InRelazione

Page 1

OrnellaCavalluzzi Cavalluzzi Ornella ChiaraDegli DegliEsposti Esposti Chiara inRELAZIONE Come il benessere degli insegnanti favorisce l’apprendimento a scuola

inRELAZIONE

Nel nostro Paese la crisi profonda che riguarda il sistema scolastico nel suo complesso si riflette sugli insegnanti e, attraverso loro, arriva ai bambini che delle politiche educative e scolastiche sono destinatari “finali”. Per questo ogni cambiamento della Scuola finalizzato all’apprendimento deve cominciare dagli insegnanti e dagli educatori. Da questi hanno scelto di partire le autrici consapevoli che, se non si lavora sugli adulti, non si arriva ai piccoli e che nella Scuola l’agio degli insegnanti è la condizione migliore per favorire l’apprendimento dei bambini. “inRelazione” oltre che il titolo del libro è una proposta metodologica che mette al centro la formazione degli educatori e degli insegnanti da un punto di vista emotivo e relazionale. Le esperienze proposte offrono loro strumenti e occasioni per entrare in contatto con se stessi e con il proprio bambino interiore, per ritrovare o trovare la giusta motivazione a migliorare la qualità della loro vita professionale e quindi del lavoro con i bambini. Far dialogare la psicologia con la pedagogia, individuando strategie per ridurre l’incidenza di stress che caratterizza la professione dell’educare, è l’obiettivo del metodo. Essere presente nella relazione educativa significa mettersi totalmente in gioco, prendersi la responsabilità del proprio sentire, delle proprie emozioni e del proprio agire, restituendo l’importanza del ruolo delle emozioni nell’apprendimento. In fondo se tornano a stupirsi gli insegnanti, a incontrarsi sul piano anche delle emozioni tra colleghi, a condividere un metodo collaborativo, verrà da sé che anche i bambini staranno meglio nella scuola e impareranno di più. Ornella Cavalluzzi e Chiara Degli Esposti, psicoterapeute e play therapist e ideatrici del “Metodo inRelazione”. Hanno maturato una esperienza decennale nelle scuole e nei nidi come coordinatrici pedagogiche, come formatrici e come supervisori. Lavorano da anni con gruppi di genitori, educatori e bambini.

copertina disegno di Fabio Magnasciutti In In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

Euro ??,?? (I.i.) Euro ??,?? (I.i.)

ISBN 978-88-6153-570-1 ISBN 978-88-6153-570-1

9 788861 535701 9 788861 535701

edizionilalameridiana meridiana edizioni p a r t p a r t e e nn z z e e


Ornella Cavalluzzi Chiara Degli Esposti

inRELAZIONE Come il benessere degli insegnanti favorisce l’apprendimento a scuola


Indice

Introduzione ...................................................... 9 L’educatore consapevole....................................11 I principi del Metodo inRelazione....................21 Gli strumenti dell’educatore.............................29 Le relazioni: la famiglia, il bambino, l’educatore.........................................................45 Il sentire dell’educatore: le emozioni................57 Lo stress dell’educatore....................................69 Il Training sul metodo inRelazione..................79 Le testimonianze...............................................87 APPENDICE Il Burnout nel nido d’infanzia: un esperimento in corso di Maurizio Giorgio Phd .....................97 Bibliografia...................................................... 111


Introduzione

In questo libro abbiamo voluto mettere tutta la nostra voglia di cambiare le cose. Attraverso esempi di vita quotidiana abbiamo cercato di rendere concreta e possibile l’applicabilità delle teorie e dei pensieri a cui ci siamo inspirate negli anni. Come psicologhe psicoterapeute che lavorano nel mondo della Scuola e della formazione, abbiamo ritenuto necessario mettere in dialogo la psicologia con la pedagogia, individuando delle strategie per ridurre l’incidenza di stress e malessere che caratterizzano questa professione. Gli educatori e gli insegnanti sono purtroppo poco “accuditi” dal sistema scolastico; lo stipendio non è adeguato, hanno a che vedere con classi sempre più numerose e con bambini sempre più difficili da un punto di vista emotivo, hanno un carico di lavoro notevole e negli ultimi tempi sono sottoposti a frequenti critiche e talvolta a campagne denigratorie da parte dei mass-media, finendo per essere i capri espiratori del malessere o dello scarso apprendimento degli alunni. A rendere la situazione ancora più critica, hanno contribuito i tagli sulla formazione del personale educativo, dovuto alle scarse risorse finanziarie messe a disposizione dal sistema scolastico. Insomma gli educatori oggi hanno un incredibile bisogno di essere ascoltati, visti, accompagnati, sostenuti, e invece sono abbandonati a loro stessi. La crisi e il profondo stato di malessere che invade la Scuola oggi arriva dritto ai bambini. Come fare ad invertire la rotta? Da dove iniziare? Noi abbiamo scelto di partire dall’adulto, dalla figura educante. Abbiamo capito che se non lavoriamo sui grandi non arriviamo ai piccoli. Da qui è nato il nostro metodo “inRelazione” attualmente oggetto di ricerca da parte dell’università “La Sapienza” di

Roma, Dipartimento di psicologia. L’obiettivo che ci prefiggiamo è quello di formare gli educatori e gli insegnati da un punto di vista emotivo e relazionale, aiutandoli a rinforzare il proprio sé, offrendo loro strumenti e occasioni per entrare in contatto con se stessi e con il proprio bambino interiore, al fine di ritrovare la giusta motivazione e di migliorare la qualità della loro vita e quindi del lavoro con i bambini. Durante i nostri percorsi formativi le insegnanti ci riportano quanto la formazione sia stata utile da un punto di vista anche personale oltre che professionale. Ebbene l’uno è collegato all’altro, noi siamo persone e lavoriamo con persone, i nostri processi emotivi e relazionale sono oggetto di indagine e non possono essere lasciati fuori dal contesto educativo. È importante iniziare a concepire la figura di educatore come una figura integrata dove il proprio vissuto e le proprie emozioni entrano in ballo nella relazione con il bambino e ne condizionano fortemente la qualità. Essere presente nella relazione significa mettersi in gioco, prendersi la responsabilità del proprio sentire, delle proprie emozioni e del proprio agire. Solo così potremmo essere veramente un esempio per i nostri bambini e per una società in difficoltà. Noi crediamo che bisogna iniziare a interrompere questo circolo vizioso a spezzare le catene di malessere che imprigionano la creatività e la voglia di vivere. Le neuroscienze ormai hanno ampiamente dimostrato l’importanza del ruolo delle emozioni nell’apprendimento, del piacere, dei legami affettivi, del gioco, dell’espressione di tutte le emozioni, della condivisione, del poter superare una visione egocentrica della vita. Tutti questi aspetti sono fondamentali per creare uno stato di benessere psicologico e fisico negli adulti e di conseguenza anche nei bambini. Torniamo a stupirci, torniamo ad incontrarci, ricominciamo da noi e solo così potremmo insegnare ai nostri bambini a volersi bene.

inRelazione

9



L’educatore consapevole

Quale educatore per quale scuola? Oggigiorno si parla spesso di un sistema scolastico in crisi. In crisi economica in quanto mancano i fondi necessari per rendere l’ambiente accogliente e funzionale, per garantire un valido aggiornamento agli insegnanti; in crisi sociale perché molti insegnati hanno delle grosse difficoltà a gestire bambini e adolescenti ed a creare con i genitori un rapporto di alleanza; in crisi metodologica in quanto molte strategie di apprendimento sono state messe in discussione, perché non più attuali ed interessanti per i giovani di oggi. La società cambia continuamente: la tecnologia, le nuove scoperte in ambito scientifico, i parametri sociali e relazionali sui quali ci orientiamo, tutto si evolve con una rapidità mai conosciuta in passato. Un’idea da poco formulata viene velocemente sostituita, il nuovo è già alle porte. La Scuola deve potersi rinnovare, aggiornare, confrontare, stare al passo con i tempi. Gli educatori e gli insegnanti di oggi devono spingersi oltre i limiti e confini che il “ruolo” prevede. Non basta più entrare in classe per fare lezione: bisogna saper coinvolgere i ragazzi, appassionarli, parlare il loro linguaggio, saper leggere le dinamiche di gruppo, lavorare sull’alleanza, creare relazioni. Una Scuola che “funziona” è inclusiva, lavora su più aspetti, è creativa, dinamica ed entusiasma. Oggi invece si assiste ad un meccanismo di tipo “espulsivo” piuttosto che “inclusivo”. Il

“diverso” è subito soggetto ad una diagnosi e le etichette e i “casi problematici” aumentano vertiginosamente. Cosa sta succedendo? Durante la nostra esperienza professionale e clinica, ci è capitato molto spesso di accogliere genitori spaventati e allarmati che vivono il trascorso scolastico dei propri figli come negativo. Sono genitori molto confusi che hanno perso fiducia nella Scuola e che arrivano a studio inviati da medici o insegnanti. Capita spesso che il disagio manifestato da un bambino relativo ad aspetti prettamente emotivi e relazionali non venga minimamente considerato e venga subito ipotizzato un Disturbo dell’Apprendimento o un Disturbo da Deficit di Attenzione anche detto iperattività. Questo succede ad esempio a quei bambini molto ansiosi, che generalmente mostrano difficoltà attentive o mnemoniche, o mettono in evidenza il bisogno di muoversi tanto per scaricare la tensione. In questi casi un intervento educativo consapevole e pensato e un buon sostegno alla famiglia sono sufficienti a far rientrare le difficoltà messe in evidenza dal bambino a scuola e a casa. E anche in quei casi in cui effettivamente si riscontrano i cosiddetti DSA, ovvero i disturbi dell’apprendimento, notiamo una diffusa tendenza a sottovalutare una importante componente emotiva che si lega inevitabilmente ad aspetti di tipo cognitivo. Provate a immaginare per un momento come vi sentireste voi a non riuscire a stare al passo degli altri a scuola. Chiedetevi come sarebbe per voi doversi sottoporre a visite specialistiche per verificare l’alterazione di qualche vostra funzione. E cosa provereste voi nel percepire degli adulti di riferimento preoccupati. Questo piccolo esercizio di immedesimazione in un bambino con DSA può farvi comprendere facilmente come una problematica che coinvolge abilità di apprendimento, come la scrittura, la lettura, il calcolo, possa influire sulla percezione che il bambino che ha di se stesso, sulla sua autostima e come questi aspetti possano andare a rinforzare le problematiche evidenziate. Anche inRelazione

11


in questi casi è necessario e doveroso da parte della Scuola pensare non solo ad un intervento didattico mirato ma anche ad un intervento educativo consapevole che sostenga emotivamente il bambino e la famiglia nel suo percorso. Molto difficilmente gli insegnanti hanno a disposizione gli strumenti necessari per accogliere il bambino nella sua interezza. Si tende infatti a separare lo sviluppo cognitivo da quello emotivo senza considerare che l’uno procede parallelamente ed è interconnesso all’altro1. Senza emozione infatti non c’è apprendimento: la crescita e l’apprendimento sono sorretti dalla relazione. La Scuola di oggi invece tende a creare bambini e adulti performanti che rincorrono un ideale di perfezione e di successo in linea con i parametri culturali dei nostri tempi. La competitività diventa spesso uno degli elementi principali su cui l’adulto agisce per creare tra i coetanei il desiderio di primeggiare, di essere il migliore. Si tende a premiare bambini prevalentemente compiacenti, educati, composti, capaci, che eseguono il mandato dell’adulto al meglio e a sminuire chi non si conforma alle aspettative, anche solo perché utilizza altri canali per apprendere. Le caratteristiche personali, le “sfumature” di ogni bambino, sono spesso percepite come elementi “ostili”, d’impiccio, inconvenienti che obbligano il gruppo a rallentare o fermarsi. Pensate ad esempio al bambino che piange disperato al mattino e non vuole entrare in classe o a quello che non si coinvolge nelle attività e parla sempre con il compagno o non sta mai fermo al banco. Pur essendo comportamenti frequenti nei bambini, sono ancora considerati delle variabili da eliminare, in quanto rendono difficile lo svolgimento di una lezione così come era stata pensata dall’adulto. L’insegnante si trova sprovvisto di strumenti relazioni che lo aiutino ad entrare in contatto con l’altro e a decifrare le emozioni che prova. È sta1. Bosi, 2001.

12

Ornella Cavalluzzi - Chiara Degli Esposti

to formato all’università per accrescere le conoscenze dei bambini ma non è stato addestrato ad ascoltarsi e ascoltare, ad utilizzare la sua intelligenza emotiva al servizio del gruppo. Egli è dentro a ciò che accade, non è esente dall’essere coinvolto e non può osservare e valutare “oggettivamente”. Egli è parte del sistema classe e della relazione che coinvolge anche il suo personale stato emotivo e la sua personale storia di vita. Ha un compito molto complesso, a cui non è stato probabilmente preparato, quello di saper agire in modo consapevole, utilizzando ciò che sente nel rispetto della sua realtà emotiva e di quella dell’altro. La relazione si nutre di emozioni e sentimenti ed entrambi hanno una inconsapevole funzione comunicativa. L’agire senza “sentire” dell’educatore è un agire cieco e sordo che si trasforma in automatismo e che sacrifica aspetti personali molto importanti come l’unicità, la diversità, i diversi punti di vista. Grazie ad una relazione accogliente, empatica ed affettiva, è possibile costruire e sostenere la motivazione nel bambino, orientare interventi personalizzati, contribuire alla crescita dell’autostima. La formazione, il lavoro di équipe, la supervisione, sono tutti momenti importantissimi per la salvaguardia del benessere dell’educatore e servono a prendere coscienza dei propri vissuti e a trovare la chiave per entrare in una relazione autentica ed empatica. Un educatore che vive sentimenti di solitudine, che non è adeguatamente formato e che non ha riscontrato nel gruppo di lavoro una efficace rete di supporto, rischia di sviluppare una importante sintomatologia stressogena chiamata burnout. Il burnout è un esaurimento emotivo evidenziato spesso da un atteggiamento cinico, una ridotta capacità empatica e di realizzazione personale. Stanchezza, frustrazione e insoddisfazione sono un importante campanello di allarme. L’insegnante, che è anche educatore, è prima di


tutto una persona, con emozioni, bisogni e difficoltà. Il benessere dell’educatore è il benessere del bambino. Per essere presente a se stesso deve essere sostenuto e preparato a saper osservare non solo attraverso gli occhi ma anche attraverso il proprio sentire. Deve avere la possibilità di coltivare la capacità di ascoltare le proprie emozioni e saper entrare in sintonia con il bambino e la famiglia. Il mondo emotivo e le relazioni che si vengono a creare tra adulto e bambino sono un’incredibile risorsa vitale alla quale bisogna attingere per migliorare le capacità di apprendimento e vivere appieno l’esperienza di vita che la scuola offre. Con questo libro vogliamo porre l’accento sulla relazione tra educatore e bambino, sull’importanza dell’agire con consapevolezza emotiva e di essere in equilibrio. Un insegnante che lavora su di sé, che si prende cura di sé, è in grado di esserci nella relazione con i bambini. Il nostro Metodo “inRelazione” ribalta le prospettive; per prendersi cura del bambino bisogna iniziare a prendersi cura degli adulti educanti, genitori e insegnanti.

Psicologia e pedagogia al servizio di una buona Scuola Oggi più che mai abbiamo bisogno che la psicologia e la pedagogia in ambito scolastico entrino maggiormente in dialogo per poter creare una Scuola integrata. Che sia per tutti i bambini, per tutte le intelligenze, per tutte le emozioni, per tutti i caratteri, che sappia entusiasmare, eccitare, sconvolgere e capovolgere di continuo i punti di vista. Che sia il luogo in grado di generare benessere attraverso un circuito di reciprocità, condivisione tra il mondo degli adulti e quello dei bambini. In quest’ottica l’insegnante non

è più visto come la persona che trasmette conoscenze, quanto un facilitatore nel processo di scoperta, un compagno di viaggio che, a seconda degli interessi e dei bisogni del bambino, personalizza il suo insegnamento. La scuola non è separata dalla vita, ma serve per la vita, mette il bambino al centro del processo di apprendimento attraverso l’esperienza pratica, il fare quotidiano. La comprensione dei concetti avviene attraverso l’azione e la percezione del mondo. L’universo emotivo, il corpo, la sensorialità, sono canali attraverso cui il bambino contatta il mondo ed hanno pari dignità del canale cognitivo, della mente. Per innescare il cambiamento bisogna fermarsi a riflettere e dare spazio e tempo alle emozioni e sensazioni che non hanno né voce né volto. Lavorando in questa direzione e costruendo un ponte tra la pedagogia e la psicologia sarà possibile riscoprire la genialità e la potenzialità di molti bambini etichettati e permettere loro di crescere rinforzando il proprio sé e la propria autostima. In questo modo la diversità potrà finalmente essere vista per quello che è, un’incredibile risorsa.

L’educatore come figura di attaccamento Quando ci confrontiamo con educatori stanchi e avviliti, la sensazione prevalentemente descritta è legata al sentimento di impotenza. L’educatore sente di dare il massimo ma non sempre ottiene i risultati sperati. Può infatti rimanere particolarmente coinvolto all’interno di una dinamica relazionale con un bambino oppure può sentirsi sopraffatto dalla stanchezza e da un gruppo di bambini vivaci. Tra le difficoltà maggiormente espresse vi è la sensazione di non avere gli struinRelazione

13


menti adatti per far fronte ai bambini “difficili”. Abbiamo detto che capita sempre più spesso di imbattersi in bambini che vivono importanti disagi in famiglia, oppure che manifestano specifiche problematiche soprattutto legate alla sfera emotiva. In che modo un educatore si può rendere utile? Cosa può fare per quel bambino? Qual è il suo ruolo in questi casi? Non è né uno psicologo, né un logopedista o psicomotricista, quali strumenti ha a sua disposizione per fronteggiare tali problematiche? Di seguito vogliamo mostrarvi come l’incontro tra un bambino e un adulto può assumere importanti significati per la storia di entrambi. La relazione con l’altro ha in sé delle enormi potenzialità di crescita e di sviluppo che aprono a diverse possibilità comportamentali e punti di vista. La forza della mente umana e della relazione è sostenuta da importanti basi scientifiche che vogliamo raccontare. Prendiamo come riferimento gli studi di Daniel Siegel che rappresentano una perfetta integrazione tra fattori biologici, psicologici e cognitivi. Secondo l’autore le esperienze possono avere effetti diretti sui processi che portano allo sviluppo dei circuiti neuronali – inducendo la formazione di nuove connessioni sinaptiche, modificando quelle preesistenti o favorendone l’eliminazione... Nelle interazioni fra il bambino e la persona che principalmente si prende cura di lui, quest’ultima fornisce esperienze che modellano il potenziale genetico del bambino agendo come regolatori (o disregolatori) psicobiologici di ormoni che influenzano direttamente la trascrizione genica... La storia di ciascun individuo è quindi il risultato delle modalità con cui componenti ambientali, eventi casuali e tratti ereditari contribuiscono nel loro insieme a determinare le esperienze che plasmano, attraverso processi di adattamento e di apprendimento, lo sviluppo della sua mente…

Le relazioni, dunque, condizionano in maniera 14

Ornella Cavalluzzi - Chiara Degli Esposti

significativa il modo di elaborare e costruire la realtà. Il cervello, che è formato da reti neurali attuabili in una infinità di pattern, interagendo con il mondo esterno registra esperienze e modifica le sue successive modalità di reazione. Le reti neurali consentono l’apprendimento mediante la registrazione delle informazioni, queste, a loro volta, facilitano l’attivazione di pattern di eccitazione. Tale fenomeno è stato descritto come connessionismo2. Se un circuito è stato eccitato in passato, la probabilità che venga nuovamente eccitato in futuro aumenta; per cui tanto frequentemente viene eccitato, tanto più ci sarà la possibilità di una nuova attivazione. Ciò che accade in sostanza è un cambiamento, mediato dalle esperienze vissute, nelle connessioni sinaptiche. Sono i rapporti con gli altri e con le figure che si prendono cura del bambino nei primi anni di vita che favoriscono o inibiscono l’organizzazione dei circuiti neurali, la loro capacità di attivarsi in risposta agli stimoli e che permettono l’espressione del progetto geneticamente determinato delle strutture cerebrali. Lo stabilirsi di una relazione di attaccamento sicuro implica uno scambio di segnali fra due persone per cui ai messaggi inviati dall’una segue una risposta diretta da parte dell’altra... durante le prime fasi dello sviluppo, genitori e figli si “sintonizzano” sulle sensazioni e le intenzioni dell’altro, e stabiliscono i legami che costituiscono per il bambino le prime forme di comunicazione interpersonale... queste esperienze precoci di comunicazione reciproca permettono al cervello del bambino di sviluppare la capacità di regolare le emozioni, di mettersi in rapporto con gli altri, di creare una narrativa autobiografica e di affrontare il mondo in maniera positiva... queste prime esperienze di comunicazione interpersonale vengono registrate attraverso varie forme di memoria e letteralmente plasmano lo sviluppo del cervello del bambino.

2.

Siegel, 2001.


La relazione tra educatore e bambino ha una grossa importanza in quanto si pone come una relazione affettiva significativa che aiuta il bambino a sviluppare una “forma di memoria”. Un attaccamento positivo attiverà nei bambini percorsi neuronali già conosciuti o mai conosciuti (nel caso di bambini deprivati affettivamente). Dopo i due anni di età, con lo sviluppo dell’ippocampo, possiamo infatti ricordare attivamente qualcosa e ancora più avanti, con lo sviluppo della corteccia orbito-frontale, possiamo organizzare processi narrativi autobiografici che creano la rappresentazione di noi stessi nel tempo. Dato che queste funzioni si sviluppano e si organizzano nei primi anni di vita, le persone che si prendono cura del bambino possono profondamente influenzare il processo, favorendolo o inibendolo. La co-costruzione, come avviene ad esempio in una psicoterapia, di narrazioni coerenti della propria storia personale, permette di far emergere stati del Sé che devono essere integrati in modelli organizzativi sempre più complessi ed equilibrati. Le esperienze interpersonali in questo senso plasmano le strutture e le funzioni del cervello da cui emerge la mente.

Gli Attaccamenti Multipli I processi cognitivi si attivano fin dai primi mesi di vita del bambino sulla base dell’esperienza emozionale, del contesto relazionale e delle modalità di cura ricevute. Il bambino sviluppa una relazione di attaccamento con la madre in sintonia con la tonalità emozionale di malessere o benessere vissuta nel rapporto con lei. Secondo la teoria dell’Attaccamento vi sono strutture cognitive definite MOI (Modelli Operativi Interni) che in quanto rappresentazioni di sé e delle persone significative, si attivano come schemi cognitivi capaci di attribuire un significato agli

eventi. Bowlby, parlando di MOI, ha voluto identificare quei meccanismi cognitivi per cui la ripetuta esperienza relazionale con le figure di attaccamento rende il bambino capace di costruire schemi di rappresentazione delle relazioni primarie. La disponibilità affettiva, i gesti di cura, gli abbracci, gli sguardi, la voce, la capacità di decifrare e rispondere alle richieste del piccolo, contribuiscono a creare un legame che rassicura e soddisfa facendolo sentire amato e incoraggiato. La fretta, la non disponibilità, la freddezza, l’anaffettività, l’assenza di contenimento, espongono il bambino alla costruzione di una immagine negativa di sé. La sicurezza emotiva sostiene e aiuta il bambino ad esplorare il mondo e a diventare autonomo, al contrario l’insicurezza emotiva scoraggia l’esplorazione e l’apprendimento. Tale teorizzazione sull’attaccamento trova riscontro in alcuni meccanismi cerebrali innati che spingono il bambino a cercare la vicinanza della figura di attaccamento. Gli studi effettuati sul cosiddetto asse Hypotalamic Pituitari Axis, un sistema complesso che regola il livello di cortisolo nel corpo (l’ormone che entra in circolo in situazioni di stress) dimostrano che l’attivazione del sistema adenocorticale risulta essere molto accentuata alla nascita, per poi diminuire nel primo anno di vita, sulla base della qualità delle cure primarie. Un genitore capace di rispondere ai bisogni di cura e attenzione del bambino facilita il mantenimento di un livello basso di cortisolo, durante l’esposizione a eventi stressanti. Bambini con attaccamento sicuro sembrano possedere strategie di comunicazione adeguate, in quanto funzionali con la riduzione dello stress, pertanto se esposti ad una situazione stressante manifestano un aumento minimo di cortisolo. Siegel definisce la mente umana come una mente relazionale cioè il prodotto delle interazioni di esperienze interpersonali con la struttura e la funzione del cervello. È un processo, più che una struttura, e tale mente-processo si costituisce come costruzione condivisa (co-costruzione) con inRelazione

15


altre menti. Ogni mente individuale non è mai isolata ed è capace di integrare e interagire nel rapporto con l’altro mettendo assieme coerentemente passato, presente e futuro. L’idea di una mente relazionale ha dato origine a ricerche che studiassero la possibilità di sviluppare Attaccamenti Multipli. Per Attaccamenti Multipli intendiamo tutte quelle relazioni significative che il bambino stabilisce (legami di attaccamento) con diverse figure affettive altre dalla figura di attaccamento primaria (madre). Insegnanti, nonni, zii, amici di famiglia, permettono al piccolo di integrare l’esperienza del legame materno. Non è dunque solo il legame con la madre a determinare la percezione che ciascun individuo ha di sé e del mondo, in quanto anche altre relazioni possono agire in maniera significativa. Per gli educatori e gli insegnanti questo assunto diventa fondamentale. Secondo le recenti ricerche nell’ambito degli studi sull’attaccamento, i bambini che hanno avuto con la madre un attaccamento insicuro potranno sperimentare un attaccamento sicuro con altre figure di riferimento, sviluppando così un complesso sistema rappresentazione (MOI). In un sistema familiare e sociale come il nostro, sempre più povero di relazioni, la scuola può diventare l’unico contatto che il bambino ha con adulti di riferimento in alternativa alle figure genitoriali. La figura della scuola, dell’educatore come punto di riferimento per il bambino e la famiglia acquista un significato sempre più importante. La relazione tra educatore e bambino è dunque fondamentale per la crescita e per lo sviluppo e rappresenta lo strumento di eccellenza nel lavoro con il bambino. Partendo da questo presupposto ciò che l’educatore può fare non è strettamente legato al dover fare qualcosa o dover essere diverso da come è, ma riguarda la capacità di focalizzare le sue energie per entrare in contatto autentico con il bambino. 16

Ornella Cavalluzzi - Chiara Degli Esposti

La Resilienza Per comprendere la storia di una persona e aiutarla a narrarla, è importante pensare al suo Modello Operativo Interno come a un processo sempre in divenire. Un individuo può infatti modificare e rielaborare il suo racconto per cambiare il significato attribuito ai fatti. Anche la società possiede un Modello Operativo Interno ed è definito come External Working Model ed anch’essa lo può modificare3. Gli educatori, gli insegnanti e tutti coloro che offrono un servizio alla persona4 devono tenere costante l’attenzione sulle rappresentazioni che i vari sistemi danno delle diverse situazioni. Devono inoltre essere consapevoli che tali rappresentazioni si influenzano a vicenda e creano un circolo vizioso che non permette nessun altro tipo di interpretazione. Le attribuzioni pessimistiche che fanno parte di questo circolo vizioso tolgono speranza alle persone in difficoltà. Diversi bambini e adulti hanno vissuto situazioni familiari e personali estremamente difficili, basta pensare ad un abbandono, alla violenza familiare, morti improvvise, sono tanti gli eventi traumatici che possono segnare la vita di una persona. Eppure molti riescono ad andare avanti, ad avere una vita soddisfacente, ad essere felici. Questa differenza viene evidenziata dalla capacità di essere resiliente e contrastare i problemi della vita. La Resilienza (dal latino resilio = tornare indietro rimbalzare) viene definita come la capacità di riprendersi e di uscire più forti e pieni di prima dalle avversità, è un processo attivo di resistenza, di autoriparazione e di crescita in risposta alle crisi ed alle difficoltà5. La resilienza implica qualcosa di più della sola capacità di sopravvivere, molte persone che hanno superato momenti critici si possono comunque trovare intrappo3. Cyrulnik, 2008a, p. 32. 4. Malaguti, 2005a, 2005b. 5. Walsh, 2008.


late nel passato e vivere sentimenti rabbia e di recriminazione. È un aspetto costitutivo della natura umana, di cui gli individui sono indistintamente dotati: quindi presente in tutte le fasi della vita, seppur non sempre attivo, che consente di usare le esperienze, anche quelle negative, per riflettere, per riparare, per ricominciare a costruire e a realizzare progetti con forza ed energia interiore6.

Il concetto di resilienza vede gli eventi positivi e quelli negativi in relazione tra loro, in un continuum che evidenzia una certa dinamicità. Non sono quindi gli eventi in sé a determinare ciò che avviene in seguito, ma sono i processi che da essi si mettono in moto a conferire significati. Attraverso questo concetto ci allontaniamo dalla classica concezione sul rischio, che deriva dal pensiero lineare e dalla causalità diretta, e ci avviciniamo al pensiero circolare e alla causalità multifattoriale. I cosiddetti fattori protettivi, gli elementi che contribuiscono a potenziare la capacità di resilienza, sono rintracciabili in una prospettiva ecologica ed evolutiva. La prospettiva ecologica prende in considerazione le molteplici sfere d’influenza: la famiglia, il clima politico, economico, sociale ed etnico in cui individui e famiglie soccombono o prosperano. La prospettiva evolutiva prende in considerazione il fatto che ogni situazione fonte di stress è riconducibile a un insieme complesso di condizioni mutevoli, con una storia pregressa e una proiezione temporale nel futuro7 (resilienza familiare). È quindi importante avere una varietà di strategie per affrontare le differenti situazioni difficili qualora si presentassero nel nostro percorso di vita. La capacità di scegliere tra alternative di azioni possibili è un aspetto determinante della resilienza. Se ci limitiamo a focalizzare l’osservazione e a considerare solo 6. Di Blasio, 2005, p. 26. 7. Rutter, 1987.

alcuni periodi della vita di una persona, non riusciremo mai a cogliere che l’individuo è un essere in evoluzione i cui cicli vitali creano differenti, possibili e complesse traiettorie. La scuola ricopre un ruolo fondamentale in quanto luogo in cui si possono tessere relazioni e orientare le azioni al fine di favorire la capacità di resilienza nei bambini e negli adulti. L’educatore che sperimenta per primo un sistema di sostegno e contenimento dalle istituzioni e dal lavoro di équipe può a sua volta creare una rete di sostegno per tutti quei bambini, genitori e famiglie che ne hanno bisogno. La famiglia vive dei momenti di ciclicità legati alle diverse fasi della vita, riuscire ad affrontare le difficoltà potendo contare su reti di relazioni potenzia la capacità di passare attraverso il disagio e di prendere forza dalle esperienze vissute.

La relazione come fattore protettivo Abbiamo visto come le esperienze agiscono sul sistema nervoso generando nuove forme di memoria durature e prolungate nel tempo. La memoria biologica viene intesa come un processo che “riattiva, reimposta, ritraduce”, non è un album fotografico quanto piuttosto un pezzo di plastilina che gradualmente cambia forma8

a seconda di chi interagisce con questo materiale e del contesto in cui viene trasformato. Vi è dunque in ognuno di noi una parte genetica ereditaria e una parte che viene fortemente sviluppata, condizionata e inibita dall’ambiente circostante e dalle relazioni che si vengono a creare. Le espe8. Oliviero, 2002.

inRelazione

17


18

rienze quindi connesse agli stati emotivi hanno un importante ruolo nella regolazione dello sviluppo cerebrale. Il bambino vive durante la sua crescita dei momenti di maturazione che sono frutto della connessione tra fattori costituzionali e ambientali. Intorno ai 3-6 mesi maturano le aree occipitali, temporali e parietali del cervello, che permettono al neonato di controllare il corpo e riconoscere gli stimoli sia visivi che uditivi. Il bambino esplora le sue mani, partecipa in modo attivo ai momenti del sonno e della veglia e piano piano amplia le sue competenze. Tra i 7 e i 9 mesi l’interazione diventa maggiormente intenzionale, il bambino inizia a comprendere che gli oggetti e le persone hanno una vita propria9. È questo il momento in cui matura la corteccia frontale e si sviluppa la capacità del bambino di decifrare suoni, messaggi visivi e tattili10. A 12-13 mesi il bambino inizia ad esplorare il mondo, grazie alla stabilità affettiva delle relazioni fondamentali sviluppa l’espressione verbale e la capacità di assegnare significati. A18-20 mesi riesce a organizzare reti di relazioni per giocare e risolvere problemi. Durante il primo anno di vita, le comunicazioni non verbali, motorie, visive, acustiche, olfattive, portano alla formazione di rappresentazioni presimboliche. Il bambino in questo periodo è biologicamente predisposto ad accogliere le interazioni con le figure di riferimento e a crearsi delle aspettative di risposta e comportamento. La risposta del genitore ai bisogni del bambino espressi attraverso il pianto, il corpo, il linguaggio, crea in lui una regolarità prevedibile di risposta e interazione (rappresentazione simbolica e presimbolica). Questa relazione attesa tra la domanda e la risposta influenza i processi di attenzione, memoria, apprendimento ed emozione. La relazione che si viene a delineare, seppur

Attraverso il rispecchiamento la madre attribuisce significati anche ai movimenti inconsapevoli del bambino quale i pianti, il sorriso, le smorfie, le lallazioni. La valenza emotiva, cognitiva ed affettiva di tale relazione favorisce la costruzione del suo modello operativo interno di sé e dell’altro12. La capacità dell’adulto di rispondere ai bisogni affettivi del bambino è sintomo di intelligenza emotiva13, questa lo rende in grado di sintonizzarsi empaticamente con lo stato emotivo del bambino, di comprenderlo, accettarlo e di dare significato relazionale al suo bisogno. Durante le diverse fasi di sviluppo del bambino possono avvenire dei momenti di criticità che sono spesso riconducibili al normale sviluppo psicofisico. Nei primi tre anni di vita, ogni passo in avanti può trasformarsi in un momento di conflitto nella relazione adulto-bambino. Per esempio a 18 mesi il bambino è più consapevole di sé, usa il linguaggio per comunicare, si guar-

9. Brazelton e Greenspan, 2000. 10. Oliviero, 2002.

11. Bettelheim, 1987. 12. Bolwlby, 1972. 13. Goleman, 1995.

Ornella Cavalluzzi - Chiara Degli Esposti

intervallata da importanti momenti di rottura e di riparazione, procede nel tempo attraverso un continuum fondamentale nello sviluppo affettivo e cognitivo. Il desiderio del bambino di crescere, di apprendere ed esplorare è strettamente connesso alla relazione con l’adulto di riferimento: maggiore sarà il desiderio e la curiosità dell’adulto verso i processi di apprendimento del proprio figlio e maggiore sarà il desiderio del bambino di crescere ed esplorare il mondo. Il bambino desidera apprendere e rispecchiarsi nell’orgoglio materno, per rispecchiarsi anche nella sua felicità, durante i primi mesi di vita, vede se stesso negli occhi della madre che grazie alla sua profonda empatia riflette sul suo viso i sentimenti del bambino, egli vede in lei come in uno specchio e in tal modo trova se stesso11.


da, si riconosce allo specchio e predilige il gioco simbolico. Questi possono essere motivi di frustrazione per lui in quanto non riesce ancora ed esprimersi correttamente ed a portare a termine ciò che ha intenzione di fare. A 3 anni invece vi è un importante sviluppo della capacità immaginativa che però è accompagnata dalle paure, non c’è un confine chiaro tra realtà e fantasia, sonno e veglia. Non sempre i genitori sono coscienti di quanto questi momenti siano legati ad importanti fasi di sviluppo. È così che spesso emergono dei “malintesi relazionali” che creano dei momenti di criticità all’interno delle relazioni familiari. La scuola, gli educatori e gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale in tal senso, e contribuiscono al sostegno delle famiglie e alla diffusione della cultura dei bambini. La relazione se responsiva ed empatica si pone dunque come il più importante fattore di protezione in mancanza del quale abbiamo un fattore di rischio. Un genitore troppo stanco o depresso o impulsivo e un educatore con poca motivazione e non disponibile all’incontro non possono dedicarsi alla costruzione di interazioni e relazioni così complesse e fondamentali. Per cogliere i segnali dei bambini bisogna avere tempo, stare bene con se stessi, sentirsi nutriti dal confronto e dalla relazione con loro e con gli adulti di riferimento. Ogni adulto che entra in una relazione significativa con un bambino deve poter sentire dentro di sé ciò che sta accadendo in quanto può entrare in risonanza con il suo mondo interno e la sua storia familiare. La consapevolezza emotiva è un processo di crescita lungo, difficile e a volte doloroso in quanto coinvolge e contatta quelle zone d’ombra che ognuno di noi possiede dentro di sé. Mettersi in discussione, confrontarsi, essere disponibili a cambiare non è un percorso scontato. Un bambino irretito in un meccanismo di proiezione che coinvolge esclusivamente il vissuto dell’educatore rischia di essere investito di contenuti emotivi che non lo riguardano.

Ogni relazione è il frutto dell’incontro di due persone uniche e irripetibili, proprio per questo la consapevolezza di sé non è una competenza acquisita quanto un processo in divenire che si attiva ad ogni incontro.

Lo strumento sei tu: l’educatore consapevole La relazione risulta essere lo strumento di lavoro per eccellenza, frutto di un’importante formazione personale e di gruppo. Nell’incontro con l’altro è importante che l’educatore si orienti in base al proprio sentire e al suo modo unico di esserci. La soggettività è ricchezza ed è un diritto che riguarda il bambino così come l’adulto e comprende l’accettazione di come siamo, in quanto individui unici e irripetibili. L’educatore deve saper accogliere l’altro così com’è, rispettandolo nella sua soggettività, tenendo ben presente che non esiste una verità obiettiva e che l’altro ha il diritto ad avere un suo personale punto di vista, anche se differente. Può attingere al suo sentire nella relazione educativa con il bambino, ed è in grado di contattare se stesso, emozioni, limiti, e di co-costruire una relazione autentica in quanto sempre emotivamente coinvolto. Ognuno di noi all’interno di una relazione svela se stesso anche quando non vuole, attraverso il linguaggio non verbale: il corpo, la postura, le espressioni, l’ambiente, l’abbigliamento, parla di sé e del suo modo di essere in relazione con l’esterno. L’educatore dunque influenza fortemente il processo educativo e di conoscenza del bambino in maniera sia esplicita che implicita: quello che dice, quello che fa, come lo dice, come lo fa. L’idea di una figura neutrale è sorpassata, alla base di una relazione autentica c’è la consapevolezza dell’importanza di essere un educatore inRelazione

19


empatico e supportivo che sappia agire consapevolmente nella relazione. Contenere e condividere il mondo emotivo del bambino permette all’educatore di entrare in contatto con il suo mondo emotivo e crescere insieme, incontrando l’altro scopre se stesso. Egli deve saper giocare tra il ruolo e la persona e ritrovarsi in un luogo (relazione educativa) in cui poter sperimentare umanità e creatività. La relazione educativa è influenzata dal mondo emotivo e familiare del bambino e da quello dell’adulto. Il modo in cui l’educatore vive ed ha vissuto le sue relazioni familiari influenza e condiziona le relazioni che viene a creare con il bambino. È fondamentale quindi essere coscienti dei meccanismi interni che agiscono ed orientano i nostri pensieri per poter mettere a fuoco limiti e risorse all’interno della relazione. Solamente in questo modo l’educatore riuscirà ad entrare nel mondo del bambino mettendosi nei suoi panni senza rimanere incastrato. Essere eccessivamente coinvolti dalle emozioni può portare a re-agire (attivando circuiti emotivi che fanno parte della propria storia) e a non riconoscere più ciò che appartiene a se stesso e ciò che appartiene all’altro. Il gruppo di lavoro, l’équipe educativa, rappresenta un ottimo spazio all’interno del quale poter riflettere e confrontarsi. La diversità di pensieri ed emozioni arricchisce il pensiero del singolo formando un linguaggio condiviso. Attivando il gruppo, la responsabilità dell’agire educativo viene in parte distribuita alla mente collettiva, la condivisione favorisce lo scambio e il supporto reciproco, evitando vissuti di solitudine che compromettono la serenità dell’adulto e del bambino. Incontrare un bambino significa incontrare corpo, mente e anima. Corpo in quanto veicolo di comunicazione ed espressione emotiva, di mente intesa come cognitiva, di anime in quanto l’uno entra nel progetto di vita dell’altro. Ciò che nasce nel nostro cuore (sé dell’educatore) viene 20

Ornella Cavalluzzi - Chiara Degli Esposti

spiegato dalla nostra testa (ipotesi) ed eseguito dalle nostre mani (metodologia). L’educatore durante il percorso di formazione utilizza la scoperta di sé nel suo lavoro. Scoprire se stessi aiuta a conoscere i limiti oltre i quali non si può andare, vuol dire abbandonare le certezze, i miti, le spiegazioni sempre pronte. Imparare a fare tutto questo è indispensabile per incontrare il bambino ed entrare nel suo mondo. Riscoprire il proprio sentire, l’essere in contatto in modo consapevole, rappresenta la luce del faro in un mare in tempesta.


I principi del Metodo inRelazione

I principi di inRelazione sono: • l’autenticità della relazione; • il diritto alla soggettività; • la responsabilità personale e sociale; • la diversità come risorsa. In questo capitolo vogliamo raccontare quali sono i princìpi che stanno alla base del nostro metodo, in modo da creare un linguaggio comune e condiviso utile ad affrontare le tematiche successive. Tali princìpi riguardano i bambini così come gli adulti di riferimento che si prendono cura di loro – in quanto genitori, educatori e insegnanti – e sono strettamente legati l’uno all’altro. Nel definirli siamo state influenzate dall’ottica fenomenologico-esistenziale. Secondo il punto di vista fenomenologico la realtà non è veramente individuabile, ma è percepibile solo attraverso la propria visione soggettiva (Husserl): è la mia realtà, è il mio vissuto personale. Tale nozione e quella di esserci, essere presenti (Heidegger) sono state fondamentali nella costruzione del nostro pensiero e nell’individuazione dei principi che ci guidano. Questi concetti ci hanno fatto riflettere sul fatto che in tanti modi interrompiamo la relazione con i bambini o con i loro genitori: per esempio, lo facciamo ogni volta che gli affibbiamo una etichetta o formuliamo pseudo spiegazioni preconfezionate riguardo all’origine delle loro difficoltà. Le etichette per noi sono affermazioni del tipo “è depresso, è ipe-

rattivo, è arrabbiato, è svogliato”, che in ambito scolastico ci capita spesso di sentire quando ci viene descritto un bambino. Tali etichette sono spesso accompagnate da interpretazioni che spiegherebbero il motivo del comportamento “disfunzionale” a scuola. Alcuni esempi? Eccoli: “È colpa dei genitori che lo viziano, a due anni dorme nel loro letto!”; “La madre gli mette l’ansia e non ci aiuta nel nostro lavoro”; “A casa si vede che non gli danno regole e lui fa come gli pare!”; “La madre lo allatta ancora, ti credo che piange al nido!”. Concentrati nel cercare di comprendere il bambino e il genitore, attraverso l’individuazione di una etichetta che meglio lo definisca, non ci diamo la possibilità di esserci in quella relazione, deviando l’attenzione verso l’altro e contemporaneamente verso il nostro processo interno, che ci guida e ci sostiene nell’incontro autentico con quella persona, bambino o genitore che sia. Tornando quindi alla fenomenologia, che dice come la nostra verità soggettiva sia il modo attraverso il quale conosciamo il mondo, dobbiamo essere consapevoli che quando interpretiamo stiamo semplicemente dando voce alle nostre fantasie, non stiamo certo descrivendo la realtà oggettiva delle cose. In linea con questo principio, quando incontriamo l’altro e vogliamo conoscerlo, non ci muoviamo in base alle categorie di normale/anormale, sano/patologico, giusto/ sbagliato, che orientano invece alcuni approcci pedagogici; ma in base al nostro sentire e al nostro modo unico di esserci. Dall’esistenzialismo invece prendiamo il concetto di diritto alla soggettività, che riguarda il bambino così come l’adulto e che comprende l’accettazione di come siamo, in quanto individui unici e irripetibili. Queste nozioni che sostengono il nostro pensiero si traducono operativamente nel lavoro di educatore, nell’accogliere l’altro così com’è, rispettandolo nella sua soggettività, tenendo ben presente che non esiste una verità obbiettiva e inRelazione

21


che l’altro ha il diritto ad avere un suo personale punto di vista, anche se è differente dal nostro. L’obiettivo dell’educatore è allora l’incontro autentico con l’altro. E lo strumento per eccellenza è essere stessi.

L’autenticità della relazione Quella dell’insegnante è, secondo la nostra prospettiva, una professionalità strettamente legata alla capacità di stare emotivamente con il bambino, attraverso l’uso dell’empatia. Per empatia intendiamo la capacità di mettersi nei panni dell’altro sapendo paradossalmente restare nei propri. Implica dunque la capacità di identificarsi nella persona, per conoscere il suo sentire e il suo pensare e per sperimentare la sua realtà dall’interno, senza perdere di vista se stessi e la propria soggettività. Questa caratteristica fondante delle relazioni educative gli conferisce un altro aspetto importante, ovvero l’autenticità. È l’incontro tra due soggettività che rende quella relazione unica e irripetibile. L’insegnante, presente e in contatto con le sue emozioni, i suoi bisogni, i suoi limiti, sta nella relazione con il bambino incontrandolo e rispettandolo a sua volta nel suo modo unico di “esserci”. Per educare attraverso la relazione l’insegnante deve imparare a “stare sotto lo stesso orizzonte degli eventi”, partecipando all’esperienza del bambino in assenza di giudizio. Può farlo se sente di avere il diritto di essere come è, di provare quello che prova, di vivere ciò che vive; permettendo all’altro di fare lo stesso, contattando ciò che è, non costringendolo a mascherare delle parti di sé per compiacerlo o farsi accettare. La difficoltà più grande di questo modo di lavorare è quella di essere disposti a crescere e scoprirsi come persona mentre conosciamo e incontriamo l’altro. Ogni volta che riscontriamo 22

Ornella Cavalluzzi - Chiara Degli Esposti

una difficoltà o un problema nella relazione con un bambino, un genitore, un collega, veniamo in contatto con i nostri limiti e difetti, con gli aspetti problematici del nostro sé. È allora più facile giudicare l’altra persona come strana, pazza, anormale, piuttosto che fare i conti con se stessi. Lavorare secondo quest’ottica significa assumere una posizione consapevole che porta l’insegnante ad accogliere il proprio vissuto e a scegliere, anche in base ad esso, la risposta più appropriata alla situazione, vedendo rispettati i bisogni e i vissuti della persona con cui è in relazione. Immaginiamo una scena in cui un bambino si arrampica su un mobile molto alto e l’insegnante preoccupata gli urla istintivamente di scendere, minacciandolo con la promessa di metterlo in punizione. Può succedere a chiunque ovviamente, ma se ci soffermiamo ad analizzare ciò che accade in questa scena ci accorgiamo che l’educatrice agisce la sua paura e blocca la naturale voglia di scoperta del bambino, rimandandogli il messaggio che è sbagliato ciò che fa. Essere autentici significa allora essere onesti con se stessi rispetto a ciò che ci sta creando disagio e non agire le proprie emozioni nella relazione senza esserne consapevoli, come nel caso dell’esempio. Le domande che l’insegnante dovrebbe porsi sono: Cosa posso farci con la mia ansia, la mia preoccupazione? Come posso rispondere, senza negare ciò che provo e rispettando i miei limiti? Quello che solitamente ci si domanda è invece: come faccio a cambiare l’altro? come faccio a impedirgli di fare qualcosa che genera in me delle sensazioni spiacevoli? È questa posizione che porta l’educatore a dare la colpa al bambino, uscendo dalla relazione e de-responsabilizzandosi: “Non sono io che sbaglio, è lui che è agitato, maleducato, distratto”; “È colpa dei genitori che non gli danno regole, della collega che gli dice sempre sì!”.


Far parte di un gruppo di lavoro e avere la possibilità di incontrarsi e confrontarsi liberamente in uno spazio e un tempo pensato per questo, può aiutare gli educatori a riflettere sulle esperienze vissute con i bambini nella quotidianità, analizzando i propri agiti e comportamenti alla luce di una maggiore consapevolezza delle emozioni, delle fantasie, dei pensieri che si muovono dentro ognuno nell’incontro con l’altro. Per concludere, il punto focale del processo educativo diventa allora l’incontro autentico con il bambino e lo scopo dell’educatore è trovare il modo di raggiungerlo direttamente, senza dimenticarsi delle proprie “differenze” e quindi dell’importanza di rimanere fedeli alla propria soggettività.

Il diritto alla soggettività Sappiamo che l’essere umano è per sua natura “unico” e non paragonabile a nessun altro, pertanto non possiamo generalizzarne l’esperienza. Ogni bambino è unico e ha diritto di essere così com’è. Ha diritto a essere imperfetto, ad avere le proprie difficoltà, a provare tutte le emozioni, a sentirsi confuso o spaventato. Ha diritto ad avere i propri bisogni e un punto di vista personale, a esprimere le sensazioni in modo unico, a poter scegliere quello che gli piace o non gli piace. Ogni bambino ha diritto a essere visto, riconosciuto e apprezzato per quello che è. Può sembrare un concetto scontato e banale, ma difficilmente in ambito scolastico viene riconosciuto come valore da rispettare e quindi messo in pratica. Non vogliamo porre in discussione l’affetto sincero che gli insegnanti e gli educatori provano verso i loro alunni o l’impegno e la cura che mettono ogni giorno per accompagnarli nella crescita. Spesso però la buona volontà dell’educatore non è sufficiente a far sentire quel bam-

bino accettato e riconosciuto per quello che è. I bambini, a differenza degli adulti, manifestano senza difficoltà il bisogno di essere visti. Immaginate tutte le volte che un alunno si rivolge a noi orgoglioso del suo disegno e dice “Guarda maestra!”. Di solito, liquidiamo quel bambino con una frase del tipo “Ma è bellissimo, bravo!”, senza neanche voltarci a guardarlo, continuando in ciò che stiamo facendo. Riflettendoci bene, quello che comunichiamo in situazioni come questa è il valore che stiamo dando alla prestazione del bambino, non alla sua persona. Chiedendoci di guardare il suo disegno, il bambino ci sta probabilmente chiedendo di guardare lui e riconoscere la sua esperienza, non di mostrarsi bravo ai nostri occhi. Oppure quando un bambino piange all’accoglienza mentre saluta il genitore, alcune volte sentiamo frasi del tipo “Non c’è bisogno di piangere, qui ci divertiamo!”, “ Ora basta piangere, mamma poi va via triste!”, “Sei l’unico che piange, i tuoi amici sono tutti tranquilli!”. Anche in questo caso il bambino ci sta chiedendo di guardarlo e riconoscere la sua esperienza emotiva, accogliendo la sua tristezza, le sue lacrime, il suo bisogno di contenimento e rassicurazione, la sua confusione. Risposte simili hanno invece l’effetto di far sentire l’altro giudicato e contengono l’implicito messaggio di spostare l’attenzione dalla propria esperienza emotiva ai sentimenti degli adulti di riferimento. Anche in questo caso chiediamo al bambino di fornire una prestazione e non gli permettiamo semplicemente di essere quello che è. Poi ci sono le situazioni dei bambini cosiddetti “difficili”, quelli per esempio che usano di frequente le mani, la forza fisica o un linguaggio scortese; quelli che non stanno mai seduti, che hanno difficoltà a concentrarsi e che alla frustrazione rispondono con modalità aggressive. Generalmente questi comportamenti suscitano qualche problema in ambito scolastico. Nella nostra esperienza professionale riscontriamo in inRelazione

23


questi casi un bisogno urgente da pare degli insegnanti di trovare la strategia per spegnere tali comportamenti e di rado la necessità di conoscere veramente il bambino, incontrarlo come persona, al di là degli atteggiamenti che manifesta. Nel raccontarci di quel bambino, gli insegnanti fanno una lista delle azioni messe in atto durante la giornata a scuola, che mettono in evidenza l’incapacità di relazionarsi in modo “adeguato” ai compagni, agli insegnanti, alle attività, alle cose. Sono racconti che si fondano su concetti di giusto/sbagliato, sano/patologico, buono/cattivo, educato/maleducato. Sono racconti che non parlano del valore di quel bambino in quanto persona unica e irripetibile, che ha bisogni esistenziali, tra i quali quello di essere visto e apprezzato dagli adulti di riferimento e di ricevere sostegno. Di nuovo il focus è invece sulla prestazione e, anche nei casi in cui vengono individuate strategie e tecniche efficaci per estinguere i comportamenti “inadeguati”, il rischio è che si vada a limitare la vitalità e la gioia di vivere di questi bambini e la capacità naturale di essere sani e mantenersi tali. Una tecnica è solo una tecnica e non è di per sé sufficiente a rimandare all’altro il valore che ha come persona. Dal nostro punto di vista, solo le relazioni fondate sull’autenticità, nelle quali le persone si incontrano portando la loro soggettività, hanno in sé questo valore. Secondo la nostra visione, inoltre, non esiste una realtà certa delle cose, il nostro modo di osservare influenza il dato osservato, essendo noi stessi parte dell’osservazione (Lewin, Teoria del campo). Un insegnante che racconta il bambino attraverso la lista dei comportamenti inadeguati non si include nell’osservazione, si taglia fuori dalla relazione, non riconoscendo l’unicità che la caratterizza e l’influenza che su di essa hanno le persone e il contesto. Si dà per scontato che è così, che il problema è il bambino. Invece sarebbe opportuno soffermarci su un elemento fondamentale: tutto ciò che proviamo nei suoi 24

Ornella Cavalluzzi - Chiara Degli Esposti

confronti, che pensiamo di lui come persona, la fiducia che riponiamo nelle sue capacità, tutto ciò è destinato a determinare quel che accade nell’incontro con lui. Nella nostra prospettiva, il punto è che bisogna smettere di dare valore alla performance, sia del bambino sia dell’educatore, e bisogna invece ritornare alla capacità innata di sentire, di esserci, di sperimentare, che ci guida nell’incontro autentico con l’altro. Nella pratica questo significa che se ci sentiamo a volte arrabbiati e frustrati di fronte ai comportamenti di un bambino, ne abbiamo il diritto e possiamo partire dal contatto con queste emozioni, senza negarle e senza bisogno di fingersi diversi, per rendere davvero efficace il nostro intervento. Anche gli adulti, come i bambini, hanno bisogno di sentirsi visti e questo diventa possibile solo quando si è in contatto con le proprie emozioni e i propri bisogni. Quando l’educatore è presente e in contatto e lo permette anche al bambino, allora getta le basi per costruire una relazione autentica.

La responsabilità personale e sociale Un obiettivo importante, nel lavoro dell’educatore che fa propri i valori finora discussi, è quello di favorire lo sviluppo della responsabilità personale del bambino. Essere respons-abili significa essere abili a rispondere a modo proprio a quello che ci accade, assumendo potere sulla nostra vita, e implica la capacità di rimanere in contatto con i nostri bisogni, con ciò che ci piace e con quello che vogliamo per noi. I bambini educati a un senso di responsabilità naturale e personale tendono anche a divenire responsabili socialmente, ovvero abili a stare nelle relazioni in modo rispettoso e consapevole,


in quanto sono in grado di rendersi conto della percezione di sé e delle persone con cui entrano in relazione. Nei contesti scolastici si è particolarmente attenti a educare i bambini a essere responsabili socialmente, favorendo l’accrescimento del senso collaborativo e del rispetto tra persone; e non altrettanto attenti a favorire lo sviluppo della responsabilità individuale. Il punto è che un bambino responsabile socialmente non è detto che lo sia a livello personale. Considerando che l’obiettivo principale del nido e della scuola d’infanzia è la strutturazione dell’identità del bambino, crediamo sia di basilare importanza riportare l’attenzione degli educatori e degli insegnanti su questo concetto, essendo la responsabilità personale fondamentale per lo sviluppo di una sana autostima e di un buon senso del sé. I bambini sono competenti fin dalla nascita; sanno comunicare i propri bisogni agli adulti che si prendono cura di loro; e sanno distinguere chiaramente cosa vogliono da ciò che non vogliono, cosa piace e cosa non piace. I neonati che non hanno più fame allontanano la testa dal capezzolo della madre oppure si lamentano o piangono quando sentono freddo o caldo, quando sono bagnati o quando hanno bisogno di coccole e contenimento. Fin dalla nascita i bambini sono in contatto con i propri sensi, le proprie emozioni, il proprio corpo. Gradualmente anche l’intelletto si sviluppa e il bambino arricchisce le proprie competenze a tutti i livelli. In un ambiente in cui gli è permesso di esprimere emozioni, bisogni e interessi, il bambino ha la possibilità di conservare la propria integrità e di imparare a fidarsi della propria capacità di auto-regolazione. In un contesto in cui invece non gli si dà la stessa opportunità, il bambino impara che “per essere amato deve tradire se stesso!”. Già da piccolissimi infatti sperimentano il conflitto tra l’esigenza di conservare l’integrità e l’impulso di adeguarsi alle aspettative esterne. È evidente che le famiglie hanno un ruolo fonda-

mentale in questo processo, ma non si può pensare che l’intera responsabilità ricada sui genitori. Tutti gli altri contesti di vita, in primo luogo la scuola, hanno un’incidenza più o meno significativa sulla qualità della vita dei bambini. Per salvaguardare l’integrità dei bambini e favorire lo sviluppo della responsabilità personale, è necessario che educatori e insegnanti prendano in considerazione – con serietà – se stessi e i propri alunni. Prendere in considerazione l’altro significa non negargli il diritto di avere bisogni, desideri, sentimenti diversi dai nostri. Significa avere la capacità di mettersi nei panni dell’altro per considerare il suo punto di vista anche quando non coincide con il nostro. Significa avere fiducia nelle competenze del bambino e nella sua capacità di autoregolarsi. Significa avere chiaro che bambini e adulti hanno pari dignità (Principio dialogico di Buber), ovvero che i bisogni di entrambi sono ugualmente importanti e vanno presi in considerazione. Pensate per esempio a quegli insegnanti che ritengono educativo far rispettare la regola di finire tutto il cibo nel piatto, e che si impongono con frasi del tipo “Non ti alzi fin quando non hai finito di mangiare!”, “Non esiste la parola non mi piace, si assaggia tutto!”, “Se non finisci il piatto significa che non hai fame! Non mi chiedere di fare merenda dopo!”. In questi esempi, l’insegnante si pone in una posizione di potere, imponendo una regola che interferisce sulla capacità di autoregolazione del bambino e sminuisce la sua competenza. Attraverso la regola, l’insegnante controlla e spiega al bambino quali dovrebbero essere i suoi bisogni. Dal nostro punto di vista i bambini sanno cosa gli piace e cosa no, hanno diritto ad avere dei gusti sul cibo ed è ammissibile che non tutto quello che c’è da mangiare possa essere di loro gradimento. Riteniamo inoltre che potrebbero esserci un’infinità di fattori legati allo scarso appetito: per esempio, non avere fame nel momento in cui si va a mensa, stare poco bene inRelazione

25


a livello di salute, sentirsi preoccupati, ansiosi, arrabbiati per qualche motivo, vivere l’esperienza del pranzo a scuola come un momento poco piacevole. Nell’evidenziare le qualità che secondo noi dovrebbero caratterizzare le relazioni con i bambini, non vogliamo invitare gli educatori a sostituire un atteggiamento autoritario con uno totalmente libertario. Non avere alcuna regola è altrettanto pericoloso del ricevere un’educazione rigida e poco tollerante. L’adulto deve essere una guida consapevole e attiva per il bambino, deve saper stabilire limiti chiari, assumendosi la responsabilità del proprio ruolo e delle proprie scelte se vuole favorire il benessere del sistema e una crescita sana di tutti gli individui che ne fanno parte. L’adulto svolge la funzione di guida senza negare però al bambino il diritto di avere delle necessità diverse dalle sue, trattando i desideri e i sentimenti che esprime con serietà, accogliendo il suo personale punto di vista senza giudicarlo o sminuirlo. Un bambino che incontra un adulto autorevole, rispettoso e in ascolto, impara a fidarsi dei propri bisogni, a non giudicare le proprie emozioni, anche quando sono in conflitto con quelle dell’adulto e ha quindi la possibilità di sviluppare una responsabilità del tutto personale. Ma a questo punto vi chiederete come gli insegnanti possano salvaguardare la propria integrità, rispettare se stessi e allo stesso tempo non interrompere la relazione con il bambino. Immaginate di entrare al lavoro stanchi e preoccupati per problemi personali e di trovarvi di fronte a una classe di bambini che richiedono la vostra attenzione. Immaginate di sentirvi a un certo punto esasperati dalla vivacità del bambino che non sta fermo un secondo, dal pianto lamentoso di quell’altro che ci chiama in continuazione, dalla confusione che si genera stando in tanti nella stessa stanza. E di esplodere allora con affermazioni tipo “Adesso basta, oggi siete insopportabili!”, “Mi state facendo venire il mal di testa!”, “È possibile che hai sempre qualcosa 26

Ornella Cavalluzzi - Chiara Degli Esposti

da chiedere? Non sai cavartela da solo?”, “Basta! Ho capito che vuoi mamma! Quante volte devi ripeterlo! Ti ho detto che sta al lavoro!”. Immaginate di esser così riusciti a non farvi più disturbare fino alla fine della vostra giornata lavorativa. Probabilmente vedrete soddisfatto il vostro bisogno, ma avrete perso indubbiamente anche una grande opportunità, quella di dimostrare ai vostri bambini che si può essere rispettosi di se stessi senza dover incolpare l’altro del proprio malessere e senza giudicare e svalutare i suoi comportamenti. La nostra proposta è quella di accogliere il vostro stato d’animo e dargli voce, comunicando ai bambini quel che vi sta capitando in modo sincero e autentico, con affermazioni che suonano un po’così: “Bambini oggi sono molto stanca, ieri ho passato una brutta giornata e so che non sarò molto paziente! Vi chiedo di aiutarmi e di parlare a voce bassa!”. L’adulto in questo modo sollecita i bambini a una responsabilità personale e sociale anziché insegnargliela. Diventa un modello con il quale i bambini possono collaborare e non si comporta come un’autorità che predica qualcosa che essa stessa non è disposta a fare.

La diversità come risorsa Abbiamo argomentato ampiamente la necessità di sostenere la soggettività del bambino e di prendere in considerazione con serietà il suo punto di vista, accogliendo il suo modo unico di esserci e di esprimersi. Quello che ora vogliamo portare alla vostra attenzione è il valore della diversità che diventa tale quando insegnanti ed educatori sono capaci di solleticare nei bambini la curiosità verso il punto di vista dell’altro. I sentimenti di rispetto e di tolleranza, che caratterizzano ciò che abbiamo definito responsabi-


lità sociale, sono solo propedeutici all’incontro con la diversità. L’adulto, come più volte detto, sarà da esempio; se avrà paura del diverso sarà portato a formulare giudizi e a prenderne così le distanze; se ne sarà incuriosito gli darà valore, permettendo anche ai bambini di prendere parte a un processo di reciproco e continuo arricchimento. Trasformare le differenze in una risorsa diventa allora possibile nella misura in cui siamo disposti ad accettare che la nostra prospettiva non coincide con la verità, essendo consapevoli che si modifica e si arricchisce dal confronto con altre esperienze e punti di vista, anche quando ci sconvolgono per la loro originale diversità. Dal nostro punto di vista, considerata la reciprocità della relazione tra educatore e bambino, far proprio il principio di diversità come risorsa implica un capovolgimento di prospettiva rispetto agli orientamenti pedagogici tradizionali, in quanto si dà per scontato che dall’altro, anche se è un bambino piccolo, possiamo imparare sempre e comunque. Non possiamo dimenticare, nell’approfondimento di questo principio, i bambini con bisogni educativi speciali. La nostra prospettiva, evidenziando l’importanza della costruzione di una relazione autentica e rispettosa della soggettività di ognuno, è portata a considerare anche il disagio, la fragilità, l’handicap dal punto di vista relazionale. Più che parlare di bisogni educativi speciali si dovrebbe parlare, a nostro avviso, di bisogni relazionali speciali, riportando l’attenzione sulla centralità della relazione, che si caratterizza per la reciprocità e per pari dignità tra gli interlocutori. Sembra banalità, ma ci fa piacere sottolinearla anche questa volta: l’educatore incontra una persona, non un problema, e nell’incontro cresce e si arricchisce così come il bambino. Se sappiamo cogliere la magia di una relazione così speciale, avremo la possibilità di ricevere un bene relazionale inestimabile e prezioso. Se invece considereremo la persona solo come portatore

di un limite, correremo il rischio di sostituirci a lui e, così facendo, di promuovere una relazione caratterizzata dalla dipendenza, incrementando l’handicap. Il reciproco e continuo arricchimento nell’incontro con un bambino speciale è, secondo il nostro punto di vista, la condizione indispensabile per l’efficacia di qualsiasi intervento; quando la persona si sente vista, e tale riconoscimento è facilitato dal reciproco interesse, le relazioni si fondano su uno scambio tra dare e ricevere che va oltre qualsiasi tipo di differenza. Gli studi di Lewin sulla Teoria del campo considerano il gruppo nella sua totalità e sottolineano il fatto che il gruppo non è dato dalla somma numerica delle persone che lo compongono, ma è una totalità le cui caratteristiche non sono riconducibili a quelle di ciascun elemento del gruppo. Facciamo un esempio di che cosa questo significhi nella pratica educativa. In ogni classe c’è sempre un bambino che crea “problemi” con il suo comportamento; secondo il nostro punto di vista è importante che l’insegnante non si focalizzi esclusivamente sul bambino in questione, ma cerchi di capire anche in che modo questo suo problema è legato alla vita della classe, in che modo, cioè, egli sta esprimendo il disagio del gruppo, svolgendo il ruolo di capro espiatorio. L’insegnante orienterà allora il proprio intervento educativo non soltanto verso il singolo, ma anche sul gruppo. Lo farà utilizzando strategie come il circle time, che rendono possibile il confronto tra posizioni differenti e la possibilità per ognuno di contribuire a rendere più arricchente la discussione attraverso la condivisone del suo punto di vista, avendo allo stesso tempo la possibilità di ampliare la propria visione, osservando il mondo con gli occhi dei compagni. In un contesto scolastico in cui si dà valore al gruppo, ogni bambino ha inoltre la possibilità di scoprire e venire in contatto con aspetti di sé più o meno inascoltati e di farne esperienza anche attraverso l’altro. Vi facciamo un esempio. In una classe di bambini, quello riservato può entrare in inRelazione

27


contatto con la propria energia aggressiva, che solitamente reprime e non ascolta, grazie all’incontro e al confronto con un compagno che invece la sa esprimere e ascoltare. Viceversa un bambino molto agitato, che mostra difficoltà a concentrarsi, può venire in contatto, attraverso l’amico più riflessivo e introspettivo, con queste parti di sé ancora poco conosciute. Ogni gruppo diviene fonte costante di supporto emotivo e racchiude, di fatto, un grande tesoro a cui tutti quanti possono attingere, ognuno mettendo a disposizione della classe la propria ricchezza e il proprio modo unico di esserci e di esprimere le emozioni. Il gruppo classe è, in sostanza, co-educazione e co-evoluzione, ovvero si cresce insieme, e in questo processo sono coinvolti i bambini così come gli adulti. Ciascuno contribuisce con la propria tessera alla creazione dell’intero mosaico. Sarebbe assurdo pensare che un solo pezzetto completi l’opera. Ma senza quella tessera, per quanto piccola, il mosaico sarebbe incompleto. Ogni tessera ha la propria forma, colore e dimensione. Proprio per questo il mosaico alla fine è così bello.

28

Ornella Cavalluzzi - Chiara Degli Esposti


Ornella OrnellaCavalluzzi Cavalluzzi Chiara ChiaraDegli DegliEsposti Esposti inRELAZIONE Come il benessere degli insegnanti favorisce l’apprendimento a scuola

inRELAZIONE

Nel nostro Paese la crisi profonda che riguarda il sistema scolastico nel suo complesso si riflette sugli insegnanti e, attraverso loro, arriva ai bambini che delle politiche educative e scolastiche sono destinatari “finali”. Per questo ogni cambiamento della Scuola finalizzato all’apprendimento deve cominciare dagli insegnanti e dagli educatori. Da questi hanno scelto di partire le autrici consapevoli che, se non si lavora sugli adulti, non si arriva ai piccoli e che nella Scuola l’agio degli insegnanti è la condizione migliore per favorire l’apprendimento dei bambini. “inRelazione” oltre che il titolo del libro è una proposta metodologica che mette al centro la formazione degli educatori e degli insegnanti da un punto di vista emotivo e relazionale. Le esperienze proposte offrono loro strumenti e occasioni per entrare in contatto con se stessi e con il proprio bambino interiore, per ritrovare o trovare la giusta motivazione a migliorare la qualità della loro vita professionale e quindi del lavoro con i bambini. Far dialogare la psicologia con la pedagogia, individuando strategie per ridurre l’incidenza di stress che caratterizza la professione dell’educare, è l’obiettivo del metodo. Essere presente nella relazione educativa significa mettersi totalmente in gioco, prendersi la responsabilità del proprio sentire, delle proprie emozioni e del proprio agire, restituendo l’importanza del ruolo delle emozioni nell’apprendimento. In fondo se tornano a stupirsi gli insegnanti, a incontrarsi sul piano anche delle emozioni tra colleghi, a condividere un metodo collaborativo, verrà da sé che anche i bambini staranno meglio nella scuola e impareranno di più. Ornella Cavalluzzi e Chiara Degli Esposti, psicoterapeute e play therapist e ideatrici del “Metodo inRelazione”. Hanno maturato una esperienza decennale nelle scuole e nei nidi come coordinatrici pedagogiche, come formatrici e come supervisori. Lavorano da anni con gruppi di genitori, educatori e bambini.

InIn copertina disegno didi Fabio Magnasciutti copertina disegno Fabio Magnasciutti

Euro Euro14,50 14,50(I.i.) (I.i.)

ISBN 978-88-6153-653-1 ISBN 978-88-6153-653-1

9 788861 536531 9 788861 536531

edizioni edizionilalameridiana meridiana pp aa r r t t e e nn z z e e


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.