12 minute read

Introduzione di Tiziana Mondin

plurali e flessibili, dei quali anche le strutture sanitarie o socioassistenziali possano essere considerate effettivamente una parte. In tutto questo prende forma l’impellenza di pensare a un ruolo di regia professionale, nella quale il Servizio Sociale troverebbe una sua collocazione connaturata per la capacità di fare sintesi tra il care e il cure, tra il formale e l’informale, con percorsi progettuali fondati sul principio di sussidiarietà ma, soprattutto, eticamente fondati a sostegno dell’autodeterminazione di ogni individuo.

Maria Cristina Pomaro opera da lungo tempo presso il Centro Servizi Casa Madre Teresa di Calcutta – OPSA di Padova e da questo osservatorio privilegiato si è approcciata con l’esigenza di considerare la tematica del fine vita per le persone inserite nei centri servizi, sia diurni che residenziali, per non autosufficienti, considerati come luoghi di vita e nodi territoriali della più estesa rete dei servizi. La prospettiva considerata vede il transito dal territorio ai centri servizi sostenuto da necessari progetti multidimensionali di continuità, capaci di garantire percorsi di presa in carico dei bisogni che mantengano elevata l’attenzione ai principi bioetici e in grado di custodire e favorire le relazioni della persona e della famiglia nella condivisione delle scelte e delle cure, fino al fine vita e oltre. È necessario scrivere e parlare della vita nei centri servizi per contrastare la tendenza a rendere “invisibili” le persone non autosufficienti o con malattie inguaribili, restituendo la medesima visibilità ai tanti professionisti che si impegnano quotidianamente per dare un’assistenza inclusiva e competente, migliorando la qualità dei servizi. Il contributo è stato scritto prima della pandemia in corso: siamo certi che i nuovi scenari impongano ulteriori riflessioni e sviluppi a partire anche dalle conclusioni proposte, pur consapevoli che le attuali organizzazioni sono frutto della risposta a un momento emergenziale. Il Servizio Sociale ha dovuto pesantemente abdicare al suo ruolo di costruzione di relazioni, di accompagnamento nei percorsi, anche del fine vita, e di sostegno delle scelte libere e consapevoli delle persone. Ha dovuto accogliere e dare un senso soprattutto al profondo dolore che il distanziamento fisico ha portato con sé. Il ritorno a ciò che era il “prima” sarà possibile? Questo interrogativo pervade la coscienza di ognuno, ma per i professionisti il vero interrogativo è come poter creare nuovi modelli organizzativi, efficaci ed efficienti che, a partire da quel “prima” riescano a

Advertisement

rivendicare per i centri servizi un ruolo pieno e riconosciuto nella rete dei servizi, per un agire integrato ed eticamente orientato. Il testo rispecchia il lavoro intrapreso per sviluppare conoscenze, competenze e principi specifici relativi alle cure di fine vita. In futuro una formazione dedicata potrebbe aiutare ad anticipare le difficoltà del “lavorare in Cure Palliative”. L’acquisizione di appropriati saperi, capacità e competenze, entro i propri limiti professionali, permetterà di accrescere il profilo professionale in un campo prevalentemente inserito nell’ambito sanitario.

note

1. Tiziana Mondin è Assistente Sociale, referente per la macroarea Triveneto della Rete nazionale assistenti sociali in Cure Palliative e membro del Consiglio Società Italiana Cure Palliative del Veneto (SICP).

Ha operato in servizi per non autosufficienti e hospice territoriali; già membro della Commissione assistenti sociali SICP; co-autrice del

Core Curriculum dell’Assistente Sociale in Cure Palliative e di diverse altre pubblicazioni della SICP. Ha collaborato con le università di Verona, Trento e Padova in seminari in Cure Palliative per gli assistenti sociali in formazione.

1.

Servizio Sociale, religioni, spiritualità, bioetica: connessioni possibili?

di Nicola Martinelli1

Delle questioni bioetiche e dei temi eticamente sensibili (eutanasia, suicidio assistito, DAT, Cure Palliative, accanimento terapeutico…) oltre ad occuparsene la medicina, la bioetica, il diritto, la sociologia, la filosofia, la politica, l’etica, l’antropologia, se ne occupa anche la religione, anzi le religioni e la teologia. Il tema della morte va affrontato uscendo dallo scontro ideologico ed entrando nella dimensione profonda delle persone che si avvicinano alla fase ultima della vita. Ci chiediamo: quali sono i bisogni di colui che si appresta a varcare le frontiere della vita? L’Organizzazione Mondiale della Sanità parla della salute non come assenza di malattia ma come stato di totale benessere: mentale, emotivo, sociale, spirituale. Garantire il maggior benessere possibile a una persona che si appresta a varcare le frontiere della vita significa allora guardare alla persona da una prospettiva olistica e con un approccio multidisciplinare. I mass media, di solito, si occupano di tali questioni solo quando fanno notizia, quando toccano corde emotive profonde – come è avvenuto per il caso di Fabiano Antoniani, Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli, Eluana Englaro, Paolo Ravasin – e anche in questi casi, sul piano etico-religioso, dando spazio prevalentemente solo alla voce di alcune confessioni religiose, trascurando il punto di vista delle altre che hanno un originalissimo e poco conosciuto pensiero al riguardo, riducendo a una sterile polemica tra credenti e laici, partito della vita, partito della morte, quello che dovrebbe essere, con vantaggio di tutti, un serio e rispettoso

confronto fra concezioni ed esperienze diverse, tutte legittime, della realtà umana. Purtroppo il dibattito, a volte acceso e spesso aspro, vede schierati da una parte il vessillo della difesa della vita, prospettata come bene assoluto, da difendere costi quel che costi, per se stessa, sempre e comunque inviolabile. Dall’altra il motivo della salvaguardia della dignità umana intesa come diritto all’autodeterminazione dell’individuo che si sostanzia nel rifiuto di ogni accanimento terapeutico. L’accento è posto sulla qualità effettiva dell’esistere, misurata e valutata giorno per giorno. I sostenitori della sacralità della vita, della sua inviolabilità ritengono che la vita sia un dono di Dio e che nessuna autorità umana può avocare a sé il potere di sopprimerla, consapevolmente e volontariamente, neppure se sia il titolare a farne richiesta. L’altro fonte ribatte che simili posizioni possono valere per chi condivide queste premesse ideali, non per tutti i cittadini. Uno stato laico e liberale non dovrebbe patteggiare per nessuna posizione di parte, anzi, dovrebbe garantire la convivenza e la possibilità di espressione delle differenti concezioni. Il leitmotiv trasversale a entrambe le posizioni, almeno nelle dichiarazioni di principio, è il rifiuto di ogni forma di accanimento terapeutico e della salvaguardia della dignità umana.

Le religioni hanno prospettive peculiari a questi temi; anche in nome dello stesso Dio e nel segno di una salda fede religiosa, ci sono prospettive molto diverse alle tematiche di fine vita. Rimane valido il presupposto che se contraddittorio e scandaloso è imporre ad altri la propria “felicità di credere”, altrettanto deplorevole è mortificare il sentimento della fede in chi crede2 .

Ci viene incontro la visione umanistica del Servizio Sociale che coniuga in modo formidabile la tradizione liberal-democratica con quella cristiana. Questa sintesi ruota attorno ai principi quali:

• l’individualizzazione e l’accettazione della persona unica e irripetibile; • la fiducia nelle capacità e potenzialità dell’essere umano; • il rispetto dell’autodeterminazione e del segreto professionale3 .

Riconoscere l’unicità di un soggetto, accoglierne le caratteristiche personali ed esistenziali, nutrire fiducia nelle capacità di scelta e di gestione di sé, significa riconoscere a un soggetto la capacità di

scegliere qual è il meglio per lui in una fase della vita senza ritorno, e valorizzarne la propria soggettività. Credo che il diritto di decidere della propria vita faccia parte del corpus fondamentale dei diritti individuali: il diritto di formarsi o non formarsi una famiglia, il diritto alla salute, il diritto a una giustizia equa, il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro, il diritto alla procreazione responsabile, il diritto all’esercizio del voto, il diritto di scegliere il proprio domicilio. L’autonomia rappresenta un elemento necessario, deve connettersi però agli altri principi etici fondamentali, ossia:

• la beneficenza: occorre dare risposta alla richiesta di eutanasia e di suicidio assistito di coloro che soffrono in maniera intollerabile; • la non maleficenza: è necessario evitare abusi sociali nell’accesso ai programmi; • l’equità: la morte priva di sofferenza non dovrebbe essere privilegio di chi possiede maggiori risorse.

Tenteremo di mettere in relazione Servizio Sociale, religioni, spiritualità, bioetica, con alcune precisazioni da tradurre nell’operatività spesso perturbata dei servizi nei quali gli Assistenti Sociali e tutti i professionisti dell’aiuto sono impegnati.

l’accompagnamento spIrItuale

La dimensione spirituale è una dimensione profonda, costitutiva dell’essere umano che può esistere dentro o fuori le religioni. Spirituale è anche religioso. La spiritualità può essere definita come uno spazio interiore libero, in cui ogni individuo si interroga sul senso della sua vita, del suo stare al mondo. La domanda di senso permane durante tutta la vita, ma si accentua nei momenti di crisi, specialmente nell’ultima tappa della vita. Il documento del Comitato Nazionale di Bioetica del 1995 – “Questioni bioetiche relative alla fine della vita” – sostiene che l’accompagnamento spirituale del morente può essere descritto come un processo interpersonale in cui vi è un impegno nell’aiutare una persona a concludere il suo ciclo vitale in modo costruttivo, cercando di mantenere nel più alto grado possibile il

1.1

livello di comunicazione, di ascolto, di accoglienza, nella consapevolezza lucida dei dati socioculturali e dei valori in cui questo processo si colloca. Questa affermazione del Comitato Nazionale di Bioetica ci aiuta a comprendere che il rispetto profondo dei valori e della cultura della persona che sta per morire comporta la capacità di accompagnarla dando spazio, forza e continuità ai significati della vita che quella persona ha maturato nel corso della sua esistenza. L’accompagnamento spirituale del morente comporta quindi la capacità di valorizzare il significato che egli può dare al suo passato, al suo presente e al suo futuro; questa funzione la si può svolgere a partire dal ruolo professionale esercitato, nel rispetto delle proprie competenze e nel rispetto dei valori della persona e della sua capacità di autodeterminazione. Il codice deontologico dell’Assistente Sociale pone tra i principi della professione l’autodeterminazione delle persone; così recita l’articolo 26: “L’Assistente Sociale riconosce la persona come soggetto capace di autodeterminarsi e di agire attivamente”. Il principio dell’autodeterminazione consiste nel riconoscere e valorizzare il diritto di ogni persona ad assumere un ruolo centrale nelle decisioni che riguardano la propria vita, quindi non può non essere preso in considerazione nella cura delle fasi avanzate e terminali delle patologie cronico-degenerative che richiede l’adozione di scelte da parte di tutti gli attori del percorso di cura (artt. 13; 32 della Costituzione; legge 833/78; Convenzione di Oviedo). Il Core Curriculum degli Assistenti Sociali che operano in Cure Palliative e contesti lavorativi di fine vita mette in guardia dall’imporre agli assistiti la propria gerarchia di principi etici, valoriali, religiosi e spirituali. In questo senso la dimensione spirituale è una dimensione laica. La Società Europea di Cure Palliative (EAPC) e la Società Italiana di Cure Palliative (SICP) hanno posto nel Core Curriculum degli operatori in Cure Palliative la necessità di acquisire una competenza spirituale. Lo stesso Core Curriculum invita ad assimilare gli elementi di una spiritualità laica. La dimensione spirituale esprime le relazioni dell’uomo rispetto ai valori ultimi e alle domande sul senso della vita. I bisogni spirituali/esistenziali delle persone alla fine della vita esistono e sono testimoniati dalle molte domande di senso che la malattia e la morte portano con sé in tutti gli uomini. Fondamentale è la riflessione su di sé, l’ascolto della propria

interiorità spirituale. Lo sviluppo di tali attitudini migliora il clima in équipe, la relazione col malato e riduce i rischi di burnout nella cura. È dimostrato che prendersi cura di sé aiuta a mantenere una più alta abilità nella cura, nell’affrontare lo stress e riduce il rischio di burnout, sostiene il professionista dell’aiuto nel consolidare l’abilità nell’essere presente alla sofferenza dell’altro senza esserne travolti.

L’uomo è di per sé un essere spirituale. Le operazioni del pensiero, della volontà sono di natura spirituale. Vecchiato trattando del rapporto tra spirituale e professionale sostiene che la dimensione spirituale è una dimensione umana4. Il connubio professionale-spirituale non è semplice, l’incontro è difficile e complesso. È indubbio che la dimensione spirituale caratterizzi la vita umana e l’esperienza di ogni persona. Per impostare in modo adeguato questa tematica, risulta molto pertinente la distinzione proposta da Brusco tra “spirituale” e “religioso”.

Mentre la dimensione spirituale dell’uomo esprime le sue relazioni ai valori ultimi e le conseguenti risposte alle domande sul senso della vita, la dimensione religiosa indica il configurarsi delle prime secondo forme tipiche (credenze, principi, comportamenti, ecc.) di una determinata religione5 .

La distinzione fa capire che, anche se non sempre il paziente chiede un’assistenza religiosa confessionale, sempre il paziente terminale manifesta un bisogno di carattere spirituale che deve essere accolto. Non si tratta allora di travasare una religione, ma di aiutare il paziente ad attingere alla propria spiritualità.

Curare i morenti – afferma Jomain – significa sapere che un certo numero di essi sente la necessità di trovare al di là di se stessi una sorgente a cui dissetarsi6 .

Le domande più comuni del morente in alcuni casi riguardano l’aldilà, le ragioni della propria sofferenza, gli scopi della vita, la possibilità del perdono. Sebbene siano domande che non pretendono da chi assiste il paziente una risposta di contenuto, tuttavia la presenza di chi assiste è molto importante perché, a quanto sembra, il travaglio spirituale bisogna di un testimone. L’esperienza dimostra che, quando un reale rapporto favorisce l’espri-

mersi del paziente, l’angoscia diventa meno grave da sopportare e questa presenza permette a molti di crescere e di raggiungere una reale accettazione. Così capita che la fase terminale diventi in molti casi un momento di reale crescita.

Certi si riconciliano con i propri familiari dopo anni di disaccordo e di separazione; altri prendono congedo da quelli che amano nel dolore e nelle lacrime, ma non senza una certa gioia di essere circondati da persone care e giungere – forse per la prima volta – a comunicare in modo profondo. Altri superano il senso di sconfitta e di colpa e scoprono che la loro vita passata aveva un senso che fino ad allora non avevano percepito; altri attuano un vero cammino spirituale7 .

Da tutto questo la conclusione che se ne può trarre è l’esigenza di valorizzare la fase terminale. La spiritualità diventa quindi un’energia potente:

• facilita i percorsi di cura; • attiva la persona; • alimenta la speranza; • contrasta la tentazione della rassegnazione e della depressione, dell’incapacità di reagire a situazioni difficili, di sofferenza e di non senso; • supporta i familiari a integrare la persona cara defunta come parte di loro stessi, facendola rinascere nella loro nuova vita.

Soprattutto nell’età anziana aumentano i rischi di malattia, cronicità, disabilità. La persona, quindi, trovandosi in una situazione di dipendenza, esprime più facilmente che in altre fasi della vita questa domanda, chiedendo che i bisogni spirituali vengano ascoltati e abbiano dignità di considerazione, non solo sul piano etico ma anche su quello della relazione d’aiuto. Il problema quindi non può essere delegato unicamente ai ministri del culto, ma è necessario assumerlo in quanto tale, anche all’interno delle scelte e delle responsabilità proprie delle professioni d’aiuto e di cura. Anche i paradigmi scientifici sono passati dalla centratura sull’oggetto (malattia) alla centratura sulla persona, portatore di istanze, bisogni, potenzialità anche di natura spirituale. La spiritualità, grande risorsa di senso ed energia della persona, è poco studiata e poco valorizzata nei percorsi di cura. Il fatto che questo campo di conoscenza e azione sia omesso, censurato e delegato ad

This article is from: