Educare e punire

Page 1

Mario Schermi è formatore dell’Istituto Centrale di Formazione, Dipartimento della Giustizia Minorile, Ministero della Giustizia. È professore a contratto di Pedagogia generale e sociale presso l’Università di Messina, dove, dal 2005, ha altresì curato gli insegnamenti di Psicologia dell’educazione, Sociologia dell’educazione, Sociologia della devianza e del mutamento, Sociologia dei processi culturali e comunicativi. È responsabile della LUdE, Libera Università dell’Educare. Da vent’anni, in giro per l’Italia (e non solo) progetta, accompagna e realizza esperienze formative dedicate ai professionisti impegnati nelle aree del lavoro psico-socio-pedagogico.

ISBN 978-88-6153-477-3

Euro 18,50 (I.i.)

9 788861 534773

M ario S chermi

Mario Schermi

Educare e

Punire

L’esperienza educativa nella difficile impresa di “liberare” e “contenere”

Educare e Punire

La punizione gode di uno scarso credito pedagogico. L’attenzione anche pubblica si alza ogni qual volta la cronaca segnala avvenimenti dove, in contesti educativi, si adoperano punizioni e azioni che abbiano un carattere repressivo. Eppure la punizione è conseguenza di una trasgressione violata. Quindi, di fatto, ha una sua ragion d’essere. È indubbio che nelle nostre pratiche educative private, così come nelle nostre pratiche pubbliche, si continui a ricorrere alla punizione (ai castighi, alle pene) ogni volta che gli ordini relazionali, sociali, normativi sono stati violati o anche soltanto messi a rischio. Così com’è altrettanto indubbio che i provvedimenti punitivi siano, pur sempre, accompagnati da sicuri auspici di ravvedimento, ovvero da determinate ambizioni educative. Ma allora: che ne è dello scarso credito? Allora, sono poi così sostenibili le tesi pedagogiche che escluderebbero il ricorso alle punizioni, quali soluzioni incapaci di promuovere, orientare il crescere del soggetto? Sono legittime le interpretazioni che scorgerebbero, nel e dietro il punire, le intenzioni di perpetrare un “abuso educativo”? Che ne è di quell’educazione, che pure attraverso il punire intendeva rieducare? E in assenza di un conforto pedagogico, non c’è il rischio che, sotto il peso di un certo “scrupolo”, semplicemente si punisca meno (o affatto), andando verso soluzioni soltanto più sbiadite, meno afflittive, solo annunciate, minacciate ma, di fatto, anche poco credibili, perché imbarazzate e distratte? E non c’è il rischio che, infine, si punisca male, senza la necessaria attenzione, senza elaborazione, così un po’ automaticamente? Questo libro attraversa il tabù del delicato rapporto tra punire ed educare con l’obiettivo di evitare che il non parlare del tema punizione possa far perdere alle pratiche educative il fine di responsabilizzare le persone rispetto alle conseguenze delle loro azioni. Uno strumento nelle mani degli educatori che hanno il compito di educare e rieducare.



Mario Schermi

Educare e Punire L’esperienza educativa nella difficile impresa di “liberare” e “contenere”


Indice Introduzione Ritrovamenti e dimenticanze pedagogiche ............................... 9 1. Essere in debito: il dono, il sacrificio, la punizione .................. 19 2. Il nesso normativo negativo .................................................. 31 3. I cantieri del punire .............................................................. 67 4. Cercare il punire, trovare l’educare? .................................... 129 5. Educare e punire ................................................................ 161 Bibliografia .......................................................................... 209



Introduzione Ritrovamenti e dimenticanze pedagogiche

Quando si tratta di educazione, non c’è scienza capace di mettere al riparo i saperi via via costruiti1. Il discorso pedagogico, ogni volta, si ricompone in “universi di valore”, in cui esperienze e pratiche provano a prendere un certo ordine, a partire dall’interpretazione che una certa comunità di uomini e donne dà all’attesa del crescere. Quest’attesa circa il crescere di ciascuno, di ciascuno con gli altri e delle comunità, rinvia le esistenze delle persone infinitamente ben oltre le spinte e le disposizioni biologiche dell’individuo e della specie. Al discorso pedagogico ritorna, quindi, il compito, sempre aperto, di determinare coerenze possibili, per informare e sostenere gli interventi opportuni nelle diverse storie di crescita. Nel tentativo di comporre un ulteriore discorso psico-socio-pedagogico, lo sforzo del presente lavoro è di chiamarsi intorno a una questione, per molti aspetti cruciale, dell’esperienza educativa, che da tempo però risulta poco esplorata e interrogata. È intenzione, qui, di provare a recuperare, riconoscere, attraversare – se ve ne sono – i significati pedagogici inscritti nelle pratiche punitive. Si è senz’altro consapevoli di inoltrarsi per sentieri faticosi e, soprattutto, “fastidiosi”: le pratiche punitive rinviano ai vissuti di sofferenza, agli esercizi subiti/agiti del potere, alla responsabilità dell’errore. Faccende, queste, che mal si combinano con una versione “eulogica” dell’educare – oggi pure così diffusa – che proietta la cura per la crescita verso sereni e accoglienti slanci vitalistici, vieppiù promettenti vita nuova e vita buona.

9


Mario Schermi

10

Di contro, però, proprio inoltrandosi per i “fastidiosi” sentieri del punire, occorre non distogliere l’attenzione critica verso quelle “pedagogie nere” che, per l’intero arco della storia dell’educazione, hanno menato il crescere, abusando della forza, adoperando la violenza, imponendo il “cambiamento” sia quando hanno perseguito interessi egoistici, particolaristici sia quando hanno invocato necessità comunitarie, universalistiche. È compito di questo lavoro provare a esplorare, se e in quale misura, sia “pedagogicamente sostenibile” il ricorso alla pena, e se sia, in qualche modo (moralmente, eticamente, ecc.) tollerabile la somministrazione del dolore, sia pure nell’attesa della crescita dell’altro. Transitando per lo snodo del punire, si tratterà anche di comprendere se all’educare siano ascrivibili funzioni come il “controllo”, il “contenimento”, l’“orientamento normativo”, la “regolazione”. Certo, tutto questo questionare non può che apparire complicato, insidioso e, financo, ambizioso. Si è, infatti, consapevoli di come, ogni qualvolta che la punizione fa capolino nelle nostre rassicuranti pratiche riflessive o nelle civili pratiche interpersonali e sociali, il senso comune tenda a prendere le distanze, la sensibilità diffusa tenda a rimuovere, la politica tenda a minimizzare, la letteratura scientifica tenda a semplificare. Tuttavia è proprio facendo appello al rigore del discorso pedagogico, che qui si chiede di mettere pur sempre a tema ciò che importa al crescere e di emendarsi da dimenticanze e rimozioni utili a presidiare soltanto gli aspetti promozionali dell’educare. In una parola occorre provare a fare un po’ di chiarezza, soprattutto laddove la questione educativa si fa più insidiosa. Si cominci con il condividere questa emergenza: oggi il punire, il castigare, sembrano riscuotere uno “scarso credito psico-socio-pedagogico”, tanto da apparire confinati, nelle scienze dell’educazione e nel senso comune, tra gli attrezzi un po’ vetusti di un certo modo di intendere l’educare (roba dell’altro secolo!). Tuttavia, però, è indubbio che nelle nostre pratiche private, così come nelle nostre pratiche pubbliche, si continui a ricorrere alla punizione (ai castighi, alle pene) ogni volta che gli ordini (relazionali, sociali, normativi) sono stati violati o anche soltanto messi a rischio. Così come è altrettanto indubbio che i provvedimenti punitivi siano, pur sempre, accompagnati da sicuri auspici di ravvedimento, ovvero da determinate ambizioni educative. Ma allora: che ne è dello scarso credito? A fronte di simili posizionamenti e di simili inerzie, sembra neces-


EDUCARE E PUNIRE

sario provare a formulare qualche domanda, nel tentativo di promuovere una maggiore chiarezza, tanto nelle riflessioni pedagogiche quanto nelle pratiche educative. Allora, sono poi così sostenibili le tesi pedagogiche che escluderebbero il ricorso alle punizioni, quali soluzioni incapaci di promuovere, orientare il crescere del soggetto? Sono legittime le interpretazioni che scorgerebbero, nel e dietro il punire, le intenzioni, neppure così velate, di perpetrare un “abuso educativo”? Che ne è di quell’educazione, che pure attraverso il punire intendeva intervenire? In quei casi, rinunciare a punire può voler dire anche rinunciare a educare? E, ancora, sul versante delle pratiche, giacché – come detto e com’è nell’esperienza di molti – si continua a punire, in assenza di un conforto pedagogico, non c’è il rischio che, sotto il peso di un certo “scrupolo”, semplicemente si punisca meno (o affatto), rinculando verso soluzioni soltanto più sbiadite, meno afflittive, solo annunciate, minacciate ma, di fatto, anche poco “credibili”, perché imbarazzate e distratte? E non c’è il rischio che, infine, si punisca “male”, senza la necessaria attenzione, senza elaborazione, così un po’ automaticamente? Non ha forse ragione Kant quando richiama affinché le punizioni siano “applicate con prudenza per non far sorgere una indoles servilis”2? È evidente che queste domande non annunciano facili risposte. I movimenti della sensibilità contemporanea intorno al punire appaiono confusi e contraddittori. C’è, per un verso, una diffusa richiesta di punizione, per soddisfare un “bisogno emotivo di sicurezza”3, per l’altro c’è un’ulteriore attesa di umanizzazione, perché si possa garantire, con maggiore attenzione e cura, il rispetto della dignità del punito e perché a ogni punizione possa seguire un’esperienza di ricomposizione. Le richieste di maggiore cura e maggiore sicurezza, però, non sono che le propaggini di un altro sentire, ancor più diffuso. Nel mezzo di questa oscillazione, dall’intimità delle nostre case fino alla solennità delle aule di tribunale, infatti, sembra distendersi una “grande distrazione”. Si tratta del liquefarsi delle posizioni etiche, delle posture sociali, dei riferimenti normativi che, in nome di una libertà e di una tolleranza rivendicate innanzitutto per l’individuo, fanno sì che i “patrimoni pubblici” e i legami sociali vengano compromessi e, infine, dissipati. L’allentamento, la rescissione dei legami, cioè, proprio mentre libera, alimenta una certa irresponsabilità, che rende più svincolati dal risponderne, nonché una certa immoralità, che rende più disinvolti nel corrompere e, a

11


Mario Schermi

12

suggellare il circolo vizioso, anche una certa impunità, che rende più sereni nel sacrificare i beni pubblici. Pertanto, forse puniamo anche meno, ma occorre comprendere se ciò è l’esito di una conquista o la deriva di una repulsione (nel merito), di un imbarazzo (agli occhi degli altri), di una abdicazione (alle proprie responsabilità). Sia detto con una certa cautela, ma, probabilmente, una parte della “crisi” del discorso pedagogico, da più parti esibita sulle soglie e fin dentro la contemporaneità, può trovare in questa distrazione una chiave dei propri smarrimenti. Sì che, la crisi del pedagogico sarebbe inscritta nel più ampio raggio della crisi che, tra ’800 e ’900 in Occidente, ha preso a scompaginare le figure del Soggetto e della Comunità, fino quasi alla loro estinzione. In questo senso, e consapevole delle sue modestissime possibilità, questo lavoro coltiva gli auspici di riuscire a sollecitare e accompagnare anche possibili ritrovamenti, perché il discorso pedagogico, nell’intreccio delle sue diverse funzioni educative, possa di fatto tornare a partecipare alla formazione dell’uomo e del mondo cha verranno. Più da vicino, qui si tratta di provare a problematizzare, a partire dalle pratiche punitive, quell’area dell’educare che si colloca tra le funzioni (educative?) del contenimento e della regolazione, per comprendere se è pensabile intervenire nelle storie di crescita anche con “forzature pedagogiche” e per comprendere se sono praticabili “forzature educative” come “occasione di crescita”, al di qua dello scatenarsi della violenza (pure, così evidentemente in agguato). Per altri versi, però, qui non si intende recuperare e riconsiderare la prospettiva ri-educativa, a cui dovrebbe essere rivolto il punire, più o meno in polemica con altre prospettive punitive (retributive, ristorative, ecc. e magari alla ricerca di ciò che è più “utile”), quanto, piuttosto, provare a rispondere all’urgenza di ripensare l’educare anche nelle sue funzioni più contenitive, normative in cui è (forse) possibile comprendere financo le pratiche punitive. Detto altrimenti, qui, l’“oggetto di studio” non vuole essere la punizione, ma l’educare, tra le cui pratiche, almeno storicamente, si era soliti riconoscere castighi e pene. Il tentativo è di comprendere un educare chiamato a promuovere ma, forse, anche a contenere; chiamato ad abilitare, ma, forse, anche a correggere; chiamato ad accompagnare, ma, forse, anche a orientare. Ciò perché si ritiene sia dell’educare, senza soluzione di continuità, oscillare tra il singolarizzare e il socializzare, l’individualizzare e il generalizzare; e in


EDUCARE E PUNIRE

questo insanabile e ineludibile conflitto, chiedere all’altro di trovare un possibile equilibrio tra idem e ipse4. Cimentarsi in una riflessione pedagogica, nell’abbrivio di una pratica educativa così esposta come il punire, consente di attestarsi in quello scarto “quasi materiale” che vincola, colui che ha responsabilità nell’azione educativa, a riconoscere in che senso e in quali forme il proprio agire è opportuno per il crescere e, quindi, se può infine davvero dirsi “educativo”. In ciò è possibile ritrovare quell’antico “lavoro dell’educare” che è, tra l’altro, esercizio infaticato di riflessione, “lavorio”, ricerca che, non potendosi avvalere di “teorie generali”, idiograficamente, storia per storia, situazione per situazione prova a cimentarsi in risposte capaci di sostenere e promuovere comprensioni, coerenze, di un pensare-agire educativo attento e responsabile della vita che ne verrà.

Domini della punizione La punizione è una “pratica”; in quanto tale può essere interrogata dentro diversi domini del pensiero, i quali, a loro volta, sono ancora delle “pratiche”, delle pratiche di pensiero, direttamente implicate nel “mettere in pratica” la punizione. Si comprende facilmente come, presso ogni dominio, si potrà dire della punizione diversamente, ma anche, come ogni dominio possa produrre esiti capaci di influenzare gli altri domini, in un gioco di rinvii, che – se è possibile – in prospettiva pedagogica, appare ancora più significativo. Ciò perché l’educare attraversa costantemente il “mondo della vita”, appare in gioco in ogni rinvio e, in particolare, ogni volta che ciascuno è colto (si dispone, è disposto) nell’attesa, nel rinvio di crescita di qualcun altro. Presso il “dominio giuridico”, e nella sua lunga luce illuminista, la punizione è interrogata soprattutto per la sua “corrispondenza”. Ovvero, considerata la gravità dell’infrazione, del reato, le attenuanti e le aggravanti, nonché le “condizioni” in cui si trovava il trasgressore al momento della trasgressione, il “giuridico” interviene perché si possa addivenire a una “pena giusta”, a una retribuzione sufficiente, con l’obiettivo di ripristinare l’equilibrio dell’ordinamento, messo a repentaglio proprio da quella trasgressione. 13


Mario Schermi

Nel “dominio psicologico” la punizione è interrogata soprattutto per gli esiti che questa produce nel soggetto. Cioè: cosa accade nella sfera emozionale, in quella cognitiva e in quella comportamentale quando un soggetto è sottoposto al patimento di una punizione? Cosa cambia nel soggetto e come cambia con il mutare delle punizioni? Prevalgono esiti di composizione, benessere oppure si registrano lacerazioni, malessere o altro? Il “dominio sociologico” interroga la punizione nei suoi esiti sociali. Cioè, prova a comprendere quali percorsi di mutamento sono sollecitati e/o inibiti da certe pratiche punitive. In particolare, esso esplora se i sentimenti di coesione/sicurezza e i comportamenti collettivi risultano influenzati/determinati dal ricorso alle sanzioni e se, in queste, prevalgono orientamenti inclusivi e/o espulsivi. Anche il “dominio filosofico” interroga la punizione, giacché nella pratica del punire sono “contenuti” le interpretazioni, le visioni, i significati prevalenti di uomo, di mondo, di città, nel duplice registro “genealogico” ed “etico”, secondo il quale ora si tenta di comprendere ciò che è (per come è venuto determinandosi), ora si tenta di comprendere ciò che dovrebbe essere (per come si ritiene che debba, che possa, che è opportuno… che sia). Il “dominio politico” fa della punizione una delle pratiche attraverso cui costruire la polis secondo giustizia. Cioè, nel suo infaticabile tentativo di combinare le necessità, i bisogni, i desideri di ciascuno con le necessità, i bisogni, i desideri di tutti, la politica tende a favorire alcuni comportamenti e a inibirne altri, ora sensibilizzando, ora, appunto, ricorrendo alla punizione. Il “dominio pedagogico”, infine, è ricorso e ricorre alle punizioni, ai castighi, quali strumenti educativi, capaci, cioè, di provocare il cambiamento atteso nei soggetti in crescita, quando, in particolare, questo appare atteso invano o è di fatto disatteso. Presso questo dominio, però, in altri momenti, ricorrere alla punizione è stato messo in discussione, ora per dubitare circa l’efficacia delle pene, ora per denunciare, smascherare come, proprio attraverso il punire, il senso stesso dell’educare fosse messo a repentaglio e piegato al servizio di vere e proprie “pedagogie nere”. 14


EDUCARE E PUNIRE

Ambiti punitivi Come già detto, qui la questione in gioco è l’educare. Meglio: l’educare rivisto, riletto, forse ritrovato, a partire da una pratica come il punire, che, tra gli altri, aveva in passato vantato un valore pedagogico, e che oggi, nel vivo di una temperie critica, stenta a confermarlo o, peggio, lo vede capovolgersi in attentato alla singolarità del soggetto e alle sue speranze di crescita. Si dirà: ma di quale punizione si tratta? Ma di tutte e di nessuna in particolare, giacché tutte le pratiche punitive, da quelle più lievi (si pensi al “fioretto)” alle più gravi (le pene giudiziarie), tendono ad accampare, debitamente o indebitamente, una qualche giustificazione pedagogica. Qui, semmai, si proverà a comprendere se quel rinvio rivolto alla crescita tiene, o se si tratta di un richiamo posticcio, strumentale o, peggio, mistificante. Di sicuro, però, le diverse punizioni hanno conosciuto storicamente attenzioni “diverse”. Ad esempio, molto si è detto e si è scritto della punizione pubblica, cittadina, mentre senz’altro meno della punizione scolastica e ben poco, altresì, della punizione domestica. La ragione più immediata di un simile sbilanciamento è riconducibile al fatto che, giacché pubblica, la punizione cittadina è evidentemente più esposta alla conversazione pubblica e, quindi, alla scrittura. E questa, in effetti, appare già una buona ragione. La pratica della scrittura intorno al punire, dalle sue definizioni normative fino alle sue elaborazioni di senso, risponde senz’altro all’esigenza di offrire determinazioni più condivise, intorno a una delle “pratiche più critiche”, attraverso cui il potere interviene e si esibisce. Così la punizione cittadina serve e celebra il potere costituito, sedando e dando corso alla narrazione pubblica che – se dice bene – si appella alla giustizia, mentre – se dice male – accampa privilegi. Dal canto loro, le punizioni scolastiche e domestiche, non hanno ricevuto le medesime attenzioni in letteratura, nonostante sia senz’altro riconosciuto quanto fossero diffuse, almeno fino a qualche decennio fa, tanto nelle scuole come nelle case, in Europa come nel resto del mondo. Qui, pur riconoscendo le evidenti differenze a cui il punire è stato piegato nei diversi ambiti, tenteremo, almeno nelle porzioni più riflessive, di ragionare di punizione senza ulteriori declinazioni e, semmai, richiamando gli ambiti per le differenti intenzioni e inter-

15


Mario Schermi

pretazioni educative eventualmente addotte, nelle diverse occasioni del punire.

Struttura del saggio Com’è evidente, la questione “penale” (dei castighi, delle punizioni, delle sanzioni) riletta da una prospettiva educativa (psico-socio-pedagogica) e filosofica (filosofia dell’educazione e filosofia del diritto) richiede un cospicuo investimento riflessivo (per certi versi, anche un po’ pericoloso, per gli smarrimenti e/o le semplificazioni a cui potrebbe condurre). Per queste ragioni si è provveduto a comporre un indice capace di “ancorare” l’argomentare a uno sviluppo, per quanto possibile, lineare. E ciò, non perché si ritenga possibile una qualche linearità per queste vie, semmai per auspicarla come “argine” alla ineludibile complessità della questione. Il Primo Capitolo tenta un genealogico recupero del significato del punire, attraverso accostamenti ad altre pratiche (come il dono e il sacrificio). Ciò che vi si scorge è una “struttura di rinvii”, di nessi, che può aprire a un rinnovato interesse per la comprensione della pratica punitiva, ovvero a un suo più accorto ricorso e, nei paraggi del presente riflettere, a una sua possibile coniugazione con il discorso pedagogico. Il Secondo Capitolo è stato dedicato al nesso normativo che mette in sequenza regola-trasgressione-sanzione, perché da subito potesse essere riconosciuta la punizione in quanto “abito di risposta”. Il rispondere “rinvia” intrinsecamente al soggetto, alla sua coscienza, alla sua irrinunciabile responsabilità, capace di custodire sensi e significati.

16

Il Terzo Capitolo affronta il tema della “costruzione” dei fatti punitivi, prestando attenzione ora alle “pratiche” in cui si realizzano (dando visibilità all’agito punitivo, nelle forme, nei luoghi, nei tempi e nei ruoli, in cui appare e si dà come fenomeno); ora alle “sensibilità” che li muovono e li accompagnano; ora alle “ragioni” che, più o meno, esplicitamente governano il loro accadere e ne utilizzano gli esiti.


EDUCARE E PUNIRE

Il Quarto Capitolo è la composizione di diverse esplorazioni intorno al punire e alle sue possibili funzioni educative. Così: si sono esplorate le esperienze punitive di puniti e punitori in contesti educativi; si sono interrogate le versioni che in quelle pratiche gli attori intravedono e, infine, si è cercato di rilanciare la riflessione, dialogando su questi temi con alcuni pensatori di riferimento. Il Quinto Capitolo, sulla scorta delle definizioni, delle esperienze, delle riflessioni tracciate e raccolte, prova a riconoscere i margini per un rinnovato, critico e attento, ripensamento delle pratiche punitive in ambito pedagogico e, soprattutto, richiama alla necessità di un ri-attraversamento della questione educativa e del senso dell’educare, alla luce del suo margine in ombra (quello di un educare difficile, critico, in conflitto) che, se trascurato, potrebbe smettere di lavorare, a nostra insaputa e a danno del crescere.

Note 1. “[…] che la formazione possa divenire ‘scienza’, come oggi sembra pretendersi almeno a parole e forse solo per imitare esteriormente i saperi scientifici onde apparire ‘seri’ e ‘concreti’, è da un lato un’ingenuità, dall’altro un errore grossolano” (Sini, 2005, p. 203). 2. Kant, 2004, p. 120. 3. Marchetti, Mazzucato, 2006, p. 23. 4. Ricoeur, 1993.

17


1. Essere in debito:

il dono, il sacrificio, la punizione

Esplorando intorno all’area della punizione ci si imbatte, tra l’altro, nel sacrificio e nel dono. È intenzione di questo abbrivio soffermarsi nei paraggi semantici che il sacrificare e il donare paiono suggerire, inseguendo l’intuizione di un possibile rinvio, richiamo a proposito del punire, e lasciandosi interrogare, tra l’altro, dalla fitta e densa letteratura che, intorno al sacrificare e al donare, hanno imbastito le riflessioni di Nietzsche, Bataille, Girard, Godbout, Mauss, Caillé. Già il titolo del capitolo tenta un accostamento, al momento solo intuito. Si tenti, allora, un primo inseguimento di questa apparenza. Perché il sacrificio, il dono e la punizione sembrano richiamarsi? E, in questo richiamo, cosa possono dire il sacrificare e il donare del punire? E, in particolare, di quel punire che qui si tenta di comprendere in prospettiva pedagogica? Si provi a seguire la trama di questi richiami, con la speranza che conduca a ulteriori comprensioni intorno a quelle pratiche. Pratiche che, tuttavia, si sa, non potranno sciogliere fino in fondo le loro determinanti-indeterminanti ambiguità, giacché le loro determinazioni si definiscono pur sempre in un rinvio1. Quindi quale senso (paradossale) trattiene il dolore e la salvezza nel sacrificio? Quale senso (paradossale) trattiene gli interessi generali e i bisogni singolari nella punizione? E, infine, quale senso (paradossale) trattiene la conformazione e la liberazione nell’educazione?

19


Mario Schermi

1.1

20

Punire nell’intreccio dei significati È evidente che anche se non immediata, si riconosce al punire una qualche sensatezza, una certa ragionevolezza. Si dirà: per quanto criticabile, non è un gesto folle! Il suo intervenire, rivolto al passato, dice dell’intenzione di ripristinare un “ordine” che la “trasgressione” avrebbe pregiudicato; mentre, rivolto al futuro, il suo intervenire dice della speranza che, chi ha trasgredito, non abbia a perseverare (correzione, rieducazione) e che, a chi non ha trasgredito, giunga comunque la notizia di una “punizione minacciata”, pronta a intervenire (deterrenza). Fin qui, almeno, questa dovrebbe essere la sua razionalità. Ma, appunto, “dovrebbe”. Com’è evidente rimane intatta la responsabilità di interrogarne e criticarne, passo dopo passo, nel vivo delle situazioni e nel vissuto delle condizioni, sensi e significati. Interrogare e criticare il punire è dovuto all’urgenza di assicurarne un possibile agire con cura: il punire, infatti, è senz’altro da annoverare tra gli “agiti estremi”, giacché il suo intervenire si spinge oltre i confini dell’altro, limitandone la libertà, la volontà, le possibilità e ponendolo in sofferenza. Tornare, ogni volta, a interrogare il punire, a farne un agire accurato, a presidiarne e controllarne gli esiti, per le ragioni accennate, è necessario, quindi, non soltanto per garantirne il “senso”, ma anche per ragioni etiche. Nel punire, ne va dell’altro. Occorre ribadirlo. Intensamente e intimamente. Quasi senza rimedio. Ma è una via, tutt’altro che agevole: punire, infatti, è anche un agire “ambiguo”, il suo esercizio richiede interpretazione, perché i suoi sensi possano risultare “ragionevoli” e i suoi confini pur sempre “presidiati”. Per un verso è facile convenire che è estremamente necessario intervenire con una punizione a tutela degli equilibri sociali costituiti; e, per l’altro, è, altresì, facile convenire, che si tratta comunque di un agire estremamente rischioso, poiché comporta l’esercizio di una forza, sempre sul punto di mutarsi in violenza, se è possibile, ancora più “violenta”, considerata la condizione di estrema vulnerabilità in cui si trova il punito, nonché l’estrema condizione di potere in cui si trova il punitore (generalmente investito, sostenuto, acclamato dalla comunità in attesa di giustizia). Quando si tratta di agiti così ambigui ed estremi, è pur sempre intrigato lo snodo in cui “situazioni/condizioni”, “intenzioni” e “azioni” sembrano incontrarsi: Chi è il colpevole? Perché si è punito? A


EDUCARE E PUNIRE

cosa è servito? Quali risultati ha portato? Il ricavato giustifica i costi? Che senso ha questo dolore? L’intrigo di “situazioni”, “intenzioni” e “azioni” rende quasi inestricabile il giudizio circa l’opportunità, la necessità, la giustezza del punire. Il gioco delle loro evidenze, delle loro combinazioni, delle loro sovrapposizioni produce – ogni volta – ulteriori determinazioni. Si dirà: è già così, generalmente, nelle vicende umane. Sì, ma nell’agire punitivo, nella sua cogenza, tale intrigo si fa ancora più imbrogliato. L’agire ragionevole è quello che rispetta la sequenza “situazione-intenzione-azione”. Data, cioè, una certa e determinata situazione, l’intenzione provvede a studiarla, vagliarla nelle possibilità e a deciderla nei cambiamenti, e, infine, l’azione prende a realizzarla2. L’intenzione potrebbe conoscere il massimo o il minimo di definizione ragionevole, tendendo ora verso “progettazioni più determinate” ora verso “progettazioni più indeterminate”. Le prime consentono all’intenzione di legare a sé sicuramente l’azione, decidendola fin nei dettagli, mentre le seconde si affidano ad azioni estemporanee o a intenzioni eventualmente richiamate “in corso d’opera”. Si tenti, allora, di avvicinare la ragionevolezza dell’agire punitivo. La punizione, nel significato più semplice e immediato, è la risposta a una trasgressione. Come dire: data una situazione trasgressiva è intenzione di chi è chiamato a controllare ripristinare l’“ordine” attraverso un’azione punitiva. Tuttavia si sa come questo semplice significato possa cambiare, con il modificarsi delle premesse e delle finalità a cui potrebbe essere collegato dall’intenzione. Così, ad esempio, sono almeno quattro gli “ordini di direzione dell’intenzione” verso cui la punizione può essere configurata: 1. il primo, con una certa evidenza, è l’ordine del punito; 2. il secondo, è l’ordine del punitore; 3. il terzo, è l’ordine comunitario; 4. il quarto è l’ordine generale (simbolico). Si provi qui a dire brevemente di alcune configurazioni e di alcuni significati che, per ogni ordine, il punire (l’intenzione del punire) intende garantire. Presso l’ordine del punito, la punizione è stimata capace di produrre conseguenze nel trasgressore di tipo retributivo (perché paghi), contenitivo (perché si astenga), educativo (perché comprenda).

21


Mario Schermi è formatore dell’Istituto Centrale di Formazione, Dipartimento della Giustizia Minorile, Ministero della Giustizia. È professore a contratto di Pedagogia generale e sociale presso l’Università di Messina, dove, dal 2005, ha altresì curato gli insegnamenti di Psicologia dell’educazione, Sociologia dell’educazione, Sociologia della devianza e del mutamento, Sociologia dei processi culturali e comunicativi. È responsabile della LUdE, Libera Università dell’Educare. Da vent’anni, in giro per l’Italia (e non solo) progetta, accompagna e realizza esperienze formative dedicate ai professionisti impegnati nelle aree del lavoro psico-socio-pedagogico.

ISBN 978-88-6153-477-3

Euro 18,50 (I.i.)

9 788861 534773

M ario S chermi

Mario Schermi

Educare e

Punire

L’esperienza educativa nella difficile impresa di “liberare” e “contenere”

Educare e Punire

La punizione gode di uno scarso credito pedagogico. L’attenzione anche pubblica si alza ogni qual volta la cronaca segnala avvenimenti dove, in contesti educativi, si adoperano punizioni e azioni che abbiano un carattere repressivo. Eppure la punizione è conseguenza di una trasgressione violata. Quindi, di fatto, ha una sua ragion d’essere. È indubbio che nelle nostre pratiche educative private, così come nelle nostre pratiche pubbliche, si continui a ricorrere alla punizione (ai castighi, alle pene) ogni volta che gli ordini relazionali, sociali, normativi sono stati violati o anche soltanto messi a rischio. Così com’è altrettanto indubbio che i provvedimenti punitivi siano, pur sempre, accompagnati da sicuri auspici di ravvedimento, ovvero da determinate ambizioni educative. Ma allora: che ne è dello scarso credito? Allora, sono poi così sostenibili le tesi pedagogiche che escluderebbero il ricorso alle punizioni, quali soluzioni incapaci di promuovere, orientare il crescere del soggetto? Sono legittime le interpretazioni che scorgerebbero, nel e dietro il punire, le intenzioni di perpetrare un “abuso educativo”? Che ne è di quell’educazione, che pure attraverso il punire intendeva rieducare? E in assenza di un conforto pedagogico, non c’è il rischio che, sotto il peso di un certo “scrupolo”, semplicemente si punisca meno (o affatto), andando verso soluzioni soltanto più sbiadite, meno afflittive, solo annunciate, minacciate ma, di fatto, anche poco credibili, perché imbarazzate e distratte? E non c’è il rischio che, infine, si punisca male, senza la necessaria attenzione, senza elaborazione, così un po’ automaticamente? Questo libro attraversa il tabù del delicato rapporto tra punire ed educare con l’obiettivo di evitare che il non parlare del tema punizione possa far perdere alle pratiche educative il fine di responsabilizzare le persone rispetto alle conseguenze delle loro azioni. Uno strumento nelle mani degli educatori che hanno il compito di educare e rieducare.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.