Il ragazzo nel pozzo

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IL RAGAZZO NEL POZZO

“ Ho conosciuto il bene e il male, il peccato e la virtù, la giustizia e l’ingiustizia. Ho giudicato e sono stato giudicato. Sono passato attraverso la nascita e la morte, l’inizio e la fine, la fine e l’inizio, attraverso la gioia e il dolore, il cielo e l’inferno. Alla fine ho capito che io sono nel tutto, che il tutto è in me.”

Gianmateo Pepe, nato a Foggia nel 1958, ha esercitato la professione di avvocato. Nel 1990 si trasferisce a Vercelli dove attualmente vive e lavora con funzioni direttive nella Pubblica Amministrazione. Da sempre legato alla sua città di origine segue con viva e presente attenzione le vicende che ad essa fanno riferimento.

Gianmatteo Pepe

IL RAGAZZO NEL POZZO

M. Magnifico - G. Pepe

Euro 16,50 (I.i) 9 788861 536951

ISBN 978-88-6153-695-1

IL RAGAZZO NEL POZZO Michela Magnifico

“ Erano gli anni a ridosso delle più grosse operazioni di polizia e dei più gravi fatti di cronaca che la città e la provincia avevano vissuto. Anni bui e duri. Anni che ho dovuto imparare a conoscere in fretta attraverso gli occhi, le parole e i fatti di chi ne aveva fatto la storia, iniziando a viverla in maniera diversa.”

Michela Magnifico, nata a Cerignola (Foggia) nel 1976, dal 2000 è giornalista presso l’emittente televisiva “Telefoggia”. Esperta di cronaca nera e giudiziaria, si è occupata di alcune tra le pagine più buie della storia della Capitanata. Con la meridiana ha già pubblicato 6 novembre 1992. Il coraggio di un uomo (2016).

ISBN 978-88-6153-695-1

9 788861 536951

Euro 16,50 (I.i)


Michela Magnifico

Il Ragazzo nel Pozzo Prefazione di Michele Emiliano Postfazione di Massimo Lucianetti

edizioni la meridiana


Indice

Prefazione di Michele Emiliano.................................................. 9 Introduzione............................................................................... 13 Il cadavere nel pozzo nelle campagne di Cerignola................ 17 La nascita della mafia a Foggia................................................. 29 Tra le montagne del Gargano: racconti di faide, latitanti e fiumi di droga sbarcati sulle coste...................................................... 43 La follia del male....................................................................... 57 Terra di latitanti......................................................................... 67 Storia di un poliziotto............................................................... 77 Conclusioni................................................................................ 81 Postfazione di Massimo Lucianetti............................................ 83


Introduzione

Non puoi non cambiare la visione dell’insieme quando incontri qualcuno che ti mette di fronte a domande e perché. Quelle domande e quei perché che non ti sei mai posto fino a quel momento. A quel preciso momento in cui, quell’incontro, ha cambiato non solo la tua vita professionale ma anche quella umana. A me è capitato e ora ho deciso di raccontarlo a voi, perché non c’è niente di più speciale che consegnare l’anima di un evento che ha cambiato la propria vita a chi ha la bontà e la genuinità di leggere i tuoi scritti. I tuoi racconti. Il tuo essere. Perché in ogni scritto è consegnata una parte di te stesso. A me è capitato nell’ottobre del 2000. Ho incrociato nelle aule del Tribunale di Foggia – un enorme palazzone realizzato con edilizia moderna rispetto a quello che racchiudeva le aule giudiziarie fino agli anni Ottanta, nella direzione dell’edilizia imponente capace di affermare la grandezza di un edificio istituzionale con il cemento – un poliziotto. A dire il vero, il capo della Squadra Mobile di allora, l’élite investigativa, colui che aveva dato la caccia a personaggi dello spessore criminale di Vincenzo Parisi, catturandolo anche dopo essere stato pesantemente minacciato di morte dallo stesso criminale. Di lui, Agostino De Paolis, oggi 60 anni, una carriera di 35 anni ai vertici della Polizia di Stato, avevo sentito parlare dai colleghi “più anziani”, quelli che avevano già la stoffa cucita addosso dei cronisti di razza. Era considerato un investigatore “vecchio stampo”. Di quelli che hanno occhi e orecchie rivolte alla strada, a intercettare anche il silenzio più piccolo, che diventa rumoroso. Erano gli anni a ridosso delle più grosse operazioni di polizia che la città e la provincia avevano vissuto. Decine e decine di 13


criminali, di elevato spessore, dietro le sbarre. Sgominate reti di spacciatori ed estorsori. Ma erano gli anni a ridosso anche dei più gravi fatti di cronaca che la Capitanata aveva vissuto: da un sedicenne di Cerignola ucciso, dopo essere stato incaprettato e gettato in un pozzo, alle diverse vittime di una logica criminale perversa e macabra, che ha falcidiato anche onesti lavoratori e padri di famiglia, fermi nel loro “no” a ogni forma di prevaricazione e ricatto. Anni bui e duri che la storia di questa terra abbia mai vissuto. Anni che ho dovuto imparare a conoscere in fretta per poter poi vivere gli altri a venire. Ho iniziato a farlo attraverso gli occhi, le parole e i fatti di chi ne aveva fatto la storia, iniziando a viverla in maniera diversa. Iniziai a capire la Capitanata sotto altri occhi. Quelli che non avevo mai speso per guardare il luogo dove avevo fino ad allora vissuto. E come in un nastro veloce che si riavvolge e ti riporta indietro di quasi venti anni, quel “poliziotto” che mi aveva insegnato in poco tempo (per altri due anni successivi al nostro incontro rimase a capo della Squadra Mobile firmando ancora alcune tra le inchieste giudiziarie più importanti in Capitanata) a guardare con occhi diversi fatti, cose e persone, è ritornato nuovamente in terra dauna. Tornando a essere nuovamente quel punto di riferimento per i cittadini della Daunia. Nel tentativo di offrirvi una visione completa, lucida e proiettata a un possibile confronto, abbiamo deciso di scrivere questo libro a quattro mani. Le altre due sono di un appassionato di romanzi, Gianmatteo Pepe, foggiano di origini, residente da anni a Vercelli. Appassionato di scrittura e letteratura. Come avrete modo di vedere, nel testo si alterneranno due stili di scrittura differenti, ma incastrati tra loro. La cronaca, i racconti di vita vissuta e ispirati a storie vere che viaggiano parallele a un personaggio di fantasia con i suoi diversi sé. Lo stile cronachistico giornalistico, affianco a un racconto di fantasia, un romanzo, che ricalca uno dei casi di cronaca più terribili che la Capitanata abbia mai vissuto. La fine atroce di un ragazzo di Cerignola, “incaprettato” e ucciso, gettato in un pozzo. Nel romanzo, ideato da Pepe, il 14


sedicenne ucciso assume “le vesti” di una ragazza. La storia, dunque, ruota attorno ad una figura femminile. Una scelta meditata per offrire al lettore una doppia possibilità di lettura e dare la possibilità di spaziare con la mente. Di andare al di là della cronaca. Di capire che è possibile incontrare nel corso della vita eventi e persone che non finiscono sul proprio cammino per puro caso, ma per un gioco del destino che lascia spazio a numerose riflessioni. È questo il senso del doppio binario utilizzato nel testo. Un libro nel romanzo. La vita di ogni personaggio snodata in altre mille vite. Mille possibilità. Perché è questo il messaggio che, speriamo, arrivi soprattutto ai giovani. La possibilità, attraverso l’esercizio del sogno, di cambiare la propria vita in quello che si vuole e si desidera. Chi siamo, chi saremmo stati, chi saremmo potuti essere, chi potremmo diventare. Una doppia lettura da offrire soprattutto ai giovani, attratti dal misterioso gioco della vita. Ma non solo. Una riflessione anche per gli adulti a caccia sempre di emozioni e di perché. Proveremo insieme a raccontarvi chi è davvero un poliziotto. Cosa in realtà fa per la gente. Sfatando miti e dicerie e ripercorrendo, attraverso l’idea di grandi sacche di flashback, il passato e il presente in un racconto fluido non di mafia, ma di speranza, con un finale che resterà aperto e che scriverete voi lettori. Ognuno per come lo ha inteso. È un lavoro che dedichiamo a voi lettori. A chi ne trarrà qualcosa di positivo e a chi lo criticherà, sperando che le stesse critiche possano essere costruttive. Lo dedichiamo ai cittadini di Capitanata soprattutto. Lo dedico – ora parlo per me stessa – a tutti coloro che hanno arricchito il mio cammino umano e professionale. Ora tocca a voi lettori fare il resto.

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Il cadavere nel pozzo nelle campagne di Cerignola

Ucciso a 16 anni dal fratello del boss della mafia

Mamma non preoccuparti. Non piangere. Quando sarò grande farò un figlio e lo chiamerò Antonio. Così tu potrai tenerlo in braccio e non piangere più.

A distanza di venti anni, queste parole risuonano come una premonizione, considerato che è nato un Antonio, diventato il beniamino di casa. Antonio – ma lui non lo sa perché ha appena qualche anno oggi – è il nipote di Antonio Perrucci Ciannamea, il ragazzino di 16 anni, ucciso nel 1999 a Cerignola. È figlio di quel bambino, ora giovane uomo Marino, che, all’epoca, aveva solo otto anni. Il fratello più piccolo di Antonio. Davanti alle lacrime disperate della sua mamma, nel tentativo, semplice come solo i bambini sanno fare, di lenire il dolore, esclamò quella frase dal sapore sanatorio. Lo ricorda bene e lo ha stampato nella memoria, una giovane donna che, all’epoca, era amichetta di classe del ragazzino. Frequentavano la quarta elementare in una scuola cittadina di Cerignola. Il tempo non ha sanato le ferite, ne ha concesso solo i punti di sutura. Come la nascita del piccolo Antonio, divenuto ancor più motivo di vita di questa famiglia distrutta, annientata dal dolore. A ricordarlo è il signor Gerardo, padre di Antonio. Un uomo semplice, forte, un gran lavoratore che ha avuto la fortuna, come lui stesso ci racconta, di avere due famiglie. I genitori biologici, Perrucci, e quelli putativi, i Ciannamea, che hanno finito per crescerlo come un figlio, vivendo nello stesso stabile. Una volta adulto e in accordo con entrambe le famiglie, Gerardo ha chiesto al tribunale di poter mantenere 17


i cognomi di entrambe le famiglie. Cognomi che sono e saranno tramandati di generazione in generazione. Una famiglia perbene quella di Antonio Perrucci Ciannamea. Papà piccolo imprenditore del marmo, legato a una lunga tradizione familiare nel settore. Una vita normale, tranquilla, con gioie e dolori simili a tante altre famiglie. L’orrore, nella sua vita, piomba il 7 novembre 1999. La scena è di quelle che, difficilmente, si può dimenticare. Magari la si relega in quell’angolo più remoto del proprio cervello, nell’area dei ricordi che affiorano solo ed esclusivamente quando c’è qualcosa che li riporta a galla. Perché il ricordo di quel corpo, giovane corpo, con mani e piedi legati, affiorare da un pozzo profondo, non si può e non si deve dimenticare. Non si può perché fa parte di un dolore che ognuno, qualunque persona ne sia venuta a contatto, non dimenticherà. Oltretutto perché non sarebbe giusto farlo, sarebbe come dimenticare una vita. I ricordi, invece, servono proprio a questo: a restituire a una storia, a una vita, a ogni singolo, la giusta dimensione e l’adeguata dignità. Mio figlio – ricorda il signor Gerardo – era un bravo ragazzo. Frequentava allora il terzo anno del liceo artistico. Era appassionato di arti marziali e frequentava una nota palestra di Cerignola dove si allenava spesso, sotto il vigile controllo dell’istruttore. Amava la pittura e da grande avrebbe seguito le orme della famiglia. La nostra tradizione di operare nel ramo del marmo, così come ora fa l’altro mio figlio Marino e come spero faccia mio nipote Antonio e gli altri nipoti, figli di mia figlia. Ma al di là di tutto Antonio amava il karate.

Già! Le arti marziali. In una delle pochissime foto dell’epoca, è il sorriso di un ragazzino a stridere in quel corpo adulto che gli conferisce un’età più matura dei suoi 16 anni. Quel corpo allenato dalle tante ore trascorse in palestra, divenendo anche cintura marrone di arti marziali. Proprio questa sua passione, 18


gli sarà stata fatale. Perché Antonio avrà lottato con tutte le sue forze per non finire dentro quel pozzo, dove lo hanno gettato la sera del 7 novembre 1999. E da dove è riaffiorato una sera di quindici giorni più tardi, il 21 novembre. Quando, a illuminare quell’area di campagna in località “La Lupara” (con il nome che mai poteva essere più chiarificatore e nefasto, anche perché in quella zona sono avvenuti alcuni dei reati più duri che la storia della mafia del Basso Tavoliere ricordi) c’era solo uno spicchio di luna – come ricorda Agostino De Paolis, uno degli investigatori più navigati e preparati che questa terra abbia mai avuto – e i lampeggianti delle decine di auto degli investigatori, della procura, e dei mezzi di soccorso, vigili del fuoco e ambulanze. Lo ritrovammo la tarda sera di una notte di novembre – ricorda De Paolis – solo l’intuito, il fiuto investigativo ci portò a guardare in quel determinato pozzo. Furono le dichiarazioni di un agricoltore del posto, che ci confidò di aver visto movimenti strani in quella zona, senza però far riferimento al giovane Antonio o ad altre persone, a darci lo spunto investigativo giusto, che ci portò al ritrovamento del corpo. Ricordo il dolore di tutti, anche del sostituto procuratore Michele Emiliano – l’attuale presidente della Regione Puglia – giunto sul posto a tarda sera poco prima che i vigili del fuoco tirassero su il cadavere, che, da accertamenti, risultò essere lì da diverso tempo. Probabilmente dal giorno della scomparsa.

La luna e i lampeggianti consegnarono alla morte di Antonio una pietas. Un barlume di umanità in quegli sguardi disperati, tristi, angosciati, sorpresi (seppure gli investigatori ne vedano di cose orribili) aleggianti su quel pozzo e su quello che lo stesso stava consegnando. Antonio non ce l’aveva fatta. Chi lo aveva ucciso lo aveva fatto, molto probabilmente, il giorno stesso del rapimento, il 7 novembre, simulando, poi, una richiesta di ri19


scatto per la sua liberazione di ben cento milioni di vecchie lire, puntualmente pagato dalla sua famiglia, piccoli imprenditori del marmo. Sembra la trama di un film. Invece, è la terribile realtà accaduta in uno dei centri della Capitanata, dove la mafia spadroneggiava e alzava il tiro in maniera violenta, utilizzando meccanismi e tecniche criminali del tutto nuove in quella terra e su cui gli investigatori avevano iniziato ad arrovellarsi già anni addietro. Anni che hanno rappresentato la storia criminale per eccellenza del comune di Cerignola. Quando avvennero diversi sequestri lampo a scopo estorsivo ai danni, ad esempio, come ricorda De Paolis, dei direttori di banca. Imprenditori, commercianti e direttori di banca con una buona disponibilità economica finirono, in quegli anni, nel mirino della criminalità cerignolana, agguerrita e disposta a tutto pur di far cassa. Erano anni in cui i rapimenti duravano anche mezza giornata, perché i familiari erano subito disposti a pagare il riscatto, senza denunciare nulla alle forze di polizia. L’importante era riavere indietro il proprio congiunto. Con il tempo, ci siamo resi conto di quanto stava accadendo, soprattutto quando qualcuno veniva a presentare denuncia, sostiene De Paolis.

Erano gli anni in cui, a Cerignola, in particolare per il caso di Antonio Perrucci Ciannamea, che ebbe un clamore mediatico unico, fu inviato Nicola Calipari – all’epoca direttore della terza e della seconda divisione del Servizio Centrale Operativo (Sco) della Direzione centrale per la polizia criminale – funzionario e agente segreto italiano, poi ucciso in Iraq nel 2005 da soldati statunitensi nelle fasi immediatamente successive alla liberazione della giornalista de “Il manifesto”, Giuliana Sgrena. Era l’epoca in cui, proprio nella cittadina del Basso Tavoliere, non si avvertiva assolutamente il rispetto per le forze di polizia, che venivano viste, piuttosto, come nemiche del vivere quotidiano. Non solo 20


dalla criminalità ma, come ci conferma l’investigatore, da una buona fetta di popolazione formata da imprenditori, professionisti, medici, anche avvocati, che trovava più semplice e agevole il dialogo con esponenti della criminalità, per poter risolvere eventuali problemi in maniera certamente più rapida delle forze dell’ordine. Che il rapimento di Antonio facesse parte di quella strategia del terrore adottata da una criminalità spietata, pronta a spadroneggiare colpendo nei sentimenti più intimi le famiglie, era divenuto un qualcosa più concreto di un’ipotesi. Come la morte di Antonio. Sebbene qualcosa, nella storia del giovane Perrucci Ciannamea, deve essere andata storta. Forse proprio la sua passione per le arti marziali deve essergli stata fatale. Avrà lottato Antonio per liberarsi dalle grinfie dei suoi sequestratori. Ma non ce l’ha fatta. Forse proprio la sua ribellione di giovane aggrappato alla vita avrà decretato la sua fine. Una fine orribile, impietosa. “Omicida consegnati alla giustizia” tuonò in un duomo stracolmo di oltre cinquemila persone monsignor Giovanni Battista Pichierri (deceduto il 26 luglio del 2017 a Trani). Ma lui, il capo branco, Angelo Caputo, all’epoca 43 anni, era già a Santo Domingo, dove si era rifugiato, riuscendo ad oltrepassare i confini, nonostante un mandato di fermo emesso dalla procura due giorni dopo il sequestro. Fuggì con i cento milioni a Santo Domingo, con un’amica, probabilmente la sua amante. Lui, padre di un ragazzo di pochi anni più grande di Antonio, non aveva esitato un attimo a togliere la vita a quel ragazzone di soli 16 anni. E lo aveva fatto coinvolgendo la sua famiglia. Lo stesso figlio Leonardo, 20 anni, colui che in realtà attirò in trappola l’amico, e suo genero, Damiano Russo, 23 anni. Angelo Caputo era il fratello di Giuseppe Caputo, ritenuto all’epoca boss di primissimo piano della cosca Piarulli-Ferraro, egemoni sul territorio con 58 affiliati. Riti di affiliazione con la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo. Poi decapitati dal processo “Cartagine”, uno dei più grandi processi che la storia della 21


mafia pugliese ricordi, con una raffica di condanne all’ergastolo per i suoi affiliati. Proprio questo avrebbe poi dato il via alla stagione dei sequestri lampo e delle richieste di riscatto. Per mantenere le famiglie degli ergastolani o la latitanza di chi era riuscito a sfuggire alle maglie della giustizia. In questa follia omicidiaria finì anche Antonio, figlio di piccoli artigiani del marmo, molto noti nella cittadina ofantina. Artigiani di generazione. Anche il nonno di Antonio lo era. Questo forse portò l’attenzione criminale a puntare sulla famiglia per avere i cento milioni, come racconta un giornalista che, più degli altri, visse quella vicenda terribile, arrivando per primo sul luogo del delitto e venendo a conoscenza per primo del rapimento e della richiesta di riscatto; nei giorni immediatamente precedenti a una delle più grandi tragedie edilizie che l’Italia ricordi: il crollo del palazzo in viale Giotto a Foggia con 67 vittime innocenti. Così ricorda Antonio Tufariello giornalista de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, oltretutto residente a Cerignola, quindi profondo conoscitore anche delle dinamiche che molto spesso sfuggono a chi non è del luogo: Già dal giorno in cui il ragazzo sparì, si sparse la voce, come spesso accade nei paesi, che un ragazzino non aveva fatto rientro a casa. Cercai di recuperare informazioni da amici poliziotti che, confidenzialmente, mi confermarono solo la notizia, ma senza aggiungere altro. La svolta arrivò il martedì sera, quando venne pagato il riscatto e Antonio non fece rientro a casa. Il padre, allora, corse in commissariato a denunciare. Mentre lui stava ancora formalizzando la denuncia e rispondendo alle domande dei poliziotti, giunse da Bari l’allora sostituto procuratore Michele Emiliano, a bordo di una Thema blindata, sotto casa della famiglia dello scomparso. Da Foggia giunsero i poliziotti della Squadra Mobile con il dirigente e l’allora questore Sergio Visone (scomparso nel settembre del 2015). 22


Entrano in campo nuovamente i ricordi di papà Gerardo: Fin dal primo momento avvertii la strana sensazione che non avrei più rivisto Antonio. Nonostante fossi andato subito a casa di Angelo Caputo (risultato coinvolto e condannato) perché mi avevano riferito di aver visto mio figlio salire a bordo della sua Mercedes, mai avrei immaginato un suo reale coinvolgimento in un delitto così atroce e nemmeno quello di suo figlio Leonardo e del genero Damiano Russo (entrambi arrestati e condannati). Ci conoscevamo da anni. Abitavamo nello stesso stabile da ragazzi. Non lo avrei mai creduto possibile. Ma nella vita poi finisci per imparare tante cose. Io non ho perdonato e mai potrei farlo. Hanno distrutto un’intera famiglia. Da quel maledetto giorno di venti anni fa, mia moglie, in particolar modo, vive come un automa. Sveglia alle cinque, ore interminabili di faccende domestiche come a voler dare per forza un senso a quelle giornate che, un senso, senza Antonio, per lei non c’è. Anch’io, da quel giorno, non dormo più serenamente. A ogni squillo di telefono, sobbalzo. Non ho più avuto un telefono cellulare dall’anno successivo la morte di Antonio. Era come un incubo, perché tutte le telefonate estorsive in quei maledetti giorni le ricevevo sull’utenza cellulare. Ne ho acquistato uno solo quattro anni fa, alla nascita di mio nipote Antonio, per restare sempre informato che tutto sia tranquillo. Ma il grande punto interrogativo a cui credo che non riuscirò a dare risposta nemmeno fino alla morte è perché lo hanno ammazzato. Non c’era motivo per farlo. Sarebbe bastato (come è avvenuto) chiedere il riscatto. Io lo avrei pagato senza problemi. Come ho fatto, pur sapendo, in fondo al mio cuore, che mio figlio non lo avrei rivisto. Un genitore, queste cose, le sente.

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“ Ho conosciuto il bene e il male, il peccato e la virtù, la giustizia e l’ingiustizia. Ho giudicato e sono stato giudicato. Sono passato attraverso la nascita e la morte, l’inizio e la fine, la fine e l’inizio, attraverso la gioia e il dolore, il cielo e l’inferno. Alla fine ho capito che io sono nel tutto, che il tutto è in me.”

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Gianmateo Pepe, nato a Foggia nel 1958, ha esercitato la professione di avvocato. Nel 1990 si trasferisce a Vercelli dove attualmente vive e lavora con funzioni direttive nella Pubblica Amministrazione. Da sempre legato alla sua città di origine segue con viva e presente attenzione le vicende che ad essa fanno riferimento.

Gianmatteo Pepe

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IL RAGAZZO NEL POZZO Michela Magnifico

“ Erano gli anni a ridosso delle più grosse operazioni di polizia e dei più gravi fatti di cronaca che la città e la provincia avevano vissuto. Anni bui e duri. Anni che ho dovuto imparare a conoscere in fretta attraverso gli occhi, le parole e i fatti di chi ne aveva fatto la storia, iniziando a viverla in maniera diversa.”

Michela Magnifico, nata a Cerignola (Foggia) nel 1976, dal 2000 è giornalista presso l’emittente televisiva “Telefoggia”. Esperta di cronaca nera e giudiziaria, si è occupata di alcune tra le pagine più buie della storia della Capitanata. Con la meridiana ha già pubblicato 6 novembre 1992. Il coraggio di un uomo (2016).


Gianmatteo Pepe

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Indice

Prologo........................................................................................ 9 Novembre 1970......................................................................... 11 Ventinove anni dopo: novembre 1999...................................... 89 Epilogo..................................................................................... 121


Prologo

Ho conosciuto il bene e il male, il peccato e la virtù, la giustizia e l’ingiustizia. Ho giudicato e sono stato giudicato. Sono passato attraverso la nascita e la morte, l’inizio e la fine, la fine e l’inizio, attraverso la gioia e il dolore, il cielo e l’inferno. Alla fine ho capito che io sono nel tutto, che il tutto è in me.

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Novembre 1970

Come accadeva spesso negli ultimi giorni, Guido Strambati si accingeva ad aprire la libreria di sua proprietà, ubicata nelle vicinanze della maestosa cattedrale di Santa Maria Assunta in piazza del Duomo, avvolto da una fredda e pungente nebbia che veleggiava sempre più intensa e malinconica. “Quest’inverno il sole si è dimenticato di Lucera! Non si è mai visto da queste parti un inverno così freddo e nebbioso!” sussurrò a se stesso mentre, con movimenti meccanici, dava inizio alla routine quotidiana fatta di piccole consuetudinarie azioni che non lo annoiavano affatto, ma, al contrario, gli trasmettevano una concretezza che di colpo spazzava via i pensieri che costantemente gli giravano nella testa come rondini primaverili intorno ai campanili. L’ultimo anello di questo rituale mattutino era andare a gustare un caldo caffè al bar all’inizio della strada con il suo vicino di negozio, il calzolaio e suo amico di sempre, Iacopo Borromeo. Guido Strambati era un uomo molto avanti negli anni, in quella fase della vita in cui gli stessi anni sembrano ingiurie mal sopportate, e le illusioni, le speranze, le gioie, gli entusiasmi risultano essere crepuscoli sbiaditi, nebbie senza forma, come quella che inalava costantemente a pieni polmoni negli ultimi giorni. Aveva un portamento signorile anche se le ormai tante stagioni erano state spietate con i suoi capelli, falciandoli, inesorabilmente, come sorella morte fa, con il suo ingrato strumento, da sempre. Gli occhiali spessi denotavano una miopia sempre più invasiva, dovuta anche a un esercizio continuo e costante 11


degli occhi alla lettura. Detestava ogni genere di camicia e cravatta e ciò lo portava ad indossare sempre magliette o maglioni a collo alto. La sua vita si identificava ormai con la sua libreria. Era una vecchia bottega, libri collocati e disposti in maniera disordinata, senza alcun dubbio artistica, non solo sugli scaffali, ma in ogni angolo utile del locale. Si potevano notare autentiche torri di carta o angoli retti di tomi intorno alle piante ornamentali, che rendevano l’ambiente quasi ostile all’uomo, come quei luoghi disabitati in cui la natura, attraverso l’erba e le foglie, prende il sopravvento, coprendo con il suo manto ogni costruzione edificata. Non era, certo, un luogo di attrazione per tutti i tipi di persone. Non vi si trovavano, infatti, racconti popolari o romanzetti rosa, che riscuotono tanto successo tra le persone avvezze a pensieri effimeri e modi di vita superficiali. Tra quelle mura vivevano preziosissimi volumi: autentici gioielli della letteratura, opere di alchimia, di cabala, di astrologia, di gialli e romanzi noir, una completa collezione di casi di omicidi letterari risolti da tutti i commissari, ispettori e detective di ogni epoca e luogo, che, stretti nelle polverose scansie, Guido aveva accumulato lì, con amore e pazienza, durante tutta la sua vita. Lì dove il tempo perdeva la sua ragion d’essere: il susseguirsi del suo lento fluire. Nel corso degli anni Guido aveva consumato l’intero patrimonio, che la nobile famiglia dalla quale discendeva gli aveva lasciato, nell’acquisto di quel tesoro tanto inestimabile quanto invendibile, considerato il valore dello stesso, non più quantificabile. Oramai il desiderio di non staccarsi da nessuna copia della sua imponente collezione era crescente. La voglia di vendere diminuiva con il tempo. Aveva instaurato con ogni libro, pagina, parola un rapporto quasi filiale. Rapporto fisico, diretto, quotidiano, ma anche mentale in una sorta di colloquio continuo con la parola stampata. Fine conoscitore delle lingue antiche, si era convinto del fatto che attraverso il contenuto dei libri si 12


potesse arrivare a conoscere qualsiasi cosa: da nuove scoperte in campo scientifico a quello medico, dal contatto con nuove forme di vita aliene a nuove ipotesi di vita su questo pianeta, senza guerre e carestie. Secondo Guido, anche i casi di cronaca nera, gli omicidi più efferati e raccapriccianti, potevano essere risolti attraverso la consultazione dei suoi preziosi volumi. I personaggi dei libri, le loro storie di vita vissuta, il ripetersi, sempre inesorabilmente uguale, degli eventi e degli errori in ogni singola esistenza, conducevano – secondo lui – alla risoluzione di qualsiasi omicidio con la semplice conoscenza dettagliata di consuetudini, relazioni, pensieri di tutte le persone che gravitavano intorno all’assassino e alla vittima dei libri gialli. “Il male è così banale in tutte le sue manifestazioni – ripeteva spesso – salvo i rari casi di pazzia acclarata e di follia improvvisa, sono sempre le stesse meccaniche, le medesime sequenze che lo determinano e lo spingono ad agire: senso e desiderio smisurato del potere, bramosia di possedere quanto più denaro e ricchezze possibili, cupidigia, gelosia, superbia, collera, forme di amore malato, successo, fama, gloria. Queste sono le leve che spingono il male ad esplicarsi attraverso le umane debolezze. Il bene, al contrario, no! Il bene è imprevedibile nelle sue manifestazioni e nelle sue tempistiche, pertanto è più difficile coglierlo, studiarlo, conoscere quando e perché si manifesterà.” I libri già letti, ed erano la stragrande maggioranza, gli parlavano e gli trasmettevano emozioni continue. Gli altri, che aspettavano con ansia di essere sfogliati ed assorbiti per poter iniziare a parlare a loro volta, lo fissavano dagli scaffali come a ricordargli il suo peccato di omissione. Questa immensa biblioteca, più che una libreria, non era per Guido una semplice somma di libri, ma un vero e proprio organismo vivente con una propria vita autonoma, che non rappresentava solo un luogo in cui si raccoglievano libri, ma esso stesso era un luogo che leggeva per conto suo. Infatti quelli non ancora letti gli generavano rimorsi 13


interiori e lo aspettavano con impazienza. Questo immenso oceano di carta lo portava a vivere al di fuori di qualsiasi dimensione spaziale e temporale. Avvertiva un’acuta ferita al cuore ogniqualvolta un ipotetico acquirente metteva piede nella sua libreria. Guardava e studiava tutti i movimenti del “presuntuoso” che avesse intenzione di renderlo orfano di una copia, fulminandolo con occhiate vendicative, girandogli intorno con inquieta e malcelata vigilanza. Aggrottava il ciglio e quasi gemeva nel momento in cui mani profane smuovevano i suoi idoli dalle loro nicchie! Quando venivano presi in seria considerazione per l’acquisto alcuni dei libri favoriti del suo magico harem, alzava vistosamente il prezzo di copertina, aspettando, con insano piacere, il diniego del cliente. Il “no” di quest’ultimo portava Guido a strappargli il preziosissimo cimelio dalle mani, per riporlo, con viva gioia, velocemente al suo posto. Se, invece, il cliente, nonostante la richiesta esosissima per accaparrarsi lo scritto, non demordeva e lo acquistava, improvvisamente diventava il ritratto della disperazione! Una volta accadde che, venduta la copia di un libro a cui teneva in particolar modo, la sera stessa si presentò a casa dell’acquirente, richiedendogli indietro il prezioso manoscritto in cambio del prezzo al quale era riuscito a carpirglielo, maggiorato di una congrua penale. Arrivata la sera, spegnendo le fioche luci, con uno sguardo veloce ma intenso, parve salutare tutti i suoi silenziosi amici con dolcezza e con un filo di voce sussurrò: “Buonanotte!”. Dopo aver preso, con un cenno delle mani, appuntamento con Iacopo per il primo caffè del giorno successivo, si confuse tra le spire fredde della nebbia per il ritorno a casa, sebbene il tragitto fosse davvero minimo: Guido viveva nei locali al piano alto della sua libreria. Entrò in casa accompagnato dalla sua ormai abituale e sorda solitudine. Il silenzio che lo accolse era più freddo e più ostile di quello esterno. Passò davanti alla foto della figlia, ormai sbiadita dal tempo, che gli sorrideva in color virata-seppia. 14


“Quanti anni sono passati!” era l’insopportabile pensiero che lo accompagnava ogni sera nel confrontarsi con gli splendidi occhi neri in foto, che lo fissavano con una dolcezza antica e persa nel tempo, in un passato indefinito. Concludeva la giornata con la solita cena frugale composta dall’essenziale e, poi, subito a letto in compagnia di una sottile ma inesorabile malinconia, accompagnata dai soliti fantasmi senza tempo con volti muti ed un immancabile libro con il quale trascorrere insieme le ore più intime della notte, dimenticando le lancette del tempo e, con esse, il tempo stesso. Il sonno lo accolse tra le sue braccia all’improvviso, sorprendendolo con gli occhiali sul viso e il libro tra le mani. Lentamente i sogni iniziarono a danzare in lui come ogni notte, con colori e immagini nitide e sagome di persone vive. Per Guido era il momento più reale della sua giornata: la sua vera vita, oramai, si svolgeva attraverso i sogni; al risveglio, gli pareva di non vivere più, di appartenere a un sogno di altri. Sognare era la sua vita reale, mentre la sua quotidianità era un continuo sognare. La mattina successiva si svegliò e, come era solito fare, spalancò la finestra che dava su un balcone la cui vista mozzafiato comprendeva tutti e quattro i punti cardinali: a Nord, giusto di fronte, la splendida cattedrale in stile gotico-angioino di Santa Maria Assunta; leggermente a Est si intravvedeva, in lontananza, l’anfiteatro romano con le sue antiche e mute pietre; a Ovest svettava su una dolce collina il castello di Federico II di Svevia; infine, voltandosi verso Sud, la suggestiva veduta di gran parte del sub-appennino dauno: un variopinto mosaico, meravigliosamente disordinato, di pianura e colline sulle cui vette sparse verso l’orizzonte, si intravvedevano i paesini di Biccari, Alberona, Volturino, Motta Montecorvino e Troia. Fu un attimo di lucentezza meraviglioso dell’alba, in cui l’azzurro mattutino del cielo dava al tutto una sembianza di una tela impressionista. Poi la nebbia, insolito elemento naturale per quel luogo, dolcemente minacciosa, distese il suo velo bianco e freddo nascondendo tut15


to il paesaggio, avvolgendolo in un’indefinitezza, trasformando la realtà in un nuovo ovattato sogno irreale. Indossò i suoi abiti color nostalgia, raccolse i suoi pensieri, quasi a volerli proteggere dal mondo esterno che da lì a poco avrebbe incontrato e, prima di uscire, incrociò quegli splendidi occhi neri in foto. Esitò un attimo rallentando, i passi si arrestarono. Tornò indietro, prese la foto nelle sue mani: i due sguardi si sfidarono in un gioco ipnotico in cui parevano parlarsi, sussurrarsi attimi e sensazioni provenienti dalle profondità più struggenti dell’anima: quello in foto trasmetteva dolcezza e lontananza, l’altro, il suo, malinconia di un tempo andato via troppo velocemente. Un suono improvviso di campane e il successivo richiudersi della porta dietro di lui lo riportarono nel mondo reale. “Dovrei avere la forza e la volontà di leggere almeno un millesimo di quello che hai letto tu, Guido!” disse Iacopo seduto al tavolino del bar davanti a un caffè ristoratore e un caldissimo cornetto. “Non te ne fare una colpa – rispose Guido – la vita propone tante altre forme di insegnamento oltre quello della conoscenza attraverso la lettura.” “Sai qual è la cosa che più mi affascina di te?” riprese Iacopo. “Quale?” “Il fatto che ogni qualvolta avvenga un omicidio in una qualsiasi località del mondo, tu riesca a scoprire chi è stato l’autore e il movente che lo ha spinto. Pur non essendo sul luogo del delitto, senza indagini, ti basta solo leggere a distanza, dalla tua libreria, le dinamiche e le circostanze che hanno scatenato gli eventi! Per me questa è una cosa incredibile!” “Caro Iacopo – rispose Guido – la natura umana, le sue debolezze, le sue perversioni e i suoi limiti sono i medesimi in qualsiasi latitudine del mondo! Per semplificare il mio discorso ti dico che esistono non più di una decina di motivazioni standard che sono alla base di ogni omicidio avvenuto e che avverrà! Da quando l’uomo è venuto al mondo fino al momento in 16


cui si estinguerà! Sete incontrollata di potere, motivi di interesse, denaro e ricchezza, omicidi legati all’amore, gelosia, senso del possesso, collera, fama, successo personale, diabolico culto dell’ego, frustrazione, invidia. Una volta catalogata la tipologia di omicidio bisogna prendere in considerazione innanzitutto i casi analoghi, di cui siamo a conoscenza, avvenuti concretamente in tutte le società e in ogni momento storico. Successivamente individuare tutti i libri gialli e i romanzi che hanno trattato lo stesso argomento. Mettere insieme tutti i punti e tutti gli indizi cercando di ragionare seguendo le deduzioni e i pensieri dell’investigatore di turno e di tutti i personaggi che gravitano intorno alla storia. Infine rapportare tutte queste cose al caso attuale e concreto che si sta seguendo e alle persone che ruotano intorno alla vittima e… come un puzzle matematico la soluzione arriva quasi sempre. Anche perché…” Guido all’improvviso fermò il suo discorso, trattenne il respiro, seguì con lo sguardo la sagoma che stava emergendo dalla nebbia, oltre le vetrate del bar. Era Irma Ferrini. La donna, non più giovane d’età, emanava ancora il suo fascino particolare, unito a una classe che trapelava da ogni suo gesto, nonché dal portamento signorile e raffinato. Aveva un volto ancora lucente, contornato da neri capelli, come un sole al tramonto che, sebbene volga al declino, possiede ancora i suoi colori più dolci e romantici. Sembrava una stupenda rosa rossa che, pur iniziando a perdere i propri petali, conservava intatta la sua meravigliosa bellezza, il suo colore intenso, il suo profumo avvolgente. Ogni particolare di lei parlava di una donna speciale. Ogni giorno – considerato che passava di lì più o meno alla stessa ora del mattino – Guido ne coglieva uno. Infatti, mentre era attento a che cosa lo avrebbe sorpreso in quel freddo mattino invernale, la donna alzò lo sguardo in alto come per sincerarsi se stesse iniziando a piovere, e, contestualmente, aprì l’ombrello con una grazia di altri tempi. Avrebbe voluto che la donna gettasse distrattamente il suo sguardo all’interno del bar per farlo proprio, ma ciò non avvenne. Quanto mistero e quale 17


scompiglio creava nel suo cuore! In quei pochi secondi che cadenzavano il suo passaggio, Guido fantasticava su di lei: “Dove andrà? Sarà sposata? Che tipo di vita farà? Sarà felice?”. Iacopo aveva da sempre intuito qualcosa, ma non ricevendo da Guido alcuna confidenza, ne rispettava il silenzio. Almeno quello delle parole, perché gli sguardi erano molto eloquenti. “Hai sentito? Stamattina hanno trovato il corpo di una ragazzina di circa sedici anni lungo la strada che porta a Motta Montecorvino, precisamente nei pressi della torre di Montecorvino, a neanche quindici chilometri da qui” disse Iacopo mandando all’improvviso in frantumi i pensieri di Guido. “È stata ritrovata all’interno di un profondo pozzo con le mani e i piedi legati e sembra aver subito anche violenza. La persona che l’ha vista per prima, aveva pensato di avere di fronte ai suoi occhi una bambola gettata via, in quel posto tetro, da qualcuno… Ma chi può commettere un atto così spaventoso, terribile e raccapricciante, Guido?” concluse Iacopo. Guido si irrigidì. Immaginò la scena della ragazzina con mani e piedi legati, mentre veniva riportata in superficie da quel buco nero raggomitolata su se stessa, senza vita, e distesa, inerme, tra le zolle di terra vicino a quella diroccata e solitaria torre. Si sforzò di far suoi gli ultimi pensieri che potesse aver fatto prima di morire. “Le motivazioni standard alla base di un omicidio sono sempre le stesse e non sono più di una decina, Iacopo. Ricordalo! Sempre!” Così dicendo, si alzò e chiese il conto. Tra qualche attimo sarebbe iniziato il solito rituale giornaliero, ma i pensieri di Guido avevano preso una direzione precisa. Tutti i giornali, quel mattino, uscirono con in prima pagina la terribile notizia della ragazzina di soli sedici anni, Claudia Martini, ritrovata senza vita nelle vicinanze della torre di Montecorvino, vicino alla statale che porta a Motta, barbaramente assassinata. 18


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