Sono trascorsi tanti anni da allora e la domanda resta sempre la stessa: perché? Quante indagini. Quanti processi. Bis, tris, quater. Appello. Cassazione. Ipotesi, testimonianze, ritrattazioni, condanne, assoluzioni, tutto vero, tutto falso. In Italia la linea più breve fra due punti, diceva Flaiano, è l’arabesco.
Osvaldo Capraro
La Stanza di agneSe
Prefazione di Lucia Borsellino
IndIce
PrefazIone
Non avrei mai immaginato che la nostra storia potesse essere oggetto di un libro e di una rappresentazione teatrale. E che fosse la voce “prestata” alla mamma che non c’è più a raccontarla. Lei è andata via nove anni fa, strappata alla vita terrena da una ma lattia implacabile. Leggere le sue parole, oggi, è come sentirne la voce roca da fumatrice, dai toni lenti e pacati, la sua voce che non riusciva più a nascondere le sofferenze indicibili della lunga agonia che è stata la sua vita senza papà.
C’eravamo noi, è vero, i suoi figli, derivazione e testimoni del loro amore. Ma la loro vita insieme era un’altra storia, per dirla con le sue parole, la sua più “lieta novella” anche quando, insie me, affrontavano la paura più profonda: la consapevolezza che a separarli sarebbe stata la violenza e la cattiveria di uomini indegni e non il Signore cui era improntata la loro fede. Ma andavano avanti, sempre, insieme, nonostante tutto. Superando ostacoli in sormontabili e percorrendo strade irte di pericoli e di difficoltà, senza deviare, guardando in faccia la realtà.
Sì, le persone che li hanno amati nel corso della loro esisten za sono state tante, non tantissime, segno anche, è indubbio, di quanto abbiano loro disseminato amore in vita. Ma sono stati tanti anche i traditori che vilmente sono spariti dalla loro e dalla nostra vita o che hanno tramato alle loro spalle o entrambe le cose. E nei momenti più bui, sono andati avanti lo stesso, da soli con le loro gambe e le mani strette, camminavano insieme e noi al seguito; noi tre figli, la prima delle scorte. La prima fila di quel corteo di angeli custodi che ha accompagnato papà (e mamma) sino alla fine.
Noi, che come la mamma, solo per un caso, non eravamo con lui, quel giorno, in via D’Amelio, nel luogo in cui si è consumata
la strage terroristico-mafiosa in cui, oltre a papà, persero la vita i poliziotti che lo proteggevano, Agostino, Claudio, Emanuela, Vin cenzo e Walter e dove è finita anche la nostra corsa.
Per noi quattro, con mamma “capitana” di questa nuova resi stenza, iniziava da lì una nuova lotta per la vita. La sua costante ricerca di bellezza, con lo spirito leggero di una farfalla che appa rentemente vola in superficie, sfidando il peso del fardello che por ta addosso, è stata per nostra madre l’elisir della sua sopravvivenza al dolore. Di lei è inimitabile quel modo di esprimere con ironia, sensazioni di estremo disappunto o di disagio, pur di non cedere alla condizione, seppur umana, di perdita di speranza, di rabbia o depressione.
Un soldato senza divisa, anzi con un abito elegante e composto come la sua indole. Sempre pronta ad accogliere, in ogni momento delle sue giornate, le sollecitazioni della vita che bussa alla sua porta, anche quando costretta dalla malattia, il suo mondo è la casa o la stanza dell’ospedale.
La stanza di Agnese. Uno scrigno di ricchezza interiore, a volte disarmante, a volte imperscrutabile, ma amabile in tutte le sue forme. Pure, in sincerità, a volte perfino irritante, nella sua di gnitosa compostezza, in quanto troppo “vera”. Un contegno au tentico, non di circostanza, che ha contraddistinto anche la più impegnativa delle battaglie: quella per la verità sulla morte del marito e del padre dei suoi figli. Una verità di cui non ha fatto in tempo a vedere la luce, ma per la quale ha nutrito speranza sino alla fine. Perseverando, nonostante tutto, nella fiducia verso le istituzioni e confidando nella purezza di spirito e nella voglia di riscatto dall’oppressione mafiosa delle nuove generazioni.
Lucia BorsellinoLa stanza dI agnese
“Via D’Amelio è stata da colpo di Stato.”
Da colpo di Stato. Non ebbi il tempo di riprendermi dalla sorpresa, che il presidente Cossiga aveva già chiuso la telefonata.
Cosa aveva voluto dire? E perché dirmelo 18 anni dopo la tua morte? Non ho mai più avuto l’occasione di riaprire il discorso, Cossiga morì un mese dopo.
Quella battuta, sono sicura che tu l’avresti capita al volo. Al contrario di me, cosa potevo capirne io, ci hai sempre protetti da certi ambienti, preferivi che non ne sapessimo nulla.
Adesso mi dico che se avessi tenuto gli occhi aperti forse è vero che mi sarei ritrovata in pericolo anch’io, però non mi sa rebbero sfuggiti particolari importanti.
Mentre ci restituivano la tua borsa, per esempio. Fu Lucia ad accorgersene: mancava la tua agenda rossa.
“Non esiste nessuna agenda rossa, sua figlia vaneggia!”, ri spose Arnaldo La Barbera con quel tono risentito. Che momen to sgradevole. Mi colpì quel rancore nella voce, non c’ero preparata. E invece Lucia sapeva benissimo di cosa parlava. Era molto più lucida di me, in quei giorni.
Io mi sentivo persa e loro lo sapevano. Quelli che mi invitava no alle celebrazioni in tua memoria, al Senato, al Quirinale, alla Banca d’Italia, in Vaticano. O quelli che fingevano generosità e aprivano grandi strutture col tuo nome inciso: Paolo Borsellino. E tutte quelle persone importanti e perbene che mi parlavano di te durante i ricevimenti. Che non mi mollavano un attimo, che mi assillavano con le loro domande.
Ora lo so. Non era vicinanza, era marcatura stretta. Volevano capire cosa sapevo, cosa mi avevi riferito.
Dopo averti fatto saltare in aria volevano cancellare anche le ultime tracce di te, fino a spazzare le briciole. E io ero così smarrita che non riuscivo a sentire il tanfo della loro presenza. Quell’aria così putrida.
“Ho respirato aria di morte” mi dicesti quel primo luglio del 1992. Quel giorno eri appena tornato da Roma e, adesso posso dirlo, eri entrato definitivamente nel mirino.
Dei mafiosi che non vedevano l’ora di vendicarsi.
Delle autorità che ignorarono le segnalazioni, tutte le segna lazioni, sul pericolo che correvi ogni volta che andavi a trovare tua madre. Via D’Amelio è una strada senza uscita, perfetta per un agguato.
Eri sicuramente nel mirino di chi, in quei giorni, ti aveva na scosto un’informazione gravissima: a Palermo era arrivato il tri tolo per te. Quando te lo disse in aeroporto, il ministro Andò pensava che ti avessero già informato. Invece il capo della pro cura, Giammanco, il tuo capo, non ti aveva detto niente.
Ed eri nel mirino dei binocoli che dal castello Utveggio ci spiavano dentro casa e per questo mi avevi chiesto di tenere le tapparelle abbassate.
“Ho visto la mafia in diretta e sono turbato” furono le tue parole davanti alla finestra e guardavi in quella direzione. Ma non eri spaventato. Eri deluso. Avevi appena saputo di alti funzionari di Stato collusi con la mafia. Un magistrato. Un poliziotto. E per te la fedeltà allo Stato era una religione. Ne avevi provato un tale disgusto che avevi vomitato.
Quante cose hai capito negli ultimi mesi, Paolo mio. E quanto impotente mi sono sentita.
“La mafia mi ucciderà quando altri glielo consentiranno”: come si fa a dimenticarla, una frase del genere? Due giorni prima di morire me la dicesti, sul lungomare di Carini.
Chissà chi poteva avere tanto potere. Io, certo, non potevo saperlo.
Ma una cosa l’avevo capita, quella sì. Eri un uomo lasciato solo a combattere contro nemici invisibili. Ecco: la tua solitu
Ma che discorso inutile che sto facendo, ormai è passato così tanto tempo.
Eppure ricordo tutto come fosse ieri, anzi oggi. Perché sì, è vero, mi sono ammalata. Ma di leucemia, non di Alzheimer, come ha detto quel generale. Subranni. Evidentemente gli avranno passato un’informazione sbagliata. Strano, perché quel li, di solito, sanno tutto. O forse, chissà, la memoria avrà giocato a lui un brutto scherzo.
Non a me. Io non ti dimentico. Io non dimentico nulla, Paolo.
Io e mia cugina Matilde uscivamo spesso insieme.
Un giorno, era settembre del 1967, mi dice: “Agnese, devo pas sare un attimo dallo studio di papà”.
E, nello studio del notaio Furitano, mi ritrovo davanti questo gio vane di 27 anni, pretore a Mazara del Vallo, che era passato per sa lutare. Solo dopo ho saputo che era magistrato già da quattro anni.
Paolo è diventato magistrato a 23 anni, il più giovane d’Italia.
Quando partì a Roma per il concorso, disse a sua madre: “Se vengo bocciato, mi butto nel Tevere per la disperazione”. Non se lo poteva proprio permettere di non superare il concorso.
Perché si era laureato nell’estate del 1962. E pochi giorni dopo, suo padre morì. Diego Borsellino, il titolare della farmacia Borsellino, in via della Vetriera, nel quartiere della Kalsa.
Una malattia veloce, inesorabile.
Quel giorno, Diego gli chiese una sigaretta. Aspirò due o tre volte, “Ti voglio bene”, disse e chiuse gli occhi per sempre.
Aveva 52 anni. Suo fratello maggiore, Domenico, lo zio Mimì, era morto anche lui a 52 anni.
Paolo e Salvatore ci scherzavano su questa cosa dell’età: “Sbri ghiamoci a fare quello che dobbiamo fare, che i maschi Borselli no muoiono a 52 anni”.
Quando lo hanno ucciso, Paolo aveva 52 anni.
Erano quattro fratelli: Adele, la più grande. Poi venne Paolo.
Poi Salvatore e poi Rita. A Paolo, 22 anni, toccò il ruolo del padre di famiglia.
Le cose economicamente già non andavano tanto bene. Il quartiere, in quegli anni, aveva subito un anticipo di quello che poi sarebbe successo col sacco di Palermo. Case abbattute, fami glie sfrattate e trasferite in altri quartieri. La popolazione si era ridotta velocemente da cinquemila a duemila abitanti e tutto ciò ebbe pesanti ricadute sugli affari di famiglia.
Nessuno a casa aveva la licenza di farmacista – Rita si è lau reata qualche anno dopo – così mamma e quattro figli furono costretti a vivere con le 120.000 lire al mese dell’affitto della far macia. Per guadagnare qualcosa in più, Paolo teneva ripetizioni, aiutava gli studenti. Scriveva tesi per i laureandi, battendogliele pure a macchina.
E, insomma, nello studio del notaio feci questa conoscenza.
Non fu una cosa memorabile. Paolo si mostrò timidissimo, forse perché sapeva che ero la figlia del presidente del tribunale di Palermo. Ma mi sembrò subito un ragazzo a modo, molto cortese.
Che, poi, non ci ho messo molto a capire che timido non lo era stato mai.
Alle scuole medie, mi diceva sua madre, dava un sacco di fa stidio agli insegnanti. Non stava un attimo fermo, parlava sem pre e non la smetteva mai di piazzare quelle sue battute che face vano ridere la classe, ma disturbavano la lezione. E questa voglia di fare battute, provocatorie, anche inopportune, gli è rimasta fino all’ultimo.
“Tanto se mi ammazzano” mi diceva quando gli veniva il bab bìo, “tu avrai una vita agiata, lussi di qua, di là…”
“Sì, bravo. Proprio così devi parlare.”
Mi faceva arrabbiare quando diceva certe cose. E lui, apposta, insisteva: “Com’è, non ti piacerebbe fare la vita della vedova del giudice? Sai quante interviste, quanti giornali, tutte le televisioni che fanno la fila per te…”.
Aveva questo desiderio continuo di babbìo, di scherzo, di bat
Il giorno in cui ci siamo sposati, avevo un’ansia incredibile. Ma non era solo per l’emozione del matrimonio. Speriamo che non faccia fesserie, mi dicevo, sennò qua ci rovina la festa. Vero. Avevo timore.
E, insomma, una volta uscite dallo studio di suo padre, mia cugina mi fa: “Beh, e non dici niente?”.
“Di cosa?”
“Agnese, ma ti piace o no, questo ragazzo?”
E così, qualche tempo dopo, Matilde organizza una gita a Ustica.
E lì con Paolo abbiamo scambiato qualche parola, soprattutto sul suo lavoro a Mazara. Ma le cose che mi disse, se devo essere sincera, un pochino mi scandalizzarono.
Mi raccontò delle persone che incontrava: criminali, ladri, ra pinatori, truffatori. E, per lui, era l’atteggiamento più naturale di questo mondo trattarli come fossero al suo stesso livello. Mentre per me, figlia del giudice Angelo Piraino Leto, le distanze erano importanti.
E, invece, quante volte Paolo si è divertito a scandalizzare papà con una parolaccia buttata lì, in dialetto, usando lo stesso linguaggio di certi ambienti popolari.
Mi ci sono voluti diversi anni per capirlo: perché tutti quei pentiti facevano la fila per farsi ascoltare da lui? Come mai que sta fiducia?
Forse perché parlava il loro stesso dialetto? O perché aveva la loro stessa gestualità, per esempio lo stesso modo di fumare la sigaretta?
“No, io con voi non ci parlo”, gli disse Piera Aiello, un’impor tante testimone di giustizia, la prima volta che lo vide, “e un mo tivo c’è: mi sembrate un mafiusu”. In effetti, un po’ di ragione ce l’aveva. Specie quando fumava, Paolo aveva una mimica tutta sua, molto simile a quella di certi boss.
Osvaldo Capraro ha esordito con Il pianeta delle isole rapite (edizioni la meridiana) e nel 2006 ha vinto il Premio città di Bari con Né padri né figli (edizioni e/o) ripubblicato con Terrarossa Edizioni nel 2017. Ha pubblicato nel 2014 Nessun altro mondo con Stilo Editrice. Autore di articoli e racconti pubblicati su riviste e antologie, ha scritto per il teatro Stoc ddò, Io sto qua e La stanza di Agnese. ISBN 978-88-6153-944-0