Io mi dono

Page 1

Le storie e le testimonianze raccontate in questo libro ci permettono di conoscere il lavoro quotidiano e costante dell’AIL di Foggia, associazione che opera nel territorio da ormai un quarto di secolo e ha tutte le caratteristiche che deve avere una comunità di volontari: competenza, capacità di donare, assistenza, scelta degli obiettivi e caparbietà nel perseguirli, con l’ottica di una crescita costante. C’è di tutto in questo libro: dal lavoro dei volontari, al rapporto tra medico e paziente, che molto spesso diventa una vera e propria alleanza, capace di dar vita a relazioni ricche e dense di umanità. Per cui anche un semplice gesto, come un braccialetto di perline donato da una paziente a un medico e volontario, dice la qualità della relazione umana che si crea. Un testo che lascia aperta la porta alla speranza che anche dal dolore, dalla sofferenza, possano nascere percorsi di vita, di riscoperta dell’amore verso il prossimo. Un libro che offre un’analisi introspettiva dei protagonisti, finendo così per essere uno strumento di conoscenza delle proprie debolezze, delle proprie fragilità, delle proprie paure di fronte al dolore che, se correttamente veicolate, si trasformano in grandi risorse di vita a disposizione del prossimo.

ISBN 978-88-6153-722-4

Euro 13,00 (I.i.) 9 788861 537224

Michela Magnifico

nata a Cerignola (Foggia) nel 1976, dal 2000 è giornalista presso l’emittente televisiva “Telefoggia”. Esperta di cronaca nera e giudiziaria, si è occupata di alcune tra le pagine più buie della storia della Capitanata. Sensibile alle tematiche sociali, è impegnata nel dar voce alle più belle realtà solidali presenti sul territorio. Con la meridiana ha pubblicato 6 novembre 1992. Il coraggio di un uomo (2017) e, insieme a Gianmatteo Pepe, Il ragazzo nel pozzo (2019).

IO MI DONO

MICHELA MAGNIFICO,

MICHELA MAGNIFICO


Michela Magnifico

Io mi dono Da un’idea di Celestino Ferrandina Prefazione di Sergio Amadori Postfazione di Pino Casolaro


INDICE

Prefazione di Sergio Amadori

9

Introduzione 13 L’amore per la vita: storia di un medico e di un volontario 17 Storia dell’Ail 27 Dal dolore nasce l’impegno 43 Storie di chi dedica la propria vita agli altri 59 Appendice L’umanizzazione delle cure 69 Postfazione. Le parole prese a prestito di Pino Casolaro 75



PREFAZIONE di Sergio Amadori

Poter contribuire alla stesura di un libro che parli dell’Ail e lo faccia puntando i fari e l’attenzione in particolar modo sulla storia di una delle 82 sezioni presenti sul territorio nazionale, come quella di Foggia, è per me un motivo in più per ribadire quanto sia necessario formare in modo continuo tutti coloro che sceglieranno liberamente di essere al fianco dei malati e delle famiglie, puntando su una sempre maggiore opera di sensibilizzazione all’interno delle scuole, per rendere consapevoli i ragazzi del valore del dono, dell’importanza di donare in modo gratuito. Con questo libro, ad esempio, è possibile scoprire di quanta forza umana si componga il mondo del volontariato. Di quanto amore e dedizione siano in grado i volontari, scevri da qualsiasi interesse personale e motivati semplicemente dal desiderio di donare. Il “dono” visto come esercizio fondamentale della propria esistenza. Per questo è importante e stimolante la nascita di un nuovo libro sulla storia di una tra le sezioni più datate a livello nazionale. L’Ail di Foggia, che quest’anno compie un quarto di secolo, ha tutte le caratteristiche che deve avere una forza di volontariato: competenza, capacità di donare, assistenza, scelta degli obiettivi e caparbietà nel perseguirli, con l’ottica di una crescita costante. Per me, che rivesto la carica di Presidente nazionale, è senza dubbio motivo di orgoglio che si parli dell’Ail ad ogni latitudine. E che lo si faccia con l’obiettivo principale di far conoscere cosa fa e chi si occupa di prendersi cura degli altri nella visione di un sempre maggiore 9


coinvolgimento della società civile. In particolare di quella giovanile. Nelle diverse dichiarazioni rese dai volontari che da anni militano all’interno della sezione Foggia, ho potuto apprezzare l’impegno civico e morale a favore di uomini e donne, bambini e anziani spesso soli, capaci di trovare conforto nell’opera instancabile dei volontari. Alcuni dei quali presenti fin dalla nascita dell’associazione. Proprio da loro è arrivato il monito rivolto ai giovani ad avvicinarsi alla realtà associativa, che riempie il cuore e placa le vibrazioni dell’anima. C’è di tutto in questo libro: dal lavoro dei volontari, al rapporto tra medico e paziente, che molto spesso diventa una vera e propria alleanza, capace di dar vita a rapporti ricchi e densi di umanità. Il medico diventa il confessore (magari fornendo anche il proprio numero di cellulare per far sentire la vicinanza al paziente, per tendere la mano, per dire “io ci sono” anche al di fuori delle talvolta fredde mura di una corsia ospedaliera) e il volontario, l’amico. Nel mezzo coloro che soffrono e che trasformano, proprio grazie all’instancabile lavoro di chi dona, il proprio dolore in un’opportunità di crescita. In una nuova scommessa di vita. In un sorriso di speranza. In una parola di conforto. Una confessione aperta e sincera su temi importanti come la vita, la malattia, il dolore, la speranza, la paura, il coraggio, la rinascita, la morte, declinati con un linguaggio semplice ma diretto, frutto di racconti di vita vissuta, di storie vere. Frutto del percorso personale di ogni singola persona entrata a far parte del grande mondo dell’Ail sotto qualsiasi forma e per qualsiasi motivo. Attraverso proprio la capacità di coinvolgimento, vien fuori un testo appassionante nei toni di chi vi ha collaborato. Un testo che lascia aperta la porta alla speranza ché sempre più dal dolore, dalla sofferenza, nascano percorsi di vita, di riscoperta dell’amore verso il prossimo. Un libro che offre un’analisi introspettiva dei protagonisti, finendo così per essere uno strumento di conoscenza delle proprie debolezze, delle proprie fragilità, delle proprie paure che, se correttamente veicolate, si trasformano in grandi risorse di 10


vita a disposizione del prossimo. Il mio accorato invito è che si continui sempre più sulla strada della solidarietà. Mi auguro che il gran cuore della solidarietà si arricchisca di un numero sempre maggiore di tasselli che contribuiscano alla crescita dell’associazione. Solo unendo la conoscenza scientifica alla cura dell’anima si potrà vincere la scommessa di una sanità “solidale”, sempre più vicina a chi soffre, volta a lenire non solo le ferite fisiche, ma anche quelle dell’anima. Sergio Amadori Presidente nazionale Ail

11



INTRODUZIONE

Quando guardi dentro di te, al di là delle barriere che involontariamente ognuno di noi mette davanti alla propria anima, alla propria coscienza, al proprio cuore, scopri emozioni, sensazioni, pensieri nuovi. Autentici, veri. Scopri storie di vita vissuta che, magari, fino ad allora erano rimaste indifferenti. Non avevano toccato le corde profonde della sensibilità. Ed è quello che è capitato a me, aprendo il cuore ad un’accoglienza diversa. Nuova. Quella nei confronti del malato e del volontario. Di chi soffre e di chi cerca di alleviare quella sofferenza. Di chi tende a chiudersi in sé e di chi, invece, cerca di creare uno squarcio in quella chiusura. Attraverso le storie dei pazienti e dei volontari dell’Ail, l’associazione contro le leucemie, i linfomi e il mieloma, ho imparato a conoscere le fragilità e la forza dell’essere umano, imparando anche a curare le mie ferite e a riconoscere le mie fragilità. Attraverso loro, ho conosciuto me, esplorando sentimenti e sensazioni nuove che mi hanno aperto un mondo fino ad oggi inesplorato. Un mondo conosciuto grazie ad un medico, un ematologo, un volontario. Il dottor Celestino Ferrandina, presidente dell’Ail Foggia da oltre 15 anni e consigliere nazionale della stessa associazione. Un uomo, un medico da oltre trent’anni costretto da un lato quotidianamente ad affrontare la malattia, il dolore e spesso la morte e dall’altro un volontario che cerca di rimando di alleviare tutta questa sofferenza. Sono stati gli occhi di quest’uomo, fissati profondamente per qualche minuto anni fa, a squarciare quel velo davanti ai miei, che mi impediva di 13


guardare dentro di me e scoprire di quanto amore generoso possa constare l’animo di ognuno di noi. Raccontare le storie dei pazienti, di chi non ce l’ha fatta attraverso i racconti di chi è rimasto, dei volontari, dei medici, di un intero mondo, quello che frettolosamente chiamiamo “terzo settore” è un dovere nei confronti non solo di chi è meno fortunato, ma di chi ogni giorno tende la mano al bisognoso. Raccontare le storie di volontariato con naturalezza restituisce la giusta dignità alle storie stesse nella speranza che in tanti possano approcciarsi alla vita di chi ha bisogno sotto ogni forma, anche solo con un sorriso. Perché se da un lato, come sottolineato sempre dal presidente Ferrandina, ci vuole un cuore colmo d’amore per dedicarsi agli altri, dall’altro il cuore si arricchisce sempre più d’amore proprio attraverso il volontariato. Molto spesso, proprio pensando al volontariato, ho creduto ci volesse una predisposizione particolare. Una motivazione concreta. Qualcosa che giustificasse il perché occuparsi degli altri. E cercavo dentro di me quelle motivazioni, ricercandole anche negli occhi di coloro che se ne occupavano già. E più me ne occupavo, più mi rendevo conto che un motivo concreto non c’era. Più aiutavi, più il cuore si riempiva. Più tendevi la mano, più alla tua si aggrappava tanta gente. E più si aggrappava, più la tua mano diventava forte, capace di stringere non una mano sola, ma tante, tantissime altre mani. Come in un simbolismo rappresentato proprio dalle mani dell’Ail nel logo dell’associazione. Così mi piace descrivere quella sensazione profonda che mi dà occuparmi degli altri. Sotto qualsiasi forma e modalità. Anche semplicemente ascoltando. Perché anche solo un orecchio teso molto spesso è sufficiente a chi si trova in difficoltà. È un modo per sottolineare che si è presenti e che si è disponibili all’ascolto. Molto spesso, come insegnatomi dal presidente Ferrandina, basta anche solo ascoltare per donare agli altri quella possibilità di sentirsi meno soli. Nel libro, nato proprio da un’idea di Celestino Ferrandina, troverete storie 14


di vita vissuta. Per esorcizzare pensieri e paure. Perché la diagnosi di una malattia ti cambia necessariamente la vita. Cambia il tuo asse. La prospettiva con cui fino ad allora l’avevi guardata. Cambia le speranze e le aspettative. C’è il racconto di chi ha vinto la malattia, ma anche di chi non ce l’ha fatta, quello dei familiari e degli amici che hanno vissuto il periodo del ricovero del proprio caro e di chi, invece, in ospedale ci lavora. Ci sono le testimonianze dei volontari. E degli “angeli” che molto spesso, oltre agli amori, alla famiglia, agli amici, sono quei camici bianchi che con dedizione ti sono affianco. Un mondo fatto di volontariato da un lato e di una sanità umana, che ricerca la cura dell’animo insieme a quella della patologia. È questo che ho potuto notare, decidendo così di raccontarlo, nell’operato proprio del presidente dell’Ail Ferrandina. La passione profusa nel volontariato viaggia di pari passo con quella impiegata nel difficile ruolo di medico, esercitato con scrupolo, dedizione, amore per il malato, per chi lo circonda, nell’ottica di rendere la sanità sempre più al servizio del cittadino. Attraverso lui, ho potuto scavare nell’animo umano, conoscendone fragilità, debolezze, sogni e paure, cercando di abbattere quei muri che molto spesso, involontariamente, la malattia e la sofferenza creano.

15



L’AMORE PER LA VITA: STORIA DI UN MEDICO E DI UN VOLONTARIO

Me lo ha dato una paziente. Non una paziente qualunque. Me lo ha dato Anna Lucia. Una ragazzina che a me, un medico, ha insegnato la forza di lottare. Di combattere per restare aggrappata ad una vita che, purtroppo, la malattia ha pian piano scalfito distruggendola, fino alla morte.

Inizia così l’idea di un libro sul volontariato. Una chiacchierata tra un uomo e una donna, tra un medico e una giornalista si trasforma nell’idea di dar vita e corpo al racconto di storie di vita vissuta. Per consegnarle ai lettori, nella speranza possano trasformarle in percorsi di vita. In scelte da fare. In strade da imboccare. Si parte dalla storia di Celestino Ferrandina, un ematologo in servizio presso la struttura complessa di ematologia dell’ospedale di Foggia da oltre 30 anni, volontario dell’Ail, di cui detiene la presidenza della sezione Foggia da oltre un decennio. Medico e volontario. Potrebbe suonar strano. Ed invece tutto si incastra perfettamente come in un puzzle. Due vite in una. Cercare di stanare la morte attraverso la scienza e accettarla e viverla attraverso amore e dedizione verso gli altri. Al polso destro indossa un braccialetto. Semplice. Uno di quelli che passerebbe inosservato se non fosse il simbolo di una parte importante e fondamentale del percorso umano, professionale del medico. Una delle prime volte che abbiamo parlato, il mio sguardo, quasi come trascinata dal classico sesto senso professionale, è 17


caduto proprio su quel bracciale, incastrato tra altri. Alla mia esclamazione su come fosse carino, gli occhi del mio interlocutore sono diventati nell’immediatezza un misto tra dolore, gioia e speranza. In quel preciso istante, ho avuto la certezza di “aver imboccato la strada giusta” (come si dice in gergo giornalistico). Che avevo toccato, anche involontariamente, un tasto essenziale, fondamentale per la storia dell’uomo, del medico e del volontario che avevo di fronte. Ne è nato un racconto di dolore sì, ma allo stesso tempo di speranza e, perché no, di futuro. È nata la voglia, determinata dalla necessità, di raccontare storie di vita vissuta. Storie di dolore sì, ma di speranza, coraggio, vita, amore, dedizione. Parole che potrebbero sembrare desuete al giorno d’oggi. Poi incontri realtà simili. E nasce la necessità di raccontarle. Non puoi non farlo. Prima per dovere giornalistico. Poi per dovere nei confronti di chi dona. E soprattutto per tentare di stimolare le coscienze di chi, come me, non aveva ancora guardato all’interno della propria anima, scoprendo quanto fosse bello donare amore a chi è in difficoltà. Non sono storie di morte. Ma storie di vita. Un inno al coraggio. Da qui la volontà di scrivere di volontariato, raccontare quanto possa riempire il cuore occuparsi degli altri, di quanto sia importante rimanere ancorati ai ricordi che spesso diventano la parte essenziale del proprio percorso di vita professionale e lavorativo. Parlare dell’Ail vuol dire parlare soprattutto dei malati e delle loro famiglie, del dolore e della paura alleviati dai medici e dai tanti volontari che, quotidianamente, offrono assistenza non solo fisica, ma soprattutto psicologica. Parlare dell’Ail vuol dire anche ricordare quella che è stata la prima “missione” a livello nazionale indicata dall’allora presidente Mandelli (scomparso a luglio 2018): l’assistenza domiciliare. L’importanza di seguire a domicilio il paziente, permettendogli, così, di vivere tra le sue mura domestiche è stata la scommessa vinta anche dalla sezione di Foggia. Parlare dell’associazione contro le leucemie vuol dire anche 18


raccontare dei benefici in termini di tecnologie che la stessa associazione ha portato, nel corso degli anni, alla struttura dell’ematologia degli Ospedali Riuniti di Foggia. L’acquisto di macchinari in particolare e apparecchiature reso possibile grazie alle donazioni ha permesso l’introduzione di terapie all’avanguardia, laboratori, centri di ricerca, servizi per i malati. Vi racconteremo il volto umano e concreto dell’associazionismo. Partendo da quel braccialetto colorato formato da tante perline al polso di Celestino Ferrandina. Attraverso una sorta di intervista, alternata ad una parte discorsiva, la sfida sarà farvi conoscere il volto umano e professionale dell’uomo, del medico e del volontario. Ad Anna Lucia feci la promessa che avrei indossato per sempre uno dei suoi braccialetti. Ecco perché ne porto sempre uno al polso. Ne ho avuti diversi durante tutti questi anni. Uno simile all’altro. Perché a lei piaceva realizzarli di perline, tenute insieme da una cordicella.

Impossibile rimanere impassibili davanti a tanta sofferenza. Così come è impossibile non mettere nero su bianco queste emozioni, queste sensazioni che narrano di un medico e di una paziente, del loro rapporto. Della fiducia che si instaura, del rapporto che si crea. Del dolore che lega. Fui io stesso a chiederle di realizzarmi un bracciale. Una mattina entrai nella sua stanza per una visita e la vidi impegnata nella realizzazione di uno dei suoi lavori. Quasi per scherzo e per stimolarla, le chiesi di crearmi un braccialetto con i colori della mia squadra del cuore, il Foggia, e lei lo realizzò in un batter d’occhio. Fu quella la prima volta in cui capii che avevo iniziato ad instaurare un rapporto con lei. Che avevo conquistato la sua fiducia. Ero entrato nel suo cuore. Era anche un modo per capire cosa provasse Anna Lucia. Perché ogni qualvolta le terapie funzionavano, lei era felice e quasi per mostrarmi gratitudine mi realizzava un braccialetto. Era diventato per lei un vezzo, un motivo di unione tra me e lei a dispetto del restante personale medico 19


ed infermieristico che, mosso da una sorta di gelosia benevola, la incitava a realizzare bracciali anche per loro.

La vita, la malattia, purtroppo, non restituiscono gli stessi sentimenti di gratitudine di un animo innocente e buono. Anna Lucia, 18 mesi dopo l’inizio del calvario, si spense. In una mattina in cui, di turno, non era quel medico che le aveva salvato il cuore e restituito una speranza. Come in una mescolanza di destini, quella che era stata la strada fino ad allora percorsa insieme, si separa il giorno della morte, quasi a voler tutelare il ricordo che, indelebile, resterà scolpito del sorriso e della voglia di vivere di Anna Lucia. Il ricordo della vita che vince su quello della morte. Non ero presente il giorno del decesso di Anna Lucia. È stato un momento terribile. Mi è stato raccontato da chi, conoscendo il legame che si era venuto a creare tra noi, ha sottolineato che è stata una fortuna non aver assistito alla scomparsa di Anna Lucia. Mi recai in obitorio e riconobbi il suo corpo dalle dimensioni, adagiato su una lastra di marmo, avvolto da un lenzuolo bianco. Non potrò mai dimenticare il suo volto, la sua gioia di vivere e di lottare anche nei momenti in cui la malattia non le dava tregua. E devo ringraziarla per essere andata via in mia assenza. Credo sia stato il suo ultimo regalo per me. Per il medico amico che le aveva promesso che, al polso, avrebbe portato per sempre uno dei suoi braccialetti.

Quel medico e quel volontario che ha fatto della sua professione una “missione” di vita, quasi un percorso naturale di quella sua propensione a creare empatia e immedesimarsi nell’animo umano, come fatto fin da giovane studente della facoltà di medicina a Perugia, conseguendo la laurea nel 1983, ed entrando come medico endocrinologo in medicina interna del policlinico foggiano e approdando, dopo quasi un anno trascorso in pronto soccorso, nel 20


reparto di ematologia nel 1990, specializzandosi nel 1993. Erano gli anni di esordio dell’ematologia a Foggia. In Capitanata era la seconda struttura, dopo Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, a beneficiare di un reparto di ematologia, i cui progressi, in termini scientifici, sono stati raggiunti anche con i finanziamenti dell’Ail, che ha devoluto i fondi ottenuti grazie alle numerose attività messe in campo proprio dall’associazione alla struttura, finanziando anche la ricerca. L’intuizione partì dal padre dell’ematologia italiana, il professor Mandelli (scomparso a luglio 2018), che decise di dar vita e corpo alla struttura dell’Ail per affiancare il lavoro delle ematologie italiane sul fronte soprattutto della vicinanza ai pazienti. Quando è nata l’idea del giovane medico di avvicinarsi all’Ail? L’idea è nata negli anni in cui l’Ail si stava espandendo. Un quarto di secolo fa, sulla scia degli insegnamenti del compianto professor Mandelli, molte sedi nascevano in Italia. E noi fummo una delle prime sedi, pioneristiche potrei dire, che andò ad affiancare quell’ematologia nata qualche anno prima. La nascita dell’Ail era più che altro legata alla necessità di affiancare la struttura di ematologia, per soddisfare i bisogni legati alla cura del paziente e della sua famiglia. Perché le malattie ematologiche sono dell’intera famiglia, in quanto incidono sulla qualità di vita di tutti i suoi componenti. Per questo, grazie a quanto in quegli anni stava facendo l’Ail nazionale, fu aperta una sezione a Foggia, con l’allora presidente Michele Monaco (alla guida in quegli anni del reparto di ematologia) di cui io fui socio fondatore.

21


Qual è l’esperienza che nella sua carriera di medico e volontario l’ha colpita maggiormente? È una domanda difficile. Perché con tutti i pazienti si ha un approccio particolare. Ho sempre cercato di instaurare un legame che vada al di là del semplice rapporto medico paziente, ma che comprenda quell’empatia necessaria e fondamentale per affrontare la malattia stessa. Ricordo una giovane mamma con due bambini piccoli in età infantile, affetta da una malattia in uno stadio avanzato che non le lasciava alcuna speranza di guarigione. Una mattina mi chiese di recarmi nella sua stanza per riferirmi un disturbo che non le dava tregua. Io le parlai, decisi con lei la terapia da seguire. Prima di congedarmi, ricordo che mi guardò e mi ringraziò per il tempo che le avevo riservato. Tre ore più tardi, quella giovane mamma ci lasciò. Nei momenti in cui decidevamo come alleviare quel disturbo, lei mi parlava dei suoi bambini e di come avrebbe desiderato farli crescere. Ho capito in seguito che era stato il suo modo per ringraziarmi del tempo e dell’umanità che le avevo riservato. Mi parlava di sé come si parla ad un amico. Questo è ciò che mi ha sempre colpito e mi colpirà sempre nel rapporto con i pazienti. L’empatia che si crea. L’umanità che nasce. Già... l’umanità. Quell’aspetto fondamentale per la creazione di un legame che vede nel medico la figura di riferimento non solo per la cura della patologia da cui si è affetti, ma dell’intera storia di vita. Come dire ad un paziente la verità e se è giusto farlo? Il modo migliore è convincere se stessi, noi medici, che non esiste una malattia incurabile. Ci sono casi in cui si può adottare un trattamento con facilità ed altri in cui la cura diventa più complessa. Il modo migliore è concentrare se stessi ed il paziente sulla necessità di cura e non considerare 22


quello negativo come l’esito più probabile. Parlare con il paziente. Non nascondergli la verità. Fargli comprendere, sempre utilizzando l’empatia necessaria per lo sviluppo di una relazione interpersonale tra medico e paziente, la patologia da cui è affetto e le cure da mettere in campo. Sempre considerando l’aspetto psicologico. Credo sia giusto ed eticamente corretto che il paziente sia a conoscenza del suo stato di salute, soprattutto per poter essere in grado di decidere della propria vita e del proprio futuro. Cosa fa la differenza tra un medico che lo fa per passione ed uno che, invece, lo fa per professione? È una domanda difficile alla quale non ho una risposta proprio perché nella mia concezione non esiste una professione, qualunque essa sia, fatta senza passione. Accade, magari, che nella vita ognuno possa trovarsi a dover fare un lavoro che non piace. Qui c’è il problema. Ma se una persona ha la fortuna di scegliere, non dovrebbe esserci differenza. Perché la passione subentra nel momento della scelta. Durante una delle nostre lunghe chiacchierate, mi ha raccontato che quello del medico era un destino quasi scritto a priori dalla sua famiglia che, in quegli anni, quasi disegnava a tavolino la storia di vita dei propri figli come in una sorta di cammino predeterminato. Un cammino quasi prestabilito che è divenuta poi la sua vita, la sua missione di vita. Quando si è accorto che in realtà aveva la naturale predisposizione? Me ne sono accorto in corso d’opera. Durante la mia prima specializzazione, quella in endocrinologia, avevo iniziato la professione da qualche anno e mi trovai ad interloquire con un medico di famiglia anziano, alla soglia della pensione, il quale mi disse che per diventare un bravo specialista ci volevano almeno dieci anni di attività, durante i quali si 23


acquisisce un bagaglio di conoscenza professionale ed umana fondamentale per affrontare al meglio il futuro. Non si finisce mai di imparare. Nel mio caso, è stato così. Dopo una decina di anni, ho iniziato a cogliere i segnali che avevo intrapreso la strada più giusta per me stesso e per i pazienti. Anche se con grandi difficoltà molti giovani ambiscono alla professione medica che negli ultimi decenni, a mio parere, è votata sempre più alla ricerca, come è ovvio che sia anche per adeguarsi a quelli che sono gli standard europei, ma sempre meno però al rapporto con il paziente e assistenza della persona. Con i suoi oltre 30 anni di esperienza, cosa intravede nel futuro della medicina in Italia e cosa consiglia ai giovani medici? L’Italia dal punto di vista della medicina è tra i paesi più avanzati al mondo ed è il primo in Europa come produzione farmaceutica. Quello che prevedo non so se corrisponde a quello che desidero. Mi augurerei piuttosto un piccolo passo indietro sul fronte scientifico se questo fosse accompagnato dal potenziamento della componente umanistica che nel corso degli ultimi decenni è andata perdendosi. Proprio questo giustifica la nascita di tante associazioni che vanno a colmare il vuoto sociale. C’è necessità di una maggiore attenzione al malato come persona, nell’ottica di un processo di umanizzazione della medicina che ritengo fondamentale, non perseguendo a tutti i costi l’obiettivo della sopravvivenza, piuttosto il miglioramento della qualità della vita residua. E per far ciò sono necessari i processi di coinvolgimento dei pazienti, che assumendo consapevolezza potranno in futuro partecipare anche ai processi decisionali in tema di politica sanitaria. Ai giovani medici consiglio di non perdere mai di vista il paziente. Certo per la nuova generazione è sempre più difficile attuare quel processo di umanizzazione. Quando parlo con gli specializzandi dico loro di guardare al paziente, al malato. 24


Ăˆ l’unico modo per umanizzare la professione e renderla al servizio del prossimo.

25


Le storie e le testimonianze raccontate in questo libro ci permettono di conoscere il lavoro quotidiano e costante dell’AIL di Foggia, associazione che opera nel territorio da ormai un quarto di secolo e ha tutte le caratteristiche che deve avere una comunità di volontari: competenza, capacità di donare, assistenza, scelta degli obiettivi e caparbietà nel perseguirli, con l’ottica di una crescita costante. C’è di tutto in questo libro: dal lavoro dei volontari, al rapporto tra medico e paziente, che molto spesso diventa una vera e propria alleanza, capace di dar vita a relazioni ricche e dense di umanità. Per cui anche un semplice gesto, come un braccialetto di perline donato da una paziente a un medico e volontario, dice la qualità della relazione umana che si crea. Un testo che lascia aperta la porta alla speranza che anche dal dolore, dalla sofferenza, possano nascere percorsi di vita, di riscoperta dell’amore verso il prossimo. Un libro che offre un’analisi introspettiva dei protagonisti, finendo così per essere uno strumento di conoscenza delle proprie debolezze, delle proprie fragilità, delle proprie paure di fronte al dolore che, se correttamente veicolate, si trasformano in grandi risorse di vita a disposizione del prossimo.

ISBN 978-88-6153-722-4

Euro 13,00 (I.i.) 9 788861 537224

Michela Magnifico

nata a Cerignola (Foggia) nel 1976, dal 2000 è giornalista presso l’emittente televisiva “Telefoggia”. Esperta di cronaca nera e giudiziaria, si è occupata di alcune tra le pagine più buie della storia della Capitanata. Sensibile alle tematiche sociali, è impegnata nel dar voce alle più belle realtà solidali presenti sul territorio. Con la meridiana ha pubblicato 6 novembre 1992. Il coraggio di un uomo (2017) e, insieme a Gianmatteo Pepe, Il ragazzo nel pozzo (2019).

IO MI DONO

MICHELA MAGNIFICO,

MICHELA MAGNIFICO


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.