Negli ultimi anni in provincia di Caserta sono stati inferti duri colpi ai clan dei Casalesi, mettendo fine alla loro più che quarantennale impunità e lasciando intravedere la possibilità concreta di una loro sconfitta militare e giudiziaria. Ora, alla luce delle ultime vicende giudiziarie, l’azzeramento dei vertici dei clan egemoni può tranquillizzarci? È stato fatto e si sta facendo tutto il possibile affinché quanto è avvenuto in questo territorio non si ripeta? […] Se c’è stato un “terremoto della legge”, se il senso dello Stato e delle istituzioni si è disintegrato, se si è accettata una dittatura politico-criminale che ha influenzato la politica, le istituzioni, l’economia e il senso comune dei cittadini, come si pensa di mettere mano a questa gigantesca opera di ricostruzione? In che modo si vuole concretamente sostenere, con tutti i mezzi a disposizione, la “correttezza sovversiva”? Come può lo Stato pensare che il suo compito sia esaurito con il solo azzeramento fisico della struttura criminale camorristica? Come possono le sole amministrazioni locali riorganizzare gli assetti civici e sociali di queste comunità? Sono queste le importanti questioni che pone questo prezioso libro di Gianni Solino. Pagine che dovrebbero leggere attentamente tutti i rappresentanti dello Stato che a vario titolo hanno a che fare con questa realtà e più in generale con la provincia di Caserta. Se queste domande rimarranno a lungo inevase il rischio è che la pianta del malaffare ritornerà a infiltrarsi nella società locale, in cui affiorerà il convincimento che violenza, soprusi e delitti siano per questa terra l’unica fonte di circolazione di ricchezza e opportunità. (dalla Prefazione di Isaia Sales)
ISBN 978-88-6153-651-7
Euro 12,00 15,50 (I.i.) 9 788861 536517
Gianni Solino
nato a Villa di Briano (CE), sposato e padre di tre figli, lavora alla Provincia di Caserta. Fin da ragazzo si è interessato dei movimenti pacifisti e anticamorra, e continua ad impegnarsi nell’associazionismo, in modo particolare con “Libera”, di cui è referente per la provincia di Caserta, “Comitato don Peppe Diana” e “Scuola di Pace don Peppe Diana”. È stato per oltre dieci anni sindacalista provinciale della CGIL. Con la meridiana ha già pubblicato Ragazzi della terra di nessuno (2008) e La Buona Terra (2011).
IL CRATERE
GIANNI SOLINO,
GIANNI SOLINO
IL CRATERE Che fine fanno i ragazzi di camorra
Gianni Solino
Il cratere Che fine fanno i ragazzi di camorra
Prefazione di Isaia Sales
INDICE Prefazione di Isaia Sales 9 Prologo 17 Il Cratere Ragazzi difficili Dalla parte delle vittime? Serve sciogliere i consigli comunali? Una città nuova Beni confiscati Beni “liberati”? Terzo settore e cittadini: un dialogo difficile Dopoguerra e ricostruzione
19 25 31 41 49 55 63 81 89
PREFAZIONE di Isaia Sales1
Negli ultimi anni in provincia di Caserta sono stati inferti duri colpi al clan dei Casalesi, mettendo fine alla loro più che quarantennale impunità e lasciando intravedere la possibilità concreta di una loro sconfitta militare e giudiziaria. I numeri degli arrestati, dei condannati, dei latitanti acciuffati sono di gran lunga superiori a quelli riscontrati in tutta la storia precedente, anche di quelli registrati sotto la repressione di massa messa in atto, nella stessa area territoriale, dal maggiore dei carabinieri Vincenzo Anceschi tra il 1926 e il 1927, durante il fascismo. Si può parlare realisticamente di un loro azzeramento organizzativo. Almeno per ora. La compattezza e la graniticità dei vari clan sono state sbrecciate dall’interno, con un numero di collaboratori di giustizia di cui non c’è nessun paragone con il passato. Gli ingenti patrimoni accumulati con il sangue sono stati confiscati e, molti di essi, riconsegnati alla collettività per ospitare servizi sociali fondamentali; in altri si sono avviate attività economiche che cominciano a offrire anche interessanti prospettive lavorative. Qualcosa di radicalmente diverso rispetto al passato è, dunque, avvenuto nel contrasto militare, giudiziario e culturale alla camorra casalese, la più vicina tra le famiglie camorristiche al modello mafioso di organizzazione e di dominio territoriale. Docente di Storia delle mafie all’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli. Già sottosegretario del Ministero del Tesoro con delega al Mezzogiorno (1996-98)
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I Comuni che per anni hanno subito un dominio criminale (e sono stati portati al dissesto finanziario) oggi palesano sindaci e amministratori che si preoccupano di problemi irrisolti delle loro comunità e non di obbedire agli ordini dei camorristi. Gli stessi sindaci, eletti proprio mentre si sfaldava il potere criminale, hanno accompagnato l’azione repressiva delle forze di sicurezza e della magistratura, dimostrando che non c’è solo un Meridione rassegnato, indifferente al cambiamento, legato al vecchio sistema clientelare e affaristico, totalmente in preda al dominio della criminalità organizzata. È il Sud che combatte a viso aperto le mafie. Tra i nuovi eletti (per qualcuno si tratta di un ritorno) molti provengono dal fiorente associazionismo, dai movimenti antimafia o hanno fatto della lotta alla criminalità un aperto tratto identitario. Credo che sia questa la ragione per cui siano stati scelti per il loro compito dai concittadini. Non si tratta più di personalità isolate dalla società civile e dalla pubblica opinione, come avveniva nel recente passato. La questione morale ha orientato il voto, una cosa inimmaginabile fino a qualche tempo fa, una rivoluzione nelle abitudini della maggioranza degli elettori di questa zona. Il giudizio morale sui candidati è valso più di ogni altra considerazione: fuori dai municipi gli amici o i collusi con i camorristi. A chi deve governare da queste parti oggi si rivolge una pretesa di “correttezza sovversiva”, capace cioè di rivoltare vecchie abitudini, mentalità, modi di amministrare. Lo Stato ha ripreso le sue funzioni nella zona della camorra casalese, dimostrando che se lo vuole (se lo vogliono i suoi magistrati e i suoi apparati di sicurezza) nessuna organizzazione criminale può contendere ad esso il monopolio legittimo della forza. Ma soprattutto se lo vogliono i governi nazionali e se lo vogliono tutte le varie istituzioni attraverso cui lo Stato si articola. A pensarci bene, infatti, quali sono stati i fattori di successo dei clan dei Casalesi? 10
Credo che il fattore principale sia stato l’assoluta sottovalutazione da parte dei rappresentanti delle istituzioni preposte del ruolo assunto dalla camorra casertana nel tempo, in secondo luogo certamente l’aperta collusione con essa. Per anni la provincia di Caserta è stata fuori da ogni attenzione dei media. Per anni sono passati da questa provincia alcuni dei peggiori rappresentanti delle istituzioni di controllo del territorio (polizia, carabinieri, questura, prefettura, magistratura). Per decenni Caserta e il suo territorio sono stati una zona franca da ogni controllo. La camorra casertana ha avuto il vantaggio di un ventennio prima di diventare un problema serio per gli apparati repressivi dello Stato. Ha scritto a proposito Federico Cafiero de Raho: Quando nel 1993 iniziai le indagini sui casalesi, per prima cosa telefonai ai comandanti delle varie stazioni dei carabinieri della zona. Nessuno però ammise di sapere che nel casertano c’era la camorra.
Un prefetto di Caserta, Goffredo Sottile, ebbe a dichiarare il 30 luglio 1997 (quando già la camorra controllava ampiamente il settore dei rifiuti) che per quanto riguarda le presenze malavitose nel settore dei rifiuti solidi siamo ancora ai “si dice”. Riscontri obiettivi sulla presenza della criminalità organizzata non ne abbiamo.
Un suo predecessore, Luigi Damiano, nel 1995 aveva affermato: Da quando sono qui, da due anni e mezzo, non ricordo qualche connessione tra cave e camorra o malavita in genere.
Eppure il clan dei Casalesi per anni aveva dominato nel campo degli inerti e da diversi anni seminava rifiuti nelle 11
campagne casertane. In provincia di Caserta la corruzione delle forze dell’ordine è stata la costante che ha accompagnato l’espansione dei clan camorristici. Carmine Schiavone, uno dei primi pentiti della zona, ha così dichiarato: Noi mantenevamo una buona parte delle forze dell’ordine, carabinieri e polizia. A me alla sera mi veniva portata la “striscetta” dalla polizia, con le operazioni che avrebbero fatto il giorno successivo.
Un testimone oculare ha raccontato che a Casal di Principe tutti quelli che denunciavano le estorsioni subite venivano avvicinati il giorno dopo dai camorristi che gli riferivano di sapere che erano andati a esporre denuncia. Chi li informava se non le stesse forze dell’ordine? E in cambio, cosa offriva l’organizzazione criminale? Gli davamo ogni tanto qualcuno, qualche piccolo spacciatore, per fargli fare carriera.
Insomma, in provincia di Caserta per anni si sono avvicendati i peggiori apparati dello Stato a “contrastare” una delle criminalità più feroci d’Italia e, allo stesso tempo, uno dei sistemi politici locali più corrotti le ha aperto le porte dei municipi. Ora, alla luce delle ultime vicende giudiziarie, l’azzeramento dei vertici dei clan egemoni può tranquillizzarci? È stato fatto e si sta facendo tutto il possibile affinché quanto è avvenuto in questo territorio non si ripeta? Certo, si intravede la sconfitta militare e giudiziaria dei clan dei Casalesi, ma al tempo stesso bisogna constatare che le macerie dovute allo sgretolamento di quel dominio sono ancora lì sul campo. Se quelle macerie non vengono presto sgomberate, qualsiasi ricostruzione è difficile da pensarsi. Se c’è stato un “terremoto della legge”, se il senso dello Stato e delle istituzioni si è disintegrato, se si è accettata una dittatura politico-criminale che ha influenzato la politica, le 12
istituzioni, l’economia e il senso comune dei cittadini, come si pensa di mettere mano a questa gigantesca opera di ricostruzione? In che modo si vuole concretamente sostenere, con tutti i mezzi a disposizione, la “correttezza sovversiva”? Come può lo Stato pensare che il suo compito sia esaurito con il solo azzeramento fisico della struttura criminale camorristica? Come possono le sole amministrazioni locali riorganizzare gli assetti civici e sociali di queste comunità? Sono queste le importanti questioni che pone questo prezioso libro di Gianni Solino. Pagine che dovrebbero leggere attentamente tutti i rappresentanti dello Stato che a vario titolo hanno a che fare con questa realtà e più in generale con la provincia di Caserta. Il dilemma nodale è questo: se per quarant’anni un sistema criminale efficientissimo è riuscito a controllare l’intero territorio, a condizionarne le decisioni economiche e politiche, a comprometterne l’ambiente sociale e fisico, a influenzare i comportamenti dei singoli cittadini, a sconquassare le finanze comunali, a influenzare i comportamenti di alcune fasce sociali, si ritiene che tutto ciò sia stato risolto dalla sola azione militare e giudiziaria? È certamente un grande risultato aver sfilato (per il momento) le fitte trame delle reti dei Casalesi, ma non possiamo essere affatto sicuri che esse non si riprodurranno, perché le condizioni del loro successo solo in parte sono state rimosse. Come si pensa di superare i serissimi danni inferti alle coscienze, alla struttura urbanistica delle città e ai tantissimi abusi edilizi compiuti in un periodo in cui dagli amministratori stessi partiva l’incentivo ad aggirare la legge? Come si può porre riparo ai disastri compiuti nelle campagne? Come si deve affrontare il tema del circuito economico drogato dagli affari illegali? Sono domande serissime – a cui al momento non sono 13
state date risposte definitive – poste da chi in tutti questi anni non è stato fermo a guardare, ma ha lottato senza rassegnazione: Giovanni Solino dà voce allo stato d’animo di quella parte della popolazione che non ha voluto piegare la testa al dominio illecito dei Casalesi e che ora prende amaramente atto di quanto ci sia ancora da fare per ritessere le maglie di una società civile lacerata e disorientata. È la voce di chi chiede aiuto alle istituzioni centrali dinanzi a un peso troppo pesante da sopportare su spalle piccole e fragili. È la voce di chi chiede una seria e consapevole ricostruzione civile, finanziaria, economica e culturale. Se di guerra (alla camorra) si è trattato, dov’è la ricostruzione? Dove sono strumenti e risorse per le comunità vittime di questa guerra? Dov’è il “Piano Marshall” per il casertano? Chi sta pensando concretamente a un realistico “piano di rinascita” sociale, civile ed economico? Se queste domande rimarranno a lungo inevase il rischio è che la pianta del malaffare ritornerà a infiltrarsi nella società locale, in cui affiorerà il convincimento che violenza, soprusi e delitti siano per questa terra l’unica fonte di circolazione di ricchezza e opportunità. Mi auguro che chi di dovere risponda positivamente (e attivamente) a queste domande appassionate di Gianni Solino, prima che il tempo ci ritrovi a interrogarci sulle ragioni e sui modi in cui i clan dei Casalesi siano tornati in auge, a rimpiangere il tempo passato inutilmente a progettare ciò che si poteva (e si doveva) fare. Nella lotta contro le mafie resta fondamentale riuscire a dimostrare che la qualità della vita sia davvero più elevata senza la struttura del malaffare. Ciò si traduce in città più belle, in economie sane e in organi amministrativi trasparenti, ma concretamente visibili agli occhi della società civile. È questa la sfida più grande: convincere con i fatti che quelle che un tempo erano le reti dei vari Schiavone, 14
Iovine, Zagaria, Bidognetti, sono collettività che possono e devono richiedere di vivere con onestà e legalmente la propria azione democratica composta da teste pensanti di singoli cittadini. Per tutte queste ragioni, e per tutte queste serissime domande, il libro che state per leggere è un’opera necessaria.
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PROLOGO
Su “Il Mattino” di domenica 12 febbraio 2017, in pagina nazionale, Tina Cioffo riporta la cronaca di un brutto episodio accaduto all’istituto commerciale “Carli” di Casal di Principe. Un gruppo di quattro ragazzi, con fare spavaldo, si è introdotto nella scuola, pare alla ricerca della fidanzatina di uno di loro. Accortisi dell’intrusione alcuni docenti provano a bloccare il gruppo impedendogli di arrivare in classe. Fra i quattro ci sono due “vecchie conoscenze”, ex alunni della scuola, nipoti di uno dei fondatori del clan dei Casalesi, trucidato con una gragnuola di colpi dai suoi stessi sodali prima ancora della loro venuta al mondo. Il confronto con i professori che si frappongono fra il gruppo e il loro obiettivo diventa animato e uno dei ragazzi lascia intravedere una pistola. Fosse successo qualche anno fa, probabilmente la cosa sarebbe passata sotto silenzio, coi professori intimoriti e silenziosi e tutti a far finta di niente. Ma siamo nel 2017 nella Casale “liberata” dalla camorra e subito vengono chiamati i carabinieri. I quattro ragazzini si allontanano percorrendo a ritroso il corridoio della scuola, con la tipica camminata che tiene Genny Savastano nella serie televisa “Gomorra”, cioè ondeggiando a destra e sinistra. A un certo punto uno dei ragazzi leva il braccio in alto con la pistola come a lanciare un monito a tutta la scuola ma anche a tutta la città. La scena del gruppo compatto che scende ondeggiante lungo il corridoio fa pensare a una strana barca di cui il 17
braccio con l’arma levata in alto è la vela. Una metafora ambivalente. A guardarla da lontano, infatti, non capisci subito se la barca sta arrivando o se ne sta andando. Fuor di metafora, quel gesto simboleggia il crepuscolo di una camorra ormai destrutturata e in sfacelo oppure è l’alba di una nuova generazione di boss? Su questo angosciante interrogativo, due sere dopo, a “Casa don Diana”, bene confiscato alla camorra, si tiene una interessante riunione del comitato che porta proprio il nome del sacerdote simbolo della lotta alla camorra, ucciso nella sua chiesa a Casal di Principe il 19 marzo 1994.
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IL CRATERE
Casal di Principe, San Cipriano d’Aversa e Casapesenna, volendo utilizzare una tipica espressione della sismologia, rappresentano il “cratere” del fenomeno camorristico conosciuto come clan dei Casalesi. Parliamo di uno dei clan più potenti degli ultimi decenni, sia in termini “militari” con un numero spropositato di killer, soldati e vittime, sia in termini di pervasività e capacità di condizionamento e dominio di tutti o quasi tutti i settori della vita economica, politica, civile. A partire da Antonio Bardellino e Mario Iovine che ne furono i precursori a metà degli anni Settanta, solo a compilare l’elenco dei “capi” che in oltre trent’anni si sono susseguiti al comando del clan, viene fuori una lista lunghissima. Soltanto i collaboratori di giustizia, cosiddetti pentiti, sono oltre 50. L’azione martellante delle forze dell’ordine e della magistratura, specie a seguito del rigurgito stragista del 2008 – quando Giuseppe Setola, detto ’O cecato – seminò terrore e morte fra Casal di Principe e litorale domitio, ha raggiunto risultati davvero straordinari, con la cattura di tutti i latitanti e l’arresto di quasi tutti gli affiliati o almeno di quelli che avevano un certo “spessore” criminale. Questi risultati, sebbene non autorizzino nessuno ad abbassare la guardia, ed infatti proprio nel corso del mese di febbraio del 2017 abbiamo assistito alle ennesime operazioni dei carabinieri che hanno visto l’emissione di circa 60 ordinanze di custodia cautelare, ci consentono di guardare al fenomeno “clan dei Casalesi” con uno sguardo prospet19
tico, riuscendo finalmente a intravedere l’uscita dal tunnel. È appena il caso di precisare che tale fenomeno non si esaurisce certo nel cosiddetto “cratere”, la cui espressione ha senso solo da un punto di vista della genesi storica, in quanto tutti i comuni che sono intorno al cratere, visti come cerchi concentrici, presentano più o meno le stesse caratteristiche socio-economiche, politiche, culturali e criminali. Addirittura c’è il caso di Castel Volturno che catalizza in maniera esponenziale un po’ tutte le caratteristiche degli altri centri ad alta intensità criminale che, sommati a tutta una serie di problematicità territoriali, quali la presenza di un numero esorbitante di immigrati di oltre 70 etnie e nazionalità, arriva ad incarnare un caso davvero unico nel panorama nazionale. Diciamo che per semplicità e comodità espositiva e di rappresentazione, questo mio lavoro si concentra soprattutto sul “cratere” assunto appunto come emblematico di un ben più vasto territorio e di una ben più varia umanità, e diciamo anche che le osservazioni e le considerazioni che qui verranno svolte possono avere una loro validità e applicabilità rispetto a situazioni e territori che hanno avuto o hanno caratteristiche simili, cosa che sappiamo essere purtroppo abbastanza frequente in giro per la nostra bella penisola, specie nelle regioni meridionali. Una questione annosa che non trova soluzione nonostante ogni sforzo è quella del “numero” degli affiliati che abitano in questi tre comuni, gran parte dei quali, come si diceva, dimoranti ora nelle patrie galere. Ancora più complicata diventa la questione se si vuole considerare il numero di quelli che in vario modo hanno vissuto e prosperato all’ombra del clan, cioè le famiglie degli affiliati e tutti quelli che hanno con loro fatto affari nei modi più disparati. Quando diciamo che “la stragrande maggioranza” dei cittadini di Casale e degli altri comuni del “cratere” è costituita da persone per bene, non diciamo certo una bugia. 20
Provare a capire quanto è consistente quella minoranza di criminali e fiancheggiatori, nonché a conoscerla più da vicino, è però una vitale necessità se davvero vogliamo porci l’obiettivo non della “sconfitta” del clan, bensì della “cancellazione” della camorra dal nostro territorio, anche se non sono del tutto sicuro che sia davvero questo l’obiettivo che si vuole raggiungere. Conoscere e studiare il contesto socio-economico-culturale nel quale si è verificata la “resistibile ascesa” del clan, andando ben oltre la trita narrazione di cui siamo stati capaci finora è – ne sono convinto – assolutamente indispensabile se davvero vogliamo costruire una prospettiva nuova. Nessuno si sognerebbe di edificare una qualsiasi costruzione senza conoscere e indagare a fondo il terreno sul quale dovrà essere posizionata. Allo stesso modo, ricostruire la vita civile, economica, politica, culturale di questo territorio diventa impresa ardua se non si rimuovono le macerie di quello che è stato distrutto, e che ancora occorre finire di distruggere, e se non si stabiliscono giuste e condivise fondamenta. È importante, perciò, il racconto di quello che è stato il dominio del clan, quella che don Peppe Diana definì senza mezzi termini una “dittatura militare”. Lo è ancor più oggi che di quelle “vestigia criminali” non si avverte più l’incombenza, col rischio che le nuove generazioni non abbiano alcuna memoria delle tragedie passate. Questo racconto siamo in qualche modo riusciti a farlo e ancora dobbiamo insistere nel farlo, senza incorrere nell’equivoco che può essere ingenerato dall’altrettanta sentita necessità di raccontare anche il cambiamento, quanto di buono è stato fatto e continua ad essere fatto. Raccontare, perciò, le “terre di don Peppe Diana”, ovvero il cammino di cambiamento e rinascita fin qui compiuto, senza dimenticare il passato. Memoria e impegno. Perché il racconto di quello che è stato sia il più possibile completo dobbiamo osservare la realtà di queste terre da 21
diversi punti di vista così da coglierne i vari possibili aspetti. Il dominio assoluto della camorra – ché di questo si è trattato – ha permeato tutti gli ambiti del vivere civile finendo per condizionare finanche i comportamenti individuali e sociali. Un ignaro visitatore di queste terre nota come prima cosa la particolare conformazione urbanistica e abitativa, dove la presenza di altissime mura perimetrali con corredo di telecamere è una costante. Non solo le cosiddette ville bunker dei boss ma le case della maggior parte delle persone per bene che vivono in questi comuni. I boss dovevano proteggersi da ogni possibile “assalto”, vuoi da parte di clan avversi che da parte delle forze dell’ordine. Ma i cittadini normali, che cosa dovevano proteggere con quei muraglioni e quelle telecamere? È un tipico “comportamento emulativo” che ci dice quanto successo hanno avuto i boss tanto che sono stati imitati su questo e su tanti altri modi di fare. L’abusivismo edilizio, che interessa circa un terzo dell’intero patrimonio abitativo, è un altro esempio di questi comportamenti emulativi. Non c’è piano regolatore o licenza edilizia che tenga, costruire la casa che si vuole è un diritto da esercitare liberamente, specialmente se “ti metti a posto con gli amici”. Il Comune, ovviamente sprovvisto di qualsivoglia strumento urbanistico, non dice niente, e solo i fessi non ne approfittano. Diciamo pure che questa particolare versione della famosa “arte di arrangiarsi” ha visto il generale silenzio e l’acquiescenza da parte un po’ di tutti i soggetti deputati al controllo e alla repressione, e non mi pare che la magistratura abbia particolarmente brillato. Si è determinato così non il tipico fenomeno dell’abusivismo edilizio presente in varia misura in ogni città e regione, ma un fenomeno di massa che giocoforza diventa fenomeno sociale che forma, o meglio de-forma, le città. Non sono i camorristi che hanno commesso gli abusi, certo anche loro, ma sono tutti, o quasi tutti i cittadini, in uno sviluppo edilizio caotico e dai costi sociali enormi. Fra le tante eredità del periodo in cui la camorra ha re22
gnato lasciando a tutti i “sudditi” la possibilità o forse la necessità di “arrangiarsi”, quella dell’abusivismo di massa è di sicuro la più difficile da raccogliere e da gestire. Solo qualche numero, tanto per farsi un’idea. Parliamo di circa 3800 abitazioni così distribuite: Casal di Principe, 1500; San Cipriano d’Aversa, 2000; Casapesenna, 300. Il dato di Casapesenna è così “basso” solo perché anni addietro l’amministrazione comunale riuscì a mettere in campo una sorta di escamotage quale l’acquisizione al patrimonio del Comune di un consistente numero di abitazioni, quale alternativa all’abbattimento. Unica eccezione, paradosso fra i paradossi, è costituita proprio dalle ville bunker dei camorristi che, essendo state confiscate, seguono un regime giuridico diverso andando a far parte per legge del patrimonio indisponibile dei Comuni che ne divengono generalmente destinatari. Come dire, gli scempi assoluti dell’abusivismo, diventati ormai simboli di legalità – ma di questo parleremo dopo – vengono automaticamente condonati, mentre le case delle “persone normali” devono essere cancellate. Si tratta di oltre diecimila persone che rischiano di vedersi abbattuta la casa di proprietà, in genere unica e sola. Ovviamente, hanno tutti i torti e le colpe del caso. Non glielo aveva prescritto certo il medico di costruirsi una casa senza alcun permesso, ma se quello era il comportamento “normale” in quel dato contesto, qualche attenuante potremmo riconoscerla? Al di là del discorso sull’etica e sulla giustizia, una fantomatica “operazione legalità”, ovvero l’imposizione dell’abbattimento di tutti i manufatti abusivi, comporta una spesa stimata fra i 300 e i 500 milioni di euro, che per legge dovrebbe essere anticipata dai comuni, che non dispongono nemmeno della centesima parte di questa cifra abnorme, dato che sono tutti e tre in condizioni di dissesto finanziario. Ne vogliamo parlare? I “primi” ordini di abbattimento, circa 600, incombono e la magistratura ha già pronti gli avvisi di garanzia per quei sindaci che volessero sottrarsi alla messa in opera di questa assurdità che avrà 23
come “trascurabile” effetto secondario la produzione di diecimila sfollati, di cui ovviamente si dovranno occupare sempre i Comuni con le consuete risorse disponibili. Cartago delenda est, e guai a chi si opporrà. Pare che ai sindaci sia stato suggerito di “ricorrere alla cassa depositi e prestiti”. Semplicemente ridicolo.
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Negli ultimi anni in provincia di Caserta sono stati inferti duri colpi ai clan dei Casalesi, mettendo fine alla loro più che quarantennale impunità e lasciando intravedere la possibilità concreta di una loro sconfitta militare e giudiziaria. Ora, alla luce delle ultime vicende giudiziarie, l’azzeramento dei vertici dei clan egemoni può tranquillizzarci? È stato fatto e si sta facendo tutto il possibile affinché quanto è avvenuto in questo territorio non si ripeta? […] Se c’è stato un “terremoto della legge”, se il senso dello Stato e delle istituzioni si è disintegrato, se si è accettata una dittatura politico-criminale che ha influenzato la politica, le istituzioni, l’economia e il senso comune dei cittadini, come si pensa di mettere mano a questa gigantesca opera di ricostruzione? In che modo si vuole concretamente sostenere, con tutti i mezzi a disposizione, la “correttezza sovversiva”? Come può lo Stato pensare che il suo compito sia esaurito con il solo azzeramento fisico della struttura criminale camorristica? Come possono le sole amministrazioni locali riorganizzare gli assetti civici e sociali di queste comunità? Sono queste le importanti questioni che pone questo prezioso libro di Gianni Solino. Pagine che dovrebbero leggere attentamente tutti i rappresentanti dello Stato che a vario titolo hanno a che fare con questa realtà e più in generale con la provincia di Caserta. Se queste domande rimarranno a lungo inevase il rischio è che la pianta del malaffare ritornerà a infiltrarsi nella società locale, in cui affiorerà il convincimento che violenza, soprusi e delitti siano per questa terra l’unica fonte di circolazione di ricchezza e opportunità. (dalla Prefazione di Isaia Sales)
ISBN 978-88-6153-651-7
Euro 12,00 15,50 (I.i.) 9 788861 536517
Gianni Solino
nato a Villa di Briano (CE), sposato e padre di tre figli, lavora alla Provincia di Caserta. Fin da ragazzo si è interessato dei movimenti pacifisti e anticamorra, e continua ad impegnarsi nell’associazionismo, in modo particolare con “Libera”, di cui è referente per la provincia di Caserta, “Comitato don Peppe Diana” e “Scuola di Pace don Peppe Diana”. È stato per oltre dieci anni sindacalista provinciale della CGIL. Con la meridiana ha già pubblicato Ragazzi della terra di nessuno (2008) e La Buona Terra (2011).
IL CRATERE
GIANNI SOLINO,
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