestazione non è più davvero tollerabile. Ma questo taglia fuori aspetti che potranno restare sempre più scissi e difficili da gestire. Perché in realtà un antagonismo è necessario per guadagnare l’emancipazione. Se gli adulti regalano quel che andrebbe guadagnato, se abdicano senza raccogliere la sfida di un contrasto che è fisiologico nel processo di crescita, non si tratterà che di una pseudo-maturità3. Senza lotta non si conquista un’autentica indipendenza emotiva, l’Io resta fragile, privo del vero riconoscimento di un’appropriazione. Non c’è più un’autorità di marca paterna contro cui ribellarsi, entrare in conflitto è vissuto come un tradimento della lealtà familiare, un segno di ingratitudine verso genitori che soddisfano tutti i desideri e soprattutto che si mostrano fragili del bisogno di non essere contestati: non stupisce che i figli facciano fatica a separarsi, psichicamente oltre che concretamente. Queste relazioni affettive di stampo fusionale causano un invischiamento, fra genitori che non promuovono un distacco e figli che faticano ad assumersi responsabilità in proprio. La moratoria sociale di una prolungata dipendenza (un ministro parlò di “bamboccioni”) non è dovuta solo a fattori socioeconomici, alla difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro e costruirsi un’autonomia economica, ma spesso intreccia fattori familiari e dimensioni psichiche profonde. Questa fatica di sostenere una funzione d’autorità può portare a una sorta di rovesciamento: “Perché devo tornare a mezzanotte se le mie amiche possono star fuori fino alle due?”; “Perché non mi comprate l’iPhone che ce l’hanno tutti?”. L’autorità passa di mano dagli adulti ai ragazzi, così che alla fine sono loro a dettare legge. Oggi sono i genitori che temono la disapprovazione dei figli, che accondiscendono a ogni richiesta per non sentirsi dire: “Sono meglio i genitori dei miei amici!”. Queste dinamiche sono talmente automatiche che ai genitori che vengono in consultazione a volte risulta difficile riconosce16
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re la relazione fra quell’assecondarli in tutto, che alimenta un sé grandioso e arrogante, e il tiranno di cui si lamentano. Così come li stupisce scoprire qualcosa di sé in questo bisogno di vederli contenti. Perché con i figli è sempre un po’ in gioco un doppio desiderio: di rivedere noi stessi felici e realizzati attraverso di loro, senza i limiti che invece noi abbiamo patito, dimostrandoci – al tempo stesso – genitori migliori di quelli che abbiamo avuto. Sono scenari semplificati, ripeto, ma c’è un grandissimo investimento su questi figli che possono incarnare il sogno del genitore perfetto di un figlio altrettanto perfetto. Un centinaio d’anni fa Freud affermava che “educare è un mestiere impossibile”, e non solo perché è un compito che non finisce mai, ma perché è pieno di insidie, complicato da aspettative consapevoli e meno consapevoli. Per esempio: desideriamo che un figlio abbia molto più di quel che abbiamo avuto noi, più libertà, più opportunità; ma a questo desiderio può agganciarsi l’aspettativa – meno consapevole – che possa realizzare i nostri sogni, quelli che noi abbiamo mancato. Allora le opportunità che gli offriamo – perché studi all’estero, perché si realizzi in una professione prestigiosa – possono trasformarsi in una pressione a “diventare”, a ottenere certi risultati, perché un figlio di successo fa anche un genitore riuscito e riscattato. Lo si sente dire spesso ai ragazzi: “Puoi fare quello che vuoi”. Ma questo non dà la garanzia che i ragazzi sappiano subito cosa vogliono fare; questo a volte è un percorso da costruire. Inoltre, inebriati dall’illusione che tutto sia davvero possibile, sembriamo dimenticare che per riuscire in qualcosa non basta volerlo. I giovani possono avere molta più paura che in passato a buttarsi, perché se non c’è limite a quel che si può realizzare, allora non riuscire diventa una colpa che riempie di vergogna. Quante volte vediamo ragazzi annoiati, che sembrano voler provare tutto ma che non riescono ad appassionarsi veramente a qualcosa, spaventati a misurarsi, sorpresi che occorra fatica e impegno, che si tratti di coltivare dentro quel che si aspettano di trovare pronto fuori. Come genitori vogliamo proteggerli dagli urti della vita, ma come lo facciamo? I francesi usano il termine di “genitori elicottero” per indicare quel volo raso sulla testa dei propri figli fungendo 17
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da bancomat, bodyguard, domestici, risolvendogli tutti i problemi. Ma questo non gli insegna ad abilitare le proprie risorse e comunica anche la sfiducia che se la possano cavare: se occupiamo lo spazio aereo sulle loro teste, come potranno volare da soli? E tutta questa sollecitudine, quanto può avere a che fare con il nostro bisogno di essere indispensabili? È un quadro di fantasia, naturalmente, ma seguendo le immaginarie sorti di questo bambino così “speciale”, poco abituato a essere scontentato e che può mettere in scacco i genitori, possiamo chiederci: come arriva in una classe di trenta, magari tutti più o meno speciali come lui? Perché in questo clima di diserzione a incarnare la funzione d’autorità, il ruolo educativo è sempre più demandato alla scuola. Ma anche la tradizione scolastica ha abolito il modello gerarchico e, perduto un retroterra normativo condiviso da cui far valere l’importanza della disciplina, a sua volta deve affidarsi al carisma e alle capacità dei singoli insegnanti di gestire le classi.
La scuola accanto ai genitori I tuoi veri educatori e plasmatori ti rivelano qual è il vero senso originario e la materia fondamentale del tuo essere, qualche cosa di assolutamente ineducabile e implasmabile. In ogni caso difficilmente accessibile, impacciato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere nient’altro che i tuoi liberatori F. Nietzsche
L’apprendimento è un processo che oscilla fra una necessità normativa e una tensione conoscitiva, deve mediare fra l’acquisizione di un sapere comunitario condiviso e la possibilità di “aprire le menti” e insegnare la curiosità e la scoperta. Questo richiede un lavoro psichico che possa conciliare i bisogni di appartenenza e di riconoscimento all’interno del proprio contesto sociale, insieme alla capacità di sviluppare un pensiero autonomo e originale. Poter usare l’esperienza dell’apprendimento in questo modo, richiede un certo clima nella relazione educativa: ci vuole uno 18
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sguardo adulto che insegni a conoscersi e sostenga con fiducia le proprie attitudini e capacità, per alimentare il piacere di esprimerle e la possibilità di attingerle in modo creativo. Il sapere, oggi, è complesso da trasmettere, sempre più compartimentato e specialistico, a volte a rischio di sacrificare la capacità di una visione d’insieme. In molti lamentano che nei programmi scolastici si privilegi un sapere scientifico, che risponde meglio a criteri di produttività, a scapito di quello umanistico che “forma” a pensare. Certo è difficile alimentare la creatività con metodi di insegnamento improntati alla prestazione e con un apprendimento misurato con i test a scelta multipla. Come si può coltivare un pensiero veramente soggettivato e critico, che possa servirci nella vita per farci domande e cercare risposte non troppo semplificate alle questioni che ci riguardano? Come si impara a pensare riuscendo a far fronte alle spinte conformistiche dei luoghi comuni? Ma soprattutto: crediamo ancora nel significato virtuoso della formazione, o la fatica dello studio è stata sostituita dalla praticità di un sapere tutto-subito consultabile su Internet? Le nuove tecnologie hanno introdotto un vero e proprio salto di paradigma del sistema di conoscenza: il sapere non sta più nei libri, abbiamo il mondo in tasca! Queste innovazioni condizionano il nostro assetto mentale, ampliano i confini del nostro sé, trasformano i modi stessi dell’apprendimento. È un progresso che usiamo per potenziare le nostre menti o sono strumenti che mettiamo al posto delle nostre capacità di pensare? E qual è la realtà delle istituzioni scolastiche? Sempre più private di risorse, ogni volta ripensate secondo esigenze economiche più che pedagogiche, una classe insegnante oberata da mansioni burocratiche e delegittimata, anche dalla rottura del patto sociale con i genitori. Infatti, per quanto i genitori deleghino sempre di più il mandato educativo alla scuola, nello stesso tempo contestano con forza gli insegnanti, alleandosi con i figli per non farli incorrere in troppa fatica o in valutazioni che possano minacciarne l’autostima. C’è una forte ambivalenza: da un lato i genitori reclamano con urgenza una funzione d’ordine che addomestichi i 19
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figli, ma dall’altro, si mostrano altrettanto insofferenti dei ragazzi verso qualsiasi espressione d’autorità. Sempre più spesso gli insegnanti sono chiamati a confrontarsi con situazioni da emergenza sociale con gli alunni, una competenza che va ben oltre la missione educativa già complessa di accendere nelle loro teste l’amore per il sapere. Il primo film presentato nella nostra rassegna, Una volta nella vita4, rappresenta le difficoltà tipiche degli insegnanti alle prese con la necessità di motivare i ragazzi, ma soprattutto l’importanza strutturante di costruire con loro il senso della propria esperienza – che si tratti di riflettere sulla storia che abbiamo alle spalle o del futuro da investire per realizzare le proprie potenzialità e nutrire un’identità da poter sentire piena e significativa. Bajani ha scritto un delizioso librino5 sull’importanza di prendere a parole il mondo per conoscerlo e trasformarlo e sulla vocazione della scuola a coltivare l’immaginazione. Il suo lavoro con le classi racconta dell’impegno per alimentare la speranza negli occhi dei ragazzi e contrastare un male tipico fra gli scolari: il “rinuncianesimo”, l’atteggiamento rassegnato di chi smette di guardare avanti aspettandosi ancora qualcosa dagli adulti. È una descrizione che ricorda le passioni tristi6 di cui parlano Benasayag e Schmit: il disagio di questa nostra epoca, diffuso soprattutto fra i giovani, è una sofferenza che prende la forma della fatica di vivere. Questo impoverirsi di senso dell’esistenza, per gli autori, sarebbe da mettere in relazione con il brusco cambiamento di segno nella prospettiva del futuro, spalancato su un clima di insicurezze e destabilizzazione. Anche questa è una situazione specifica del nostro tempo: le nuove generazioni sono le prime della storia nelle quali i figli si possono aspettare meno dei loro genitori. Questo crollo del progresso garantito non ha solo a che fare con l’incertezza economica, è proprio diventata una paura del futuro: dall’inquinamento al terrorismo, alla crisi per trovare lavoro e casa. Questo senso di precarietà, come riusciamo a elaborarlo dentro di noi? Perché educare è anche un patto di continuità tra le generazioni, un atto di responsabilità verso il futuro di chi viene dopo di noi. Pensare il futuro per i propri figli significa costruire una struttura mentale che è cruciale per il Sé, lo orienta su 20
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una prospettiva lungo un arco temporale, è una funzione vitale. Quanto riusciamo a trasformare queste angosce trasmettendo ai nostri figli una prospettiva aperta sul loro a-venire? Se l’educare ha a che fare con l’insegnare a vivere, a che mondo li attrezziamo? Il progresso accelerato di questi ultimi decenni ha seminato soggettività straniate, che una volta lise le promesse onnipotenti della modernità, ora si trovano prigioniere dei vissuti d’impotenza. È come se fra l’onnipotenza promessa delle sconfinate libertà e l’impotenza di non riuscire davvero a impugnare la propria vita imprimendole una direzione, la fatica sia proprio quella di sostenere una ragionevole potenza esistenziale7, conscia dei propri limiti e commisurata sulle capacità reali. Solo questa consapevolezza garantisce di poter realizzare qualcosa che ci rappresenta, valorizzata dall’impegno che ci abbiamo messo e dal piacere del risultato. Questo è ciò che ci mette al riparo dall’apatia e dal vuoto. Le scorciatoie sono facili, ma non altrettanto capaci di sostenerci.
Un possibile contributo della psicoanalisi Il bisogno di aiuto per esercitare la funzione educativa è rilevabile anche nel sensibile aumento delle richieste “all’esperto”, un altro fenomeno che fa rientrare dalla finestra quel riferimento d’autorità (terzo psichico con funzione paterna) che si è buttato fuori dalla porta con la contestazione. Se pensiamo al proliferare delle rubriche di esperti su giornali e riviste, di libri su come fare i genitori, di tate televisive e talkshow con risposte prêt-à-porter, tutto risuona del bisogno che qualcuno ci venga a levare le castagne dal fuoco quando i conflitti con i nostri ragazzi, sempre più chiusi nel loro mondo e incomprensibili, diventano esplosivi. La psicoanalisi, che non mira a un adattamento, non ha una natura educativa, ma il suo sapere sui processi inconsci ha indubbiamente influenzato la dottrina dell’educazione. Agli albori della psicoanalisi Freud evidenziò che un’educazione molto repressiva (come quella dell’epoca vittoriana) prepara una disposizione nevrotica. Oggi invece si rilevano gli effetti dell’assenza di ogni divieto, i problemi di contenimento delle an21
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gosce in carenza di capacità di simbolizzazione, l’appiattimento della vita psichica che vede collassare il desiderio su un godimento divenuto compulsivo. Cosa significa? Che il desiderio è una tensione verso qualcosa, un ponte lanciato sopra una possibilità, una complessa dinamica che intreccia la realtà e il limite, l’alterità, l’incertezza, la frustrazione. Oggi invece impera il godimento, che è la pretesa di un soddisfacimento immediato, lo scarico di ogni tensione appena appare, senza restrizioni, spesso senza pensiero. A guardare la pubblicità, specchio dell’epoca consumistica, è diventato una specie di nuovo obbligo morale il “godere”, perché “Io valgo”: guido auto come astronavi in paesaggi meravigliosi (senza traffico nell’ora di punta), spando profumi che allargano le pareti di casa su campi di lavanda (meglio dei condoni edilizi), bevo caffè paradisiaci, faccio l’amore con il sapore a ogni cucchiaino. Ma questo imperativo del piacere non si limita alla spinta consumistica all’acquisto di cose che dovrebbero darci la felicità: noi stessi dobbiamo essere testimonial del “benessere”. E allora fitness, diete, biologico. Tutta salute, parrebbe. Ma se pensiamo al mito odierno della giovinezza e della perfezione del corpo e lo mettiamo in relazione all’impiego disinvolto della chirurgia estetica e al dilagare dei disturbi alimentari, forse suona già un po’ più inquietante. Questo benessere a tutti i costi è diventata una vera e propria prescrizione di stati d’animo. Colpisce la diffusione di psicofarmaci: dagli antidepressivi a chi è in lutto agli ansiolitici per la paura degli esami, pare che non si possano reggere le situazioni di tensione senza incorrere in un senso di inadeguatezza o nel bisogno di normalizzare i picchi con una pillola. In questo modo si “tappano” le istanze emotive invece di esplorarle e comprenderle, invece di dar loro spessore e significato. Così anche nel crescere i figli a volte si punta più a levare ogni ostacolo che a insegnare come tollerare l’incertezza e le frustrazioni, compito decisamente più difficile, che passa solo attraverso l’esempio, attraverso il tollerare insieme dubbi e conflitti. “Altro ufficio più grato / non si fa da parenti alla lor prole”, diceva Leopardi. Il film Father and Son8 ci ha raccontato con molta sensibilità il divenire padri, il faticoso percorso fra l’immaginare un figlio e 22
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il costruire una relazione con un bambino reale, facendo il lutto del bambino fantasticato in cui vedere realizzati tutti i propri desideri e ritrovare solo se stessi. Ci ha permesso di ragionare sul nostro essere anelli di una catena anche attraverso la genitorialità, perché il nostro modo di essere genitori viene da come ci siamo sentiti figli, dalle più o meno riuscite identificazioni con i nostri genitori, e implica la continuità di un far spazio all’altro che viene dopo di noi, da riconoscere nella sua alterità. La scelta del regista di sviluppare le vicende dal punto di vista dei padri aiuta a riflettere sulle questioni. Siamo più abituati a pensare l’accudimento attraverso lo sguardo delle madri, ma l’istinto materno richiama a qualcosa di inscritto nel biologico, come se pensassimo che le madri “nascono imparate”. Invece la funzione paterna è più facilmente considerata una costruzione e questo rende più facile pensare all’essere genitori come a qualcosa che va appreso. In quest’epoca di manuali fast-food, il film mostra anche l’importanza del tempo che occorre per la maturazione affettiva del diventare genitori, qualcosa che concerne quel che si è più di quel che si fa. Casa è il punto da cui si parte. Man mano che invecchiamo il mondo diventa più estraneo, la trama più complicata di morti e di vivi. Non il momento intenso isolato, senza prima né poi ma tutta una vita che brucia in ogni momento e non la vita intera di un uomo soltanto ma la vita di vecchie pietre che non si possono decifrare. T.S. Eliot
Quel che l’esperienza clinica e psicoanalitica può suggerire al processo educativo è che faccia i conti e insegni a gestire il conflitto, sapendo che un eccesso di repressione costringe a far fuori energie preziose per la vita psichica, ma l’assenza di limite ostacola il definirsi. E il definirsi come individui, la soggettivazione, è il compito principale della crescita, e passa attraverso la possibilità di pensare l’esperienza9 come condizione per comprenderla e farla propria. 23
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Imparare a gestire il conflitto è un compito che dura tutta la vita, che necessita di un contesto protettivo lungo il processo di crescita per imparare a contenerlo con il pensiero. Quanto possa essere minuscolo e quotidiano il processo di acquisizione di questa capacità, lo spiegherà bene Irene Ruggiero, mostrandoci l’importanza, per un bambino, di avere accanto un adulto che conferisce un significato ai suoi sentimenti e impulsi, che gli insegna a nominarli, facendoglieli sentire legittimati, mostrandogli quanto non siano né disumani né distruttivi. Lo spazio affettivo-mentale che elabora simbolicamente (che consente, cioè, il transito da ciò che si agita nel corpo in qualcosa dotato di un significato psichico pensabile) è ciò che permette di legare l’aggressività con l’affetto, di rendere meglio sostenibile e governabile la pulsionalità senza doverla sopprimere con degli espedienti psichici. Perché i moti dell’animo vissuti come inaccettabili vengono spinti a diventare inconsci, diventando molto più difficili da addomesticare e da riuscire a impiegare creativamente nella nostra vita psichica. Sono questi passaggi che a lungo andare costruiscono la capacità interiorizzata di gestire le proprie vicissitudini emotive.
Il cortocircuito della violenza Con il film I nostri ragazzi10 abbiamo esplorato il tema della violenza giovanile, un fenomeno che, dal bullismo al branco, pare in crescita. Fin dalla scena iniziale il regista ci catapulta nella violenza insensata, quella reattiva e acefala, come a ricordarci che ciascuno è potenzialmente sia vittima che portatore di violenza. Entriamo nella vita di due famiglie attraverso un fatto di cronaca, di quelli cui siamo abituati a guardare sentendoci al sicuro nelle nostre case, pensandole disgrazie che possono succedere solo agli altri. Scoperto che i loro figli adolescenti hanno aggredito e ucciso una barbona, i genitori si scontrano su come gestire la situazione. Attraverso il loro fronteggiarsi, il film racconta l’incomunicabilità fra genitori e figli e interroga il tema della responsabilità, non solo di chi agisce, magari nell’indifferenza, ma anche di chi, volendo proteggere, rischia una vera e propria omissione di soccorso. 24
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Il disagio dei propri figli è sempre molto difficile da riconoscere e accettare, perché ci fa sentire inadeguati e impotenti, perché può risuonare con il nostro disagio profondo, a volte non conosciuto. La storia mostra con molta efficacia che dove mancano strumenti per dar forma agli affetti ed elaborare l’esperienza interna, resta solo la scarica delle tensioni in atti aggressivi. La rabbia dei protagonisti non viene contenuta nella mente ma neanche nello spazio psichico delle relazioni: il lessico familiare dei sentimenti stabilisce che pur di difendere il proprio benessere, ogni ostacolo va eliminato. È in questo non vedere più l’altro come un essere umano come noi ma come un intralcio da eliminare, che si perpetua una spirale di violenza senza pensiero, e a volte senza rimedio. È un cortocircuito facile per ognuno di noi, perché il pensiero che ci consente di valutare invece di reagire, quello spazio mentale che è in grado di contenere emozioni e impulsi, trasformando le spinte interne, non è una condizione che si può dare per scontata. Il rischio di questi cortocircuiti è particolarmente significativo in adolescenza, perché la rimessa in discussione delle organizzazioni affettive dell’infanzia risveglia la violenza primitiva e lo fa su una psiche in condizioni regressive: c’è un’instabilità delle rappresentazioni di sé e degli oggetti interni – non ancora ben distinti – disturbi delle capacità riflessive, la tendenza a cercare soluzioni anestetiche. E nella grandiosità, l’agire si carica di eccesso, dell’urgenza e del senso di costrizione soggettiva. L’adolescente è particolarmente esposto alla violenza perché la pubertà porta una disorganizzazione violenta: i ragazzi devono “prendere corpo” fra tumulti e cambiamenti sui quali non c’è controllo, arginando spinte intrusive e confusive su un corpo difficile da riconoscere e di cui appropriarsi, che impaccia e sfugge come l’ombra a Peter Pan. Da adolescenti si è stretti in un dilemma, perché da una parte si ha bisogno di una messa in forma identitaria, ma dall’altra si ha paura di non poter più diventare altro o di restare bloccati in attesa di un divenire che non si riesce a sentire compiuto. La paura della passività, di subire delle trasformazioni senza potervi incidere11, fa sentire in balia di forze estranee e della rabbia per non essere quel che si vorrebbe. 25
Daniela Federici Psicoterapeuta, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana (Spi) e dell’International Psychoanalytical Association (IPA). È autrice di: Il gioco dell’analisi. Creatività e responsabilità nella relazione psicoterapeutica (Foschi editore, 2012); Senso di responsabilità e relazione psicoterapeutica (Clinamen, 2008) con F. Rizzi e L. Tomaselli; ha partecipato al testo collettaneo (a cura di F. Munari e F. Pozzi) Pulsione e fantasia (Antigone, 2015). È autrice di diversi articoli e recensioni su riviste specialistiche. Vive e lavora a Parma.
Che processo relazionale, affettivo, motivazionale si attiva tra le persone che sono in una relazione educativa? Quali sono gli ingredienti di quella speciale metamorfosi immaginata da Neruda, che permette di fare con l’altro “ciò che la primavera fa col ciliegio”, di essere né troppo precoci né troppo in ritardo, determinanti e determinati, ma anche capaci di affiancarsi rispettosamente alla fragilità, alla creatività e alla bellezza altrui? Come e quando si ascolta e si dà valore alla voce e ai desideri del “ciliegio”? Pensare il futuro per i propri figli significa costruire una struttura mentale che è cruciale per il Sé, lo orienta su una prospettiva lungo un arco temporale, è una funzione vitale. Quanto riusciamo a trasformare le angosce di quest’epoca di precarietà per trasmettere ai nostri figli una prospettiva aperta sul loro a-venire? Se l’educare ha a che fare con l’insegnare a vivere, a che mondo li attrezziamo? Educare riguarda la possibilità di aiutare i nostri ragazzi a fare esperienza in modo creativo, per un ben-essere che sia l’essere bene di un’esistenza piena e appropriata. Affrontare il tema con una dichiarata tensione etica, per gli autori significa dialogare stimolando dubbi e domande, sostare nell’incertezza, alla ricerca di una comprensione profonda del significato dei ruoli e delle emozioni in gioco.
Insieme per le edizioni la meridiana hanno curato Dialoghi per un’etica delle relazioni amorose (2016).
ISBN 978-88-6153-610-4
Euro 16,00 (I.i.)
9 788861 536104
Dialoghi per un’etica delle relazioni educative A cura di S. Fallini-D. Federici
Sara Fallini Psicologa, psicoterapeuta, psicosocio-analista presso lo Studio di Psicoterapia Consulenza e Formazione. Ha Organizzato nel 2009 i seminari “Psiche Mafiosa. Vincoli familiari ed emancipazione del soggetto” e “Ciclo crisi. Emozioni individuali e sociali nella crisi economica”. Vive e lavora a Parma.
A cura di Sara Fallini-Daniela Federici
Dialoghi per un’etica delle relazioni educative “I tuoi veri educatori e plasmatori ti rivelano qual è il vero senso originario e la materia fondamentale del tuo essere, qualche cosa di assolutamente ineducabile e implasmabile. In ogni caso difficilmente accessibile, impacciato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere nient’altro che i tuoi liberatori. E questo è il segreto di ogni formazione, essa non procura membra artificiali, nasi di cera, occhi occhialuti: piuttosto ciò che potrebbe dare questi doni è soltanto l’immagine degenerata dell’educazione. Essa invece è liberazione.” Friedrich Nietzsche
Con contributi di: E. Ceccarelli, R. Ceni, E. Musi, A. Reggianini, I. Ruggiero, A. Saracco
QUADERNI di