Liberi di scegliere

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Ludovica Scarpa LIBERI DI SCEGLIERE 52 scelte (una alla settimana!) per mettersi alla prova. E cambiare

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Indice

Prefazione ...................................................... 9 Introduzione ............................................... 13 52 SCELTE: UNA ALLA SETTIMANA! 1 Scegliere la libertà di scegliere i propri stati mentali ........................................... 2 Scegliere di essere angeli o diavoli ........ 3 Scegliere di migliorarsi .......................... 4 Scegliere di accettarsi ............................ 5 Scegliere di usare la testa e di contare ... 6 Scegliere di fare volentieri quel che facciamo comunque .............................. 7 Scegliere di far malvolentieri quel che facciamo comunque .............................. 8 Scegliere di fare i propri veri interessi .. 9 Scegliere di passare dal “senso del dovere” al “senso del volere” ................ 10 Scegliere di dare la colpa e di accusare .. 11 Scegliere di darsi la colpa ...................... 12 Scegliere di (non) avere problemi ......... 13 Scegliere di lamentarsi ........................... 14 Scegliere di rinunciare ........................... 15 Scegliere di spettegolare ........................ 16 Scegliere di non fare danni ................... 17 Scegliere di fidarsi e di essere affidabili. 18 Scegliere di diffidare e disprezzare ........ 19 Scegliere di giudicare con avversione ... 20 Scegliere di dire la verità ....................... 21 Scegliere di sperare ................................ 22 Scegliere di dire “io mi sento” invece di “tu sei” ................................................... 23 Scegliere di prendersi le proprie responsabilità di persona adulta ...................... 24 Scegliere di lasciarci in pace .................. 25 Scegliere di aggiustare quel che è rotto 26 Scegliere di buttare quel che è rotto o che non vogliamo più ......................... 27 Scegliere di guardare bene quel che è rotto e scoprire che ci piace di più così 28 Scegliere di dare una mano ................... 29 Scegliere di dire “preferisco di no” ......

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30 Scegliere di vedere quel che c’è e che è come è e scoprire che va bene così – non rifiutare nulla ....................... 64 31 Scegliere di ridere .................................. 65 32 Scegliere di essere incerti? .................... 67 33 Scegliere di dire basta (andarsene, sparire, licenziarsi, emigrare, suicidarsi, scegliere di essere un altro) ................... 69 34 Scegliere la benevolenza ........................ 72 35 Scegliere di prendersi sul serio senza prendersi troppo sul serio ..................... 74 36 Scegliere di essere grati ......................... 75 37 Scegliere di fare cose completamente gratuite ................................................... 76 38 Scegliere di capire la fisica ................... 78 39 Scegliere di fare quel che ci fa piacere fare ......................................................... 79 40 Scegliere la frugalità di essere razionali 81 41 Scegliere l’agonismo e non l’antagonismo 81 42 Scegliere di essere un reporter coraggioso della propria vita ................. 82 43 Scegliere di fermarsi a vedere il surreale ..83 44 Scegliere di controllare cose e persone .. 84 45 Scegliere di fare quel che ci viene chiesto 86 46 Scegliere di vedersi come parte del paesaggio naturale ................................. 88 47 Scegliere di ripulire il proprio filtro mentale .................................................. 89 48 Scegliere di accorgersi del carattere storico dell’esperienza ........................... 90 49 Scegliere di essere straniero: vedere e sospendere le assunzioni “ovvie” ....... 91 50 Scegliere di preferire ............................. 92 51 Scegliere di esagerare ............................ 93 52 Scegliere di ricominciare da adesso ...... 95 Imparare dall’orsetto del ping-pong .......... 97 Bibliografia .................................................. 99 Lo sguardo etnografico ............................. 103


Prefazione

Un miracolo supplementare, come ogni cosa: l’inimmaginabile è immaginabile. Wislawa Szymborska Che senso ha, oggi, riproporre, in nuova edizione riveduta, un libro sulla libertà di scelta interpretativa? In tanti ci sentiamo oppressi, per nulla liberi, ma vittime della contingenza economica e del “sistema paese”. Renderci conto delle nostre risorse, liberarci dall’ansia e dal catastrofismo è una presa di posizione coraggiosa, una scelta di campo: proprio in una situazione di costrizione, schiavitù, prigionia, fa la differenza, nella nostra vita, renderci conto che nessuno può impedirci di scegliere almeno come interpretare e quindi come vivere la nostra personale esperienza della situazione (Frankl): coltivando calma e forza d’animo, facendo del nostro meglio, preparandoci dentro di noi, pronti a cogliere l’occasione per liberarci, oppure disperandoci, sperperando energie nell’avversione? Se le circostanze esterne si permettono di essere ben diverse da come noi le vorremmo, perché produrre ulteriore sofferenza interiore, rifiutandole, se questo non ci fornisce l’energia necessaria per occuparcene? La libertà di scegliere di osservare con distacco i passi che fa la nostra mente per produrre i nostri stati mentali non ce la può sottrarre nessuno. Allargando così la nostra prospettiva, possiamo renderci conto delle potenzialità nascoste in ogni situazione, spostare il fuoco dell’attenzione dalle difficoltà alle risorse, ingrandire lo spazio di

manovra mentale, e le nostre opzioni, nella vita di tutti i giorni, aumentano. Immaginiamo una lunga linea in cui i due estremi, x e y, simboleggiano due modi diversi di vedere le cose. All’estremo x crediamo che i comportamenti degli esseri umani dipendano da fattori scientificamente misurabili e “oggettivi”: geni, economia, leggi socio-psicologiche o biologiche, e simili. Dall’altro, che dipendano da quel che le persone stesse pensano, credono, sentono, condividono: dalla nostra capacità simbolica, relazionale, narrativa. Intorno al primo estremo numerose discipline tentano di individuare leggi scientifiche per poter prevedere i comportamenti degli esseri umani. Intorno al secondo sta chi, come me, riconosce la nostra caratteristica essenziale di esseri simbolici (Cassirer), in grado di aggiungere alla realtà che percepiscono qualità, interpretazioni, significati – realizzando così la “realtà di secondo ordine” (Watzlawick), quella che ha, per noi, le caratteristiche che noi stessi le assegniamo. Spostandoci verso questo estremo, interpretiamo noi stessi come interrelati in una realtà sistemica complessa, co-costruita dai nostri stessi concetti, dalle nostre narrazioni e convinzioni1: dalle potenzialità che esistono per noi solo se riteniamo di averne, dall’immaginazione che ci caratterizza. In fondo non sono che strategie, tutte, per rispondere ai bisogni degli esseri umani. Lo stesso concetto di strategia è un’idea, un’immaginazione, consolidata nel linguaggio, come quello di “libertà di scelta” e gli altri termini astratti che ci accolgono quando veniamo al mondo, nell’interrelazione linguistica. Il nostro modo di osservare e definire le situazioni le condiziona: “Una situazione definita

1. Biologia, neuroscienze, antropologia, psicologia, sociologia: numerose sono le discipline che sostengono la tesi costruttivista, a cui faccio riferimento. Per approfondire, cfr. Scarpa L., Lo sguardo etnografico, Arca, Grosseto 2013 e Pörksen B. (a cura di), Schlüsselwerke des Konstruktivismus, Springer 2011.

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come reale da chi la vive, diventa reale nelle sue conseguenze” (Merton). Ne consegue la “profezia che si auto-avvera” (Watzlawick): le nostre ipotesi, convinzioni (e paure) tendono a realizzarsi, grazie alla percezione selettiva e ai comportamenti interrelati che implicitamente sostengono. Possiamo focalizzarci sulle conseguenze delle nostre immaginazioni e accorgerci del loro potere, nei riguardi della qualità del mondo che contribuiamo a creare: scegliere di fare attenzione a come pensiamo. A differenza degli altri animali, noi esseri umani non reagiamo quindi al mondo, ma al nostro mondo: fatto delle nostre idee, di quel che percepiamo intorno a noi. Creativi e fantasiosi, aggiungiamo all’ambiente significati, ipotesi, potenzialità, immaginazioni, progetti. “Il mondo è il mio mondo” (Wittgenstein). “Tutto ciò che sembra reale, il mondo delle apparenze, ha bisogno del mio consenso per essere reale per me” (Arendt, 1987). “Tutto ciò che viene detto, viene detto da un osservatore” (Maturana). “Ogni oggettività richiede una soggettività che la esprima” (Panikkar). Questi autori sottolineano tutti il ruolo costruttivo, creativo, del nostro stare al mondo, e li possiamo prendere sul serio nella nostra esperienza concreta. Concetti, convinzioni, idee, significati, sono tutti fenomeni prodotti dalla nostra immaginazione, dalla fantasia con cui interpretiamo un qualcosa come simbolo di qualcos’altro: x sta per y, la mossa fondamentale della mente umana, quella che fin da bambini alleniamo giocando e “facendo finta”. Viviamo dunque in una realtà di secondo ordine, che realizziamo “processando” quel che percepiamo con la nostra immaginazione: e possiamo immaginarci perfino una “Possible World Box” (Nichols, Stich), nella nostra mente. Uno spazio in cui produciamo versioni alternative del mondo. La nostra personale “Possible World Box” produce varianti potenziali di circostanze e situa10

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zioni: possiamo, ad esempio, senza spostarci, vedere le cose da punti di vista diversi. Riflettendo ci accorgiamo che i nostri comportamenti dipendono dai nostri bisogni e dalla definizione che diamo alle situazioni, valutiamo i costi delle nostre scelte, immaginandone in modo virtuale le conseguenze: vivendo “per prova”, nella mente, le più diverse situazioni, e facendo “morire le nostre ipotesi al nostro posto” come diceva il filosofo Popper. Senza nemmeno farci caso, confrontiamo quel che percepiamo intorno a noi e che possiamo descrivere (fotografare, misurare) con la nostra idea di come invece potrebbe/dovrebbe essere: abbiamo esperienza di ogni cosa intorno a noi ponendola sullo sfondo delle nostre assunzioni, aspettative e convinzioni. A partire da questo contesto “interno” attribuiamo significati a quel che “avviene”. Tendiamo a credere che le nostre interpretazioni siano senz’altro descrizioni, e lo sfondo è inconsapevole: è ciò che ci pare “normale”, gli standard impliciti nella nostra cultura e nei nostri concetti. Grazie a questo confronto immediato e continuo diamo giudizi e interpretazioni. Ad esempio, per poter dire “che giornata noiosa!” la confronto, nella mente, con un’idea di come dovrebbe essere invece per sembrarmi, mettiamo, interessante. Nell’immaginazione confrontiamo anche l’idea di quel che siamo con quella di come potremmo essere: possiamo sempre immaginare progetti di vita alternativi. Se sono molto diversi da quel che percepiamo come nostra realtà attuale sentiremo scontentezza, frustrazione, stress: segnali di un desiderio di crescita personale. Possiamo allora perfino essere serenamente frustrati: far amicizia con la sensazione di frustrazione, che ci spinge a cercare qualcosa di più soddisfacente per noi, ed esserle grati. Viviamo carichi di esigenze e aspettative, che senza nemmeno accorgercene ci condizionano: “Ci hanno promesso tutto, implicitamente o a chiare lettere [...]. Siamo convinti di meritarci tutto ciò che è buono. La nostra reazione quando


ci dicono che c’è qualcosa, un oggetto del desiderio, un grande tesoro nascosto, è che dobbiamo averla. Di diritto. Quando seppi che c’era quell’altro mondo, quello spirituale (per quanto riesca difficile usare questa parola, così svalutata) ebbi due reazioni forti. La prima fu il disprezzo per la mia cultura, che aveva ignorato in quel modo l’altro mondo, ma il disprezzo mi veniva facile ed ero ancora lontanissima dal rendermene conto. L’altra reazione fu un potente bisogno di possesso, una segreta esultanza. Era avidità, ma io non lo sapevo, per quanto lodevole, quel segreto “Dammelo, dammelo” di cui mi compiacevo. Peggio ancora del “dammelo” era “Io voglio fare così, voglio arrivarci. Io voglio”. (Doris Lessing). La nostra avidità, spirituale e non, il nostro sottile e continuo “voglio” è una sorta di forza di gravità emozionale, che ci tiene legati al nostro “io”, attaccati alla nostra bisognosa esistenza di esseri vulnerabili, sensibili, spaventati. Sviluppiamo così attaccamento verso quel che interpretiamo come fonte di benessere e avversione verso ciò che interpretiamo come ostacolo a essa. Perfino le opportunità di “realizzarci” della società attuale invece di rallegrarci sono fonte di frustrazione: la speranza di aver successo diventa una pretesa verso se stessi, “dobbiamo riuscire”, qualsiasi cosa quest’idea possa significare in concreto, e lo riteniamo ormai “normale”, dimenticando che in una prospettiva storica siamo le prime generazioni di esseri umani ad avere simili esigenze, e in massa. In modo perverso quindi, aumentando ricchezza, cultura e opportunità aumentano disagio sociale e depressione, e non certo gratitudine e soddisfazione. Tuttavia possiamo scegliere di smettere di vivere in modo inconsapevole questi automatismi. Immagino la nostra mente come un angelo custode interno, che in decine di migliaia di anni, nell’evoluzione della specie, ha imparato a scandagliare quel che ci viene incontro, valutando istantaneamente se si tratti di una fonte di pericolo o di benessere, e le emozioni sono i segnali immediati,

con cui ci avverte. La nostra cara mente è costantemente preoccupata per noi, e a volte esagera: con la consapevolezza entriamo in contatto con lei, ci rendiamo conto dei bisogni (di sicurezza?) e delle assunzioni dietro alle sue valutazioni e possiamo scegliere di vedere le cose da tanti punti di vista diversi, meno legati al nostro bisognoso ego e quindi meno ansiosi. Il modello dello sguardo etnografico ci aiuta a vedere i passi che la mente fa, nell’attribuire continuamente interpretazioni ad ogni cosa: con le “storie” che ci racconta (Patterson) ci fa sentire in un modo o in un altro, ci fa reagire scappando, ad esempio, o rilassandoci. Se ci sembra che il mondo, e le persone che frequentiamo, ci debbano qualcosa, siano in debito con noi (di gentilezza, attenzione, considerazione, riconoscimento per i nostri sforzi e per il nostro valore, perfino amore) ci sentiremo in credito. Le aspettative sono per definizione fonte di delusione: eppure provengono da noi stessi, dai nostri desideri, dalla nostra fame di attenzioni, mentre l’altro si comporterà sempre in funzione delle proprie aspettative, desideri, bisogni e convinzioni, e non delle nostre. Allargare la nostra libertà di scelta interpretativa ci aiuta allora a comprendere, empaticamente, il dolore del mondo, il coro generale di aspettative deluse e abbracciare questa tensione, così umana, che ci unisce tutti. E accorgerci che tutti siamo in debito verso tutti gli altri, se tutti ci sentiamo in credito: siamo interrelati, sia emozionalmente che economicamente. L’attuale crisi economica drammatizza il debito, interpretando il futuro non come fonte di opportunità, ma di difficoltà e guai. Ma ogni interpretazione non è che un’immaginazione, e l’ansia è una forma di fantasia. Allargando il fuoco della consapevolezza, le aspettative che abbiamo verso noi stessi possono perfino trasformarsi in risorse: possiamo scegliere che tipo di persona preferiamo essere e, parafrasando Cheri Huber, “diventare la persona che ci auguriamo di incontrare”. LIBERI DI SCEGLIERE

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Scegliere di essere angeli o diavoli

L’umanista Giovanni Pico della Mirandola (14631494), nel suo scritto sulla dignità dell’essere umano, pubblicato dopo la sua morte, è il primo autore a legare il valore e la irripetibile singolarità dell’essere umano alla sua fondamentale libertà di scelta, al suo potere di progettare la sua vita, di lavorarci come uno scultore o un poeta creano un’opera d’arte. Il pensiero di Pico all’epoca è rivoluzionario: l’essere umano decide della sua vita, è autonomo e responsabile del suo destino, può diventare quel che vuole diventare, e non lo fa rispetto a norme morali prefissate una volta per tutte, ma sviluppa in autonomia i valori a cui farà riferimento nella sua vita, una vita che così diventa particolare, diversa da ogni altra. In questa libertà di scelta, nel libero arbitrio, si radica il valore e l’individualità dell’essere umano, e una dignità intrinseca, che non si può perdere in nessun caso. Si tratta di un’individualità sempre plurale e ognuno può in ogni momento condurre un dialogo con se stesso. È grazie a questo dialogo interno che l’essere umano è libero di sviluppare autonomi disegni di vita e di scegliere se vivere “da angelo o da bestia”, e anche nel secondo caso, nel farlo in piena coscienza, realizza una delle possibilità a sua disposizione. Secondo Pico, Dio ha costretto la natura degli altri esseri entro leggi stabilite, immutabili, le leggi naturali dell’“istinto”, e ha dato all’essere umano una natura definita dalla sua stessa libera volontà: “affinché l’essere umano, quasi libero e sovrano creatore di se stesso, si plasmi secondo la forma che preferirà”. L’essere umano può scegliere di degenerare verso gli esseri inferiori, i bruti, o seguire l’impulso dell’anima e rigenerarsi nelle cose superiori, divine. Alle leggi di natura Pico contrappone l’essere umano, che non vive in funzione di essa, ma della propria volontà. La natura umana è diversa da quella di ogni altro essere vivente, 22

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l’umano è per definizione libero di dare una forma a se stesso, di comportarsi come ritiene opportuno, secondo la propria responsabilità, progettando di evolversi e di imparare tutto ciò che poi lo caratterizzerà. Nell’essere libero di gestire la sua trasformazione consiste la dignità dell’uomo, che è il risultato di se stesso: di quello che vuole e che ha voluto coltivare. Il testo di Pico, secondo cui Dio si rivela in ogni religione e nella capacità di riflettere, è un grande manifesto dell’umanesimo, ed è un peccato che il termine Rinascimento abbia perso la sua capacità di emozionarci, ormai niente più che un’etichetta per un’epoca storica particolarmente importante. Jean Paul Sartre e Michel Foucault si ricollegano a Pico in termini moderni, superando l’idea di un Dio creatore: l’essere umano non può non essere libero di scegliere ciò che vuole diventare, la sua vita è il suo plasmarsi attraverso un percorso di cui è responsabile. Foucault riprende letteralmente l’immagine di Pico e parla dell’”arte dell’esistenza”: come l’artista elabora il suo materiale, così l’essere umano la sua vita, per farne “un’opera” che risponda a criteri estetici e morali, grazie a “tecnologie del sé”. Oggi parliamo di life design, di disegni di vita in cui etica ed estetica sono dimensioni dell’idea che coltiviamo di noi. Secondo Sartre, richiamarsi a una qualche entità che ci condizioni nelle nostre scelte è una forma di “malafede”. Per inciso, posso accusare gli altri di malafede (o di ipocrisia) solo se sono così identificato con le mie certezze da non poter in alcun modo capire i bisogni che spingono gli altri, con le loro modalità, ad usare le loro strategie, quelle che svaluto dichiarandole appunto “malafede”. In tal modo chi accusa informa l’antropologo dell’esperienza quotidiana intorno alla propria cultura di riferimento e al proprio bisogno di accusare, e non dà alcuna informazione intorno alle persone che accusa; nel farlo, infatti, dimostra di non capirle.


Le parole di Pico oggi possono sembrarci per nulla emozionanti, eppure ai suoi tempi pensare in modo autonomo era pericoloso, e Pico fu arrestato per eresia. Il termine greco eresia significa originariamente scelta. L’eretico è colui che riflette autonomamente e si prende la responsabilità di scegliere che cosa pensare, al di là di dogmi e autorità. La libertà di scelta caratterizza la modernità e si basa sull’assunzione che gli individui siano consapevoli, autonomi e razionali. Un’ipotesi, e non tutti lo sono, o non sempre, ma siamo liberi di assumerlo per principio: di aspettarci qualcosa da noi stessi. Che cosa può voler dire per noi prendere sul serio Pico? Se sentiamo il bisogno di ottenere il permesso di disegnare la nostra vita, possiamo essere grati a questo intellettuale del Rinascimento italiano, che ci ricorda il nostro potere di disegnare e ridisegnare la nostra esistenza. Con Pico dalla nostra parte ci possiamo chiedere: che cosa vogliamo diventare da oggi? Confermo il mio disegno di vita? Che cosa mi piacerebbe essere, che ruoli mi sembrano realistici per me? Se fossi simile alla persona che per me è un modello, mettiamo di coraggio, quali decisioni prenderei? Come vivrei? Che cosa mi impedisce di farlo, o di migliorarmi gradualmente, se credo, almeno come esperimento mentale, di essere libera davvero? Libera, fra le altre cose, di migliorare le mie conoscenze, di lavorare su me stessa. Mi servono risorse che ancora non ho? Conoscenze che posso acquisire? Quali responsabilità voglio prendermi nel cambiare? Se non voglio responsabilità, come posso cambiare? Senza accorgercene cambiamo tutti i giorni, esposti a flussi di informazioni, al tempo che passa, agli altri, ma siamo anche liberi di non voler cambiare proprio nulla e di accorgerci che il gioco del lamentarci e del dare la colpa è una

scelta come un’altra, poco costruttiva, ma che non ci affatica troppo. Nella nostra cultura siamo stati educati ad essere “buoni”, e può essere che non ci si pensi più, se non quando un senso di colpa ci avvisa che non ci siamo comportati secondo un certo standard morale più o meno chiaro. Curiosamente non ci rendiamo conto che siamo buoni, per natura, almeno nel senso del dialetto veneziano: in cui si dice “ti xe bon...” intendendo: “sei capace, sei in grado di...” scegliere, ad esempio, se e come essere “buoni”. In italiano il significato di “buono a...” nel senso di “capace a...” si ritrova nel modo di dire “buono a nulla”. Ed ecco l’esercizio pratico: proviamo a osservare come ci sentiamo, uscendo di casa, decidendo consapevolmente su che posizione collocarci, oggi, in un immaginario “termostato” sul quale ad un’estremità vi siano comportamenti da “angeli” e all’opposto quelli da “diavoli”. Anche in questo caso abbiamo parecchie possibilità interpretative: che cosa significa concretamente per noi porci verso uno dei due estremi del “termostato”? Come si comporta un “angelo”? Sorride, pieno di benevolenza amorevole? Se assumo un atteggiamento sorridente e solare per una giornata intera, come mi sento? Che tipo di esperienze ho? Non rispondiamo a tavolino: proviamo sul campo. Se un giorno intero è troppo posso fare l’esperimento per qualche ora, e osservare l’esperienza. Se invece scelgo di provare a fare il “diavolo”, come posso fare? Avrò un certo modo di guardare gli altri, torvo e minaccioso? Come mi sento, se lo faccio per tutto il giorno? Che tipo di giornata mi prendo la responsabilità di costruire, in questo modo? Ho provato quest’ultimo esercizio per una serata intera, uscendo con un’amica a Berlino, anni fa. Era un periodo in cui mi sentivo triste – LIBERI DI SCEGLIERE

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qualcosa che allora mi sembrava importante non andava secondo i miei desideri – ed è stato un sollievo accorgermi di poter essere “cattiva”, almeno nell’atteggiamento, anziché depressa. E mi sono accorta della componente di avversione della mia stessa tristezza, della mia intrinseca libertà di poter rifiutare di accettare, di lamentarmi, di guardare in cagnesco tutto e tutti e, alla fine, di quanto era assurdo continuare a respingere circostanze che sono così come sono, e basta.

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Scegliere di migliorarsi

Uno psicologo francese scrive che chi è triste non ha capito la vita. Non intende offendere chi è triste, ma illuminare una via per uscire da questo stato mentale (Lelord). Non capiamo la vita, che è perfetta se riusciamo a vederla in modo indipendente da quel che noi ne pensiamo, è il miracolo quotidiano dell’esistere. Se riesco a focalizzare la mia attenzione a questo livello non la sciupo, confrontandola continuamente con la dolorosa nostalgia per le mie preferenze. L’idea stessa di volersi migliorare è allora da maneggiare con cautela: se osserviamo bene, implica un certo grado di non accettazione di sé, quindi una sensazione di sofferenza. Possiamo scegliere di migliorare la nostra vita senza provare avversione, facendo riferimento alle nostre risorse fondamentali. La cultura serve per gestire il nostro quotidiano, è una risorsa per vivere danneggiando il meno possibile gli altri e noi stessi. 24

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Che cosa ha a che fare la cultura con il nostro tema? Grazie ad essa assegniamo significati ad ogni esperienza sulla base di assunzioni, credenze, significati che abbiamo dato a esperienze passate e che si sono rivelati utili per gestirle: tutto ciò che fa parte del nostro “io”, di ciò che crediamo vero e giusto. Tutto questo è radicato nella nostra tradizione culturale, e quanto più siamo connessi alla riflessione su di essa, tanto più abbiamo strumenti cognitivi e spazio mentale per poterci muovere con la libertà di scelta in molte direzioni. Caratteristica dell’essere umano è comportarsi nei riguardi di se stesso come lo scultore col materiale grezzo, ci ricordava Pico. Qualsiasi cosa sia, l’essere umano deve per prima cosa impararlo, diventarlo. In ogni cultura e in ogni epoca è presente il tema del migliorarsi, del coltivare se stessi. Il concetto implica il nostro osservare noi stessi, oggettivandoci e valutandoci rispetto alle nostre preferenze. Se siamo vivi cambiamo comunque ogni giorno. Ogni informazione, ogni esperienza ci cambia un poco: aggiunge al nostro vissuto dati a cui facciamo riferimento per produrre confronti, giudizi e interpretazioni. Metabolizziamo tutto quello che ci raggiunge attraverso i sensi, ogni notizia e ogni concetto, ogni frase ascoltata con attenzione. Non si può non cambiare: la rotta della nave, per risultare diritta, è fatta di continue piccole curve. Migliorarsi è voler controllare il nostro cambiamento, farlo nella direzione di ciò che interpretiamo sia “meglio”, alla ricerca del nostro bene. Nel concetto è implicita una differenza tra prima e dopo, e l’idea di imparare per migliorarci. Per cambiare procediamo ad un confronto: tra l’idea-progetto di come vorremmo essere e ciò che percepiamo come un dato di fatto. A partire da questo confronto giudichiamo insufficiente l’esistente.


non ho quello di rubare il sudoku al passeggero seduto accanto a me in treno, anche se a volte mi parrebbe più divertente risolverlo assieme. Leggo sul “Time” le parole di Sally Hawkins, un’insegnante di Londra: “È facile crogiolarsi nell’oscurità, essere cinici. Essere felici è una scelta coraggiosa. È prendere posizione.” Se è vero che nessuno è infelice, o ha problemi, “apposta”, osservarsi con consapevolezza dovrebbe rendere impossibile, illogica, la scelta di essere infelici o di avere problemi, tuttavia quando sentiamo questo stato mentale possiamo scegliere di osservarlo, e ci possiamo chiedere che cosa la nostra sensazione di “infelicità”, ad esempio, ci vuol far fare. Se ci accorgiamo che l’inquietudine, l’insoddisfazione, l’infelicità sono una specie di benzina, di carburante dell’anima, verso la soluzione dei nostri problemi, ci sentiamo ancora così infelici, anche ad essere infelici? Tuttavia anche accettare che è disumano esseresempre-contenti mi pare una buona scelta. Per quei giorni in cui ci sentiamo meno coraggiosi (e meno logici) del solito.

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Scegliere di lamentarsi

È più facile e immediato dire che cosa non ci piace e non vogliamo più, che proporre e lavorare a un’alternativa positiva: nel secondo caso ci esponiamo al rischio del rifiuto e di non farcela. Per evitarlo, dato che non siamo disposti a pagare questo prezzo, diamo già per scontato che non otterremo quel che ci auguriamo e sce-

gliamo di assumere il ruolo di vittima delle circostanze. Lamentandoci utilizziamo questa forma di autoreferenzialità, per una volta consapevolmente, e osserviamo come ci sentiamo, sia mentre ci lamentiamo sia dopo qualche ora o giorno di intenso esercizio. Possiamo chiamarlo il “lamento attivo”, per distinguerlo da quello irriflesso, automatico, abitudinario. Lamentarsi è una forma di avversione, in una variante socialmente più accettata di quella espressa con rabbia, ma altrettanto distruttiva. L’esposizione continua a persone lamentose provoca, per contagio emozionale, disagio, cattivo umore e lamenti ulteriori – ce ne lamenteremo con la prossima persona che incontriamo, facendo circolare il batterio, come l’influenza di stagione. Lamentarsi è anche una specie di sport popolare che – apparentemente – non costa nulla. Possiamo iniziare lamentandoci dell’ingiustizia nel mondo, della fame, delle guerre, o del fatto che ce ne parlano alla televisione, oppure di fenomeni più vicini alla nostra quotidianità. Della televisione, in particolare, si lamentano in tanti, come se non bastasse spegnerla o non averla per liberarsi del problema. Importanti sono l’intensità e la continuità dell’esercizio. Possiamo farlo da soli o in compagnia, quel che conta è l’atteggiamento, la posizione mentale. Il vantaggio: si esprime il proprio malessere, la propria avversione verso le cose di cui ci lamentiamo, ma senza prenderci la responsabilità di pensare e dire in forma positiva che cosa vorremmo in alternativa, che bisogni si nascondano dietro al lamento. È un modo di gestire il malessere abbastanza riposante, a basso costo di energia. Con un po’ di osservazione ci possiamo rendere conto del processo sottilmente creativo alla base delle nostre lamentele: solo confrontando le cose su cui focalizziamo la nostra attenzione con una LIBERI DI SCEGLIERE

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nostra idea di come-dovrebbero-essere-invece riusciamo a produrre lo stato mentale dell’avversione e sentire il bisogno di lamentarci. Prescriviamo direttamente a cose e persone come-dovrebbero-essere-invece solo se siamo particolarmente pedanti o prepotenti: stati mentali ben strani, concetti utilizzabili quasi unicamente per accusare gli altri di averli. Il lamento è invece una prescrizione implicita, un desiderio che non osa esprimersi in modo diretto, una specie di prepotenza, ma timida, in punta di piedi.

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Scegliere di rinunciare

Rinunciare alle nostre pretese verso il mondo e gli altri è una liberazione e arreca il medesimo sollievo che sentiamo quando vengono esaudite, con il vantaggio di non doverne pagare il prezzo. Un po’ come andare in vacanza stando a casa propria, senza stress né code né costi aggiuntivi. Se rinuncio a desiderare quello che non ho, la soddisfazione è piena e ho meno cose di cui (pre)occuparmi. Scegliere di accorgerci che siamo buoni, intelligenti, carini abbastanza abbiamo abbastanza, facciamo abbastanza alleggerisce e semplifica la vita. Pretese e desideri ci distraggono dall’essere presenti, nel qui e ora, ci proiettano con l’immaginazione in un futuro, vicino o lontano. Se non siamo presenti a noi stessi in un certo senso non ci siamo, non esistiamo, e allora come potremmo accorgerci, ad esempio di essere completamente sereni, se pure ci capitasse? 42

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Scegliere di rinunciare è smettere di riferirci a quel che ancora non abbiamo, l’abitudine di forzare il mondo con i nostri desideri nei suoi riguardi. Possiamo focalizzarci su quel che c’è, ed è-come-è. È sufficiente esserci, qui, ora, con tutta la nostra attenzione. Quella della rinuncia è la scelta in grado di darci il senso più pieno della nostra libertà, il nostro essere in grado di volere di non-volere. Non a caso ogni religione prevede la rinuncia in qualche forma. Possiamo sentire la contentezza del nonvolere-nulla, di dire no al desiderio, di de-identificarci e guardarlo con distacco. In tal modo ci liberiamo dal peso del desiderio, ci solleviamo, ci affranchiamo da una schiavitù, ci emancipiamo. Anche l’anoressico cerca di emanciparsi dal bisogno fisico della fame, con una dimostrazione di forza d’animo che si rivolta contro la propria esistenza fisica. Ma non si tratta di libertà: l’anoressia è una malattia e chi ne soffre ha bisogno di un medico. Come antropologo dell’esperienza, posso osservare come mi sento quando voglio qualcosa e, allo stesso tempo, come esperimento mentale, immaginare di non sentirne più il bisogno, e notare come mi sentirei allora. Posso assaggiare la rinuncia. Vogliamo ad esempio far carriera e aver successo; possiamo osservare come ci sentiamo se, per ipotesi, vi rinunciamo consapevolmente? L’assunzione implicita nel desiderio di fare carriera è che ci sentiremo più felici. Ma se non ci sentiamo felici oggi, probabilmente il nostro modo di stare al mondo non cambierà, con o senza carriera. Sembra infatti che, di fronte a cambiamenti anche drammatici nella nostra esistenza, dopo qualche tempo si ristabilisca il livello di soddisfazione precedente, come se gli individui avessero un livello intrinseco di capacità di sentire gioia: quello che coltivano con il loro modo di vedere le cose e di focalizzarsi su aspetti piacevoli o spiacevoli dell’esistenza.


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Scegliere di fidarsi e di essere affidabili

Questa è una scelta duplice: porsi in uno stato mentale generalmente fiducioso implica l’essere affidabile in prima persona, se non facciamo differenze tra noi e gli altri. È un esercizio che propongo ai miei studenti: nei giorni pari, scelgono consapevolmente di vivere in una prospettiva di fondamentale fiducia, verso gli altri e se stessi, e nei giorni dispari cercano di diffidare di tutti e di tutto. Fin da piccolissimi iniziamo a fare distinzioni tra ciò che ci risulta familiare o meno. I due concetti si definiscono a vicenda, generandosi nel nostro vedere differenze. Ci abituiamo all’ambiente che conosciamo, confidiamo nelle sue caratteristiche senza nemmeno pensarci. Se non avessimo alcuna aspettativa rispetto a come è il mondo e al fatto che non è eccessivamente pericoloso, avremmo difficoltà ad uscire di casa alla mattina. Creiamo nella nostra mente la rappresentazione di un mondo fatto di caratteristiche familiari, entro confini che delimitano il non-familiare. Il confine di ciò che ci è familiare si sposta con noi, come l’orizzonte, in modo da integrare le novità nella gestibilità del familiare. Il concetto di fiducia è correlato a quello di rischio: la valutazione che facciamo delle possibilità di un esito diverso da quello che ci auguriamo. Tentiamo cioè di controllare, riflettendo, l’incontrollabile. Se non prendiamo nemmeno in considerazione la possibilità di non fidarci (e non ci viene in mente di uscire di casa, ad esempio, armati) viviamo una sorta di automatica confidenza, una fiducia implicita. Se invece scegliamo un’azione consci del rischio, stiamo vivendo la fiducia in una scelta di cui potremmo in seguito rammaricarci, ma che è nostra. Se il danno eventuale può risultare maggiore del vantaggio a cui aspiro si tratta di un rischio,

altrimenti non è che il prezzo da pagare per ottenere quel vantaggio. Ad esempio, ogni volta che salgo in auto accetto il rischio di un incidente. Il concetto di fiducia esiste in relazione all’impossibilità di controllare le azioni altrui e le loro conseguenze. Ha a che fare con la libertà e la contingenza, al mio non sapere mai che cosa stanno per scegliere liberamente gli altri, e al loro non sapere mai che cosa sto per scegliere io. In un certo senso non è davvero possibile decidere se confidare nel sistema complesso del nostro mondo, se sentire la sua familiarità. Infatti, se non vivo una confidenza di base mi sentirò infelice e me ne lamenterò, e nessuno sceglie consapevolmente questo stato. Per questo motivo nelle inchieste di psicologia sociale la mancanza di fiducia è un indicatore del grado di infelicità di una società. Da una parte una società insoddisfatta sembra disponibile a soluzioni creative diverse, dall’altra la stessa mancanza di fiducia le impedisce, dato che innovazioni creative comportano la disponibilità al rischio del rifiuto, e questa comporta a sua volta una certa fiducia. La mancanza di fiducia impedisce l’attività in condizioni di incertezza, e l’incertezza è una caratteristica stabile della nostra epoca. Per cui la mancanza di fiducia blocca l’individuo e la società. Scegliamo dunque consapevolmente di osservare come ci sentiamo a essere una persona che immagina di sentire fiducia. La scelta è un gioco di ruolo per l’intero periodo prescelto: in questo caso si “fa finta” di poter pensare consapevolmente in un certo modo, quello previsto dall’esperimento. Prenderemo nota di che cosa notiamo nel corso dello stesso, e di come ci sentiamo vivendo la fiducia, o il suo contrario. Se fino ad oggi non ho sentito fiducia in generale verso gli altri, per poter fare questa scelta in modo sperimentale posso iniziare con il fidarmi ad un livello minimo: fidarmi del fatto che LIBERI DI SCEGLIERE

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ognuno farà per lo più ciò che ritiene produca vantaggi, o eviti svantaggi, per se stesso. Posso fidarmi, ad esempio, che se lascio il mio computer portatile incustodito, qualcuno si rallegrerà di averlo “trovato”: posso allora evitare di farlo, senza per questo sentirmi necessariamente diffidente. L’importante è la qualità della sensazione che ho: come mi sento se mi sento fiducioso, anche nella variante minima che ognuno farà del proprio meglio, in genere, per star bene? Ci fidiamo di ciò che ci risulta familiare. Ci risulta familiare ciò a cui siamo abituati, e a cui non badiamo nemmeno più. Ma ci risulta familiare ciò su cui siamo abituati a focalizzare la nostra attenzione, basandovi le nostre interpretazioni della realtà. Anche con nuove esperienze interpretative si sposta il limite di ciò che ci è familiare, e i nostri orizzonti mentali si allargano, passando per alcune fasi – disorientamento, entusiasmo per ciò che è diverso e nuovo, confronto critico, adattamento, assorbimento del nuovo nel quadro del familiare, e così via. Per inciso, essere in grado di fidarsi degli altri è la caratteristica principale di un leader che voglia motivare all’autonomia le persone che lavorano per lui: la consapevolezza delle nostre risorse e il desiderio di metterci in gioco aumenta se chi ci dirige ci segnala di contare su di noi, dandoci fiducia ed esprimendo con chiarezza gli scopi da raggiungere, delegando e non sentendo il bisogno di controllarci. Fiducia e fede sono stati mentali simili, entrambi gratificanti. La variante dell’aver fiducia nelle risorse degli esseri umani mi sembra in grado di ampliare il benessere, tipico della fede in una verità rivelata, evitando lo svantaggio del limitare la nostra capacità riflessiva. Ogni certezza ci limita infatti, disegnando confini netti alla nostra riflessione, a quel che per noi è pensabile. Ma la fiducia non è mai una certezza: se sono certo di qualcosa non ho infatti alcun 48

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bisogno di “fidarmi”. Se mi fido, le frontiere del pensabile restano aperte. Una variante facilmente praticabile: aver fiducia nei limiti di noi esseri umani e nel fatto che facciamo per solito tutti esattamente quel che possiamo, minuto per minuto.

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Scegliere di diffidare e disprezzare

Se sentiamo sfiducia verso gli altri, verso le loro intenzioni o capacità, nulla ci potrà dare garanzie: potremo sempre metterle in dubbio, svalutarli nella loro onestà, diffidare, non credere alla validità di quel che ci dicono o alle loro motivazioni. Se qualcuno è gentile mi chiederò che cosa vuole ottenere da me e dietro ad ogni proposta vedrò un tranello. Se siamo diffidenti sarà impossibile raggiungerci, impegnati come siamo a difenderci dagli altri. Nel farlo un buon metodo è disprezzare, svalorizzare le azioni e intenzioni altrui. La strategia tipica di chi si identifica in ideologie. Basandosi su credenze forti, che gli è inconcepibile relativizzare, questi sente il bisogno di difenderle, rifiutando di riconoscere un qualche valore agli argomenti e alle credenze degli altri. Può essere che il decantato superamento delle ideologie ci aiuti quindi a mettere da parte la strategia di svalorizzare le posizioni altrui. Se sono diffidente mi autocondanno a una vita dura e difficile: come posso trovare il coraggio di salire su un mezzo pubblico, se alla guida c’è una persona che non conosco e di cui non mi fido?


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Scegliere di dire la verità

Scegliere di dire la verità è una scelta molto personale e impegnativa, si tratta infatti di essere sinceri (per prima cosa verso noi stessi) intorno a come ci sentiamo, di dire la nostra verità, il nostro modo di vedere e vivere le situazioni, e sottolineando che è nostro, che ci prendiamo la responsabilità della sua costruzione nella nostra mente. Dire la verità significa allora dire quel che sentiamo e quel che intendiamo. E renderci conto del nostro muoverci incessante entro due livelli di realtà: quella misurabile, e in quanto tale condivisibile, e quella di “secondo ordine”, quella in cui viviamo esattamente così come noi ci sentiamo, assegnando alle cose l’importanza che crediamo abbiano in sé. Chi ci ascolta cerca di farsi un’idea di quel che ci passa per la mente, ne produce una sua “teoria”, e non abbiamo alcun controllo sulle sue ipotesi nei nostri riguardi. Noi possiamo ad esempio essere gentili senza alcun secondo fine, ma l’altro può “vederne” uno, interpretandoci sulla base di sue esperienze passate (e del suo modo di assegnare loro un significato). L’altro risponde, con le sue mosse, a queste sue interpretazioni delle nostre intenzioni, non alle nostre intenzioni. Essere chiari il più possibile, rispetto a quel che intendiamo, può essere allora un nostro contributo importante nel semplificare la vita di relazione, anche e soprattutto se l’altro ha comunque la libertà di assegnare i suoi significati nell’interpretare quel che noi facciamo e diciamo. La nostra verità è allora che ci identifichiamo con le nostre interpretazioni, e quanto più lo facciamo tanto più siamo disponibili al conflitto; e sarà aspro, se lottiamo per veder riconosciuta la nostra stessa identità di persona che crede in questi significati. Questa scelta allora si riferisce alla possibilità di renderci conto della nostra personale verità: il

nostro modo di vivere in resistenza continua verso il resto del mondo, dalla parte delle nostre preferenze, sentire come ci sentiamo, poter osservare il nostro stato mentale, minuto per minuto, e come lo realizziamo. È una verità che va scandagliata dentro di noi, non nella comunicazione verso gli altri. È la verità del nostro vivere in funzione dei nostri desideri e bisogni, di riconoscimento, di sicurezza, di ... – ognuno può aggiungere da sé i bisogni che al momento fanno parte del suo paesaggio naturale interno: la sua verità, quella attraverso la quale osserva il mondo e gli assegna significati. Dire la verità, nel rapporto con gli altri, può essere difficile quando la nostra verità si traduce, per l’altro, in una critica alla sua idea di sé, quando ne abbiamo paura o temiamo di ferirlo e di irritarlo. In tal caso abbiamo una sovrapposizione di più bisogni: ad esempio da una parte vogliamo mantenere un rapporto di amicizia con la collega, dall’altra è importante per noi che un certo lavoro venga svolto meglio, secondo standard più elevati rispetto a quelli che ci sembrano i suoi. Come dire allora la nostra verità, se consiste in un pacchetto di scopi sovrapposti? Descrivendo la nostra verità, quella delle nostre aspettative, descrivendo cioè il livello di realtà che è alla base del nostro (e solo nostro) vissuto. E non occorre farlo scusandoci di avere le nostre aspettative: se lo facciamo la nostra verità è che sentiamo il bisogno di risultare simpatici. Insomma, la nostra verità è come noi stessi ci sentiamo, e ha a che fare col nostro modo di porci nella situazione; non sempre è necessario parlarne. Serve a noi fare questo esercizio, prima di esprimere qualsiasi cosa nei riguardi degli altri. E il mentire? Il mentire non è il contrario della verità, ma la implica: se non esiste nella mente un’idea di verità, non esiste nemmeno quella del mentire. Per costruire una storia diversaLIBERI DI SCEGLIERE

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dalla-verità, abbiamo bisogno di conoscere quest’ultima, come per scrivere un racconto sorprendente abbiamo bisogno di rappresentarci una “normalità ” di aspettative, uno sfondo sul quale gli avvenimenti possano risultare sorprendenti. Nel quotidiano abbiamo esperienza di persone che ci sembrano non dire la verità. Di solito lo diciamo degli altri, mentre con la nostra interpretazione di quel che noi stessi crediamo vero ci identifichiamo; possiamo avere il dubbio di farci delle illusioni, ma raramente ci definiremo apertamente bugiardi – e se sappiamo di non aver detto il vero troveremo una giustificazione, per poter convivere con un’idea di noi stessi che ci piace. Oppure svaluteremo le persone sincere, che sentono il bisogno di dire la verità, o quella che ritengono tale, se noi stessi non prendiamo sul serio questo bisogno. Se ci accorgiamo che l’altro ci passa informazioni non corrispondenti a circostanze misurabili, le possibilità sono numerose: lo fa consapevolmente per farci credere qualcosa di diverso dal vero? E con quale intenzione? Consolarci con varianti edulcorate della realtà? Risultarci simpatici intrattenendoci? Lo fa per fare amicizia o per approfittare di noi? O lo fa senza rendersene conto, passandoci una sua percezione della realtà rielaborata nel momento stesso della percezione, assolutamente selettiva e (ai nostri occhi) tendenziosa? Ci invita a condividere le lenti colorate con cui vede il mondo, le uniche di cui dispone, e a confermarci il risultato vicendevolmente e assieme? Se la realtà che viviamo è comunque quella di “secondo ordine”, con le qualità che noi stessi vi vediamo, processando incessantemente le nostre percezioni attraverso i nostri filtri mentali, allora con “dire la verità” non si tratterà di identificare presunte “oggettività”: se siamo sicuri di qualcosa probabilmente ci stiamo basando su assunzioni implicite e inconsapevoli, che non ci accorgiamo di avere. Si tratterà 52

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di dire la nostra verità, l’unico dato certo a nostra disposizione: come ci sentiamo momento per momento. Dire la verità, almeno a me stessa, consisterà allora, ad esempio, se sto per dire: “Gianna è una persona impossibile!”, nel sentire la mia rabbia nei confronti di Gianna, e il mio bisogno di condividerla con qualcuno che mi capisca, confermi e consoli. Posso sentire la verità-perme del mio dolore, della mia delusione, nascoste dietro alla mia rabbia. E vedere come la mia delusione, che sento così vera e fisicamente palpabile in me, è costruita sulle fondamenta delle mie aspettative nei suoi riguardi. Dire la verità è allora in questo caso parlare con me stessa, della mia avversione verso chi è-come-è e non come preferirei che fosse.

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Scegliere di sperare

Sperare è piacevole: è un modo di rapportarci al futuro, quel qualcosa che esiste unicamente nell’immaginazione, e sembra il contrario del preoccuparsi. Quest’ultima attività si focalizza su una variante di futuro che temiamo, mentre la speranza si concentra su una visione che ci auguriamo. Ma a guardar bene, se speriamo che “vada meglio”, significa che implicitamente giudichiamo insufficiente la situazione attuale, che al momento è-come-è. La speranza ha allora anche a che fare con un’assunzione critica e preoccupata di fondo e con la relativa percezione selettiva, che elimina


ciò che va (già) bene e ammette nel proprio campo visivo solo ciò che preferiremmo migliore di come lo giudichiamo ora. La speranza proietta le nostre preferenze nel futuro e sottilmente svaluta quel che si limita ad essere, per ora, come è. In modo analogo il preoccuparsi attiva queste nostre fantasie, aggiungendo un senso di impotenza e di ansia a situazioni che ancora non esistono, pre-viste, immaginate. L’esperienza può essere simile alla sensazione di avversione: un’avversione speranzosa tuttavia si concentra sulla possibilità che le cose migliorino, si apre fiduciosa ad un futuro che speriamo, e quindi immaginiamo, positivo. Chi spera non fissa la propria attenzione su ciò che giudica negativo come, ad esempio, nel lamentarsi e nel preoccuparsi, attività che consumano le nostre forze. Lo stato mentale speranzoso può motivarci a fare del nostro meglio, preparandoci all’azione, quando ci sarà bisogno di tutta la nostra intelligenza. Conserva l’energia costruttiva, in attesa di tempi migliori. Il rischio: aspettando tempi migliori possiamo non accorgerci degli aspetti positivi già esistenti. Sperare, come il preoccuparci, implica un sottile svalutare l’esistente, la distrazione fondamentale del non-accorgersene, quando i “tempi migliori” sono ora: qualsiasi cosa è migliore/ peggiore rispetto a immaginazioni e confronti che la mente fa. Possiamo scegliere di spostare il fuoco della nostra attenzione, e vedere subito il positivo (che forse non vediamo dandolo per scontato?); oppure aspettare e sperare di vederlo presto. O invece scegliere di preoccuparci in modo speranzoso: prendendoci cura di quel che va fatto, osservando con distacco la tendenza della mente a sperare e a preoccuparsi, a spostarsi con l’immaginazione nel futuro, e riportandola con benevolenza nel qui-e-ora, qui accanto a noi.

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Scegliere di dire “io mi sento” invece di “tu sei”

Nel dire all’altro “tu sei x” aggiungo al suo mondo un’informazione, che è una mia interpretazione, una mia immaginazione, creata sulla base dei miei standard mentali: sulle mie aspettative, bisogni, desideri. Da antropologo dell’esperienza posso osservare i due mondi mentali come due culture a confronto, per certi versi estranee, per altri simili, e allora questi standard e queste aspettative fanno parte delle culture diverse delle persone interconnesse nel dialogo. Il sistema di esseri umani che si crea è di qualità ben diversa se i due esponenti delle due culture si parlano in termini di “tu sei x” oppure di “io mi sento y”. Nel primo caso accosto con forza la mia invenzione interpretativa a quelle dell’altro nei suoi confronti, e se colpisco l’immagine di sé con cui si identifica emergeranno conflitto, imbarazzo o disagio. Nel sistema che si crea le controparti sentiranno il bisogno di difendere le loro ragioni, il loro punto di vista. Molti conflitti interpersonali hanno a che fare con le idee che i soggetti coinvolti hanno di se stessi. Affrontare qualcuno con una comunicazione del tipo “tu sei x” mette in pericolo i fragili equilibri di territori incerti. Incerti in sé: l’identità è un concetto, una costruzione sociale, un’invenzione labile, ma nulla di certo. È una nostra necessità primaria: in quanto “animali incompleti”, abbandonati dalla guida sicura dell’istinto, ci completiamo grazie alla cultura che ci permette di elaborare un’idea di noi stessi. Non è mai una cultura-in-generale, ma una cultura sempre particolare, quella in cui siamo cresciuti, dove la nostra identità si è formata col tempo, nel rapportarsi ad altre. L’identità è dunque un bisogno forte, forse perché, per certi versi, non esiste: in quanto aperto a ogni potenzialità, al continuo cambiare, biologicamente non prefissato da un definitivo istinto, noi umani soffriamo il problema dell’identità. LIBERI DI SCEGLIERE

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Scegliere di ricominciare da adesso

In qualsiasi momento possiamo dare alla nostra vita e a ogni piccola e grande cosa un altro significato. E in ogni momento possiamo ricominciare da adesso. La mente che si occupa di se stessa e osserva i pensieri e le sensazioni si libera dagli automatismi e cambia nella sua conformazione fisica, neuronale, biologica: la mente è plastica. Può scegliere di vivere libera-mente, di scendere dagli automatismi dello stare sulla difensiva e dell’attaccare gli altri. Da cosa si deve poter liberare, il nostro libero arbitrio, per essere davvero libero? Il confine delle nostre conoscenze e immaginazioni costituisce il confine della nostra libertà di scelta. E anche le nostre conoscenze sono immaginazioni: quelle che immaginiamo valide. Quanto maggiori sono le nostre conoscenze e la nostra immaginazione, tanto più grande è la nostra libertà di scelta, perché così disponiamo di un ampio ventaglio di possibilità interpretative. Tuttavia, al contrario, l’eccessiva sicurezza del sapere si può tramutare in un ostacolo verso nuove potenzialità. Facciamo un esperimento mentale: immaginiamo una persona che creda di essere chiusa a chiave in una stanza; vorrebbe alzarsi e uscire, ma non ci prova nemmeno, dato che “sa” di essere rinchiusa. Forse si sbaglia, e la porta non è affatto chiusa a chiave, ma non se ne accorgerà mai, se continua a credere che lo sia, motivo per cui non si alza e non prova ad aprirla. La sua libertà di scelta è ostacolata da quel che pensa sia “vero”. La realtà di primo ordine, misurabile, esiste: la forza di gravità non è un’opinione, e non sempre le condizioni del contesto in cui viviamo sono ideali. Del resto, se così non fosse, non saremmo motivati a far qualcosa per cambiarle. Possiamo accettare i limiti fisici e concreti, e occuparci delle cose che crediamo di “sapere”.

E ricominciare sempre da adesso. Ricominciare a prenderci cura, a smettere di danneggiarci, a osservare la nostra avversione con benevolenza e senza identificarci con lei. Ad accorgerci che non sperimentiamo mai il mondo come è, ma come siamo noi. Per vivere la nostra scelta di ricominciare sempre da adesso ci possiamo chiedere, concretamente: per che cosa sono disposto a investire il tempo prezioso della mia vita, ad alzarmi presto? Quando definisco la competenza sociale come “la capacità di comportarci e comunicare in modo congruente ai nostri scopi di breve, medio e lungo periodo”, alcuni mi chiedono dov’è il sociale: un essere a-sociale come un assassino si comporta in modo congruente ai suoi scopi se riesce a uccidere la sua vittima? Ecco allora le assunzioni implicite: tutta la mia costruzione, e l’idea che la competenza sociale si possa imparare, si basa sull’ipotesi che ognuno di noi condivida lo scopo di vivere in una società dove non si senta il bisogno di stare in guardia. Se danneggio un altro non raggiungerò mai questo scopo, dato che so per certo che esiste chi danneggia gli altri, e per esperienza personale: sono io, e da me non posso scappare, mi frequenterò per tutta la vita. E se io sono disposto a danneggiare gli altri, non posso aspettarmi che gli altri, con me, si comportino meglio. Per cui non potrò che vivere stando in guardia, in ansia, e non faccio i miei veri interessi. Questo ragionamento è una costruzione mentale, ma sostenuta da almeno due fatti concreti, che fanno capo alla nostra personale esperienza: a) la stragrande maggioranza delle persone fa del proprio meglio ogni giorno, senza fare notizia; b) temiamo il male, il che prova la nostra sensibilità verso il bene, che ci auguriamo, per noi e i nostri cari. Questa definizione di competenza sociale ha il vantaggio di non fare del moralismo, evita cioè LIBERI DI SCEGLIERE

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di dare giudizi, lasciando a ognuno la libertà e la responsabilità di definire i propri scopi. Nella rete di scopi di breve-medio-lungo periodo viviamo le conseguenze delle nostre scelte, ci rendiamo conto del loro prezzo. Se ci accorgiamo che altri pagano per noi, possiamo ripensarci: non pare uno scopo vantaggioso, e come un boomerang ci si ritorcerà contro. Se infatti danneggiamo altri, in vista di un vantaggio immediato, danneggiamo la società nel suo complesso, e quindi noi stessi, che ci viviamo. Una persona ragionevole si comporta come si augura che gli altri facciano con lei. E non lo fa nemmeno per motivi razionali: frequenteresti volentieri chi ti dice che ha bisogno di buone ragioni per essere onesto? Per fortuna abbiamo l’empatia, e non facciamo del male semplicemente sentendo che fa male – all’altro o a noi, che differenza fa? Sono passati più di 150 anni dalla prima edizione de L’origine della specie, di Charles Darwin: ciò che ci caratterizza è frutto della selezione naturale della nostra specie, e la selezione premia ciò che vive in armonia con la natura, con l’ambiente, chi vi si adatta meglio. Non è certamente finita, e ci coinvolge nelle nostre scelte. Sono passati più di sessant’anni dalla Dichiarazione dei diritti degli esseri umani. Ogni giorno è un giorno a disposizione per allenarci a prenderli sul serio.

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