Funamboli. Psicoterapeuti incontrano l'età evolutiva

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FUNAMBOLI

ALBERTO GRAZIOLI NICOLETTA LIVELLI
INCONTRANO
ETÀ EVOLUTIVA PERCORSI PsicoSocioAnalitici
PSICOTERAPEUTI
L’

FUNAMBOLI

Psicoterapeuti incontrano l'età evolutiva

Prefazione di Pietro Pellegrini

Introduzione di Corrado Pontalti

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Indice Prefazione ...................................................................... 7 di Pietro Pellegrini Premessa ....................................................................... 15 Introdurre (ovvero la responsabilità dell’accoglienza) ........... 21 di Corrado Pontalti Parte I Uno sgUardo PsIcosocIoanalItIco alla comPlessItà Lo sguardo rivolto al sociale: emergenti clinici .......................................................... 29 Lo sguardo dai nostri osservatori: età evolutiva e istituzioni ......................................... 39 Le istituzioni svelano e si interrogano ...................................... 40 Siamo tutti parte dell’istituzione? ............................................. 45 Lavorare interrogandosi: generare domande 47 La genitorialità istituzionale ....................................................... 49 La psicosocioanalisi: la nostra bussola nell’incontro con le teorie ......... 53 Sguardo all’età evolutiva: il puer ............................................... 56 Dialoghiamo con le teorie 58 Parte II declInazIone della teorIa del camPo attraverso Un’ottIca PsIcosocIoanalItIca Entriamo in campo ..................................................... 65 Il campo in psicoanalisi 65 Lo sguardo sul “campo” PSOA ................................................... 68 E in età evolutiva? ........................................................................ 70 Tornando alla complessità del campo 73 Setting possibili in età evolutiva: una scelta etica ........................................................... 77 Perché scegliamo di andare a scuola ......................................... 79 Muoversi secondo il “principio di responsabilità” 82 Per un’etica della responsabilità progettuale ......................... 84 Amare e fare .................................................................................. 86

Parte III

Il fare In “camPo” Psicoterapia evolutiva individuale PSOA ............... 93 Come intervenire in un campo così complesso? 98 Gli incontri ................................................................................... 100 Riflessioni sul nostro fare clinico 106 La diagnosi in un’ottica progettuale .................... 111 Diagnosi e analisi della domanda 113 La restituzione: “cosa ci facciamo con quello che abbiamo capito” .................................................................. 115 Conclusioni ................................................................. 121 Psicoterapeuti funamboli tra il dentro e il fuori ................... 121 Bibliografia ................................................................ 125

Prefazione

Dalla pandemia da Covid-19 siamo passati alla sindemia2, termine che indica l’associarsi e il complicarsi di più crisi: sanitaria, sociale, economica, ambientale, climatica, della pace. La fase del lockdown ha improvvisamente sconvolto ogni ambito e attività; uno stress acuto, politraumatico ha interessato la salute di persone, famiglie e relazioni, oltre che società, economia, comunicazioni, scuola e giustizia e all’inizio – di fronte ad un pericolo di vita incombente – vi era il bisogno di accettare, capire e riflettere. Il testo di Alberto Grazioli e Nicoletta Livelli nasce in quel periodo e contesto che ora appare lontano, sostanzialmente dimenticato, rimosso o negato. La pandemia è parsa l’acceleratore di processi in larga misura pre-esistenti. Il rapporto tra le persone e la comunità, il patto sociale, le nuove generazioni e il loro futuro diventano oggetto di riflessione nel momento in cui sembrano prevalere dinamiche sociali di frammentazione e la stessa storia italiana ed europea viene revisionata, omessa o negata. Una complessità difficile da rappresentare nella quale sembra sempre più arduo trovare una base sicura di valori e di riferimenti condivisi che portino a pensare e a narrare una Comunità di destino e un futuro comune.

L’onore di occuparmi di questa Prefazione mi dà l’opportunità di tracciare alcune linee di riferimento per la lettura di un testo che raccoglie la sfida della complessità della psicoterapia in età evolutiva.

1) Gli autori, psicologi psicoterapeuti, sono professionisti della salute mentale che, pur operando in contesti diversi, hanno

1 Direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche, Ausl di Parma.

2 Sindemia è un termine coniato dall’antropologo Merril Singer nel 1990 citato Horton R. Offline: “Covid-19 is not pandemic”, www.thelancet.com, vol. 396, 26 settembre 2020.

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come riferimento comune il welfare pubblico universale e una società solidale. Un punto chiave che vede la salute come diritto individuale e bene relazionale e che si avvale di una pluralità di collaborazioni pubbliche, del Terzo settore, del privato, tutti orientati nella direzione dell’inclusione sociale delle diversità. Un approccio molto diverso da quello della privatizzazione della cura e dell’assistenza e che si riflette sui vissuti degli operatori. In ambito sanitario la pandemia è stata affrontata con una posizione di “tipo depressivo-riparatorio” che solo in parte si è riflessa nell’opinione pubblica, la quale, invece, ha mantenuto in modo più o meno esplicito un atteggiamento “schizoparanoide” incentrato sulla proiezione e la rivendicazione, la ricerca di colpevoli e la richiesta di risarcimenti per un “danno ingiusto”. Rispetto agli operatori sanitari prima idealizzati (gli eroi), si è passati rapidamente alla svalutazione, alla dimenticanza e trascuratezza e di nuovo agli attacchi e alle aggressioni. Gli eroi, quando non deceduti sul campo, sono diventati fastidiosi reduci, feriti e lamentosi, incapaci di accettare di tornare alle consuete difficoltà delle truppe ordinarie della sanità pubblica. Un “non detto” dal quale traspare, nonostante tutto, un senso di responsabilità che accomuna gli autori di questo libro ai tanti operatori che ogni giorno fanno il loro lavoro, spesso nell’ingratitudine, perché vedono il volto delle persone che soffrono e si confrontano con il dolore e la morte. Un patrimonio di professionalità ed etica così radicato da costituire, insieme alla motivazione, il vero motore dell’intero servizio sanitario.

Il testo è ricco di conoscenze e competenze e, come constatiamo da diversi anni, esse sono spesso svalutate o mischiate insieme (vere e false) e propagate più con tecniche pubblicitarie (ripetitività e forza dell’emittente) che nell’ambito di un corretto dibattito.

Una posizione ambivalente, di idealizzazione e svalutazione verso i tecnici, che preoccupa e della quale farsi carico. In questo ambito è apprezzabile lo sforzo fatto dagli autori per (ri)dare senso alla parola, alla capacità dialogica in ogni incontro e far fronte ad una situazione nella quale gli strumenti stessi cambiano i messaggi, che nella loro immediatezza e apparente semplicità possono essere penetranti, avere il sopravvento sull’attenzione, le funzioni critiche, la memoria e la profondità del sapere. Un tempo e uno spazio nei quali si realizzano relazioni per pensare, per costruire

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insieme un apparato per “pensare i pensieri”, per sentire i vissuti, per apprendere e imparare ad apprendere, per sviluppare il sapere critico: tutti aspetti essenziali non solo per la psicoterapia, ma per attrezzarci rispetto ad un futuro nel quale la velocità, la superficialità e il potere rischiano di appropriarsi delle crisi evolutive e sociali.

A maggior ragione in un periodo nel quale inizia a delinearsi un mondo post-umano, governato da intelligenze artificiali, algoritmi sempre meno attenti alla vita reale delle persone e delle comunità. La società post tecnologica rischia di accentuare le diseguaglianze se non sarà regolata, partecipata e retta dalla necessità di mettere in primo piano i diritti, le caratteristiche umane profonde che consistono nei vissuti riflessivi e nel prendersi cura dell’altro e di sé. Occorre operare secondo una visione olistica della salute (One Health, Planetary Healt) che eviti di escludere le minoranze (“terzo escluso”) e di considerare le persone come “vite di scarto” o non degne di essere vissute.

2) La pandemia ha segnato il ritorno della morte sulla scena pubblica e con essa una riformulazione dei valori e delle priorità. Ciò poteva essere rivoluzionario se vissuto con un sentimento di unità, di meditazione e raccoglimento. Ben presto con sollievo generale, la morte e la sofferenza sono tornate nel privato, nel silenzio e nell’indifferenza. Solo il naufragio di Cutro3 l’ha riportata in scena, ma subito dopo tutto è diventato di nuovo invisibile. Chi gestisce il potere non l’ha voluta vedere da vicino e non ha potuto mostrare, a nome di tutti, empatia, humanitas e pietas. Un fatto paradigmatico di una distanza tra l’intenzione del singolo, quindi il privato, e le parole, i programmi e le azioni pubbliche di chi ha responsabilità di governo. Questo rappresenta una nuova relazione tra pubblico e privato, tra bene comune e quello di ciascuno che sta segnando un nuovo patto sociale “ambiguo”. Dove il pubblico è dovuto mentre il privato deve essere non solo tutelato ma celato. La società non esiste, né si cerca l’equità, un “vincolo comune”, un’azione congiunta in ambito educativo e terapeutico. Ne derivano gli scontri tra istanze diverse non composte e contraddizioni non abitate e gestite. Vi è una facile ricerca di certezze

3 Il 26 febbraio 2023 un’imbarcazione partita dalla Turchia con a bordo circa 200 persone si è spezzata in due a pochi metri dalla riva del litorale di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Le autorità italiane, avvisate della presenza del caicco, non hanno attivato per tempo l'operazione di soccorso. Al 1 aprile 2023 i morti sono 92 e tra le vittime anche 32 bambini.

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spesso assolute quanto apparenti e non di sicurezze che, citando Winnicott, implicano relazioni fondate su presenze sufficientemente buone, fermezza e tolleranza.

La pandemia aveva ridotto le attese della società competitiva ma ciò è stato temporaneo, cioè non è avvenuto un netto spostamento in favore di una visione cooperativa e solidale. Anche il rallentamento e la destrutturazione dei tempi (si pensi allo smart working) e degli spazi sociali (didattica a distanza), nel momento in cui vi è stata la ripresa, non hanno trovato nuovi metodi ma per lo più la restaurazione – non elaborata – di quanto vi era prima. Il tema dello studio, del lavoro, della precarietà e instabilità, della conciliazione con la vita non hanno avuto soluzioni creative e pensate con le persone. Né si sono realizzate le necessarie assunzioni di responsabilità per delineare nei diversi ambiti sociali prospettive comuni a tutti a partire dalle giovani generazioni le quali, già con la crisi del 2008, avevano subito un “furto di futuro” (Pietropolli Charmet).

3) Seppure in modo non esplicito, il testo sembra indicare la via per un nuovo umanesimo. Nel passaggio dall’individuale al sociale, vi sono i corpi reali che si vedono e si toccano, vi sono le famiglie, i gruppi di lavoro, i condomini, la scuola, i paesi, i quartieri dove si realizza il complesso compito della tutela dei diritti delle persone minorenni, con tante professionalità e competenze interistituzionali. Un ambito nel quale si possono sperimentare nuove forme di intervento, educative e sociali, fondate su fiducia, speranza, condivisione e la responsabilizzazione secondo il principio della tutela dei diritti di ciascuna persona come una funzione della comunità.

Un incontro rispettoso, basato sull’accoglienza non giudicante e sull’ascolto gentile può affrontare la complessità del vivere, nella presenza che testimonia l’essere per aprirsi al divenire. La soggettività nasce nelle relazioni basate su rispetto, pazienza e limiti. Quando il senso del lavoro di cura, del prendersi cura viene messo in crisi i professionisti possono diventare “acrobati”. Un termine, come ricordano Michael e Enid Balint4, che deriva dal greco e significa “chi cammina sulle punte dei piedi”, cioè lontano dalla terra sicura. Acrobati che si muovono tra “filobatismo” e “ocnofilia”, cioè tra il rischio e la creatività da un lato e la necessità di appoggiarsi a qualcosa di sicuro e stabile dall’altro. In questo

4 Balint, Balint, 1983.

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quadro si comprende anche il termine “funamboli” come si definiscono Grazioli e Livelli: cioè coloro che camminano sulla fune5, tra mondo interno e mondo esterno. Nel libro vi sono ricchi riferimenti teorici e tecnici, dalla sintonizzazione, all’attaccamento, alle funzioni di regolazione e autoregolazione, mentalizzazione, rêverie e tanti altri citati nei diversi capitoli con rimandi utili per approfondimenti specifici. L’attenzione alla psicologia evolutiva è fondamentale per una psicopatologia e una psichiatria in grado di prevenire e intervenire precocemente. Al contempo vi è attenzione a famiglie e contesti, cui la cultura psicoanalitica sudamericana ha sempre dato grande importanza; mi permetto di aggiungere i gruppi psicoanalitici multifamiliari di Badaracco6 e le forme di partecipazione di utenti e dell’automutuoaiuto, molto utili per creare forme nuove di partecipazione.

Il mandato di cura si confronta con nuove richieste di controllo a fronte di una crisi delle famiglie, del sistema educativo e scolastico, dei dispositivi sociali e di comunità. Un approccio che può essere diverso se si tiene conto delle conoscenze tecnico-scientifiche che indicano l’efficacia di interventi precoci nei primi 1000 giorni di vita, nella fascia 0-10 anni e sui determinanti sociali della salute. Risulta fondamentale assicurare al bambino una famiglia, cibo, accudimento e protezione, una valida educazione e istruzione, significativi interventi per evitare eventi sfavorevoli (abusi, traumi, neglect), povertà e abbandono scolastico. Tutti elementi che correlano con la salute in generale e quella mentale in particolare.

Le richieste di tipo contenitivo, normativo, di controllo dei comportamenti e dei disturbi, avanzate ai professionisti della salute mentale, lasciano spesso in secondo piano la situazione di vita, di tipo abitativo, di grave povertà economica, educativa e relazionale del minore. Una condizione di marginalità nella quale hanno influenze significative anche l’uso di alcool e sostanze psicoattive, le diverse culture di appartenenza. Quindi vi è la necessità di interventi concomitanti e convergenti di tipo familiare, educativo, sociale, sanitario, di comunità in grado di prevenire devianza e condotte antisociali e gestire i conflitti generazionali. Le dinami-

5 Funàmbolo (o funàmbulo) s. m. [dal lat. tardo funambulus, comp. di funis “fune” e tema di ambulare “camminare”], www.treccani.it/vocabolario/funambolo/. 6 Badaracco, 2004.

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PREFAZIONE

che della delega ai professionisti della salute mentale o alla sola autorità giudiziaria rischiano di essere fuorvianti e poco efficaci, quando non dannose.

I fenomeni devono essere affrontati secondo i principi di rilevabilità e modificabilità, partendo sempre da quelli più facilmente rilevabili e modificabili. Come noto, il mondo interno è quello più difficile da rilevare e da modificare e richiede tempi e modi molto personalizzati; al contempo si sa come possa essere pericolosa la medicalizzazione del disagio del singolo ed ancor più di un’intera generazione.

È evidente la crisi dei modelli educativi, la difficoltà a segnare i confini tra le generazioni, tra le età, con una forte espansione del funzionamento adolescenziale sia verso l’infanzia che verso l’età adulta. La crisi dei genitori, ovvero la loro difficoltà a definire il proprio ruolo e funzioni, vede famiglie sempre più isolate, sole, fragili e instabili; una condizione della quale i servizi nel loro complesso dovrebbero tenere conto per strutturare valide forme di aiuto.

Nel corso degli ultimi decenni siamo passati dalla società della colpa a quella dell’ansia delle prestazioni e successivamente a quella individualista e narcisistica fino a tratti psicopatici, di insensibilità e freddezza/distacco verso l’altro. La pandemia ha influito sul tessuto connettivo, sulle relazioni delle persone cambiando l’intersoggettività, il rapporto tra mente e corpo; riscoprendo la sua vulnerabilità e mortalità. Fenomeni che, uniti alla destrutturazione del tempo, hanno portato all’anomia, alla perdita di significato e di futuro, a vuoto e dis-identità. Un non senso rassegnato e regressivo che non diventa dis-senso e protesta ma è per lo più internalizzato, magari fino alla prossima esplosione?

La perdita della regolazione sociale delle relazioni e la scomparsa dei corpi sembrano correlare con l’incremento dei disturbi esternalizzanti, dei tentati suicidi, dei disturbi del comportamento alimentare, contribuendo a una narrazione preoccupata circa la salute mentale delle nuove generazioni. Se il dato epidemiologico indica certamente incrementi, la questione del disagio giovanile va affrontata nella complessità evitando medicalizzazioni, soluzioni coercitive o abbandoniche. Prendersi cura, prima ancora che un dato tecnico, è il segno di un’attenzione anche ai dettagli e di una presenza che gli autori evidenziano negli interessanti casi clinici (vedremo quello di Francesco, Chiara, Giovanni, Marco,

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Francesca, e altri) nei quali, oltre alla psicoterapia, pare occorra un lavoro per ricostruire famiglie, comunità, microcomunità, vicinato, didattica, appartenenze e storie. Nella quotidianità vi è il bisogno di culture, di parole gentili che curano e testimoniano il valore dell’incontro, della comprensione e della conciliazione basate sul reciproco riconoscimento. Pur con tutti i problemi, c’è speranza perché nonostante tutto vi è ancora il servizio sanitario e prima che sia troppo tardi serve una mobilitazione di resistenza, di rilancio dei diritti e del sistema pubblico che parta dal senso di unità dei sanitari sostenuti dai cittadini. Occorre rivendicare con orgoglio che siamo usciti dalla pandemia grazie alla sanità, ma occorre anche prendere atto che siamo in una sindemia in cui vi è un estremo bisogno di sanità e welfare funzionanti. Come testimoniano Grazioli e Livelli, le esperienze positive ci sono e ci sono anche tante buone pratiche, sistemi partecipativi, servizi che funzionano in un rinnovato e chiaro patto sociale che si faccia carico della sua sostenibilità, dell’equità e della giustizia. Il futuro richiede unità e connessioni, coraggio e caparbietà, cultura e creatività. Serve l’ascolto partecipe, responsabile e non giudicante delle giovani generazioni che indicano l’urgenza di un nuovo, diverso rapporto con il pianeta per il futuro dell’antropocene.

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PREFAZIONE

Parte I

Uno sguardo psicosocioanalitico alla complessità

Lo sguardo rivolto al sociale: emergenti clinici

La nostra esperienza nasce sul “campo” all’interno di dispositivi istituzionali pubblici, del privato sociale e nello spazio dello studio privato. In questi contesti abbiamo potuto accogliere moltissimi genitori e operatori che si occupano di bambini, di adolescenti e delle loro famiglie. Accanto alla possibilità di rispondere allo specifico bisogno di un supporto psicoterapeutico, negli anni abbiamo attivato: spazi di ascolto rivolti alle famiglie, gruppi di confronto/supporto alla genitorialità, laboratori di condivisione e co-costruzione del progetto educativo genitori-insegnanti, conferenze a tema. Come psicosocioanalisti ci siamo impegnati a sviluppare ogni incontro professionale in un’ottica di cura pensando alla “Psicoigiene”. Quest’area si riferisce ad un aspetto teorico introdotto da Bleger secondo il quale la Psicoigiene:

[…] Agisce fondamentalmente sul livello psicologico dei fenomeni umani con metodi e tecniche provenienti dal campo della psicologia sociale.

[…] Ogni intervento nell’ambito della salute pubblica ha gli stessi effetti sui fenomeni mentali e psicologici. […] Così come le misure della psicoigiene hanno ripercussioni dirette sulla salute fisica22

Per Bleger la Psicoigiene non riguarda solo la possibilità di prevenire le malattie psichiche, ma anche e soprattutto il potenziamento di tutte le risorse per promuovere la salute e tutelarla.

Essa sarà ripresa in vari punti del nostro scritto e rappresenta una sorta di filo rosso che, accanto ad altri fili, costruisce trama e ordito del nostro pensiero. Indica, infatti, la necessità di prendersi “preventivamente” cura della comunità co-costruendo e sperimentando setting complessi, con la finalità di accoglierne i bisogni e valorizzarne le risorse.

22 Bleger, 2011.

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Apprendere dall’esperienza, imparare a pensare e stare in Ricerca, sono principi cardine della teoria di Bleger e “cursori” del nostro sguardo, che ci hanno consentito di individuare alcuni emergenti, a nostro avviso ricorsivamente presenti e persistenti, che hanno particolarmente sollecitato e sfidato il nostro modo di lavorare. Assistiamo da tempo ad un investimento affettivo fortissimo da parte di molti genitori sui propri figli, posti al centro della vita famigliare spesso in modo totalizzante.

Si tratta di genitori “sufficientemente buoni”, come direbbe Donald Winnicott23, che si interrogano sugli snodi del processo evolutivo dei figli, dando voce ai dubbi sulla capacità di comprendere il senso dei loro comportamenti, esprimendo il bisogno di “depositare” le proprie fatiche educative e di mostrare le emozioni che si palesano in modo talvolta inaspettato e inedito nella relazione educativa.

L’inserimento dei piccoli al nido e via via la frequentazione della scuola negli ordini di diverso grado, pone il figlio/allievo al centro di un contesto complesso, abitato da pari e da adulti, in cui questi bambini, poi ragazzi, diventano per i docenti portavoce privilegiati della famiglia.

“È talmente inquieto, arrabbiato… Arriva già così agitato a scuola… Ha tante paure, ne parla a casa? Ha molto bisogno di parlare e cerca un contatto privilegiato con il professore di italiano... Non ha motivazione per nulla, si isola con il pensiero, cosa succede a casa?”

Bambini e adolescenti sono portavoce privilegiati anche di ciò che avviene in classe: quello che raccontano a casa, quando lo condividono, contribuisce a porre in crisi o a consolidare l’alleanza scuola-famiglia.

“Mi dice che la maestra alza troppo la voce e lui non è abituato… Non spiega bene con tanti esempi… Lo rimprovera sempre e non lo chiama mai… I voti sono sempre troppo bassi anche se si impegna molto…”

La diffidenza, il silenzio sotteso, la disistima reciproca tra scuola e famiglie sono tutti presupposti che generano distanza e terreno fertile per il conflitto, non sono buoni compagni di viaggio nella costruzione dall’alleanza educativa.

Ad oggi sono ancora in numero predominante le mamme a farsi testimoni delle difficoltà educative nei dispositivi istituzionali

23 Winnicott, 1987.

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Alberto GrazioliNicoletta Livelli

deputati all’ascolto. Quando nei colloqui sono presenti entrambi i membri della coppia genitoriale è possibile entrare più velocemente e profondamente nel merito delle differenze, e delle possibili mediazioni, rispetto agli equilibri più opportuni degli stili educativi in gioco, ai fini del progetto psico-pedagogico-educativo.

I genitori si avvicinano alla figura dello psicologo-psicoterapeuta con ansia e senso di inadeguatezza:

“Sicuramente ho sbagliato perché altrimenti la mia bambina non mi direbbe che sono cattiva e non capisco… Ho spiegato tutto tantissime volte però lui non vuol proprio capire… Lo lascio libero di fare tutto eppure non basta mai… Mi manca di rispetto, è sempre aggressivo, non lo riconosciamo più, era un bambino così docile…”. Con il timore di non aver capito cosa accade: “Piange tanto, non dorme mai, mangia poco... E se avesse un disturbo? Se avesse un disagio e noi non siamo in grado di vederlo o capirlo? Ma è normale che a 12 anni non mi parli mai di nessun amico, non voglia più fare nessuno sport, abbandoni tutto?”. Spesso li incontriamo turbati da sensi di colpa: “Tutta colpa mia… Sono tornata troppo presto al lavoro, alzo troppo la voce, non gioco abbastanza con lei… Mio marito è troppo tenero, gli lascia fare tutto e io sono sempre quella cattiva... Non dovevamo separarci così, dovevamo attendere che fosse diventato grande... Ho paura che somigli a mia sorella che ha avuto un’adolescenza molto turbolenta…”.

Altissima è l’aspettativa di sentirsi rassicurati da una lettura dei comportamenti dei figli contestualizzata all’interno di un “normale” processo evolutivo di crescita, escludendo così possibili segnali di disagio psicologico.

Ci troviamo di fronte ad una ipersensibilizzazione e attenzione al mondo del figlio o della figlia che a tratti paiono tuttavia più di superficie: sono tante, infatti, le concessioni e gli oggetti concreti necessari a rispondere ai bisogni dei bambini o dei ragazzi. Ci chiediamo se sono tutti proprio così indispensabili o se hanno più la funzione di compensare la difficoltà di “stare” autenticamente e profondamente in contatto con i propri figli, di “stare” in un legame che riapre ferite, nuclei irrisolti, ricordi del rapporto con i propri genitori interni, riattivazione di antiche dinamiche fra genitori e figli.

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LO SGUARDO RIVOLTO AL SOCIALE: EMERGENTI CLINICI

“La porto dai miei genitori che le fanno fare tutto ciò che vuole… I miei genitori fanno con mio figlio tutto ciò che non hanno fatto con me… non farò gli stessi errori che i miei genitori hanno fatto con me...”

Su questo terreno si gioca inoltre spesso l’eterno conflitto fra quantità e qualità del tempo trascorso insieme, terreno fertile di dolorosi sensi di colpa e inadeguatezza, tali da rendere il bambino e l’adolescente oggetto di massicce attenzioni compensative e/o riparative, con il rischio che diventino incontentabili “tiranni” o fini persecutori con inesauribili e inappagabili richieste. Ad essi si affiancano genitori che mostrano la loro vulnerabilità nella difficoltà di mantenere uno sguardo attento sui figli. Adulti che faticano ad assumere su di sé le funzioni richiamate dalla genitorialità. Adulti “fragili”, in difficoltà a “mentalizzare” il proprio ruolo genitoriale, a creare “spazi di pensiero” in cui sentono di essere “sufficientemente differenziati” dai figli, in grado dunque di gestire il proprio ruolo. Genitori adulti che vivono dolorose separazioni di coppia, alcune particolarmente conflittuali e laceranti, che mettono a dura prova la tenuta dei legami dentro scenari in cui spesso ad avere la peggio sono i figli tenuti in scacco. Richiamando le parole di Donata Miglietta:

La crescita è anzitutto un percorso di separazione che investe la relazione tra adulti e bambini. […] Affinché questo percorso si compia è necessario che gli uni e gli altri affrontino i molteplici livelli della separazione stessa: il corpo che cambia, il pensiero che si sviluppa, la rottura del sentimento di fusione e il presentarsi di gradi crescenti di autonomia e di individuazione soggettiva e generazionale24.

Non ci stupisce allora che gli snodi più problematici e sfidanti nel complesso legame che unisce genitori e figli, ruotino attorno all’acquisizione dell’autonomia psicologica, diremmo meglio: alla reciproca acquisizione di autonomia. Appare particolarmente faticosa la gestione dei rituali quotidiani, la definizione e la “tenuta” delle regole che consentono di fare i conti con i limiti, il contenimento dell’ansia generata dall’accogliere le paure dei bambini, la paura della morte, dell’aggressività, dell’abbandono, della separazione quando le stesse paure abitano il mondo interno ed esterno degli adulti.

24 Miglietta, 2007.

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Alberto GrazioliNicoletta Livelli

Ci pare allora che il primo emergente da cui non possiamo prescindere attenga proprio alla difficoltà di reggere la differenziazione, la separazione all’interno dei legami affettivi. L’altro da sé funge spesso da prolungamento narcisistico di sé, specchio che rimanda, o dovrebbe rimandare, un’immagine potente e perfetta, specchio nel quale si possono tollerare solo lievi “sbavature” dall’immagine idealizzata di se stessi, pena la crisi, il dolore del tradimento per le aspettative mal riposte che non trovano conferma nei comportamenti dell’altro.

Il figlio, che riapre lo scrigno dei ricordi di sé bambino o adolescente, riattiva fantasmi dormienti e richiama prepotentemente alla necessità di assumere una postura adulta, rischia di essere vissuto come colui che attiva una crisi profonda. Diventa allora problematico per il genitore essere la bussola che orienta il suo sguardo sul mondo, il traduttore dei significati di ciò che il piccolo prova, colui che contribuisce a costruire l’apparato per pensare.

La qualità dell’attaccamento, richiamando John Bowlby, “sicuro, insicuro, ansioso ambivalente e insicuro evitante [...] e successivamente disorganizzato”25, vissuto come parziale, ambiguo, ambivalente, fusionale, rende a tratti intollerabile la separazione nel momento in cui si percepisce l’altro, il figlio, così diverso da sé e dall’immagine idealizzata costruita dentro di sé. Insostenibile dover reggere e contenere la frustrazione del figlio e nel contempo la propria, rispetto all’immagine idealizzata di sé come genitore; incomprensibile e quindi difficile dover contenere l’attacco aggressivo dei figli leggendolo come espressione di un “sano” movimento controdipendente o di un “normale” esercizio di autonomia e affermazione di sé.

Adulti fragili, dunque, e disorientati che faticano ad assumere le complesse funzioni della genitorialità. In questa sorta di scenario della “genitorialità immatura” torna in modo vivido la testimonianza di Paola Scalari che, indicando come sintomo sociale la caduta della separazione generazionale, così scriveva:

La mia ipotesi parte dall’idea che la caduta della separatezza rigida tra mondo infantile e mondo adulto ha portato gli adulti a confondere il limite che separa le generazioni. Il bambino segreto è il bambino che rimane vivo dentro all’adulto e che gli impedisce di arrivare alla compe-

25 Holmes, 2017.

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LO SGUARDO RIVOLTO AL SOCIALE: EMERGENTI CLINICI

tenza generativa per prendersi cura di un piccolo. Il bambino negato, allora è il bambino reale che finché l’adulto è infantile non può essere sostenuto nel suo percorso evolutivo. La caduta della separazione ha creato la confusione e la confusione ha decretato la morte del limite. Limite che pone i confini tra vita e morte. Il mondo oggi deve recuperare un senso di confine che altrimenti negherà il diritto dell’infanzia di essere tale. […] La separazione come elemento da trasmettere da una generazione alla successiva. La separazione come articolatore dei gruppi sociali26.

Questo emergente sulla qualità dei legami sociali non può non farci ripensare al modo in cui, in un progetto di intervento psicoterapeutico, si debba lavorare sul ri-attraversamento del processo di differenziazione dell’adulto-genitore con il proprio bambino interno. Ciò renderà allora possibile sostenere un autentico processo di separazione-differenziazione dal proprio figlio o dalla propria figlia reali.

Va da sé che la qualità dell’attaccamento madre-bambino, l’articolazione del loro legame, abbia un significato fondamentale per la costruzione della mente del bambino, come ci ricordano le parole di Maria Luisa Mondello:

Si può affermare che lo sviluppo della funzione simbolica dipende in modo cruciale dall’armonia dell’interazione madre-bambino. L’evoluzione della funzione cognitiva partecipa della stessa condizione27

Indichiamo allora il secondo emergente che ha orientato le nostre riflessioni: la difficoltà, che a volte diventa carenza, di simbolizzazione degli adulti e conseguentemente, in ragione di ciò che abbiamo fino ad ora argomentato, anche dei bambini e degli adolescenti. Adulti in cui l’elevato concretismo non permette il riferimento a significati di natura simbolica per il lavoro sullo psichico. Ci sostiene in questa affermazione lo scritto di Nadia Fina e Giovanna Mariotti Il disagio dell’inciviltà, in cui parlando del “mal’essere” manifestato dai pazienti testimoniano:

[…] debolezza del pensiero e deficit di rappresentazione simbolica, connotativi entrambi di un pensiero “operativo” e rigido. […] Denunciano

26 Scalari, 2003a.

27 Busato Barbaglio, Modello, 2011.

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Alberto GrazioliNicoletta Livelli

modi di essere e di vivere all’insegna dell’urgente bisogno di essere proiettati fuori dal dolore, schiacciati dal pervasivo senso di inadeguatezza e ipersensibilizzati dal bisogno assoluto di rispecchiamento narcisistico28.

La fatica di “stare” dentro l’incertezza, che spinge all’urgenza di trovare velocemente porti sicuri, l’impossibilità di dare un significato alle esperienze emotive, attraverso la loro rappresentazione simbolica, generando così un pensiero che orienta nel caos delle azioni, che rischiano in realtà di essere agiti evacuativi, ci dice molto della difficoltà per i genitori di essere coloro che sostengono i figli nella costruzione della mente, dell’apparato per pensare i pensieri. Citando Mauro Rossetti:

Quando nel campo si produrranno certe e determinate condizioni […] avrà inizio un’emozione che introdurrà un significato, un simbolo che avrà la funzione di “fatto selezionato” nella molteplicità confusa di eccitazioni. Solo allora potremo iniziare a parlare di pensiero29.

Se l’esperienza emotiva non evolve trasformandosi in rappresentazione simbolica negli adulti, come scrive Rossetti, come possiamo pensare che per i piccoli e gli adolescenti sia possibile non essere in balia di emozioni “disregolate”, che lasciano loro stessi e gli adulti accanto a loro disorientati, arrabbiati, timorosi della loro stessa ombra?

Parlando di difficoltà di simbolizzazione alla luce della teorizzazione sulla “mentalizzazione delle emozioni”30, aspetto su cui torneremo in seguito, ci sembra di poter scorgere la marcata fatica di riconoscere ed accogliere le proprie emozioni e quelle di chi ci sta accanto, a cui fa da contraltare la difficoltà di utilizzare simboli come mediatori mentali per parlare, sentire, analizzare ed elaborare il significato delle emozioni.

Da un punto di vista clinico la nostra esperienza ci suggerisce che, in realtà, in alcune situazioni la difficoltà di simbolizzazione può comparire anche in bambini più piccoli di quelli con i quali lavoriamo, come se si prolungasse oltremisura quello stato che Esther Bick definì “identificazione adesiva”31, una fase in cui il neonato

28 Fina, Mariotti, 2019.

29 Rossetti, 2004.

30 Fonagy, Target et al., 2002.

31 Harris, Bick, 2013.

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LO SGUARDO RIVOLTO AL SOCIALE: EMERGENTI CLINICI

è completamente adeso alla madre. Essa pone questo stadio precedente all’identificazione proiettiva, cioè alla possibilità di proiettare sulla madre percezioni ed emozioni inelaborate, fase che secondo Melanie Klein (1978) esiste fin dai primi giorni di vita32. In questo modo tentiamo di dare un senso a quanto riscontrato nelle relazioni tra genitori e bambini piccoli, in cui i figli faticano a differenziarsi psichicamente ed emotivamente da chi si occupa di loro. A fronte della necessità di apprendere all’interno delle relazioni primarie la capacità di riconoscere e modulare le proprie emozioni, le difficoltà di mentalizzazione e simbolizzazione riscontrabili negli adulti lasciano i piccoli e i preadolescenti fortemente in balia di stati emotivi soverchianti e, ci pare, che questo meccanismo involutivo stia diventando un emergente sociale radicato nel tessuto relazionale. Seguendo il “vettore B”33 di Bleger, sosteniamo quindi che la capacità di simbolizzare di alcuni bambini non si sviluppi in modo adeguato, poiché è carente la significazione della realtà che si attiva attraverso il processo di rêverie nella relazione adulto-bambino. Questo si consolida e interiorizza nella reciprocità degli sguardi e trova conferme nelle esperienze emotive, cognitive e affettive, processi elettivi della funzione educante e pedagogica attiva.

32 Klein, 1978.

33 “Per ambito si intende, per Pichon-Rivière e per Bleger, l’ampiezza o l’estensione della totalità degli elementi che interagiscono in un tempo dato (campo)” (Fischetti, 2014). Si possono riconoscere quattro ambiti: “a) ambito psicosociale (individui); b) ambito sociodinamico (gruppi); c) ambito istituzionale (istituzioni); d) ambito comunitario (comunità). […] Lo sviluppo della psicologia ha seguito il senso A [n.d.r. da a) verso d)], ma questa direzione ha coinciso, in qualche misura, con un’estensione dei modelli della psicologia individuale a tutti gli altri ambiti. Man mano che vengono affrontati, nella pratica, nuovi ambiti e strutturati nuovi modelli concettuali a essi adeguati, s’impone il senso B [n.d.r. da d) verso a)]; vale a dire che dobbiamo riprendere lo studio delle istituzioni utilizzando modelli della psicologia di comunità, lo studio dei gruppi basandoci sui modelli della psicologia istituzionale e di comunità, e infine lo studio degli individui secondo modelli della psicologia dei gruppi, di comunità e delle istituzioni” (Bleger, 2011).

“Questo ci permette di chiarire e ribadire che non esistono due psicologie, individuale e sociale, perché tutti i fenomeni umani sono, indefettibilmente, anche sociali e perché l’essere umano è un essere sociale. Ancora di più, la psicologia è sempre sociale, e con essa si può studiare anche un individuo preso come unità, perché studiare l’individuo non è caratteristica della psicologia individuale; ciò che è caratteristico di quest’ultima è mettere a fuoco i fenomeni individuali come astratti e riferiti totalmente al soggetto stesso. […] Se si studia un solo individuo ma in funzione dei suoi vincoli, delle sue esperienze sociali, dell’assimilazione e dell’organizzazione delle stesse, come modelli di condotte della sua personalità, stiamo utilizzando la psicologia sociale” (Bleger, 2018).

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Alberto GrazioliNicoletta Livelli

Attraverso l’esperienza clinica e l’osservazione delle relazioni genitori-figli non è raro imbattersi in situazioni in cui i genitori li lasciano soli di fronte al mondo: troviamo adulti che sembrano in loro compagnia, ma distratti dalla lettura o dalla visione dell’ultimo video virale offerto dai social, intenti in lunghe conversazioni telefoniche, diventano disattenti accompagnatori alla “pari”. Rileviamo come sia progressivamente venuto a mancare, ieri con la televisione oggi con i social, quel processo del “fare con” che permette l’astrazione, stimola il “fare finta di”, apre agli spazi di riconoscimento relazionali. Inoltre non ci sono più “vuoti tempi d’attesa”: oggi tutto appare in tempo reale, schiacciando un bottone, l’attesa desiderante è annullata dal soddisfacimento immediato della richiesta.

Sembra venire polverizzato il tempo dell’attesa, del fare esperienza della frustrazione ottimale, così come intesa da Heinz Kouth34.

la capacità di tollerare la frustrazione, che si dà valore a ciò che verrà. I genitori abdicano alla possibilità di esercitare la funzione di rêverie, attraverso la quale restituire “pensieri pensati” ai propri figli e dare loro chiavi di lettura e senso ad ogni esperienza.

Riecheggiano in modo importante le parole di Byung-chul Han:

Nell’epoca attuale la percezione simbolica scompare sempre più a favore di una percezione seriale incapace di esperire la durata. La percezione seriale, quale presa di coscienza avanzata del nuovo, non indugia. Anzi, si affretta da una informazione all’altra, da un evento all’altro, da una sensazione all’altra senza mai giungere ad una conclusione. […] Mentre la percezione simbolica è intensiva, la percezione seriale è estensiva, e per via della sua estensività porta con sé un’attenzione piatta. L’intensità, al giorno d’oggi, cede ovunque il passo all’estensività. La comunicazione digitale è una comunicazione estensiva: non produce relazioni, solo connessioni35

Sosteneva Donald Meltzer:

La funzione […] che maggiormente sostiene la crescita infantile, viene realizzata e condotta attraverso l’attenzione, l’interesse, il pensiero che viene prestato al bambino reale. Attenzione e interesse richiedono d’altra parte una particolare pazienza e capacità, che deriva dall’identi-

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È tuttavia proprio nell’attesa che prende corpo
34 Kouth, 1976. 35 Han, 2021.
LO SGUARDO RIVOLTO AL SOCIALE: EMERGENTI CLINICI

ficazione con un oggetto interno che possiede e sviluppa speranza nelle sorti dello sviluppo. È importante per gli operatori [e per i genitori noi aggiungeremmo] che accompagnano la crescita dei bambini, mantenere un’aspettativa fiduciosa sugli aspetti positivi e di salute presenti in ogni bambino36.

Di fronte a mutamenti così imponenti ed accelerati del contesto la questione non è essere pro o contro il progresso e le sue facilitazioni. Stiamo solo cercando di comprendere dal nostro vertice osservativo come le trasformazioni dell’ambito sociale, per dirla con Bleger, bussino pesantemente alla porta del nostro modo di lavorare nell’ambito clinico, sollecitandoci a scendere in campo, cercando di “mantenere un’aspettativa fiduciosa e positiva” sugli esiti dei nostri interventi.

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36 Meltzer, 2004.

Questo libro nasce dal desiderio di un confronto aperto sulla complessità della psicoterapia in età evolutiva, perché è solo con il dialogo che la cultura clinica potrà evolvere.

Gli autori (psicologi psicoterapeuti) come “funamboli” camminano sulla fune tra mondo interno e mondo esterno: affinano lo sguardo “fuori” dalla stanza della terapia, per tornarvi “dentro” e attivare una delicata e graduale traduzione delle rappresentazioni, dei significati emotivi e dei linguaggi con cui bambini, adolescenti e le loro famiglie sono state presentate/ narrate, e di come essere efficaci “portavoce” dei loro pensieri, delle loro paure e dei loro “inciampi”.

Partendo da un’attenta e rigorosa analisi della domanda – fondamentale nell’approccio psicosocioanalitico – è necessario progettare interventi terapeutici complessi, che prevedano anche la possibilità di uscire dagli studi, dalle “aree di comfort”, per transitare nei diversi contesti.

ISBN 978-88-6153-989-1

Euro 16,50 (I.i.)

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