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Graziella Danio Paolo Tondina
IL PIANO VASCA Aspetti del lavoro del tecnico di nuoto
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INDICE
INTRODUZIONE .......................................................................... 7 CAPITOLO 1
A SCUOLA DI (DAL) NUOTO ............................... 9 1.1 Perché il nuoto
CAPITOLO 2
IL NUOTATORE E I FONDAMENTI DELL’EDUCAZIONE MOTORIA ........................... 17 2.1 Unicità nell’uomo tra mente e corpo 2.2 Una legge del moto 2.3 Insegnare nuoto in prospettiva psicomotoria
CAPITOLO 3
L’AMBIENTAMENTO ......................................... 25 3.1 Presa di coscienza della condizione del proprio corpo in acqua 3.2 Integrazione dell’esperienza motoria nella condizione dell’uomo in acqua
CAPITOLO 4
L’INSEGNAMENTO DELLE NUOTATE ................. 49 4.1 Le abilità natatorie: apprendimento dello schema d’azione di base e della tecnica standard delle abilità natatorie 4.2 Le abilità natatorie: apprendimento della tecnica evoluta 4.3 Una concezione del movimento da correggere 4.4 Ancora sul metodo dell’esercizio tecnico
CAPITOLO 5
LA PRATICA SPORTIVA ..................................... 81 5.1 L’agonismo e gli altri modi di fare lo sport 5.2 Altri fondamenti dello sport competitivo 5.3 Lo sport come forma di esaltazione del valore morale
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CAPITOLO 6
IL TECNICO DI NUOTO ..................................... 95 6.1 Chi è oggi il tecnico di nuoto? 6.2 Principi della qualità 6.3 Da tecnico di nuoto a facilitatore
CAPITOLO 7
LA PRATICA SPORTIVA ................................... 117 7.1 Il nuoto per gli adulti e i “diversamente giovani” 7.2 Continuare a fare il tecnico o tentare nuove strade?
BIBLIOGRAFIA ...................................................................... 126
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INTRODUZIONE
L’importanza che ha il nuoto oggi, per la sua diffusione, la sua intrusività e il potenziale formativo di cui dispone, ricade sul tecnico come responsabilità. Al tecnico, pressato dalla società dello sport di massa, dello sport omologato, di quello orientato al profitto e all’immagine, va ancora chiesto di assumere una posizione conforme all’idea di uomo che è alla base dell’origine del movimento sportivo moderno e della società democratica? Questa assunzione di responsabilità non è di moda, perché anche il tecnico si è isolato e forse non è più chiaro qual è l’uomo cui deve riferirsi. La trasformazione della società occidentale, che si era fondata sul pensiero dell’uomo persona, portatore di valori e di diritti, e su una società intesa come integrazione delle varie ricerche del bene comune e che vedeva ogni compito umano come un servizio a questo bene, ha modificato ogni funzione sociale in nome dei meccanismi economici, abbandonando il tecnico sportivo ad un tecnicismo utilitaristico che ne svilisce tutta l’esperienza umana. La responsabilità sociale non è più di moda anche perché è troppo difficile nel campo delle relazioni e della formazione ottenere risultati spendibili sul mercato, specie se ci si vuole rivolgere a tutti, se si riconosce il beneficio di ogni tentativo e se si vuole comprendere il risultato anche di quello che non è riuscito. Più facile è invece offrire come premio la salute e il benessere o prospettare opportunità di protagonismo, piuttosto che confrontarsi con la responsabilità dell’educare, azione che troppo spesso è confusa con l’idea di dare agli altri la forma che vogliamo noi, e che invece consiste nel permettere all’altro, nella sua libertà, l’accesso alla realtà intesa come possibilità di bene e di realizzazione. Istruire, insegnare, allenare, che sono le funzioni ordinarie del tecnico, attraverso le quali si genera il rapporto con l’altro e in cui si concretizza la possibilità di influire sulla sua vita, non possono disgiungersi da questa responsabilità che allude sempre al valore della convivenza, della comunicazione, dell’esempio e degli oneri che il tutto comporta. IL PIANO VASCA
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In questi termini è immaginabile la cultura delle persone che fanno sport, patrimonio di esperienze delle stesse e contributo prezioso alla resistenza attiva contro la deriva della vita. Il testo si propone di offrire esperienze di questo quotidiano attivo per creare opportunità di conoscenza e di riflessione sul lavoro del “piano vasca”, per fornire un contributo ai tecnici di nuoto e un invito all’approfondimento del legame esistente tra la competenza del lavoro e l’influenza benefica sulle persone.
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CAPITOLO 2 IL NUOTATORE E I FONDAMENTI DELL’EDUCAZIONE MOTORIA
Il nuotare si è strutturato come pensiero partendo dalla pratica incentrata sulle gare di nuoto e lo sviluppo delle prestazioni, nel modo in cui si è espressa storicamente. Le esigenze formative sono nate in un secondo tempo e si sono sviluppate a partire dalla diffusione delle scuole di nuoto e dalla necessità di dare una cultura all’insegnamento e all’importanza sociale del fenomeno di massa. La contaminazione tra queste realtà ha dato vita ad un pensiero sincretico e spesso contraddittorio, tendente all’autonomia e all’autoreferenzialità, a volte motivato più da necessità di propaganda che di comprensione, cose che non ne hanno favorito le esigenze di coerenza intellettuale. Per avere una visione del movimento all’altezza della sua complessità sia tecnica che espressiva e sociale, è necessario fare uno sforzo di pulizia, il cui primo atto consiste nel collocare il nuoto e le attività connesse nell’ambito più grande dell’educazione motoria, a partire dalla concezione psicomotoria del movimento umano, che ne è l’espressione più completa. Le caratteristiche peculiari delle attività acquatiche ricevono, infatti, da questo innesto una notevole rilevanza formativa e una formidabile capacità di applicazione.
2.1 Unicità nell’uomo tra mente e corpo Il primo passaggio da compiere nel considerare l’uomo che si muove in acqua, consiste nell’assumere la consapevolezza che motricità e psichismo sono intrinsecamente uniti. Movimento e pensiero, infatti, sono aspetti indissociabili del funzionamento della stessa organizzazione che è il corpo e non solo durante la prima infanzia. Se nell’accrescimento, infatti, questo dato è reso evidente dal fatto che per sviluppare l’intelligenza il bambino usa il corpo, che la motricità è la sorgente di ogni conoscenza e che IL PIANO VASCA
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solo con il corpo si possono apprendere elementi del mondo e stabilire relazioni tra questi, nelle età successive è facile dimenticarlo1. Eppure, quando siamo ansiosi o angosciati, tremanti e non coordinati, quando ci è impossibile pensare se siamo troppo sotto pressione o siamo particolarmente produttivi perché eccitati, questo connubio è evidente anche da adulti. Ciò che siamo, le emozioni, i sentimenti, così come le attività intellettuali sono inseparabili dal corpo e da ciò che può fare, anche in termini di prestazioni agonistiche. La negazione di ciò, fondata su un errore molto antico ripreso dal dualismo cartesiano tra corpo e spirito2 è carico di conseguenze pratiche. Anche se la filosofia ha sorpassato questo concetto da molto tempo, la pedagogia e la psico-pedagogia non l’hanno fatto del tutto e si continua a falsare la realtà con una visione frammentaria, che separa l’educazione detta “intellettuale” dall’educazione detta “fisica”, dando alla prima una didattica di pura astrazione e alla seconda una pratica meramente meccanicistica che troviamo applicata continuamente anche nel nuoto.
2.2 Una legge del moto Un secondo passaggio concettuale, consiste nella presa di coscienza che l’uomo è un corpo pulsionale votato alla soddisfazione che gli deriva da un altro3 e che pertanto è l’attrattiva del beneficio da ricevere che fa da innesco all’azione. Di conseguenza la legge del moto è principio di piacere e legge di rapporto che si attiva alla nascita con la prima eccitazione al movimento che è l’allattamento. Il corpo-uomo si muove dunque “per piacere” e l’azione è il pensiero della soddisfazione in movimento, mentre la quiete corrisponde alla sua realizzazione, che ridà forza al moto successivo. L’errore nella legge è perciò sempre patologia del desiderio, i cui sintomi si manifestano come inibizione e difficoltà di controllo, e quindi sempre nella motricità, fino alla peggiore ipotesi che è la totale impossibilità all’azione4. L’orientamento di un certo pensiero alla quantificazione e al biologismo non ha tenuto affatto conto di questa realtà e con la pretesa di misurare e programmare le produzioni umane ha consegnato l’educazione motoria alla logica del condizionamento, dimenticando completamente la questione della libertà individuale, della capacità di scelta e del gusto del soggetto e caricando di 18
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tutto il peso la volontà, col risultato drammatico che il pensiero dell’uomo ha conosciuto nella modernità che ne ha visto la crisi. La questione dell’agire è quindi questione di mete e di desideri che sono già anticipazioni della soddisfazione da raggiungere e che si attuano sempre con l’apporto dell’altro, di conseguenza l’azione educativa deve essere sempre un atto di questa relazione incentrata sul contributo reciproco di maestro e allievo al rispettivo soddisfacimento nella libertà individuale.
2.3 Insegnare nuoto in prospettiva psicomotoria Insegnare nuoto dentro la relazione maestro-allievo e in prospettiva psicomotoria deve significare saper usare l’acqua per creare esperienze motorie che portino a integrare i dati provenienti dall’esterno con la mente cosciente e i contenuti dell’esperienza (rappresentazioni, pulsioni, comportamenti) perché il movimento si riorganizzi in modo funzionale al nuovo ambiente riconosciuto come benefico. Questa riorganizzazione tiene conto dell’intuizione unitaria dell’io corporeo che concepisce e interpreta il movimento5, garantisce l’alta adattabilità alle situazioni e permette l’ingresso della coscienza anche negli automatismi più complessi: intuizione frutto del pensiero che integra le afferenze sensoriali con il vissuto. Insegnare a nuotare vuole anche dire seguire in acqua le espressioni dell’io in azione che consistono nel localizzare le percezioni e i movimenti, agire la coordinazione generale e segmentale, orientare e sviluppare la lateralità, il rilassamento, il controllo posturale, l’equilibrio e favorire il controllo delle emozioni. Questo orientamento si integra perfettamente con gli insegnamenti tradizionali incentrati sull’acquisizione di abilità acquatiche e natatorie attraverso l’uso di strumenti didattici all’altezza del compito, quali: • l’apprendimento intelligente; • l’uso dei contrasti; • il rilassamento e la mobilizzazione differenziata. IL PIANO VASCA
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CAPITOLO 3 L’AMBIENTAMENTO
L’insegnamento del nuoto si articola su due aspetti distinti del lavoro: l’ambientamento e l’insegnamento del nuoto vero e proprio. L’ambientamento è l’attività che nasce dall’osservazione sconcertante che per l’uomo in acqua non c’è la possibilità immediata di fare movimenti che rispondano alle finalità che la volontà si prefigge. La difficoltà nasce dal fatto che l’uomo non è fatto morfologicamente per l’acqua e che il movimento umano è frutto di apprendimento e non di istinto, per cui è adattato alle caratteristiche del muoversi sulla terraferma, che sono diverse. Ne è prova proprio il fatto che le risposte motorie di un soggetto posto in acqua per la prima volta sono inefficaci indipendentemente dall’età (se si esclude il neonato) e dalle esperienze vissute1. Sono risposte quindi che fanno capo ad una motricità esclusa dal controllo corticale, tipiche di un comportamento “regressivo”, aspecifico2, che somiglia molto a quello prodotto da una caduta nel vuoto3. Scopo dell’ambientamento è quindi prima di tutto acquisire la capacità di controllare i movimenti in acqua.
Per farlo occorre: • rimuovere la sensazione di cadere attraverso un lavoro di presa di coscienza del galleggiamento e della condizione del proprio corpo; • integrare l’esperienza motoria nella condizione dell’uomo in acqua in modo da consentire il controllo dei movimenti volontari. Praticamente con l’ambientamento si tratta di ripercorrere in un processo guidato le tappe di sviluppo del movimento riadattando il sistema percettivo, riorganizzando l’equilibrio e adattando la respirazione all’ambiente acquatico, aprendo così l’accesso alIL PIANO VASCA
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l’apprendimento di movimenti finalizzati. Si tratta di un’esperienza prolungata nel tempo che porta oltre a padroneggiare i movimenti in acqua, a vivere desideri, superare paure, incontrare relazioni positive nella scoperta di nuove cognizioni di sé.
3.1 Presa di coscienza della condizione del proprio corpo in acqua Per rimuovere la sensazione di cadere occorre sostituirla nel cosciente con le informazioni riguardanti la posizione di stabilità del corpo in acqua. In pratica si tratta di sperimentare ed elaborare la condizione di galleggiamento, cioè rappresentarsi come sta il proprio corpo fermo in acqua, come sono le posizioni di ogni parte rispetto alle altre, quali parti sono immerse e quali emerse e quali le variazioni di posizione che conseguono a ogni singolo movimento. Per fare questo bisogna prima di tutto abbandonarsi alla forza di galleggiamento vincendo una parte della propria giustificata paura. Occorre cioè, grazie alla fiducia ispirata dall’istruttore, dalla progressione delle proposte e dal necessario amor proprio, fare in acqua tutti i movimenti che concede il proprio stato psichico, inizialmente stando ben saldi con le mani appoggiate o con i piedi sul fondo, e successivamente operando in questi modi finché il movimento non diventa naturale e disinvolto. È il contatto prolungato e attivo con l’acqua che, risultato innocuo, produce la desensibilizzazione alla paura che libera il movimento e permette di fare il passo successivo, consistente nell’affrontare l’immersione del viso. L’azione di immergere il viso, che ha per conseguenza la perdita dei riferimenti visivi, fa aumentare di nuovo la tensione, anche per la sensazione di soffocamento che produce il capo immerso e per il disagio inspiegabile per chi lo subisce, che provoca l’ingresso di acqua dal naso scatenato dal riflesso d’inspirazione4. Prima di esercitarsi nell’immersione occorre quindi inibire questo riflesso5, rendendo l’allievo cosciente della situazione, proponendogli movimenti di immersione solo del capo molto lenti e controllati e facendogli tenere l’attenzione sull’apnea per impedire l’atto inspiratorio. Superato l’ostacolo attraverso il controllo coordinativo volontario si ha la condizione necessaria per pro26
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cedere con le esperienze di presa di coscienza vera e propria delle informazioni che riguardano sia il corpo sia il mondo esterno, che sono associate agli esercizi di immersione e di galleggiamento e con le azioni volte ad ottenere un pieno controllo della respirazione che influisce sul rilassamento. Percezione È la funzione che permette di raccogliere informazioni relative a ciò che succede al corpo (propriocezione) e a quello che succede fuori dal corpo (esterocezione). Gli analizzatori sono i sistemi di organi deputati a questa raccolta che avviene quando il sistema nervoso centrale riconosce le informazioni afferenti e attribuisce loro un significato che corrisponde ad una cognizione. I dati ricevuti dagli analizzatori sono però riconosciuti solo quando un numero adeguato di stimoli di un certo tipo è giunto alla coscienza6 che elabora il continuo accostamento tra sensazione e conseguenze dando al dato il significato che diventa noto all’io. Variazioni rilevanti dello stato solito del soggetto, come capovolgimenti, forti accelerazioni, oscillazioni, cadute ed elevazioni, rendono però la stimolazione sensoriale illeggibile, finché anche la situazione che fa da contesto a queste stimolazioni non sia diventata ricorrente e quindi riconosciuta con un adeguato numero di tentativi che ne permettono l’interpretazione. Per questo nel primo approccio con l’acqua non è possibile far conto sulla percezione e usarla per regolare il movimento. Il corpo, infatti, subisce la spinta di galleggiamento, non ha l’appoggio stabile dei piedi, continua a cambiare posizione e in questo stato riceve una miriade di stimolazioni sensoriali che non può intendere, subendo una sorta di black out della percezione. Una volta che si è reso interpretabile lo status del corpo in acqua, invece, tutti i dati diventano leggibili e si può quindi cominciare ad affrontare il lavoro percettivo vero e proprio che consiste nel riaprire il flusso di informazioni normali e imparare a discriminare dettagliatamente le percezioni dello stare in acqua, per farne il corredo indispensabile da utilizzare per il controllo dell’azione e l’apprendimento intelligente. In acqua, infatti, i riferimenti terrestri creano problemi e le possibilità percettive più utili non sono attive. Per questo, per sapere cosa fare occorre avere un quadro delle condizioni degli analizzatori in acqua. IL PIANO VASCA
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4.1 Le abilità natatorie: apprendimento dello schema d’azione di base e della tecnica standard delle abilità natatorie L’acquisizione dello schema d’azione e della tecnica standard dei movimenti del nuoto sono contenuti pertinenti della scuola di nuoto. L’insegnamento va sostenuto, come abbiamo visto, con l’appoggio dell’apprendimento intelligente, che coincide con la proposta di schemi d’azione variati secondo i parametri che contraddistinguono l’azione: coordinazione, velocità, combinazione di azioni, ritmo, equilibrio. Una volta raggiunto lo schema di base del movimento vanno perseguite le caratteristiche e le qualità che corrispondono alla tecnica standard: capacità di variazione, efficacia del gesto, ampiezza e continuità. L’efficacia del gesto è la rispondenza del movimento alla sua finalità, l’ampiezza è rappresentata dal grado di apertura degli angoli articolari del movimento, mentre la continuità si evidenzia nella scomparsa di ogni interruzione nel compimento del movimento. Le abilità natatorie da apprendere sono i quattro stili, le virate, le partenze più tutti quei movimenti legati alle diverse discipline natatorie di cui dispone la competenza del tecnico: bicicletta, remate, passaggi, tiri, palleggi, spostamenti, capovolte rovesciamenti, tuffi dall’alto, coreografie.
4.1.1 Stile libero Lo stile libero è la tecnica più complessa nonostante sia la più diffusa ed efficace. Gli elementi di complessità di apprendimento sono legati al movimento che si coordina su tre piani, alla difficoltà della simmetria e alla respirazione laterale. Un buon approccio al movimento, dato per scontato l’apprendimento della gambata, è la ripetizione di un numero limitato di movimenti delle braccia aumentando progressivamente il numero dei controlli.
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Scheda 1 Posizione
Testa in asse, sotto le braccia corpo allungato, arti posteriori distesi
Coordinazioni
Alternata: quando la mano si posa sull’altra, l’altra comincia a spingere l’acqua, quando la mano si avvicina all’altra l’altra comincia a spingere Continua: nuotata a braccia collegate, mentre il braccio avanti spinge l’acqua, l’altro torna avanti in relazione, quando un braccio tocca la testa, la testa gira per respirare, quando la mano arriva sulla coscia la testa gira per respirare, prima che il braccio recuperi la testa rientra in asse, le mani spingono l’acqua verso il basso e verso dietro, le mani spingono l’acqua verso il basso, verso fuori e verso dietro
Gambe
Posizione gambe allineate al corpo, piedi in massima estensione, rotazione interna dei piedi, il movimento è delle anche, i glutei alzano la coscia, i quadricipiti spingono la coscia verso il basso, i movimenti sono alternati; i piedi si scambiano la posizione; i piedi si sfiorano quando si incontrano; il movimento è continuo
Evoluzione degli schemi d’azione
Braccia toccano la testa, le spalle ruotano come una sfera dentro un’altra sfera, una mano tocca la coscia poi l’altra mano, alla fine la mano si ferma sulla coscia opposta, la mano riparte lentamente, le mani recuperano vicino al corpo col gomito alto, la punta delle dita sfiora la superficie, il corpo ruota prima del recupero e libera la spalla dall’acqua
4.1.2 Dorso Il dorso è facilitato come movimento nella respirazione ma la posizione in cui manca il controllo visivo è una difficoltà da non trascurare. La soluzione didattica si trova nell’esercitarsi passando dal galleggiamento al movimento e dal movimento al galleggiamento, con la cura di non perdere la posizione e di eseguire movimenti sempre lenti con il controllo tattile. Un altro aspetto importante nell’insegnamento è iniziare con l’interruzione del movimento delle braccia in alto per stabilizzare la posizione ed evitare che si utilizzi la trazione per mantenere la posizione. L’apprendimento del dorso dovrebbe seguire le direttrici, posizione (testa molto immersa, addome in superficie, gambe tenute sotto), movimenti degli arti senza perdere la posizione, movimenti del dorso con trazione parallela alla superficie e recupero perpendicolare, e coordinazione (parte prima il braccio in alto, finiscono insieme). IL PIANO VASCA
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Scheda 2 Posizione
Testa appoggiata, sguardo verso l’alto, pancia fuori, gambe sotto
Coordinazioni
Alternata: un braccio spinge l’acqua lateralmente come un remo, l’altro recupera perpendicolarmente, parte prima il braccio in alto e terminano insieme, il braccio che spinge l’acqua è contratto e forte, il braccio che recupera è allungato e rilassato. Continua: parte il movimento del braccio alto, poi il recupero: i due movimenti terminano insieme
Gambe
Posizione gambe allineate al corpo, piedi in massima estensione, rotazione interna, movimento delle anche, i piedi rompono la superficie continuamente, le ginocchia non escono mai
Evoluzione degli schemi d’azione
Il braccio sfiora l’orecchio e cade in acqua il gomito è steso, il movimento è della spalla; la mano è ruotata, il palmo sente la superficie che spinge
4.1.3 Rana La difficoltà principale della rana è la percezione della posizione efficace dei piedi, perché la rotazione in flessione delle caviglie, e la percezione della spinta dei piedi sono elementi poco usuali per ottenerli immediatamente. È bene prima di proporre lo schema d’azione delle gambe istruire gli allievi sulle posizioni dei piedi facendogli ripetere più volte sia la flessione che la rotazione rendendoli volontari e percepiti. L’impostazione delle mani va semplificata proponendo una breve spinta verso fuori e verso dentro, mentre per il movimento completo l’attenzione va posta sulla coordinazione braccia testa gambe (prima le braccia spingono, poi si respira, poi ci si mette in posizione idrodinamica, poi si spinge con le gambe e ci si ferma).
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Scheda 3 Posizione
Testa in asse, sotto le braccia, corpo allungato; arti posteriori distesi
Coordinazioni
Braccia-testa-gambe: allineamento
Gambe
Flessione della coscia, rotazione e flessione dei piedi; spinta dell’interno del piede verso fuori e poi verso dentro
Evoluzione degli schemi d’azione
Le mani spingono verso fuori, palmi verso l’esterno, mignoli in superficie, le mani poi spingono in basso si uniscono i palmi poi si stendono gli arti superiori, quando le mani si uniscono si respira, mentre le mani vanno avanti si abbassa la testa, quando le braccia sono estese si calcia verso fuori/dentro
4.1.4 Farfalla La difficoltà della farfalla non risiede nel movimento, che è semplice dal punto di vista della coordinazione, ma nell’efficacia della trazione. Senza questo effetto non c’è il tempo per coordinare i movimenti e ci si muove con fatica perché l’azione comporta il sollevare le braccia e farle cadere anziché spingere l’acqua per avanzare e poi riportare le mani avanti. È allora utile nell’apprendimento della farfalla iniziare dal movimento delle braccia senza la respirazione che complica la coordinazione e toglie l’attenzione alla parte importante e senza la gambata che si sovrappone al movimento delle braccia ingombrandolo, tenendo l’attenzione da subito sull’efficacia della spinta delle mani sull’acqua. Il secondo passaggio sarà inserire la respirazione nel rapporto testa braccia, in cui la testa deve immergersi appena dopo l’uscita dall’acqua delle mani. Nel terzo passaggio si proporrà l’ondulazione prodotta dalla spinta del petto verso il basso che scende sotto il bacino producendo l’innalzamento di questo e infine la coordinazione delle gambe che vanno inserite nel movimento ondulatorio, primo colpo prima che il piede esca dall’acqua, secondo colpo immediatamente dopo e coordinato al finale della spinta.
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Lo sport agonistico Lo sport agonistico è invece radicato nell’esperienza soggettiva universale che dice all’uomo che è fatto per qualcosa, che la vita domanda un senso e che c’è una direzione da prendere. Questa direzione è attrazione, aspirazione, ricerca, desiderio, pulsione che spinge a conoscere e ad esigere soddisfazione, tanto da fare dell’atleta e di chi vive con lui, come i tecnici e i dirigenti, delle domande viventi di realizzazione. Questa ricerca di soddisfazione è squilibrio, lotta, passione, “agon”, che in greco significa appunto “tensione”: stessa radice, ma visione opposta rispetto al termine agonia che condanna il lavoro all’insuccesso. La tensione è verso una meta che è compimento di ogni impresa affascinante, riuscita dell’azione com’è stata pensata, costruita e cercata nella sua preparazione che è l’allenamento. Il raggiungimento della meta è perfezione, come esprime bene il latino “perfectus”, participio di “perficio” che significa appunto “compiere”, indicazione di colui che ha concluso bene il suo lavoro e merita, finalmente appagato, il suo riposo. “Più in alto, più forte, più veloce” (Citius, altius, fortius) il motto olimpico, rappresenta bene questo aspetto di perfezione da raggiungere. È il desiderio di riuscire, proprio del cuore dell’uomo che cerca e impone all’uomo-atleta di raggiungere la perfezione, aprendo il conto con tutti i fattori del mondo reale: gli altri, i propri limiti, gli affetti, le forze in campo, e costringendolo ad uno sguardo più serio che lo aiuta a diventare più vero. Più l’impegno dell’atleta è coerente alla sua aspirazione più è capace di trasformare l’iniziale ignoranza di sé, accompagnata dall’arroganza che cerca il confronto per affermare la propria superiorità, nell’umiltà del campione consapevole dei mezzi, del prezzo pagato, del valore di quanto fatto e del significato degli altri per la sua soddisfazione. In questo principio benefico, che non si può essere contenti da soli e quindi si trattano anche gli altri, l’agonista è disposto a tutto per la piena soddisfazione e coinvolge tutte le risorse disponibili: tempo, fatica, coraggio, intelligenza, mezzi economici, facendo pensare nella sua massima espressione, al monaco, colui che per raggiungere il premio intravisto6 ed essere veramente se stesso fa il possibile, compreso rinunciare a tutto il resto. Nel mondo d’oggi siamo invece pervasi da una idea di perfezione criminale, che vorrebbe designare uomini senza contraddizioni che non fanno errori e vincono quando vogliono. Si tratta di IL PIANO VASCA
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un’idea perversa e falsa, ma che si dimostra sempre capace di far cadere anche i più grandi dopo averli abbandonati all’angoscia7 e destinati alla dimenticanza.
5.2 Altri fondamenti dello sport competitivo 5.2.1 Dilettantismo Un altro fondamento dello sport competitivo è il concetto di dilettantismo, pilastro costituente del movimento olimpico. Il nuoto è sport tipicamente dilettantistico, ma si fa fatica a capire in che senso, dato il cattivo uso che si fa di questo termine. A “dilettante” associamo facilmente l’idea di competenza scarsa, superficialità e impegno saltuario, mentre “professionista” ci fa presumere immediatamente qualità, perizia e prestazione elevata. Non pensiamo così per esperienza, infatti, abbiamo convinzioni diverse se immaginiamo concretamente le abitudini professionali di idraulici, medici, insegnanti, ecc., ma condizionati dalle dottrine economiche8 che hanno avuto il sopravvento nel modo di vedere il mondo. Cercando di definire l’intera realtà sensibile in termini di economia, è stato assegnato un valore quantitativo ai fenomeni per misurarli “scientificamente”, e posto il denaro, forma astratta capace di descrivere questo valore, come unità di misura di ogni aspetto della vita. L’idea derivata da questa concezione è che la gerarchia dell’importanza sia data dall’utile; pertanto ciò che si fa per diletto vale per forza di meno di ciò che si fa per guadagno. Pensavano esattamente l’opposto i padri dello sport che si muovevano con motivazioni idealiste, filantropiche e religiose e che vedevano nel dilettante l’interprete di un agire disgiunto dagli appetiti più “volgari”, e reso “puro”9 dalla liberazione delle necessità di un profitto economico. Il gesto atletico era per loro l’azione di una “sacra rappresentazione” che onorava l’umanità nel suo essere totalmente gesto simbolico ed estetico. In questa visione l’atleta era paradigma dell’uomo uscito dall’angoscia della sopravvivenza grazie alla civiltà, colui che nel rispetto di un codice d’onore condiviso tra pari a salvaguardia del prestigio reci86
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proco, agiva al di sopra dell’esito, come l’eroe perdente della mitologia greca, il cavaliere medioevale o il martire cristiano, per il gusto di amabile soddisfazione che si prova nell’accettare una sfida e nel metterla in atto. Da questa miscellanea di pensieri nasceva l’appellativo di “amateur”, da cui la traduzione italiana non del tutto etimologica di “dilettanti”10, con il quale si distinguevano gli inglesi dell’Ottocento che, raccolto l’insegnamento sullo sport dei college, dove era stato scoperto il potenziale formativo delle pratiche atletiche11, volevano superare la barbarie del professionismo dilagante. Il professionismo dell’epoca, ben lontano dal lavoro a contratto con garanzie di oggi, consisteva in forme di esibizione di tipo fieristico, accompagnate dalla pratica diffusissima delle scommesse, attivate da offerte di premi in denaro e di oggetti di valore per gli sfidanti. Queste pratiche alimentavano l’abitudine allo sfruttamento di poveracci, alle truffe; fomentavano risse, combine, dilapidazioni di patrimoni e facevano la fortuna di scaltri bookmaker e astuti organizzatori. Il movimento degli “amateur”, nato prima nell’atletica e nel ciclismo e in un secondo tempo approdato al nuoto, si affermò attraverso un proselitismo “spiritualista” che voleva dare un senso elevato alla competizione e risvegliare il rinnovamento morale della società, credendo di vedere in questo anche un ritorno agli ideali classici della Grecia. In realtà in Grecia non si erano mai sognati tali ideali, tant’è che il vincitore dei giochi antichi era premiato simbolicamente solo con una corona di foglie di alloro, ma con la sua vittoria acquistava il lasciapassare per una vita di agi e di successi nella sua città. Il nuovo credo, invece, impersonava alla perfezione i valori della classe dirigente dell’Impero britannico, una classe sempre più borghese, educata al puritanesimo e alla filantropia, pronta al servizio e bisognosa di qualità decisionali e morali per rispondere alle responsabilità del suo ruolo egemone nel mondo12. Inizialmente dilettanti e professionisti del nuoto convissero con una certa serenità. Le prime associazioni di società, la Metropolitan Swimming Association (MSA) e la Swimming Association of Great Britain (SAGB) concedevano la partecipazione comune alle gare, con la clausola vincolante per i dilettanti di lasciare ogni premio al proprio club, finché le differenze di vedute e forse anche di risultati, non spinsero allo scontro. Fonte della discordia fu il dissidio sullo status di “amateur” nell’ambito del quale, tra IL PIANO VASCA
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l’altro, ci si chiedeva se era lecito l’allenamento o se i bagnini, che nel loro lavoro si esercitavano per forza nella pratica natatoria, acquistando in questo modo dei vantaggi sugli altri, potevano essere considerati dilettanti veri. Dopo la nascita di un’associazione esclusivamente professionistica, la Professional Swimming Association del 1881 e una divisione tra società intransigenti che confluirono nell’Amateurs Swimming Union13 e società più concilianti che si identificavano nella Swimming Association of Great Britain, nel 1886 si tornò ad un’unica federazione dilettanti, l’Amateur Swimming Association (ASA), che sancì la separazione definitiva tra sportivi. I puristi del dilettantismo si identificavano in gesti come quello che fece Horace Davenport14 nel 1876, che avendo vinto per la terza volta consecutiva la prova del miglio del campionato del SAGB e acquistando in questo modo il diritto a portare a casa la coppa in palio, fu così imbarazzato che si offrì di pagare di tasca sua la metà della somma necessaria per l’acquisto di un nuovo trofeo15. Dopo il nuovo assestamento istituzionale, il professionismo ebbe un decennio di splendore e superiorità di risultati, ma col tempo sparì dall’orizzonte, lasciando campo al nuovo ideale che portò i Campionati ASA ad essere la più grande manifestazione di nuoto del mondo e il modello da esportare dappertutto. Il successo del dilettantismo fu tale che, oltre a dare la paternità al movimento di De Coubertin, sfociato nella nascita dei Giochi Olimpici (1896), diede all’Amateur Swimming Association una vittoria schiacciante nel 1908, quando nacque la Federation Internationale de Natation pour Amateur (FINA) per curare l’organizzazione del nuoto mondiale, che adottò in tutto e per tutto i suoi regolamenti. L’affermazione pubblica dei principi del dilettantismo avviò però anche un graduale cedimento verso un professionismo implicito, prima con la concessione dell’acquisizione da parte dell’atleta di premi sempre più prestigiosi, poi con l’affermarsi di rimborsi, mancati guadagni, posti di lavoro fittizi, dilettantismo di stato, inquadramento in gruppi militari, che pian piano ha ribaltato le prospettive iniziali. Oggi l’ideale degli “amateur” non è percepibile16 se non in qualche accorato appello al fair play, e probabilmente nella sua origine non è più conosciuto, sebbene gran parte dello sport continui a chiamarsi dilettantistico. Viviamo nel paradosso di dilettanti miliardari e di un “mer88
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cato della prestazione” allargato ad ogni livello e ad ogni età, che ha perso il senso della performance e il gusto per la pratica agonistica. L’effetto osservabile è l’esaltazione morbosa dei vincitori, l’annullamento della competizione come evento e la sparizione del racconto di sport come testimonianza di umanità, in un sistema sportivo sempre pronto alla delusione e all’incomprensione della complessità che ha portato ad avere la stragrande maggioranza dei risultati internazionali sostenuta dall’uso di sostanze dopanti.
5.2.2 Sportività Un terzo fondamento dello sport competitivo è la nozione di “sportività”, qualità sbiadita dal cattivo uso che si fa del termine che la esprime. Tutti oggi sono in qualche modo sportivi: chi fa attività fisica in ogni forma, chi fa della vita un gioco, chi vive da eterno giovanotto, chi non si perde una partita in Tv e persino chi si veste in un certo modo. Sportività non tratta più in esclusiva valori atletici, ma qualifica signore disinvolte, amanti del divertimento, tifosi della domenica e tra l’altro anche pericolosi fanatici. Troppo per un aggettivo che nei primi anni della sua vita è stato al centro di una vicenda che voleva essere una rivoluzione del modo di vivere. I promotori delle pratiche atletiche con “sportività” intendevano definire le qualità morali dell’atleta che vedeva nello sport “qualcosa di più dell’igiene” perché “lotta e per conseguenza preparazione voluta, e ragionata”. L’atleta come uomo ideale, infatti, doveva essere sì spinto dal “desiderio ardente della vittoria” e dal “godimento morale che ne deriva”17, ma doveva anche possedere altre prerogative: “Il disinteressamento nell’ambizione, la lealtà nei mezzi, l’energia perseverante e disciplinata nella preparazione, l’audacia nella lotta, la modestia nella vittoria, la serenità nella disfatta”18. Un grande allenatore di nuoto di inizio secolo, Luigi de Breda Handley, tra l’altro giornalista e scrittore curatore della sezione dedicata al nuoto dell’Enciclopedia Britannica, era così sicuro di queste idee che le volle scritte sull’ingresso della piscina dove allenava gratuitamente le ragazze del New York Women’s Swimming Association (WSA), prima società di nuoto per sole donne. Il suo motto riassuntivo diceva: “La vera sportività è la vittoria IL PIANO VASCA
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più grande” e le sue atlete, nuotatrici del calibro di Gertrude Ederle, Aileen Riggin, Ethelda Bleibtrey e Marta Norelius19, che di vittorie se ne intendevano, dovevano vedere quelle parole ogni giorno prima di entrare in acqua, per farsele entrare bene in testa. Eppure, anche all’epoca, gli episodi di vera antisportività erano all’ordine del giorno. L’americano Harold Drew, velocista di colore, primo nelle eliminatorie dei 100 metri piani alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912, in occasione della finale fu chiuso negli spogliatoi dai suoi stessi dirigenti perché vincesse un americano, ma bianco. Dato che la medaglia era assicurata, perché gli atleti Usa in finale erano cinque su sei e il sesto concorrente era assai modesto, nessuno si fece lo scrupolo, il caso fu insabbiato senza conseguenze e Drew fu dimenticato dalla storia. In un articolo del WSA News, rivista della squadra che Handley stesso curava, pubblicò i “dieci comandamenti non scritti dello sport”, redatti ad inizio secolo con minor successo dall’editore sportivo Hugh Fullerton, che spiegavano cosa fosse quella sportività che considerava come la vera vittoria. Dicevano così: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
non abbandonare la prova; non cercare alibi; non ti gongolare nella vittoria; non ti sentire mai perdente; non cercare vantaggi illeciti; non chiedere pronostici e non essere propenso a darne; sii sempre attento a non mettere in ombra il tuo avversario; 8. non sottostimare l’avversario né sovrastimare te stesso; 9. ricorda che la competizione è un gioco e chi pensa altrimenti è uno stupido e non uno sportivo; 10. onora la competizione fatta, chi si è battuto lealmente e con tutte le forze vince anche quando perde. Questa attenzione, quasi religiosa anche nella forma, pretendeva dall’atleta una sottomissione alla verità dei fatti e il riscatto dalle tentazioni di una realtà disposta a tutto per l’affermazione. Contemporaneamente sanciva il primato dell’interiorità sull’esteriorità, fondando la riuscita sportiva sull’atto virtuoso: l’unico gesto umano degno di vera ammirazione. Ma i propositi, anche buoni, non sono mai sufficienti a far cam90
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biare. Per imparare qualcosa occorrono uomini e donne in carne ed ossa da guardare ed ammirare e in cui riconoscere che è più bello essere fatti in un certo modo piuttosto che in un altro. Tra questi uomini ci fu senz’altro il nuotatore australiano, Cecil Healy. Selezionato per le Olimpiadi di Londra del 1908 aveva dovuto ritirarsi perché non poteva pagarsi il viaggio. A Stoccolma, nella stessa Olimpiade di Drew, andò per disputare i cento metri stile libero, dove però in semifinale accadde un pasticciaccio. Gli americani, giunti in piscina in ritardo per problemi non legati alla loro volontà, furono squalificati e tolti dall’ordine di partenza. Healy, che a questo punto diventava il favorito, non volle accettare il vantaggio e si unì alle rimostranze degli esclusi, minacciando di ritirarsi nel caso non fossero stati riammessi. Il suo atteggiamento risoluto convinse la giuria a cambiare posizione e a far disputare una gara aggiuntiva per i ritardatari, tra i quali c’era anche il sicuro vincitore, l’hawaiano Duke Kahanamoku, che difatti si aggiudicò l’oro olimpico proprio davanti ad Healy ed entrò con prepotenza nella storia del nuoto. Mentre Kahanamoku si riconfermò vincitore nei giochi successivi di Anversa, per Healy, purtroppo, non ci fu nessun giorno di rivincita perché due anni dopo, partito soldato per la Guerra che cancellò l’edizione numero sei dei giochi, fu fermato per sempre da una raffica di mitra. Oggi i regolamenti rendono impossibile un gesto come quello di Healy: l’atleta è costretto in una logica che ha scavalcato le decisioni del singolo e forse è ancora più pressante l’imperativo categorico dell’affermazione di sé, perché dà l’impressione di garantire una traccia della propria esistenza. Questa visione si è diffusa anche nello sport giovanile e perfino infantile. Non è difficile vedere genitori (tecnici e dirigenti) che preferiscono fare o accettare soprusi, scavalcare rapporti, dimenticare lealtà e verità, per avere immediatamente, o immaginare di ottenere, almeno per un momento, la sensazione del successo. Si tratta di illusione, dato che tutte le affermazioni si dimenticano immediatamente, mentre rimangono gli effetti dell’inevitabile insuccesso, che sono duri e irrimediabili, nella mentalità che forse senza ben sapere si continua a sostenere. Per questo è importante rilanciare il messaggio della sportività, distintivo dell’atleta agonista e orientamento di chi vuole che lo sport sia lo strumento di formazione individuale che è capace di essere e anticorpo contro una mentalità deprimente e distruttiva.
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CAPITOLO 6 IL TECNICO DI NUOTO
6.1 Chi è oggi il tecnico di nuoto? In ogni piscina si riconoscono per la loro divisa, il block notes in mano e un sorriso a volte tirato. A volte compaiono su un tabellone appeso nell’atrio con le loro fotografie e sotto c’è la didascalia dei corsi di cui sono responsabili. A volte invece non hanno neppure la divisa e sembrano atleti o “utenti” del nuoto libero che nuotano un po’ meglio degli altri quando sono in acqua. A volte sono seduti sui blocchi e osservano l’acqua e aspettano il turno della scuola nuoto sorridendo poco, perché gli istruttori non sorridono spesso. A volte si incontrano in segreteria mentre danno consigli e ascoltano con pazienza le opinioni che tutti, quando entrano in una piscina, esprimono sull’acqua, sul nuoto e sugli… spogliatoi. A volte… Ma chi è il tecnico? Si ritiene che un corso di 50 ore di teoria e 50 ore di tirocinio siano sufficienti per preparare una figura così complessa, un personaggio che si deve occupare di neonati, bambini, adulti, anziani, diversamente abili e gestanti. Deve saper lavorare con persone di diversa età, estrazione culturale e tecnica, deve saper resistere alla fatica, essere elastico sugli orari e accettare di buon grado la gavetta e il rispetto della gerarchia. Capita che debba sapersi adeguare a società sportive molto efficienti dove conta la relazione con il “cliente”, dove sono importanti i risultati sia tecnici che economici; oppure saper gestire situazioni complesse, con tanti altri istruttori sul piano vasca che gestiscono ognuno a suo modo la corsia e i corsi. Ebbene di fronte a queste situazioni, l’istruttore, con il suo bagaglio di formazione, entra in questo mondo. Un mondo che conosce se ha un passato da atleta, o che appare molto “faticoso” se non ha questa esperienza. Atleta-istruttore di nuoto Non è semplice il passaggio da atleta ad istruttore di nuoto. Perché cambiano i modelli di riferimento e cambia la visione. Un atleta che si allena, ha in testa il tempo dell’ultima gara effettuata, IL PIANO VASCA
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