Ho scelto le parole

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Alessandra Erriquez

HO SCELTO LE PAROLE

Alessandra Erriquez è giornalista, mamma e blogger. In puro ordine cronologico. Ha lavorato a Trento e Firenze per il “Corriere della Sera”, tornata nella sua città, Bari, si è dedicata al giornalismo nel settore dell’arte. Attualmente si occupa ancora di bellezza, come atelierista di scrittura creativa per bambini e curando la comunicazione de “La Via dei Colori onlus” che tutela minori e minoranze maltrattate. Il blog, “Voci di cameretta”, è il suo punto d’incontro tra giornalismo e maternità. È autrice dell’albo illustrato L’amore è a doppio senso (Fasi di luna, 2017). Crede nel potere della scrittura e delle domande dei bambini.

“ Ho intrapreso un viaggio, faccia a faccia col dolore. Non il mio. Un viaggio in posizione di domanda: qual è il confine tra il nostro potere e la nostra paura? Cosa s’offre a un figlio che soffre? Ho trovato risposte diverse, tutte vere. Dinanzi alla propria storia ognuno sceglie le sue parole.”

Alessandra Erriquez

HO SCELTO

LE PAROLE Genitori, dolori, rivoluzioni

ISBN 978-88-6153-650-0

Euro 13,00 (I.i)

9 788861 536500


Alessandra Erriquez

Ho scelto le parole

Genitori, dolori, rivoluzioni

edizioni la meridiana


2018 Š edizioni la meridiana

Via Sergio Fontana, 10/C - 70056 Molfetta (BA) - tel. 080/3971945 www.lameridiana.it info@lameridiana.it

ISBN 978-88-6153-650-0


Indice

Introduzione..................................................................... 11 Appuntamento in zona fragile........................................ 13 La rabbia è un fazzoletto antico...................................... 23 Un cordone ombelicale può esser crimine e poesia....... 33 La teoria dell’uovo rotto................................................. 43 Salvare un sorriso............................................................ 51 Il cuore dentro alle scarpe............................................... 63 Una cicatrice vale più dell’oro........................................ 73 Conclusione (o apertura)..................................................89


Alle voci che abitano questo libro e, d’ora in poi, il mio essere madre. A quelle che abitano la mia vita che sono corpo, soffio, bacio.



L’infinito umano è tutto qui. (Niccolò Fabi)



Introduzione There is a crack in everything That’s how the light gets in C’è una crepa in ogni cosa è così che entra la luce (Leonard Cohen)

Non voglio dire, banale come il male, che la sofferenza serve perché ci rende più forti. Non è un mezzo. E nemmeno voglio credere che siamo nati per soffrire. La sofferenza non è un fine. Pur tuttavia è vero che siamo nati col soffrire. Sono diventata madre con due parti spontanei e senza epidurale. Non mi sono risparmiata neanche un briciolo di quella sofferenza tutta femminile che ti fa pensare, sempre, voglio morire proprio quando in realtà stai per nascere. Ricordo che tanto mi ha aiutata pensare che in sala parto non ero sola. Non c’era mio marito. Eravamo io e il mio bambino. Il mio unico corso pre-parto furono cinque minuti col mio ginecologo: “Segui il tuo corpo e respira. Respira profondamente perché questo servirà a ossigenare il bambino”. Dal mio respiro dipendeva il suo respiro. Dalle mie spinte, le sue spinte. Dalle mie lacrime, il suo primo vagito. Dalla mia crepa, la sua luce. Un amico osteopata mi ha poi spiegato che la compressione cranica, che avviene quando il bambino passa dal bacino della mamma, permette di “resettare” il cranio e favorire la circolazione del liquor. In caso di cesareo, infatti, sarebbe 11


opportuno un trattamento alla nascita che sostituisca quello previsto in natura. Per natura, dunque, si soffre alla nascita ma questo, come dire, ci schiaccia e allo stesso tempo apre la mente. Quando è nato il mio primo figlio, avevo il terrore della fontanella. Alla nascita del secondo ho visto che, pur neonato, poteva reggere il peso del fratello sul pancino, un morso al piede e un telecomando in testa. Forse non siamo nati per soffrire ma siamo fatti per soffrire, cioè in grado di “portare su” il peso. Perché possiamo farlo e perché è così che ci resettiamo e troviamo il nuovo respiro. A chi soffre, s’offre una possibilità. Con questo non voglio dire che la sofferenza sia un dono. Non è la nostra croce necessaria, non è la nostra strada per la saggezza. Semplicemente, è. Non so definirla ma posso definire me dinanzi a essa. Quella crepa è in me, e sono io che vengo alla luce. Se tutto questo è vero quando il dolore è sulla nostra carne, cosa lo è quando attiene alla carne di un figlio? Cosa s’offre a un bambino che soffre? Come si sta al cospetto del suo dolore? Qual è il confine tra il nostro slancio e il nostro limite? Tra il nostro potere e la nostra paura? Forse, la paura è una domanda. Forse lo è la rabbia, la speranza, il senso di colpa e qualunque emozione provi un genitore dinanzi al dolore del figlio. Ho intrapreso un viaggio, faccia a faccia col dolore. E ho trovato risposte diverse, tutte vere. Dinanzi alla propria storia ognuno sceglie le sue parole. Perché le risposte migliori arrivano a chi affronta le domande con coraggio. Con la fiducia che quando una domanda si pone qualcosa si rompe. Si forma una crepa.

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Appuntamento in zona fragile Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore. (Italo Calvino)

C’è tempo. Un tempo per il dolore e uno per ridere, un tempo per imparare e uno per gioire. Un tempo per smarrirsi. Uno per incontrarsi. Non importa quando, come siamo vestiti, con che mezzo siamo arrivati. Conta dove. Conta essere nello stesso posto. In zona fragile, a metà strada tra potere e debolezza, superato il bivio, sfondato il fabbricato delle certezze, in fondo a destra nel corridoio della nostra umanità. Non c’è nulla di più potente della fragilità, perché è lì che ci si incontra davvero. Quando ci si spoglia degli abiti migliori e si vestono quelli con cui siamo a casa, autentici. Quando rinunciamo a presentarci con le nostre abilità e offriamo le nostre disabilità. Ciao, mi chiamo Alessandra e sono fragile. E un giorno ho incontrato Daniela e Guido, fragili. E potenti. Sono i genitori di Anna, una bimba con gli occhi celesti, un sorriso che scioglie i nodi e un cromosoma in più. E sono i creatori di una famiglia e di una pagina Facebook, “Buone notizie secondo Anna”, dove convivono disabilità e buonumore. Il tempo in cui nacque questa famiglia è lontano, Daniela e Guido si conoscono da quando erano bambini. È nata 13


però con ogni figlia, Anna ha due sorelle più grandi. Man mano che la casa si riempiva, la famiglia si arricchiva. Anna ha portato completezza nella nostra storia. Se avessi immaginato la mia famiglia in passato, l’avrei immaginata com’è adesso, Anna o non Anna, certamente con tutti i miglioramenti che lei ha portato. Ma in un certo senso questa famiglia nasce ogni giorno. Anzi, ogni sera. Con un rito che Daniela e Guido compiono quotidianamente, prima di addormentarsi. Si benedicono, con un segno di croce sulla fronte. Non è solo fede, è un atto di fiducia, è un dire bene dell’altro. Non ricordano quando hanno iniziato, forse lo suggerirono al corso per fidanzati. Ora è un rituale immancabile e mai automatico. Si fa fatica, è un allenamento anche forzato, a volte. Ci sono giornate in cui hai litigato e vorresti solo affermare le tue ragioni, non avresti nessuna voglia di dire bene di chi ti ha ferito o innervosito. E invece no, che meraviglia. Io ti benedico. Anzi, proprio oggi, benedico te e la tua fragilità. Non è rinuncia, non è sottomissione. È un esercizio a cambiare il proprio punto di vista, a includere l’altro, nella sua interezza, nella nostra visione parziale. Marta e Francesca erano due bambine straordinarie, saremmo stati sciocchi a non desiderare il terzo figlio, lo cercammo tanto. Se loro erano arrivate facilmente, dopo di loro due gravidanze interrotte nel primo trimestre. A 39 anni rimasi di nuovo incinta, fu festa grande, facemmo subito una prima ecografia, andava tutto bene. Ma quello non era il tempo del terzo figlio nella loro storia. Era il tempo del dolore. La translucenza rivelò un igroma cistico e da lì iniziò un calvario, un’altalena emotiva. Il primo responso fu di una gravidanza che non sarebbe arrivata al termine. Poi portammo le carte al ginecologo, lui le mostrò a un altro ecografista 14


e questo disse: Non siamo precipitosi, può riassorbirsi. Ci aggrappammo a questa buona notizia, ma dopo dieci giorni l’igroma era aumentato. Dall’amniocentesi risultò che Matilde Sofia, questi i nomi scelti dalle bambine, aveva la sindrome di Turner. Una diagnosi importante, ma ancora compatibile con la vita. Invece l’igroma prese possesso della bambina e i polmoni iniziarono a riempirsi d’acqua. A quel punto era chiaro che la gravidanza non sarebbe andata a buon fine e così ci dissero di scegliere: Dovete capire qual è il peso maggiore per voi, se volete mettere un punto possiamo procedere oggi stesso, se interrompere vi sembra un atto di violenza allora lasceremo che la natura faccia il suo corso. Lasciammo decidere alla natura, con un peso non da poco. Tutti si congratulavano per la mia pancia sempre più grande e io dovevo affrontare anche la fatica di proteggermi, di certo non racconti tutto al panettiere. Nel frattempo avevo avuto la bella idea di prendere la seconda laurea, in realtà mi aiutò a spostare il pensiero. Quando discussi la tesi col pancione, i relatori poi scherzarono su come avrei festeggiato. Il giorno dopo non c’era più il battito. Era il tempo del dolore, un dolore sordo, ché in certi casi non ci sono parole da dire, un dolore vuoto come quel grembo non più gravido di vita. Un dolore privo di senso attorno al quale Daniela e Guido si strinsero. Certo, era lei che con le sue forze aveva partorito Matilde Sofia pur non potendola poi nutrire al petto, ma lui le stava accanto, sulla soglia di un dolore di cui non condivideva la visceralità ma l’amore, l’amore per quella bambina sì. Come spesso accade, il terzo figlio venne quando ormai non si cercava più. A sorpresa. Partimmo positivi, ormai avevamo già dato. Perché oltre quella sorta di arroganza del dolore c’è pure l’arroganza di 15


stabilire che ci è già toccato abbastanza dolore. Come se la decisione spettasse a noi. Stavolta niente esami diagnostici, pensarono, anche se i medici lo consigliavano avendo Daniela compiuto 40 anni. Dalla translucenza risultò un valore appena superiore al limite e lì cambiarono idea, non per loro ma per le bambine. La piccola, Francesca, dopo la morte di Matilde Sofia aveva smesso di pregare, era arrabbiata, non si dava pace. Così decisero per la villocentesi, era giusto conoscere per sapere bene come gestire la situazione con le bambine. Era giusto considerare che, al di là delle loro convinzioni, occorreva calarsi nella realtà familiare di quel momento e in quella realtà c’erano i sentimenti di Marta e Francesca. Se va tutto bene, ci dissero, non riceverete telefonate e potrete ritirare l’esame tra 15 giorni, se vi chiamiamo vuol dire che qualcosa non va. Era un martedì, stavo entrando in studio, quando ricevetti una telefonata da un fisso 049 89… il numero dell’ospedale. Risposi terrorizzata e dissi Pronto con voce sottile, senza fiato. E invece era un’infermiera che per fissare un appuntamento con me stava chiamando dal suo reparto. Ah Elisabetta sei tu! Per il sollievo non mi resi conto che per la prima volta le stavo dando del tu. Dottoressa l’ho sentita un po’ strana, mi rispose. No, no, stavo pensando ad altro, mi scusi. Di nuovo il lei. Presi l’appuntamento e chiusi. Cinque minuti dopo, il destino beffardo. 049 89… porca miseria. Studio di citogenetica dell’ospedale di Padova, è lei la signora Pipinato? E sì. Immaginerà che visto che la stiamo chiamando... Può venire alle due che c’è la dottoressa? No, sono le nove, mi ha chiamato adesso e vengo adesso, non sto mica col punto di domanda fino alle due. Chiamai Guido e gli dissi che visto che ero vicina potevo 16


andare da sola. Lui mi minacciò di star ferma! Quel chilometro che separava lo studio dall’ospedale fu tremendo perché la nostra storia ci indicava comunque una scelta di vita, l’aborto non era previsto, non c’era altra via e allora mi sentivo soffocare: se fosse stata una disabilità grave… Stessa stanza, stessa luce a neon, stessa dottoressa di Matilde Sofia. Lesse le carte e disse: Trisomia 21. Nessun cenno alla bimba. Solo, trisomia 21. Forse un istinto materno, forse il sollievo di una disabilità meno grave rispetto a quelle paventate in quel chilometro appena percorso, Daniela spontanea chiese: Ma è maschio o femmina? La dottoressa provò a insistere: Forse non avete capito, sindrome di Down. Sì, sì, ho capito, incalzò Daniela, ma è maschio o femmina? Allora, sbalordita, la dottoressa cercò fra le carte: Femmina. E Guido, sull’onda di quella profondissima leggerezza: Ecco, Daniela, neanche stavolta siamo riusciti a fare il maschio! Fu quasi un sollievo in quel momento. Andando via, nel corridoio dell’ospedale, Guido il comico informatico immaginò. Al mio prossimo spettacolo ci sarà nostra figlia in prima fila e indicandomi dirà: E questo sarebbe up? Scoppiarono a ridere, d’una risata isterica. Poi piansero per ore. Non era la prima volta che avevano a che fare con la disabilità. Anche prima di Matilde Sofia, di disabili ne avevano visti tanti. In parrocchia, nella casa famiglia di Padova, e in Kenya. Gabriele, il fratello di Daniela, aveva fondato a Nyahururu una comunità per disabili. Lì le famiglie li consideravano una condanna, una vergogna. Daniela e Guido ci andavano spesso, e quando pranzavano fianco a fianco con disabili gravi, di quelli che ogni cucchiaio di riso lo risputavano nel piatto, ecco, lì c’era il massimo della fatica. Ma incontrare la disabilità è una cosa, generarla è tutt’altro. 17


Fu importante tuttavia che Daniela e Guido avessero tanta confidenza con la disabilità, che avessero già superato quella linea d’ombra, quell’imbarazzo che si crea quando ti trovi davanti a una fragilità che non conosci. È come quando incontri una persona che fa fatica a parlare e tu non capisci cosa voglia dire; o un ragazzo senza braccia e non sai come presentarti senza dargli la mano. Magari si potrebbe superare quell’imbarazzo parlando, chiedendo. Sono luoghi in cui non vogliamo addentrarci perché ci fanno paura o perché sono faticosi. Ma superati quelli, avvengono incontri di grande umanità. Guido ha imparato bene come arrivare alla zona fragile, alla confidenza, all’incontro. E con Daniela l’ha insegnato alle sue figlie. Furono loro infatti a rompere quel muro, quelle ore di pianto. A pranzo Daniela cucinò ma non toccò cibo. Dissero che aveva avuto problemi al lavoro ma le bambine capirono che doveva esserci altro. Loro non sapevano neanche di aspettare una sorellina. Nel pomeriggio, dopo una passeggiata, Daniela e Guido decisero di dire tutto anche a loro. Erano seduti attorno al tavolo della cucina quando annunciarono l’arrivo di Anna, con sindrome di Down. Ma allora è come Sara, disse Francesca, Sara è simpaticissima! Eccola, la confidenza, benedetta confidenza che illuminò Francesca e fece fare un salto ai suoi genitori. Sara era una bambina con trisomia 21 che loro conoscevano molto bene, avevano fatto insieme anche il campo scuola e Marta aveva tanto sognato di avere una sorella come lei, mentre Francesca aveva scritto una lettera a Gesù chiedendo di mandarle un fratellino, o anche una sorellina, e che se avesse avuto qualche problema di mandarla comunque, ci avrebbero pensato loro. Da quel momento in poi ci fu Anna, Anna per prima, e soltanto dopo quel cromosoma in più. 18


Così passò anche la paura, la paura del “dopo di noi”. E così hanno imparato ad affrontare ogni cosa a suo tempo. Come Anna insegna. Lei che a due anni e mezzo dice mamma e papà mentre suo cugino coetaneo parla benissimo. Lei che ha imparato a stare seduta e a camminare con tempi tutti suoi e ha insegnato ai suoi genitori a rispettarli, e a goderne. Anna che li ha trasformati in persone meno rigide e più accoglienti. Lei è una madre, una donna, una psicologa diversa, lui ama riderci su. Non benedicono la sua sindrome, se potessero le staccherebbero quel cromosoma di troppo cellula per cellula, ma benedicono Anna. E non hanno più paura perché questo è il tempo in cui innamorarsi di lei. Questo tempo dell’innamoramento ci servirà per arrivare a quel momento. Quando dovremo affrontare le paure, le fatiche, le difficoltà di Anna adulta, confidiamo che saremo cresciuti noi come genitori. Per ora siamo la mamma e il papà di Anna a due anni e mezzo. Non hanno paura, adesso. Come quel giorno di tanti anni fa aveva suggerito Madre Teresa di Calcutta. Daniela aveva 14 anni e stava dietro con i suoi amici, Guido ne aveva 16 e si era messo davanti al gruppo per vedere quel personaggio famoso in visita alle Sorelle della Carità di Roma. Quando avrete dei figli, disse Madre Teresa, non abbiate paura, qualunque cosa accada. E se proprio vi capiterà qualcosa che non sapete affrontare, portate qui quel bambino. Guido rimase folgorato da quelli occhi piccoli e potenti. Ma ciò che Madre Teresa insegnò, più del coraggio, fu la sospensione del giudizio. Io sognavo da sempre di fare uno spettacolo comico ma per via della balbuzie avevo sempre rinunciato. Fu mia moglie a convincermi. Affittai un teatro e per la prima volta, dieci anni fa, salii sul palco. In quello spettacolo raccontavo 19


la mia storia, anche l’incontro con Madre Teresa. A un certo punto, prendevo un bambolotto e con un cassonetto sulla scena, mi avvicinavo e dicevo: Se capiterà a me, io non avrò paura, io non lo butterò via. A pensarci oggi, una scena di una violenza pazzesca, della quale ancora mi scuso. Nessuno me lo fece notare fino alla quinta replica quando, al termine della serata, una coppia mi avvicinò. Lui, con occhi lucidi, mi disse: Sei stato bravo ma devo farti una domanda, tu che ne sai? Aveva ragione, non avevo considerato le persone che avevo davanti, le loro storie. Da allora, e con la propria storia, Daniela e Guido hanno imparato a sospendere il giudizio. Non puoi capire, non puoi esser certo delle tue idee finché non ci passi attraverso, in quella palude. Loro poi ci passarono e benedissero il fatto di aver cambiato idea, di aver dubitato delle loro convinzioni, di aver approfondito quel valore di poco superiore al limite, di essersi preparati. Perché così, il giorno della nascita di Anna, fu solo una grandissima festa. Eravamo in quattro in quella stanza, io ero la più vecchia e la più felice. E quando la dottoressa ci chiese se fossimo in contatto con qualche associazione relativa alla sindrome di Down tutte mi guardarono con gli occhi sbarrati e una disse: Com’è che siete così felici? Non si spiegava, e non si spiega tuttora, in un mondo convinto che i disabili siano destinati a una vita infelice, che loro la vivano diversamente. Cos’avranno mai da ridere? Lo spiega bene la pagina Facebook, “Buone notizie secondo Anna”, nata dopo l’invito di Papa Francesco nella Giornata mondiale della Comunicazione sociale. Diceva che non dobbiamo essere solo fruitori di informazioni, ma riempire il web di belle storie, e che in particolare tanto hanno da raccontare le famiglie dei disabili. Guido si sentì chiamato, dopo Madre Teresa pure il Papa! E così nac20


que questo laico Vangelo secondo Anna dove si racconta con ironia che sì, Anna è una buona notizia. Dove vignette spassose minano i più grandi pregiudizi sulla disabilità, e dove con una battuta si prova a spazzare via parole come poverino, incapace, diversamente abile. Guido ha organizzato anche lo spettacolo “Anna with friends”, dove i comici di Zelig hanno recitato con ragazzi disabili. Non per loro, con loro. Non una serata per parlare di disabilità, ma un evento per ridere e per mostrare abilità. Così ha inventato la ris-abilità. Quella zona fragile è spesso scivolosa, per questo si cerca di proteggerla, ma l’ironia è un ottimo mezzo per arrivarci, arrivare a quell’appuntamento. Il seguito più bello della pagina non sono infatti i like e le condivisioni, ma gli incontri, le persone che scrivono in privato e si raccontano, le persone che hanno paura e a cui Daniela e Guido offrono il loro tempo, tempo per incontrarsi, di persona. C’è un tempo per il dolore, uno per la paura, uno per l’incontro. È lì che si vive davvero. Perciò presentati col tuo nome e con la tua fragilità, accogli. Vivi. Vivi e lascia ridere.

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Alessandra Erriquez

HO SCELTO LE PAROLE

Alessandra Erriquez è giornalista, mamma e blogger. In puro ordine cronologico. Ha lavorato a Trento e Firenze per il “Corriere della Sera”, tornata nella sua città, Bari, si è dedicata al giornalismo nel settore dell’arte. Attualmente si occupa ancora di bellezza, come atelierista di scrittura creativa per bambini e curando la comunicazione de “La Via dei Colori onlus” che tutela minori e minoranze maltrattate. Il blog, “Voci di cameretta”, è il suo punto d’incontro tra giornalismo e maternità. È autrice dell’albo illustrato L’amore è a doppio senso (Fasi di luna, 2017). Crede nel potere della scrittura e delle domande dei bambini.

“ Ho intrapreso un viaggio, faccia a faccia col dolore. Non il mio. Un viaggio in posizione di domanda: qual è il confine tra il nostro potere e la nostra paura? Cosa s’offre a un figlio che soffre? Ho trovato risposte diverse, tutte vere. Dinanzi alla propria storia ognuno sceglie le sue parole.”

Alessandra Erriquez

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ISBN 978-88-6153-650-0

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