di Perugia. Ha condotto ricerche su vari aspetti della cultura e società contemporanea – dalla devianza alla condizione giovanile, dalla solitudine abitativa alla partecipazione politica – prima di specializzarsi in Antropologia
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del teatro e dello spettacolo. Collaboratore de “Lo Straniero” e di numerose altre riviste nazionali e internazionali, è autore di numerosi libri. È stato il primo presidente della Fondazione “L’Immemoriale di Carmelo Bene” (2002-2005).
euro 16,00 (I.i.)
“Capitini non è un mistico ma un operatore, non è un santo ma un maestro davvero ‘elementare’, sia perché considera le situazioni concrete e affronta le condizioni reali, sia per l’importanza che assegna alle pratiche. Davanti ad Aldo Capitini e i suoi scritti si resta insieme persuasi e perplessi: attratti dalla persuasione e tentati dalla perplessità. Sono passati degli anni, si dirà, e troppe cose e persone sono cambiate se è vero che si è alle soglie di una ennesima mutazione antropologica. Ma questa del tempo che passa e trasforma – in coscienza – è sempre stata una scusa. Bisogna in realtà soltanto decidersi, se leggere gli scritti di Capitini con il senso della storia o sotto il segno della compresenza. Se disporsi all’ascolto di una voce che ha cercato e ancora cerca, prima ancora di avere un dialogo con noi, di inaugurare e di invitare tutti a un colloquio corale. È davvero troppo per il lettore e l’educatore contemporaneo, ma l’apertura è una unità smisurata di misura con cui conviene confrontarsi. Gli scritti pedagogici di Capitini – e questo nostro suo libro che li ripubblica – parlano in effetti del modo e del mondo della scuola, e sono rivolti innanzitutto agli insegnanti e agli studenti che la abitano. Gli scritti pedagogici di Aldo Capitini restano validi proprio perché sono ancora “inattuali”: eppure in gran parte si tratta di modelli attuati e di maestri indimenticati e di analisi ancora valide e di indicazioni ancora fertili.” (dall’Introduzione) ISBN 978-6153-071-3
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La religione dell’educazione Scritti pedagogici di Aldo Capitini A cura di Piergiorgio Giacchè
edizioni la meridiana
Piergiorgio Giacchè antropologo, insegna all’Università
La religione dell’educazione a cura di Piergiorgio Giacchè
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La pedagogia è in crisi. Vecchi irrisolti problemi e questioni radicalmente nuove hanno spinto la pedagogia ai margini della cultura e della società italiana. Le risposte, appena accennate in questi ultimi anni, non sembrano in grado di incidere significativamente sulla residualità educativa: l’approccio tecnocratico si rivela inidoneo ad arrestare il collasso del sistema scuola, mentre l’elaborazione concettuale appare incapace di indicare nuove forme di convivenza e di cittadinanza. Eppure un paese che non sa più educare rischia di smarrire se stesso, non solo le nuove generazioni. Su quali fondamenti ricostruire? Quali, oggi, i compiti prioritari e ineludibili dell’educazione? In che modo formare una nuova identità ideale e culturale cui ispirare l’azione educativa? È a questi interrogativi che la collana, diretta da Goffredo Fofi e animata da un gruppo di operatori culturali e sociali riuniti intorno alla rivista “Lo straniero”, tenta di dare risposta. Per provocare riflessioni, stimolare analisi critiche, divulgare quanto di meglio, in diversi ambiti e luoghi, dentro e fuori la scuola, si sta facendo. Insomma, uscire fuori dal coro per restituire centralità ad una pedagogia che riprenda a costruire coscienze critiche adeguate alle sfide del futuro.
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a cura di Piergiorgio Giacchè
La religione dell’educazione Scritti pedagogici di Aldo Capitini A cura di Cecilia Bartoli e Luigi Monti
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Introduzione
Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione. Carmelo Bene
Se la religione e l’educazione non sono la stessa cosa, la loro convergenza diventa assoluta nell’esperienza e nella proposta di Aldo Capitini. Con una invenzione, o meglio un’inversione, che fa davvero la differenza. Se cioè molti altri hanno inteso la combinazione fra il credere e l’insegnare sempre nel segno di un’educazione alla religione, forse soltanto Capitini ha per così dire spontaneamente rovesciato in “religione dell’educazione” questa endiadi. Ma non si fraintenda il significato di questa espressione: non si inaugura un culto dell’educazione né si celebra la missione dell’educatore. Più semplicemente ma più radicalmente quella “educazione religiosa” che era infine apprendimento o apprendistato di una religione particolare si rivoluziona in una tensione religiosa che equivale a un incessante processo educativo di sé, e non ha altro esito o non suggerisce miglior compito che quello dell’educazione degli altri. Una “religione aperta” e una “educazione aperta”, le chiama Capitini, e va da sé che l’aggettivo è dominante sui so-
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stantivi: l’apertura è il motore e il vettore di entrambe le esperienze. Di una sola esperienza. Aldo Capitini è un religioso e un educatore, e sempre più mi convinco che – fermo restando la precedenza della religione – questa definizione è esatta ed esaustiva, perché infine gli attribuisce un’unica professione di fede e di lavoro. C’è negli scritti di Simone Weil un passo intitolato appunto “Pofessione di fede” che può funzionare da preludio alla religione aperta e da indiretta presentazione di un religioso educatore, come Aldo Capitini e che dice: “C’è una realtà situata fuori dal mondo, cioè fuori dallo spazio e dal tempo, fuori dall’universo mentale dell’uomo, fuori dalla portata delle facoltà umane. A questa realtà corrisponde, al centro del cuore dell’uomo, un’esigenza di bene assoluto che ci abita sempre e che non trova mai alcun oggetto in questo mondo […] E come la realtà di questo mondo è l’unico fondamento dei fatti, così l’altra realtà è l’unico fondamento del bene. È unicamente da essa che discende in questo mondo tutto il bene possibile, tutta la bellezza, tutta la verità, tutta la giustizia […] Gli unici intermediari per i quali il bene può discendere da quella realtà in mezzo agli uomini, sono quelli che rivolgono la loro attenzione e il loro amore verso di essa.”1
Un “religioso educatore” è appunto un intermediario del bene, del bello, del vero, del giusto che per Capitini, messi in un altro ordine, sono appunto i Valori che la religione aperta indica e a cui l’educazione aperta prepara. Un solo “atto” è quindi religioso ed educativo insieme, e in quest’atto si è speso e identificato Aldo Capitini: individuare i valori e formare se stesso e gli altri ai valori che sono nel cuore dell’uomo, ma che non appartengono alla realtà del mondo in cui viviamo. Aldo Capitini è certo una figura complessa, che può essere avvicinata e descritta in molti modi. È un filosofo, un politico, un poeta, per dire almeno le tre principali attività in cui si è
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impegnato e per le quali è studiato e stimato. Ma non ci si deve far ingannare dalla quantità e varietà degli studi su di lui e nemmeno dalla evidente vastità dei suoi stessi studi e interessi. La sua produzione scritta è infatti tanto sterminata quanto reiterata. A fronte di poche opere maggiori che peraltro si inseguono e si completano l’un l’altra2, sono centinaia i saggi, gli articoli, le lettere, i commenti – spesso raccolti in libri e giornali e opuscoli – con i quali Capitini tesseva un colloquio il più ampio possibile e precisava continuamente il suo pensiero e proseguiva incessantemente la sua azione. E se si scorrono i suoi scritti ci si accorge che la vastità e la varietà sono un abbaglio: Capitini è l’esatto contrario di un eclettico, è piuttosto un ostinato perfezionatore di uno stesso tema; non è animato da curiosità, è piuttosto la sua generosità e perfino la sua puntigliosità (una forma di benevolo rigore) ciò che lo spinge all’incontro e al confronto, all’intervento ma anche all’ascolto. Non conviene dividere quello che in Capitini è unito, con una mirabile e ricercata coincidenza fra la sua personalità e la sua esperienza: una unitarietà per di più aggravata da una solitudine che è sì – nel suo caso – il contrario dell’isolamento, ma che è anche l’innegabile e doloroso risultato di una coraggiosa coerenza e di una virtuosa radicalità, in grado di spiazzare i suoi contemporanei, sia gli ammiratori che i detrattori. Per riprendere una sintesi già scritta in un’altra mia prefazione al libro della sua “autobiografia”3, Capitini è un antifascista nonviolento, un vegetariano che vive in epoche di generale indigenza e poi di ritrovato e festeggiato benessere, un movimentista irriducibile negli anni della rinascita dei partiti, un uomo politico che rifiuta la candidatura elettorale, e infine un religioso “aperto” che si oppone al cattolicesimo e intanto invita l’opposizione laica all’aggiunta religiosa… Non si tratta di contraddire per forza ma di non compiacere, per debolezza, quelle posizioni e quelle scelte che hanno scrit-
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to la storia, riempiendola di prepotenze e di compromessi, di astruse convergenze parallele e di eterne corruzioni tangenziali. Non che Aldo Capitini non fosse impegnato a dare un suo contributo alla storia, ma gli è stato possibile (e consentito) soltanto nelle forme critiche dell’educazione e secondo le scelte eretiche della religione “aperta”. Per leggere e comprendere Capitini, quella della personalità complessa ma non divisibile, della coerenza e perfino coincidenza fra azione e pensiero, dell’esplorazione di ambiti diversi per inseguire una sola “disciplina”, è forse la prima difficoltà che si presenta non tanto al lettore quanto allo studioso. Si è fin troppo abituati a operare scansioni e a rispettare le sezioni in cui si è soliti separare la cultura dalla società, la politica dalla religione, la poesia dalla filosofia. Invece in Capitini persino quest’ultima scontata distanza si azzera. Il suo poema, “Colloquio corale”, mette in versi il suo pensiero e restituisce i sensi alla sua azione. Ma non si tratta soltanto del rispetto che si deve all’integrità di una persona e alla coerenza di un’esperienza indivisibile. Il fatto è che nell’epoca e nel mondo appena trascorso, nei “due terzi del secolo” in cui Capitini vive4, c’era ancora la possibilità e forse anche il dovere di una più piena e integra esistenza. E, sul piano intellettuale, si dava ancora la necessità e ci si caricava della responsabilità di trattenere nella loro naturale commistione l’azione e il pensiero (Mazzini), la politica e la religione (Ghandi), l’al di qua della terra e l’al di là del cielo (Francesco d’Assisi) e infine la filosofia e la poesia (Leopardi). Sono peraltro questi gli esempi e i maestri a cui si ispira esplicitamente e continuamente Aldo Capitini, che si è potuto approfittare di un’eredità ancora viva, proprio perché ancora non sottoposta alle anatomie specialistiche e alle ansie storicistiche di chi restituisce ogni opera e ogni vita al suo contesto. Con il rischio di allontanare Mazzini nella storia e
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Gandhi nella geografia, di archiviare Leopardi nella letteratura e di seppellire Francesco nella mitologia. Con il rischio o forse il vantaggio di non saper leggere nessun contesto in modo globale (e tanto meno quello attuale della globalizzazione). Con il rischio infine di non riuscire a comprendere nemmeno il contemporaneo Capitini, noto ai più come ideatore e organizzatore della prima marcia della pace, cioè di un invidiabile “grande evento”. In effetti, a dispetto di una relativa fama e di una generale stima, la conoscenza di Aldo Capitini è impedita anche dalla difficile reperibilità dei suoi scritti. Pubblicati nel disordine delle urgenze e delle occasioni della storia, per lo più da piccole case editrici, gli scritti di Capitini si diffondono poco e si consumano presto. Dopo la sua morte, una fondazione di amici e una corte di estimatori progetta più volte e realizza soltanto a metà (non per sua colpa, ma per oscuri incidenti editoriali e accidenti politici) una riedizione sistematica degli scritti principali, che ha il vantaggio e insieme il limite delle edizioni nobili: quello di una ponderosità che funziona da riabilitazione del pensiero ma non funziona sul piano dell’azione, disobbedendo a quel carattere di intervento e a quell’ansia di partecipazione al dibattito che ha caratterizzato l’opera come la vita di Capitini. Il risultato è che ad oggi – tranne una intermittente pioggia di riedizioni di testi brevi e funzionali a un mare di commenti e convegni sull’autore5 – solo qualche rivista diretta da Goffredo Fofi (da “Linea d’ombra” a “La terra vista dalla luna” all’attuale “Lo straniero”) ha continuato a considerare Aldo Capitini un “compresente” collaboratore. All’ostinata opera di promozione di Fofi si deve anche questo libro, concepito e “tagliato” perché sia funzionale al dibattito attuale (ma meglio sarebbe dire postumo) sulla scuola e sull’educazione. Questo libro in particolare si dà il compito di ovviare alla più paradossale delle dimenticanze, visto che gli scritti sulla scuo-
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la e l’educazione sono i meno noti e diffusi, e però sono quelli che riguardano la competenza e la preoccupazione primaria di Aldo Capitini, pedagogista per mestiere e pedagogo per vocazione. Lui stesso, forse proprio perché non voleva sottolineare la sua reale professione e perché al contempo dava per scontata la centralità dell’educazione, li ha valorizzati meno degli altri. Soltanto negli ultimi due anni della sua vita li ha selezionati e raccolti, magari per motivi didattici o perfino accademici, in due volumi intitolati alla “Educazione aperta”: in apparenza l’ultima delle “aperture” da lui coniate, ma in realtà la prima che ha orientato la sua vita intellettuale e il suo impegno sociale; in apparenza una tardiva antologia di saggi e interventi in gran parte datati, ma in realtà il contributo più meditato e prezioso alla scienza pedagogica dei suoi e dei nostri anni6. Come in altre sue proposte intellettuali ed editoriali, Aldo Capitini riattraversa per intero la sua biografia e recupera abbondantemente la sua bibliografia. Non c’è un filo preciso ma c’è un segno rigoroso nell’organizzazione di questi due ultimi libri, che ci hanno fornito la principale miniera e ci hanno dettato la maniera della nostra selezione e riedizione: accanto e dentro i saggi più specialistici sulle teorie e le pratiche pedagogiche e gli interventi più stringenti e contingenti sulla scuola, i temi “capitiniani” della realtà di tutti e della compresenza e della pace e della nonviolenza costituiscono la cornice e l’essenza del discorso e del percorso della “educazione aperta”. Infine, la chiave o meglio la porta della religione è l’ingresso e l’uscita di ogni riflessione, il presupposto e la verifica di ogni proposizione. Ora, se il nodo inscindibile fra religione ed educazione è facile coglierlo nell’unità dell’atto, occorre scioglierlo per l’economia e l’efficacia del discorso. Il compito di questa Introduzione diventa cioè difficile ed entra in contraddizione con quanto
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si è fin qui affermato e cercato di difendere: occorre trattare in pagine separate, ancorché sovrapponibili, l’esperienza religiosa di Aldo Capitini della sua teoria e pratica pedagogica. È questa un’operazione chirurgica di cui chiedo scusa all’autore, ma che a me – e spero al lettore – può forse servire a vedere meglio quello che però vive e funziona soltanto nella sua letterale confusione.
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I principi e i valori
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Il problema dell’educazione*
Il problema elementare che il fanciullo presenta è questo: dobbiamo aiutarlo a svilupparsi per far parte di questa umanitàsocietà-realtà, pur nella nostra convinzione che questa umanità-società-realtà non sia accettabile? Le risposte sono varie, e le esamineremo ad una ad una. 1. Aiuteremo il fanciullo a diventar vita, e non altro. Siccome il nostro rifiuto, la nostra scontentezza di ciò che è attualmente non tocca la vita, perché in noi la coltiviamo, la stessa cosa faremo per il fanciullo, il quale ci si presenta, inizialmente, in condizioni molto precarie di vita, e perciò lo rafforzeremo. 2. Cureremo che il fanciullo non sia soltanto vita sicura, ma possegga tutti quegli strumenti per assicurarsi un’esistenza che sia la più sopportabile, e perciò lo addestreremo in molteplici attività, lo porteremo ad un certo livello di conoscenze e di capacità in modo che egli possa usufruire di tutto ciò che, allo stato attuale del mondo, è possibile. 3. Nell’aiutare lo sviluppo del fanciullo faremo in modo che egli sempre più chiaramente si persuada e si costituisca come destinato ad una finalità che è oltre il mondo (o umanità-società-realtà come si presentano), e che perciò sentendo questo, attraversi il mondo tenendosi a certe cose e separandosi da altre, costeggiando la linea di una destinazione ulteriore.
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4. Riconosceremo nel fanciullo il protagonista di un’umanità-società-realtà liberate dai limiti di cui noi abbiamo coscienza e per cui soffriamo, e che in quanto si prolungano nel fanciullo, stanno ancora in noi, e dobbiamo perciò instancabilmente liberarcene: l’educazione del fanciullo si trasforma in nostra autopurificazione. A queste risposte si riferiscono diversi concetti dell’educazione.
Educazione alla vita ed educazione ai valori
La condizione di inferiorità in cui si trova, alla sua nascita, il figlio dell’uomo rispetto agli altri esseri viventi rende necessario un preciso e lungo intervento di persone adulte perché egli possa semplicemente assicurarsi la vita: basti pensare alla delicatezza della pelle, alla fragilità delle ossa, alla durata dell’allattamento. Gli altri animali sono più concentrati e agevolati nella costruzione della vitalità del loro organismo: alleggeriti come sono di un’ulteriore e grande possibilità riescono a dominare più rapidamente il loro angusto destino, e a caratterizzarsi rapidamente con una coerenza e vivacità che qualcuno trova maggiori che negli esseri umani, liberi sì, ma soggetti a tanti difetti e fatuità e, dal punto di vista vitale, più informi. Questa inferiorità fa sì che un’educazione umana che si limitasse al semplice preservamento e sviluppo della vita, parrebbe arbitrariamente troncata e inadeguata. Ed ecco perché si passa al secondo tipo: addestramento delle molteplici capacità, e comunicazione del livello di civiltà raggiunto. In questo secondo tipo, al quale si arrestano molti sistemi di educazione, ci sono due accenti diversi: o si porta il fanciullo a quella forza di stare nel mondo fisico e sociale per cui egli non sia sopraffatto, e resista e si affermi, considerando tutto come mezzo a questo fine; o si conduce il fanciullo a fruire, ricevendo ed eventualmente dan36
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do, di quel mondo di valori che non è di individuale potenza, ma di servizio alla comune e svolgentesi civiltà. Lì vigoreggia l’individuo, qui si costituisce la persona, anzi la personalità, che si realizza e celebra la sua presenza nel valore morale, che è la sostanza degli altri valori nella loro idealità e doverosità.
Sviluppo, attività, comunanza
Giunti a questo punto, se non ci fosse altro, sapremmo bene i fondamenti e i caratteri dell’educazione. Essa sorge dall’accertamento della comune umanità, nell’educando e nell’educatore, nei nascenti, nei fanciulli, negli adulti, di là dalle differenze che appaiono meno importanti di questa sostanziale unità. Comunanza, comunicazione, comunità: ecco i fondamenti e i caratteri. E si capisce come da essi si tragga il suggerimento per risolvere i vari problemi della libertà, dell’autorità, del metodo stesso dell’apprendere. Quale che sia la nostra esistenza nel mondo, noi siamo per essa e soltanto per essa; ed oltre che viverla, possiamo rappresentarla artisticamente o indagarla col pensiero, ma non rifiutarla o limitarla, perché rifiutandola non si acquista altro, limitandola non si può perché andrebbe fatto da fuori del mondo: chi delimita una cosa è già fuori di essa. Se dire “mondo” sembra ristretto e materiale, diciamo “storia”: la storia (si afferma in questa concezione della vita) non può né negare se stessa (sarebbe anch’esso un atto della storia) né limitarsi perché è infinita, è l’unico infinito che si concreta continuamente (si autolimita e si supera). Nell’educazione fondata su questa concezione c’è un elemento di accettazione della struttura essenziale della realtà (comune all’educando e all’educatore) e c’è un elemento di fiducia nello sviluppo o progresso che lungo questa costanza di strutture o categorie fondamentali è possibile: c’è, per esempio, il linguaggio che si articolerà e svolgerà in linguaggi con sempre ulteriori contributi creativi; c’è, per esempio, l’arte
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che ci darà nuove opere, certamente oggi imprevedibili. Se c’è questo sviluppo, se lo si consegue mediante l’attività, e sviluppo e attività presuppongono la comunanza di natura, di costituzione fisica e spirituale, di cittadinanza della storia o del mondo, il metodo dell’educazione non dovrà che informarsi (si pensa, e da molti oggi) a questi tre elementi.
Soluzione psicologico-sociologica e soluzione spiritualisticostoricistica
L’educazione si troverà, perciò, davanti a due problemi: ragione della differenza tra educando ed educatore; forza di promovimento dello sviluppo. E le soluzioni possono essere diverse: una di carattere psicologico-sociologico, per la quale lo stato diverso del fanciullo sta nella sua particolare struttura psichica, con particolari bisogni ed interessi, e la molla dello sviluppo sta nella società a cui il fanciullo tende e per cui si stimola; un’altra soluzione di tipo spiritualistico-storicistico, per la quale la diversità del fanciullo sta nella prevalenza, in lui, di una caratteristica o categoria spirituale, presente anche nell’adulto, ma in questo dominata e contenuta da altre (per esempio la soggettività, l’esteticità, l’egocentrismo, l’innocenza, l’ingenuità o altro), e la forza promotrice dello sviluppo è lo spirito dall’interiorità, il che di divino, che appare nel mondo con ogni essere e che crea continuamente. Si resta, così, nell’ambito della comunanza e dell’unità fondamentale, e tuttavia si cerca di cogliere l’articolarsi dell’interno dinamismo dell’educazione.
Educazione sacerdotale ed educazione democratica
Questa educazione segna la fine del tipo sacerdotale, perché l’assoluto rilievo lo assume la comunanza, e non il dualismo
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stabilito da una istituzione privilegiata e autoritaria verso altri. L’educazione sacerdotale sapeva di avere già tutto in sé, la verità, i mezzi di salvazione, la discriminazione del valore dal disvalore, la fonte di ogni potere, e perciò non aveva da far altro che trarre a questa sua altezza, dove era Dio. L’educazione, invece, di tipo illuministico-storicistico (il secondo termine non è che uno sviluppo e un invigorimento del primo) si pone il problema, nell’ambito della comunanza o unità, del carattere specifico e del dinamismo proprio di ciò “che è da trarre a Dio” (nell’educazione di tipo sacerdotale), il discepolo catecumeno o il popolo; ed ecco il grande rilievo che prende il fanciullo e la classe proletaria; il catecumeno diventa il fanciullo che noi vedremo caratterizzato o psicologicamente o secondo categorie spirituali; il popolo diventa il proletariato che distingueremo o materialisticamente (nel suo stato economico-produttivo) o secondo aspetti di ideale riserva di bontà e di valori autentici. In nome di questo, e in nome della comunanza, si attenua quella disciplina che aveva anche forme di rigore. Si è preso contatto con una forza che non si prevedeva inizialmente (per l’ingenuità, l’ottimismo dell’Illuminismo) così complessa. Ed ecco che l’educazione e la politica si travagliano oggi per accertare e trovare quelle vie di soluzione del problema “democratico”, nulla perdendo di quel disciplinamento e di quella tensione che aveva la giustamente scaduta educazione di tipo sacerdotale. Questa diceva di avere con sé Dio; quella attuale dice di avere con sé l’apertura, che potrebbe valere altrettanto ed anche più; si tratta tuttavia di studiar bene la cosa, e, io credo, di realizzare molto ancora, perché l’affermazione sia valida.
Note *
Il capitolo è tratto da A. Capitini, Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, NistriLischi, Pisa 1953, pp. 6-12.
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Prima di dire della scuola, vorrei fare una rapida premessa sulla democrazia e questo mondo di domani. Secondo me, c’è e ci sarà sempre e sarà sempre più evidente un contrasto. Noi sappiamo bene che da secoli, si è sempre più resa evidente questa tendenza a comprendere tutti, ad interessarci di tutti, e, una tappa importante di questo sviluppo, è stato il momento in cui Giovanni Huss disse – e morì per questo – che la Comunione eucaristica andava data al popolo non solo come pane ma anche come vino, appunto perché egli aveva questa preoccupazione, questa tensione di apertura a tutti. Noi sappiamo bene che stiamo arrivando in questi decenni al massimo, cioè si è raggiunto di diritto e di fatto l’orizzonte di tutti. Ma qui sorge una differenza, che può essere anche un contrasto. Cioè secondo alcuni basta diffondere, dare, porgere agli altri, divulgare alcune cose, alcuni usi, rimanendo ben fermo un centro preminente, potente e autorevole sul resto; secondo altri, l’aver toccato tutti influisce sul modo di intendere il centro stesso, e bisogna una trasformazione generale di tutto, appunto perché siamo arrivati al massimo orizzonte. Il contrasto è avvenuto, per esempio, nell’antichità, tra un’impostazione di tipo ciceroniano, quello che Cicerone pensa per la sua civiltà, e quello che rappresentano invece i Vangeli e le Lettere paoline. Sono appunto le due direzioni diverse. Il nucleo direttivo può allargarsi, cercare di interessare tutti,
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ma tiene fermo il potere e impedisce o riduce di molto il controllo da parte dei tutti. Se vogliamo vedere un aspetto di questo oggi (che è molto importante appunto per il domani, per il futuro), possiamo vedere il contrasto di una posizione di tipo americano, che esalta come perfetto il modo americano di vivere e cerca di insegnarlo, propagarlo, difenderlo con tutte le armi, in modo che arrivi, sì a tutti, ma non mutando il se stesso, perché viene ritenuto perfetto. All’opposto c’è quello che sta crescendo sempre più: una dinamica posizione nonviolenta, decentrata al massimo, che sollecita tutte le forze del mondo e dal basso e periferiche, affermando un estremo decentramento, una rivoluzione permanente aperta, che ha il vantaggio di non distruggere gli avversari, perché svolgendosi con le tecniche del metodo nonviolento, cambia continuamente la società dal basso, la fa progredire, senza macchiare di sangue le case e le strade. Questo contrasto ha, secondo me, un grande significato, tanto che essendo fatto all’insegna che tutto deve venire da tutti, e deve essere fatto con tutti e per tutti, potremmo anche considerare la democrazia come un tramite verso qualche cosa di diverso, che amerei chiamare “omnicrazia”. Con la differenza – insisto – che mentre l’altro modo, diremo neo-imperialistico o neo-capitalistico, si preoccupa sì di dare alcune fruizioni agli altri, ma tiene bene nelle sue mani il potere e non dividerà mai omnicraticamente il controllo; una posizione di questo genere invece utilizza progressivamente, continuamente tutte le forze dal basso. Da questo punto di vista io vorrei considerare le nostre rivendicazioni democratiche, come un tramite, anche per la scuola, verso ulteriori posizioni di carattere omnicratico. Le rivendicazioni, che noi già facciamo e che abbiamo fatto lungo anni e decenni, naturalmente riguardano il progresso nella scuola, cioè la sua maggiore indipendenza dai legami, dalle imposizioni burocratiche e centralistiche; lo sviluppo della scuola pubblica la quale ha sulla scuola confessionale il privi-
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legio di mettere insieme i diversi: protestanti, cattolici, ebrei, poveri, ricchi, e soprattutto persone che vengono da famiglie di ideologie e condizioni varie, e quindi abitua al dialogo. Il fatto di costruire programmi aperti in cui si possa deliberare su certi argomenti, anno per anno da mutare. Soprattutto l’organizzazione comunitaria nelle scuole stesse, con organi di discussione, insomma quella certa autonomia e democrazia che rivendichiamo da tanto tempo e che, secondo me, potrebbe essere introdotta anche senza una riforma strutturale e di colpo dall’oggi al domani, ma smaltita via via, in modo da dare a tutta la scuola quella autonomia e quella responsabilità che noi vogliamo e che è necessaria per passare alla scuola di domani. Fra l’altro, molte volte si tratta di riforme senza spese e che non sono fatte perché il centro autoritario e burocratico non vuole mollare i suoi poteri proprio a tutti. Ma oltre questo, si può vedere come veramente da questo “tramite” si possa arrivare ad una scuola che viva, respiri questa atmosfera omnicratica, questa ispirazione continua a sentir presenti tutti; questi tutti, questa parola che io sento con la stessa reverenza che ispira la parola “Dio”: “tutti”, una parola infinita perché può arrivare a comprendere non solo noi che studiamo, ma anche coloro che non studiano e non possono studiare, che stanno nei loro letti di sofferenza, anche coloro che hanno in questo momento la testa alterata, anche i lontani, anche i morti; pensate: è una parola immensamente religiosa. Tra gli esempi che espongo brevemente: 1. L’atteggiamento degli insegnanti. Secondo me, in una scuola diversa dall’attuale, l’insegnante deve stare come se partisse da zero; la scuola è dialogo, e l’insegnante vi guadagna la sua autorità non perché egli è insegnante, ma mostrandola continuamente nella capacità che egli ha di suggerire, di risolvere situazioni, cioè di aiutare la comunità scolastica.
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2. Inoltre davanti al crescere del materiale informativo, che nella scuola non può penetrare, perché altrimenti dovremmo moltiplicare le ore, e già sono molte, si pone giustamente il problema che la scuola dia posto ad interpretazioni, che formi capacità critiche, che dia appunto orientamenti; e le notizie poi lo studente se le trovi da sé. Faccio un esempio semplice, ma si può estendere: dobbiamo studiare la storia dell’arte; ma come è possibile studiare la storia dell’arte, soltanto quella italiana, soltanto quella occidentale? Studieremo piuttosto i criteri – per esempio Il Saper vedere di Matteo Marangoni – quei criteri che ci possono servire per illuminarci, per poter orientarci. Poi ognuno può accrescere le sue conoscenze quantitativamente; l’importante è che l’insegnante metta in grado gli altri di giudicare, di orientarsi nel giudizio. E quindi la scuola dovrebbe dare contesti di notizie, di carattere generale, anche in filosofia: un ragazzo sappia che è esistito Platone, Aristotele, Socrate, ma studi certi punti e sviluppi soprattutto queste capacità di giudizio, che restano aperte alla raccolta di materiali da tante parti, che si può fare nella scuola e fuori; in quanto si pensa ormai che la scuola debba essere semplicemente una preparazione non solo per il lavoro, ma per il tempo libero di domani. 3. Uno dovrebbe avere imparato a scuola, in una scuola di questo genere, aperta sul serio, ad usare il tempo libero, per esempio a sapere quali sono i valori da approfondire, i valori per cui vale la pena di vivere e morire; a sviluppare la voglia di leggere, a formarsi un orientamento filosofico, un criterio d’arte ed altre cose. 4. E anche in questo orizzonte, tenendo sempre presente un orizzonte omnicratico che trasforma anche il centro, dovrebbe mutare l’educazione civica; che è male insegnare come una serie di obbedienze, mentre dovrebbe essere indicata come un elenco di modi di partecipazione per la tra-
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sformazione continua della società; quindi – vengo ad un tema a me caro, perché da trentacinque anni rivendico l’importanza del metodo nonviolento –, anche le tecniche del metodo nonviolento che possono trasformare la società, senza uccidere i nostri avversari, anzi amandoli. Ed ancora, l’utilizzo di tutti gli elementi culturali, che può essere fatto nella scuola, e il costituire sempre autogoverni all’interno, addestrando tutti per questo. Un esempio che per me ha un valore concreto ed anche simbolico: la musica; la musica che dovrebbe essere al centro, io direi, non solo nella scuola, ma anche della socialità, e da tutti conosciuta. Perché la musica è proprio l’esempio più illuminante di una cosa che può avere un valore accessibile a tutti, comprensibile da tutti e di tutte le razze, e nello stesso tempo di altissimo valore. Per me la musica può essere vissuta proprio come una caso culminante, liturgico di compresenza. Noi possiamo sentire che la musica scaturisce non dal musicista, non dai musicanti, ma dall’animo di tutti. Tutti compresenti alla musica. La musica quindi è importante. Anche l’architettura, da un punto di vista di questo genere, cioè omnicratico, va vista diversamente. Ecco la grandezza di san Francesco che voleva le chiese piccole; non è la bella chiesa di ora ad Assisi, che non è stata fatta da san Francesco, perché è stata fatta per un santo. L’architettura auspicabile in questo caso, è un’architettura direi aperta, che sente presenti tutti, quindi è un’architettura piccola, non è certo un’architettura di tipo barocco, che è fatta senza sentire la presenza degli altri. E san Francesco voleva le chiese piccole, perché la modestia accomuna tutti. Tra le tante esemplificazioni per una scuola di questo genere, rientra anche il rallentamento del ritmo, per la preminenza che deve avere il rapporto con gli altri. E quindi faccio le mie riserve sull’accrescimento scientifico, messo
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al primo piano, nella scuola di oggi o, se volete, nella scuola di domani. Noi dobbiamo rallentare il ritmo per capire il valore del tu, il valore di accumunarsi con gli altri esseri, che non sono “motori”! 9. Un altro esempio: la necessità di una lingua universale, cioè di una educazione bilingue, che, del resto, in tempi culminanti, religiosi (pensate a san Paolo, pensate a san Francesco) esisteva; tanto più che in Italia si sta superando il dialogo e quindi oltre alla nostra, possiamo usare sempre una lingua internazionale comune. 10.Infine direi che dobbiamo anche far sentire, se vogliamo che veramente la scuola sia di tutti, questa sete di liberazione, di trasformazione della realtà attuale, in una realtà che veramente sia di tutti, che non lasci fuori nessuno, e quindi l’educazione può anche essere veramente un atto verso una realtà liberata dai limiti di questa realtà. Una realtà liberata che ha come suoi antesignani proprio i fanciulli. E con apertura a loro, noi dobbiamo dare i valori che possiamo, ma dovremmo avere l’umiltà di pensare che loro siano capaci di fare sintesi migliori di noi. Essi saranno qualche cosa in più di noi. Questa è, secondo me, la vera educazione. Per concludere mi fermerò soltanto su alcuni punti. Il primo è questo: io non vorrei passare per un sostenitore in aeternum della scuola pubblica. In Italia nelle condizioni attuali, una scuola pubblica che funzionasse veramente come pubblica, cioè come aperta, come non vincolante, è il meno peggio che si possa fare, purché funzioni così, perché se questi ragazzi li portiamo il giorno di san Tommaso a sentire la messa di san Tommaso, dovremmo nello stesso momento mettere una bella corona alla lapide di Giordano Bruno. Se scuola pubblica vuol dire scuola di tutti, vuol dire scuola non legata a nessun principio ideologico; da questo punto di vista, io che sono
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per un grado ulteriore, mi rendo conto che nella situazione italiana, il tipo di scuola pubblica aperta vale per reagire a tutti i pesi della tradizione e della situazione italiana. Se cominciamo a chiudere i ragazzi in una scuola, da 11 a 20 anni e diamo loro una sola ideologia che condanni le altre, quando questi ragazzi incontrano altri, di altra ideologia, credono che siano di razza diversa! Questo mi disgusta profondamente. Ognuno può mandare i ragazzi dopo la scuola, dove voglia, ad aggiungere una particolare educazione, che io che sono per un’aggiunta religiosa, pur non essendo cattolico, ai ragazzi gliela darei in altri centri; ma è bene che ci sia un momento in cui tutti siano vicini a quelli di tutte le razze e di tutte le religioni. Se la scuola pubblica arriverà a questo punto, sarà, come primo momento, una buona cosa. Si tratterà poi di passare ad un secondo momento, in cui possano esserci tutte le scuole libere che si vogliono, ma su un grado assolutamente di libertà. Quando avremo purificato l’area e la tradizione italiana da tutte le prepotenze secolari. Un altro punto è che io mi sono affezionato sempre più al termine omnicrazia per correggere le interpretazioni pesanti del termine democrazia che ormai sapete che suona equivoco. Omnicrazia, cioè io auspico una società in cui il potere sia di tutti. Naturalmente so benissimo che questa può essere un’idea, prima religiosa, in quanto per me la vita religiosa è la cosa a cui tengo di più, anche se non sono un tradizionalista in religione. I miei amici sanno che durante il fascismo sono stato un liberalsocialista, e sono andato in prigione non solo per il metodo nonviolento, ma perché rivendicavo appunto il massimo socialismo per eguagliare le condizioni di tutti, e massima libertà perché tutti devono avere le condizioni uguagliate per avere una maggiore possibilità di esprimere se stessi. In Elementi di un’esperienza religiosa, molti anni fa ho detto: “in quella larga unità possono sorgere innumerevoli centri di ricerche”, parlavo della scuola “di affermazioni, cenobi di for-
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mazione di culture scelte e presso le scuole stesse, organi di discussione e di libero svolgimento, che siano come i polmoni di un’istituzione che potrebbe meccanicizzarsi”. La scuola attuale è un ibrido; noi dovremmo cercare di ripulirla seguendo proprio il più possibile un principio di questo genere; naturalmente l’eliminazione del potere estraneo che è implicita nel termine omnicrazia, non può essere che progressiva. Intanto dobbiamo fare delle attuazioni, e quindi realizzare sul serio una scuola democratica, liberissima ideologicamente, in cui tutti possano esprimersi, e con tutte le delucidazioni che derivano da questo concetto. I bambini sono il domani, cioè qualche cosa migliore dell’oggi, sono i preannunci di una realtà liberata dai nostri limiti; io sento davanti a loro un unico dovere: di concludere il passato meglio che posso. Ma mi sono aperto a che loro facciano meglio di noi. Ma mi rendo conto che la politica va per gradi, ma questi gradi bisogna percorrerli; la religione veramente aperta, di tutti, potrà venire, per ora, con gruppi, ma dilagherà e forse anche più rapidamente di quello che si possa pensare.
Note *
Il capitolo è tratto da A. Capitini, Educazione aperta, vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 119-125.
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Indice Introduzione ...................................................................... 5 Piergiorgio Giacchè I principi e i valori Il problema dell’educazione ............................................... 35 L’educazione religiosa ........................................................ 41 La morte e l’educazione ..................................................... 47 L’apertura alla compresenza ............................................. 55 Maestri e modelli Il Mazzini educatore .......................................................... 71 La pedagogia di Gandhi ..................................................... 83 Il metodo Montessori ....................................................... 101 La Scuola-città Pestalozzi ................................................. 113 La scuola di don Milani ................................................... 123 Fare scuola La scuola del futuro ......................................................... 133 Scuola e libertà ................................................................. 141 La scuola e la pace ............................................................ 145 Il contributo degli educatori ............................................ 155 Modi dell’educare La corporeità .................................................................... 161 La gioia ............................................................................. 167 L’amore ............................................................................. 173 La socialità ........................................................................ 181 Il valore ............................................................................. 195 Il sapere ............................................................................ 205 Il silenzio .......................................................................... 213 Un riepilogo o un congedo .............................................. 225
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di Perugia. Ha condotto ricerche su vari aspetti della cultura e società contemporanea – dalla devianza alla condizione giovanile, dalla solitudine abitativa alla partecipazione politica – prima di specializzarsi in Antropologia
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del teatro e dello spettacolo. Collaboratore de “Lo Straniero” e di numerose altre riviste nazionali e internazionali, è autore di numerosi libri. È stato il primo presidente della Fondazione “L’Immemoriale di Carmelo Bene” (2002-2005).
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“Capitini non è un mistico ma un operatore, non è un santo ma un maestro davvero ‘elementare’, sia perché considera le situazioni concrete e affronta le condizioni reali, sia per l’importanza che assegna alle pratiche. Davanti ad Aldo Capitini e i suoi scritti si resta insieme persuasi e perplessi: attratti dalla persuasione e tentati dalla perplessità. Sono passati degli anni, si dirà, e troppe cose e persone sono cambiate se è vero che si è alle soglie di una ennesima mutazione antropologica. Ma questa del tempo che passa e trasforma – in coscienza – è sempre stata una scusa. Bisogna in realtà soltanto decidersi, se leggere gli scritti di Capitini con il senso della storia o sotto il segno della compresenza. Se disporsi all’ascolto di una voce che ha cercato e ancora cerca, prima ancora di avere un dialogo con noi, di inaugurare e di invitare tutti a un colloquio corale. È davvero troppo per il lettore e l’educatore contemporaneo, ma l’apertura è una unità smisurata di misura con cui conviene confrontarsi. Gli scritti pedagogici di Capitini – e questo nostro suo libro che li ripubblica – parlano in effetti del modo e del mondo della scuola, e sono rivolti innanzitutto agli insegnanti e agli studenti che la abitano. Gli scritti pedagogici di Aldo Capitini restano validi proprio perché sono ancora “inattuali”: eppure in gran parte si tratta di modelli attuati e di maestri indimenticati e di analisi ancora valide e di indicazioni ancora fertili.” (dall’Introduzione) ISBN 978-6153-071-3
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www.lameridiana.it
La religione dell’educazione Scritti pedagogici di Aldo Capitini A cura di Piergiorgio Giacchè
edizioni la meridiana
Piergiorgio Giacchè antropologo, insegna all’Università
La religione dell’educazione a cura di Piergiorgio Giacchè
| persuasioni |
edizioni la meridiana | persuasioni |
La pedagogia è in crisi. Vecchi irrisolti problemi e questioni radicalmente nuove hanno spinto la pedagogia ai margini della cultura e della società italiana. Le risposte, appena accennate in questi ultimi anni, non sembrano in grado di incidere significativamente sulla residualità educativa: l’approccio tecnocratico si rivela inidoneo ad arrestare il collasso del sistema scuola, mentre l’elaborazione concettuale appare incapace di indicare nuove forme di convivenza e di cittadinanza. Eppure un paese che non sa più educare rischia di smarrire se stesso, non solo le nuove generazioni. Su quali fondamenti ricostruire? Quali, oggi, i compiti prioritari e ineludibili dell’educazione? In che modo formare una nuova identità ideale e culturale cui ispirare l’azione educativa? È a questi interrogativi che la collana, diretta da Goffredo Fofi e animata da un gruppo di operatori culturali e sociali riuniti intorno alla rivista “Lo straniero”, tenta di dare risposta. Per provocare riflessioni, stimolare analisi critiche, divulgare quanto di meglio, in diversi ambiti e luoghi, dentro e fuori la scuola, si sta facendo. Insomma, uscire fuori dal coro per restituire centralità ad una pedagogia che riprenda a costruire coscienze critiche adeguate alle sfide del futuro.