Il sorriso di Melograno

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“Un melograno mi lega oggi ai ricordi del passato: il sorriso di mia madre, il cui nome era Melograno. Lei sapeva purificare il cuore con le poche parole che possedeva nel petto. E adesso tocca a me trovare i versi a cui non sapeva dare forma.”

Gholam Najafi

Il SorrISo dI Melograno

Testi e ghazal in italiano e persiano-dari

Gholam Najafi

IL SORRISO DI MELOGRANO

Prefazione di Giampiero Bellingeri

Introduzione in persiano-dari di Halima Khalili

Traduzione in italiano di Gholam Najafi

edizioni la meridiana

IndIce Prefazione di Giampiero Bellingeri .............................................................. 9 Introduzione di Halima Khalili Traduzione di Gholam Najafi ................................................... 13 Il Sorriso di Melograno ............................................................ 30 Parte I Ghazal Fiore del tulipano Testo originale in persiano-dari ................................................. 37 Parte II Poesie Il mio tempo settembre (2015) ................................................ 55 Parole ........................................................................................ 56 Arriva il cuore della notte ........................................................ 57 Mescolanze ............................................................................... 58 Bologna, stazione ...................................................................... 59 Castelvecchio di Verona ........................................................... 61 Il verbo della partenza .............................................................. 62 Una madre sognata (2018) ....................................................... 63
Luogo sacro (2018)................................................................ 64 Posso parlare della vita? (2018) ............................................ 68 La vecchia pernice ................................................................. 70 La mia casetta ........................................................................ 72 Ombra .................................................................................... 73 Madre mia .............................................................................. 74 Pioggia ................................................................................... 75 Tavola ..................................................................................... 76 La mia fotografia ................................................................... 77 Quarta nascita........................................................................ 78

PrefazIone

Il ritorno di Gholam al melograno

Il Sorriso di Melograno vuole dirci il perenne ritorno, storico, secolare a una tradizione che è cultura rinnovata, affezione, tocco, come grani di rosario che ci scorrono tra le dita, amore per un albero che, con le valenze delle sue forme e dei suoi frutti, restituisce la vita al ricordo, alla devota, religiosa evocazione, o commemorazione: “… Per scrivere parole segrete / Se riesci, sogni ancora un po’…”, e ricordi la madre: “Oh madre, dimentica la preoccupazione, che torno presto, e abbi cura di te!”. E la madre: “Tornando in casa, ho visto che aveva lasciato dietro la porta un paio di scarpe accanto alle mie, per dirmi che non dovevo sentirmi sola. Così, ogni volta che torno a casa e vedo le sue scarpe, il cielo mi fa pensare che lui mi sta pensando e la casa si riempie di lui e a volte canto fra me e me dietro la porta: Tu sei fuggito, lasciandomi fra i tuoi ricordi / Dietro la porta, le nostre scarpe legate con le corde / Per le tue scarpe costruisco un Mausoleo / Dove gridare la salvezza tua al cielo”

Un grido al cielo, una espiazione quotidiana che segna il tempo nella lontananza e nel ricordo: compiuta da chi rimane, sola, ad alleviare un senso di colpa che perseguita chi resta…

Così, leggendo e ascoltando quel grido, viviamo nella storia, tanto legata alla memoria quanto quel “pomo granato” è ricolmo di preziosi semi, di rubini, di segni di abbondanza, carichi di umori agrodolci, che premono sulla scorza, dandole una forma. Non sdolcinati, quei chicchi, ma riassaporati qui nella coscienza donata dall’essenza di quei grani; essenza che chiameremo pienezza del ripensare, del rivivere.

La molteplicità di quei chicchi è specchio, idea non dissimile dalla ricorrenza del nâr nella poesia classica e popolare (dove

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nâr, nelle lingue iraniche, significa anche “fuoco”). Con le parole di Gholam non si riascolta solo la ripresa coraggiosa di una tradizione, ma si rivive pure la storia di una intimità: letteraria, popolare, vitale, reale, di passione. La forza dell’immagine-melagrana, anziché indebolirsi nel luogo comune, restituisce a quest’ultimo la forza, lo sforzo della reinvenzione, della riscoperta, della restituzione di tutte le sue valenze al frutto misterioso, miracoloso, pregno di simboli e ardore, fuoco d’amore o marchio sul cuore: “Guardare solo il tuo cammino / E come faccio? / Ho il cuore in fiamme”.

Così, questo fiero ritorno a un frutto lasciato spesso avvizzire da una tradizione accademica o retorica viene a restituire tratti e lineamenti lucidi, pari a specchi. Sarà un riflettersi nelle forme turgide, piene, capaci di illuminare mille motivi rinnovati, svecchiati. Rivivono questi motivi sgranandosi allineati sul filo dei ricordi. Si ravvivano la storia, l’esistenza, le coscienze dell’Autore e dei Lettori come la forza pulsante del sangue che circola a restituire vitalità alle passioni, all’amore.

Siamo alla pari con i pensieri, alla tinta rossa che trapassa dalla scorza ai grani e alle mani che sgranano e si intingono di quel colore carico di incancellabili memorie indotte a riemergere “[…] il tempo scorre lo stesso: dai valore a ogni istante! La terra è là, non ti sfugge, sanguina…”.

Liquidi, umori, dunque: rossi… “Le lacrime sono gocciolate un po’ dappertutto… / ogni tanto è meglio che scendano / o fanno male agli occhi…”. Con gli impulsi dei fantasmi del sonno, confusi: “… All’improvviso solleva la testa / sperando che fuori ci sia il sole! / Ma oggi è stato tolto / no, non c’è il sole… / oggi un dappertutto freddo”.

Risentiamo la sete e lo svuotarsi, in un equilibrio incerto, approssimativo, fatale, eppur vitale. Con la memoria, gli odori, i profumi (alla Proust, alla Pamuk), un po’ come ci dice Gholam: “All’epoca non esistevano le fotografie: solo gli abiti mantenevano il ricordo; toccandoli, emergevano, con gli odori, tanti ricordi dei momenti passati”.

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L’idea resa resistente – mai consunta, dunque, con l’uso rischioso e coraggioso di immagini abituali – fornisce, attraverso la fiducia nel valore del frutto ardente, la forza evocativa e la plasticità di una meraviglia, suscettibile di essere tracciata sulla pellicola di un capo di aglio, esile, sottilissima, quasi trasparente, e capace di riportare al presente i pensieri lontani, ma anche di rimuovere lontano quelli vicini, maculati, nel segno di un intreccio che dà forma ed essenza alla storia, al movimento, al “cinema”, che è movimento. Magari al sorriso. O al verbo della partenza:

… Questa notte dovrei partire /questa sera dovrei fare la valigia / Riempire, tutto quello che ho… e se la valigia non ha spazio? / Andare a… andare e andare ancora / dove si trovano piante epiche / così do uno sguardo / alla sua ampiezza, rimarrò senza parole / Nuovamente qualcuno mi ha richiamato / questa notte dovrei partire / Dove sono le mie scarpe?! / E i fazzoletti?!”.

E sarà il tormentato nomadismo epico di piante e radici e pianto che irriga guance su terra desolata, inferma.

* Giampiero Bellingeri è stato per lungo tempo professore di lingua e letteratura turca all’Università Ca’ Foscari di Venezia. I suoi principali filoni di ricerca in ambito turcologico sono stati: la letteratura d’espressione turca in Iran e Transcaucasia nei secoli XVI-XX; i rapporti culturali turco-veneti (con particolare riferimento al XVIII sec.); le relazioni letterarie turco-russe nel Caucaso e in Asia Centrale in epoca zarista e sovietica. Si è occupato inoltre di letteratura turca contemporanea e ha fatto conoscere in Italia, con le sue traduzioni, autori importanti come Orhan Pamuk, Yahya Kemal e Nazim Hikmet.

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IntroduzIone

Traduzione di Gholam Najafi

Nel nome di quell’unico essere che ha dato all’umanità la possibilità di creare le sue opere.

C’era una volta una madre anziana, seduta accanto a un muro, che aveva il cuore consumato ma cantava con una voce musicale e arrugginita per la sua solitudine o per la solitudine del figlio lontano. Erano poesie, o meglio quei ghazal che si creano con la lingua e con il calore del cuore, non con la penna perché lei non sapeva scrivere, ma le sussurrava tra le labbra…

Le chiesi: “Cara madre, chi ha composto questi versi che canti? Chi è il poeta di queste poesie?”.

Mi guardò sorpresa e mi chiese: “Che cos’è la poesia? Chi è un poeta? Cosa mi stai dicendo? Questi versi non hanno poeta, sono i miei sentimenti più profondi, così come escono, sono come il vapore della terra primaverile”.

Soggiunse che stava cantando per suo figlio, ogni giorno i suoi occhi erano fissi verso l’attesa: “non so quando verrà né che giorno sarà!”.

Poi guardò i muri consumati della sua casa, una casa molto vecchia – credo di più di cento anni – muri costruiti con la pietra e il fango, con una porta di legno antico che si apriva sull’ingresso. Dentro, la casa era stata elegante, con le sue belle anfore

1 Halima Khalili è nata nel 1997 a Ghazni, in Afghanistan. Vive a Herat. Si è specializzata in lingua e letteratura inglese all’Università Kahkshan Sharq Herat nel 2021, senza poter ritirare la sua laurea dopo la caduta del governo afghano. Ha insegnato l’inglese presso la scuola primaria Tolo-e Sa’adat fino ad ottobre 2022 e si dedica al disegno e alla calligrafia.

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per la riserva dell’acqua. La casa profumava di gentilezza primaverile, con una stanza piccolissima, coperta con un tappeto tradizionale color fegato e una finestra piccina da dove entrava il raggio del sole e della luna, che illuminava la camera. Mi diceva che nella stagione fredda la finestra viene coperta con la plastica, “sono anni che la nostra finestra è senza vetro”.

Nella minuscola cucina gulkhane, letteralmente “la casa dei fiori”, la parte più bella della casa, da un lato stava piantato il forno a terra e dall’altro erano raccolti i materiali da bruciare. Ha acceso il fuoco per fare il tè ed è venuta a sedersi accanto a me, dicendomi queste parole: “Figlia mia, in una vita serena non è necessario avere una casa spaziosa e piena di cose, basta avere una casetta dove le notti e i giorni della nostra vita possano riposare in pace, con una carezza d’amore, con sincerità di cuore. È più che sufficiente. Molte persone posseggono tante cose nella vita, hanno tutto, ma non la tranquillità. Con fatica si conosce il sapore dell’esistenza: per alcune mattine che siamo ancora vivi, regaliamo la nostra gentilezza ai nostri vicini, solo così questa si può chiamare vita!”.

Le chiesi: “Lei vive da sola, non ha altri parenti?”. Mi rispose che da anni viveva da sola, dopo la morte del marito e dopo che il figlio aveva preso la strada per andare altrove: “e andò via, e io non ho voluto ostacolarlo, ho solamente seguito con gli occhi i suoi primi passi, e la polvere di quei passi che saliva su; da quel giorno quella strada, lungo la quale lui partì, è diventata la radice della mia attesa; attendo il suo ritorno, ma ho paura che lui ritorni un giorno quando io sarò cenere del fuoco…

Quando uscì di casa gli dissi: figlio mio!

Tu te ne vai, così mi lasci sull’ombra mia

Lasci l’acqua sul fuoco, sulla cima della testa mia

Se tu vuoi andare, io non posso correre, che Dio ti faccia compagnia

Sappi che lasci qui la tua anziana madre.

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E mio figlio girò la testa dicendomi:

Le cime degli alberi sono imbianchite, andrò via con la testa in su

Oh madre mia, lasciami partire prima che giunga il buio

Oh madre mia, dammi la tua carezza che la mia anima rimanga qui

Donami il tuo bacio che dona spirito al mio corpo.

Io parto e tu prega, o Madre!

Porta pazienza al tuo cuore.

Guardai gli occhi gonfi di lacrime di mio figlio e gli dissi: vai, figliolo, che Dio ti faccia compagnia; mi baciò la mano, prese il fagotto sulla schiena, andò dicendo: vado, vado a girare pel mondo, la vita non si ferma qui. Oh madre, dimentica la preoccupazione, che torno presto e abbi cura di te!

Tornando in casa, ho visto che aveva lasciato dietro la porta un paio di scarpe accanto alle mie, per dirmi che non dovevo sentirmi sola. Così, ogni volta che torno a casa e vedo le sue scarpe, il cielo mi fa pensare che lui mi sta pensando e la casa si riempie di lui e a volte canto fra me e me dietro la porta:

Tu sei fuggito, lasciandomi fra i tuoi ricordi Dietro la porta, le nostre scarpe legate con le corde

Per le tue scarpe costruisco un mausoleo Dove gridare la salvezza tua al cielo.

Da quel giorno vivo in questa stanza da sola, di giorno la mia mente riposa lavorando nei campi coltivabili; la notte, quando torno a casa, canto con voce alta musicando il troppo silenzio”.

Le chiesi: “Di solito quando si cantano questi ghazal?”.

La vecchia madre mi rispose: “I suoni di questi ghazal sono canti popolari, millenari, trasmessi da generazione a generazio-

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ne oralmente, con sentimenti sinceri, pesando le immagini della nostra vita, misurandone pezzo per pezzo i dolori. Sono stati accatastati e sono giunti fino ai tempi nostri; chiamiamoli poesie, se vuoi, o meglio vapori del cuore nati dal nostro petto.

Qui leggiamo i lamenti del vento e le lunghe attese che portano gioie: questi sono i mezzi con cui io potrò dare parole al mio cuore poetando, parole che si trasformano in poesia.

Dal mio punto di vista ognuno può, a modo suo, comporre poesia per il suo cuore che è pieno di cortesia e così assumere la figura di poeta.

Queste poesie vengono cantate in diversi momenti della vita, quali le celebrazioni solenni, i matrimoni, le feste, l’allontanamento di qualcuno, ma soprattutto nella quattordicesima notte di ogni mese, quando vengono composte e cantate da noi donne che ci riuniamo a casa di una di noi facendo chardah pal (presagio).

In questa occasione copriamo con un velo una ragazzina non ancora adolescente, come si dice da noi che non è entrata ancora nel peccato, le facciamo fare una doccia e intorno a lei accendiamo delle luci, di modo che non possa vedere la luna quella sera. Mettiamo con lei, sotto il velo, una pentola d’argento riempita d’acqua, in questa ognuno getta il suo anello d’argento hajat e infine ciascuno, a turno, canta una poesia. Senza cambiare la poesia in parole più semplici, pesca l’anello dall’acqua e lo posa sul dito della persona cui vuole rivolgersi.

Dopo questa procedura nasce una discussione, si analizza il gioco per vedere quale ghazal, fra tutti, ha descritto meglio il suo desiderio. Leggiamo:

Oh Dio, rendimi uccello

Tienimi lassù fra il verde

Che meraviglia essere lassù fra il verde

Rendimi servo di Imam Reza.

L’analisi di questi versi viene fatta quando l’anello è già fuori

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dell’acqua; significa che, se diventi il servo di Imam Reza, ogni tuo desiderio verrà realizzato.

Gridò sulla cima più alta

Ricordò Ali, il leone di Dio.

Ali, il leone di Dio oppure il re degli uomini, Rende allegro il nostro cuore triste.

Questi versi significano che quando gridi e chiedi aiuto ad Ali, non ci sono dubbi per le tue richieste; molti di questi versi possono avere molteplici significati per cui la gente acquista una certa fiducia in ciò che vuole realizzare…

Così si continua tirando fuori fino all’ultimo anello; alla fine si fanno sedere due persone una di fronte all’altra con i pollici appoggiati sulla fronte uno dell’altro, poi si colloca la pentola sulle loro dita: se la pentola cade a destra il desiderio sarà realizzato; mentre, se si rovescia a sinistra il desiderio non si realizzerà.

Queste usanze vengono dai nostri antenati e hanno funzionato fino ad oggi, forse con scarsi risultati pratici, ma crediamo in questi gesti, specie se ripetuti in una notte che chiamiamo “notte pura”.

Queste poesie, o ghazal, hanno radice dai sentimenti, i sentimenti sono le sorgenti di queste poesie, perché sono sentimenti profondi che ci avvicinano a Dio, legano due amanti, una madre al figlio, una figlia all’amore per la terra, per amici e conoscenti. Per questo sono pietre preziose che vanno nascoste nel nostro petto, custodite con cura e non perse di vista in un’era tecnologica; sono frammenti che dipingono la semplicità e la sensibilità di un tempo”.

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***

Parte I Ghazal

La confusione delle stelle sulla città di Herat

Se non fosse per la gentilezza della cara mamma

I miei occhi in attesa sulle case di Herat

Brucerei tutte le case di Herat

Mi inginocchierei davanti alla camicia del re (Aggrapparmi al cuore sapiente del nostro re) purché stia bene la nostra rondine viaggiatrice ***

preghiera della sera risvegliò la tristezza della mia anima

La corsa del mio cuore mi portò al ricordo della fanciullezza

37 ﮓﻟﻻ ﯽﻠﮔ Fiore del tulipano وﻭدﺩ ﻢﯿﻴﭼ هﻩﺪﻨﻣ ﯽﻠﺑ یﯼﺎﻧﺎﺧ Herat نﻥﺎﺟ رﺭدﺩﺎﻣ ﺮطﻁﺎﺧ ﺮﮔاﺍ یﯼﺎﻧﺎﺧ ﻢﻧوﻭﺰﯿﻴﻣ ﮫﻪﺘﻠﭘ ﮫﻪﺑ mamma
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33,
riga
La

Parte II Poesie

Il MIo teMPo SetteMbre (2015)

La montagna era piena di lampi, vedevo bambini nella grotta.

Perché i bambini si nascondevano?

Lupo, sciacallo e uomini insieme nelle grotte. Nel cielo non si vedevano più stelle, il fumo delle armi copriva le stelle.

Sangue.

Lacrime.

La nuvola sempre più nera.

Mia madre diceva zitto! Zitto!

Il tuono si prolunga nella sera, le ore in corsa non finiscono, l’albero non ha speranza per i rami!

Ah! I rami non hanno forza per reggere foglie, foglie pesanti.

Pace, pace ma scende ancora il fulmine.

Dormi, dormi ma io sento ancora rumore.

Tak… Tak… suona quel monte

Bum… Bum… riprende l’altro.

Voglio un sonno silenzioso.

Cado nella nube? Dormo nella luce, più splendida di qua!

Nell’umida sera parlava mia madre, mio padre arriva con il sole bruciante.

Quel giorno il dolore riposa!

Una striscia di rosa persa in aria, vola.

Portami con te!

I lampi non smettono, sotto terra si rimarrà vivi.

Allora no!

Sopra caprone, sotto verme umido.

Il sapore qual è?

Piango, escono solo lacrime.

55

Gholam Najafi è nato nel 1990 a Ghazni, in Afghanistan. In seguito alla morte del padre per mano dei talebani, è fuggito insieme al fratello alla sola età di dieci anni, attraversando il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, per giungere infine in Italia. Dal 2006 vive a Murano, insieme alla sua famiglia adottiva. Si è laureato in “Lingue, culture e civiltà dell’Asia e dell’Africa mediterranea” presso l’Università Ca’ Foscari a Venezia e specializzato con laurea Magistrale in “Lingue, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa Mediterranea” nel medesimo ateneo. Oggi Gholam Najafi è diventato uno scrittore affermato; autore di libri scritti in italiano come: Il mio Afghanistan (2016), Il tappeto afghano (2019), Tra due famiglie (2021). Nel 2021 ha ricevuto il Premio “Incroci di Civiltà” per giovani scrittori. È rientrato di recente dall’Afghanistan dove ha ritrovato la sua terra e le sue radici in un momento storico particolarmente difficile.

ISBN 978-88-6153-971-6

Euro 14,50 (I.i.)

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