ISBN 978-88-6153-769-9
Euro 18,00 (I.i.)
9 788861 537699
Salvatore Maurizio Moscara
pubblico, impegnato nel sindacato dal 1997, attivo sul fronte del contrasto alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose negli enti locali con l’organizzazione Officine della Legalità, nonché nel campo del volontariato sociale su temi come l’accoglienza dei migranti, l’educazione alla pace, alla legalità e alla cittadinanza attiva, la costruzione di percorsi di giustizia sociale. È responsabile dell’Organizzazione di volontariato PER.I.P.L.O, ente del terzo settore che si occupa di accoglienza diffusa, inclusione sociale, contrasto alle povertà educative, cura delle persone in difficoltà. In particolare, il progetto attivato dal 2016 si chiama “Le Querce di Mamre” e consiste nell’accoglienza di giovani rifugiati in una casa di comunità e nel loro inserimento in un percorso di responsabilizzazione e autonomia.
MARENOSTRO
Salvatore Maurizio Moscara,dirigente
Un libro parlante che dà voce alle voci di chi, in vita, non ha avuto il diritto di essere donna o uomo, bambina o bambino. Sono le voci di chi fuggiva da violenze, persecuzioni, fame, guerre ed ora giace nel Mediterraneo a due passi da casa nostra. Voci dei prigionieri torturati nei lager libici; della delusione dei latinos americani davanti alla tortilla border innalzata davanti a loro, al confine tra USA e Messico; della disperazione delle popolazioni sub-sahariane nell’attraversamento del deserto del Mali. Nessuno di noi può dire che non c’era, che non sapeva mentre quelle voci urlavano il loro diritto alla libertà, alla dignità e alla vita. Eravamo tutti al corrente di tutto, talvolta anche in diretta mentre la politica era intenta a raccogliere consenso sui social. Il movimento dei popoli è sempre stato una sfida. Percepirlo ancora come minaccia ci allontana dalla nostra umanità e dal futuro. I migranti, questi diversi da noi, sono l’occasione che l’Occidente ricco, che si sente al sicuro nei propri confini e bastevole a se stesso, ha di comprendere che una società chiusa è destinata a morire. Nessuno si salva da solo. Oggi più di ieri. Non li abbiamo salvati mentre le loro voci imploravano un approdo. Riascoltare quelle voci, grazie a questo libro, è un modo per custodire la memoria e ricordare che il nostro mare è anche il loro: mare nostrum, appunto. Sull’una e sull’altra riva ci sono volti, persone, vite, anime. Basta poco – davvero poco – perché nessuno diventi un altro naufrago senza volto.
SALVATORE MAURIZIO MOSCARA
MARENOSTRO Naufraghi senza volto
Salvatore Maurizio Moscara
Marenostro Naufraghi senza volto
Prefazione di Gianni De Robertis
INDICE Ayomidè 13 Prefazione di Gianni De Robertis 15 Perché 17 Ciao, sono Enrico Ciao, sono Melville Ciao, sono Khareena Ciao, sono Alan Ciao, sono Abdullah Ciao, sono Amal Ciao, sono Fede Ciao, sono Hamidi Ciao, sono Josepha (e c’è Angela con me) Buongiorno, signore e signori
37 51 69 85 99 115 131 151 175 189
Conclusione (una sola) Un grido
217 231
Bibliografia 235
Ayomidè
Le cose non vanno quasi mai come pensiamo, vogliamo, progettiamo, programmiamo. Mi fanno sorridere quelli che organizzano piani di vita per i loro figli (magari inzuppandoli di desideri e frustrazioni che sono le loro) o che addirittura programmano i tempi in cui “avere” o meno un figlio. In realtà, siamo uomini, cioè pulviscoli sperduti nell’universo, negli universi. E così accade che, a volte, nella vita, ci possiamo trovare dinanzi a un prima e a un dopo. È il caso di questo libro: pensato e scritto nella seconda parte del 2019, rivisto e completato a gennaio 2020. Una volta mandato in stampa ciò che è avvenuto è stato molto più grande di tutti noi, ci ha spiazzati, destabilizzati, capovolti. C’è stato un prima e c’è ora un dopo: un dopo che abbiamo la responsabilità di organizzare. Perché la responsabilità? Semplicemente perché abbiamo la responsabilità di fare in modo che il dopo non sia più come il prima. Che il dopo diventi una occasione. Da costruire, da realizzare. E che il prima sia davvero passato, superato, attraversato. Come attraversati siamo stati noi. Ayomidè è una espressione yoruba (lingua nigeriana parlata da circa trenta milioni di persone) che può essere tradotta in italiano con “Il tempo della gioia è arrivato”. I nostri fratelli nigeriani sono soliti utilizzare questa espressione in occasione di una nascita. Ecco: stiamo attraversando un deserto, è toccato a noi stavolta. Ma questo viaggio – per quanto duro, doloroso, aspro, faticoso, pericoloso – è il prezzo del nostro cambiamento. E se arrivati alla meta
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potremo guardarci negli occhi e dire Ayomidé significherà che niente di questo viaggio è stato vano. E che, come il colibrì, stiamo facendo la nostra parte per costruire, con pazienza e amore, il nuovo mondo. E che davvero niente sarà più come prima. Perché il nostro dopo è già iniziato nei giorni di Covid-19.
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Perché
Come va? Avete letto già a chi sono dedicate queste pagine? Se avete saltato le dediche, per favore, tornate indietro. Perché era un dovere da parte mia ricordare: ricordare loro. Perché è di loro che vi parlerò. Perché questo libro è scritto sulla loro pelle, sulla loro vita, sui loro sogni, sulle loro speranze, sul loro amore per la vita. Hanno amato la vita così tanto da desiderarla con tutte le loro forze. Rischiando di morire, per la vita. Soffrendo. E morendo. Per la vita. Tutto ciò che leggerete in questo libro – se avrete pazienza fino alla fine – è sciaguratamente vero: sono racconti che narrano fatti di cronaca ricostruiti attraverso ricerche e verifiche. Si tratta di fatti realmente accaduti, di persone – esseri profondamente umani – realmente esistiti. È un libro parlante sin dalle prime pagine, sin dalle dediche alle quali avete prestato la vostra attenzione. Purtroppo, quelle dediche lasciano parlare persone vere, di carne. Di carne vera e di spirito vero. L’autore di questo libro – io (pronome fastidioso) – non è un letterato, uno scrittore, un dotto erudito. È anzi, come vedrete, piuttosto rozzo nell’esternazione dei concetti. Ed è importante sottolinearlo poiché l’opera non ha alcuna pretesa estetica. Vuole essere altro. Vuole essere un libro, appunto, “parlante”: vuole dare voce alle voci. Alle voci che sono sotto, che sono sopra, che sono dentro di noi. Quelle voci ci parlano, ci chiamano, ci raccontano. La guerra e la pace, la morte e la vita, il dominio e la libertà. Sono le voci degli ultimi, “Sono i piedi degli oppressi, i passi dei poveri”2. 2
Bibbia, Libri dei Profeti, Is 26, 4-6. 17
Forse, è stato scritto solo per questo. Dare voce a chi, in vita, non ha avuto questo diritto: di parlare, di ribattere, di alzare la testa. Di essere libero. A chi non ha potuto alzare la mano, non è potuto intervenire. A chi, in vita, si è visto sottrarre il diritto stesso di vivere. E quindi per ascoltare la voce – le voci – di chi ha il potere di spiazzare, scombussolare, disordinare, scombinare, scompaginare. È consacrato a loro: a chi ha il potere di mettere a soqquadro le nostre vite grigie, indifferenti e, a volte, conniventi, anche inconsapevolmente. Ed è rivolto a noi: incapaci di discernere, di focalizzare. Incapaci, soprattutto, di accogliere e di riflettere luce. È davvero il caso, allora, che la crudezza della realtà ci si stagli di fronte; che ci penetri nel più intimo; che ci attraversi l’anima. Se ancora ce l’abbiamo, un’anima. Avete letto l’Indice? Ai capitoli – a quelle voci – non ho voluto dare numeri. Questa prassi, inumana, è propria dei CPR (Centri di Permanenza e Rimpatrio, ex CIE, ex CPTA) e, purtroppo, anche dei CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo). È propria di quei non-luoghi che tendono a trasformare gli esseri umani in numeri, cioè in non-persone. Quindi, mi è piaciuto lasciare solo i nomi, come in una presentazione tra persone sconosciute che diventeranno amiche, per restituire la dignità che era stata loro sottratta. La dignità degli alfabeti, che è la dignità delle lingue, di tutte le lingue. La dignità delle parole che pronunciamo. La dignità del nostro respiro, delle nostre gioie, delle nostre sofferenze. L’auspicio è che qualcuno si ricordi dei timbri della vergogna: che nel secolo delle persecuzioni servivano ad assegnare, appunto, numeri di matricola. Allora questo libro è un libro di parte. Sì, non è terzo, non è neutrale. Non si limita a raccontare. Ma si sposa. Si sposa con una parte. Perché non è più possibile non schierarsi, non è più possibile fare da arbitri, da osservatori, in una partita in cui esiste una profonda diseguaglianza tra le 18
due squadre che scendono in campo; in cui ci sono diversità strutturali di metodo, di merito e anche di risultato. Una partita in cui si trascura, colpevolmente, di qualificare la diversità come un valore. Questo libro ha deciso di essere, di stare, di posizionarsi: finché ci saranno oppressori e oppressi, questo libro sa da che parte stare. Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi, da un lato, e privilegiati e oppressori, dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri3.
Ma, allo stesso tempo, questo libro “parlante” non punta il dito, non ha l’ardire di scagliare la pietra contro alcuno. Perché si interroga – e tanto – sulle proprie responsabilità. Quelle che sono le responsabilità di ogni occidentale, di ogni cittadino che – per un fatto che la natura umana non può e non potrà mai spiegare con i propri mezzi – ha avuto la fortuna di nascere in una parte della terra piuttosto che in un’altra4. Però questa è una responsabilità, appunto. Allora, se la logica della contrapposizione non serve a niente, c’è un altro fine che questo lavoro, sommessamente, persegue: far conoscere, far sapere, far discernere, far incontrare. Perché vedete: a parte una ristretta minoranza di personaggi che fanno del dominio e del potere la loro ragion di Don Lorenzo Milani (Firenze, 27 maggio 1923 – 26 giugno 1967): prete, educatore, pedagogista, scrittore, docente. Non posso dire maestro di vita perché, conoscendolo, non ne sarebbe contento. 4 Dei 7 miliardi e 550 milioni di persone che popolano il mondo, 1 miliardo e 260 milioni vive nei Paesi più sviluppati; il resto, 6 miliardi e 290 milioni vive – anzi sopravvive – in Paesi poveri o molto poveri. Il numero di persone denutrite nel mondo, nel 2017, era pari a 821 milioni: praticamente, 1 abitante su 9 nel mondo rischia la vita per inedia, soprattutto in Africa, Asia e America latina (Dati: Save the Children, 2018). 3
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vita e che riescono anche a funestare la storia dell’uomo, noi siamo tutti ontologicamente simili. Nessuno di noi è razzista, cattivo, malvagio. Al limite potrebbe avere una tendenza al sospetto che genera incertezza, preoccupazione, inquietudine; ma non ha alcuna propensione genetica all’avversione. Però, siamo in tanti a non conoscere e, conseguentemente, a rimanere confinati in una condizione di latente povertà educativa e di vulnerabilità cognitiva. Tante volte, infatti, rimaniamo incapaci di cogliere la complessità dei fenomeni e diventa inevitabile che di questa involontaria inesperienza qualcuno scientemente si serva per trasmetterci suggestioni, calunnie, menzogne, paure. Condizionando la libera formazione del nostro pensiero. E, in fin dei conti, comprimendo grandemente la nostra stessa libertà. È difficile non ammettere che la radice del male sia l’ignoranza. Xenofobia: paura dell’altro che non si conosce, proprio perché non lo si conosce. E, allora, non si conosce che l’altro è meno diverso da quello che pensiamo; che nell’altro ci siamo anche noi; che nell’altro c’è un pezzo di noi e che in noi c’è un pezzo dell’altro. È questo il punto. Ed è per questo che si è fatta una scelta precisa: far conoscere la realtà (ripeto, tutto quanto riportato nel libro è documentato), diffondere, promuovere, divulgare; impedendo a chi ha sempre il dito puntato di riempire le nostre teste di sciocchezze, stupidaggini e idiozie; e così trattarci come pecoroni impauriti che seguono il loro padrone per ignoranza e non per scelta. Perché noi, la nostra parte di colpa ce l’abbiamo. Perché ci siamo assuefatti all’era della disinformazione e abbiamo lasciato che i nuovi urlatori iniettassero nelle nostre vene una buona dose di rancore quotidiano; che ci somministrassero con rigorosa sistematicità una giornaliera razione di paura mista a odio. E di menzogne. Qualche esempio? Nell’ultimo anno e mezzo, Italia ed Europa, quando si parlava di migrazioni, sono state lette20
ralmente e pervicacemente bombardate da due parole: “Invasione e sicurezza”. Si è detto e si è proposto di tutto a tal proposito: bombardare i canotti messi in mare dai trafficanti prima che salpino dalle coste libiche (costano circa 750 euro e sono facilmente acquistabili su Internet: il danno sarebbe inconsistente, oltreché sarebbe impossibile vigilare su ogni scoglio, lido, arenile, insenatura della Libia); circondare il golfo della Sirte e attivare così un blocco nel Mediterraneo che impedisca a barconi, barchini e gommoni di giungere ai confini con il mare territoriale italiano (ci vorrebbero così tante navi, mezzi e uomini da caricare il popolo italiano di chissà quali sacrifici in termini economici); ricontrattare le varie convenzioni e protocolli di Dublino che addossano interamente ai Paesi di approdo il carico dell’accoglienza, del riconoscimento e della eventuale regolarizzazione degli immigrati richiedenti asilo (cosa sensatissima, a patto di essere seriamente interessati a una loro modifica, visto che poi, alle riunioni appositamente convocate a Bruxelles o Strasburgo, i rappresentanti del governo italiano erano assenti; e, sempre che si abbia il coraggio di porre il problema. Quello stesso coraggio notoriamente sconosciuto ai politici italiani dell’ultima generazione). Cosa c’è di vero nella parola “invasione”? Il termine, in primis, è del tutto inadeguato, anzi completamente errato. In lingua italiana per invasione si intende L’ingresso nel territorio di uno Stato da parte delle forze armate di uno Stato belligerante, per compiervi operazioni belliche, con o senza l’intenzione di occuparlo stabilmente5.
Nulla a che vedere, insomma, con le chiacchiere sparate dai palcoscenici della politica. Al di là della questione prettamente terminologica o no5
Voce “Invasione”, in Enciclopedia Treccani. 21
minalistica, vediamo di seguito qualche dato concreto. MIGRANTI SBARCATI IN EUROPA
MIGRANTI SBARCATI IN ITALIA
2015
1.005.504 2015
153.842
2016
361.678 2016
181.436
2017
172.301 2017
119.369
2018
121.755 2018
23.371
2019
123.000 2019
11.471
Tabella 1 – Fonti: Cruscotto Mininterno, Eurostat, www.lenius.it, www.vita.it
STATO
Migranti sbarcati nei Paesi del Mediterraneo al 31.12.2019
Migranti sbarcati nei Paesi del Mediterraneo al 31.12.2019
Valore assoluto (arrotondato)
Valore in rapporto alla popolazione
Malta
3.300
1 ogni
149
Grecia
74.500
1 ogni
144
Cipro
1.700
1 ogni
715
Spagna
32.500
1 ogni
1.415
Italia
11.500
1 ogni
5.246
Tabella 2 – Fonti: ”la Repubblica” (ricostruzione dati di settembre 2019)
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STATO
Migranti presenti
Migranti presenti
(valore percentuale sulla popolazione residente)
(valore assoluto)
8,3%
5.026.153
Spagna
13,87%
6.466.705
Francia
8,9%
7.439.000
11,9%
9.845.244
Italia
Germania Grecia Regno Unito Olanda
8,6%
1.133.000
10,18%
7.824.000
10,5%
1.753.000
Tabella 3 – Dati 2016
I dati sono oggettivamente chiari: la narrazione relativa alla presunta “invasione” è un’emerita fesseria semplicemente perché il termine, inadeguato a definire il fenomeno migratorio, ha iniziato a essere strumentalmente utilizzato proprio nel momento in cui gli sbarchi diminuivano, in Europa e in Italia; e proprio nel momento in cui l’Italia – per effetto del decreto Minniti – riduceva enormemente gli approdi nel nostro Paese, come è evidente dalle tabelle sopra riportate. In rapporto alla popolazione l’Italia è ora di gran lunga il Paese del Mediterraneo con meno sbarchi. Cosa c’è di vero nel termine sicurezza? La convinzione che l’immigrazione sia sinonimo di criminalità è del tutto distorta. Dal 2007 in tutte le regioni italiane i crimini commessi da residenti stranieri si sono ridotti del 25%; non solo: il dato tendenziale dei reati in generale è in progressiva diminuzione negli ultimi dieci anni, cioè proprio nel periodo in cui è aumentato il numero di 23
ingressi da parte di richiedenti asilo. Nonostante ciò il senso di insicurezza è aumentato tra la popolazione – il 46% dei cittadini italiani dichiara di non sentirsi sicuro nella città in cui abita – e la spesa destinata alla sicurezza è cresciuta in media dello 0,27%. Lo stesso è accaduto in altri Paesi europei, come in Germania6. A dispetto dell’evidenza dei dati, i decreti definiti “sicurezza” dallo stesso ministro dell’interno dell’epoca – il d.l. n. 113/2018 e il d.l. n. 53/2019 – sono stati approvati proprio nel momento in cui non esisteva alcuno stato di emergenza in termini di numero di ingressi nel territorio italiano e, tantomeno, vi era una situazione di allarme in tema di criminalità7. La povertà di informazione, la menzognera strategia comunicativa e la difficoltà di attingere a fonti di informazione sincere e corrette possono essere evidenziate anche stando dalla parte di chi non è proprio convinto che l’accoglienza sia una cosa buona e giusta per il nostro Paese. Porto ad esempio la storia di una piccola impresa familiare di una cittadina della provincia di Reggio Calabria: marito proprietario di un negozio di ferramenta con tendenze al centrodestra (sia ben chiaro, non c’è niente di male), moglie con simpatie salviniane (vale quanto appena detto); decidono di assumere un ragazzo ivoriano (ecco perché non si devono mai coltivare pregiudizi su chi la pensa diversamente), di cui ammirano l’impegno nelle attività Cfr. Colangelo C., Più immigrati, meno sicurezza? È la bufala del secolo, www.linkiesta.it, 21/9/2019; www.agi.it, 16/10/2018. 7 Con questo non si vuol sostenere che gli immigrati delinquano meno e gli italiani siano più dediti alle attività criminali. Si vuole solo dimostrare come non vi sia alcuna relazione tra la presenza di stranieri sul nostro territorio e la questione criminale: i cittadini stranieri sono esattamente come quegli italiani. Nessuno ha un’inclinazione al crimine più spiccata dell’altro. Certamente, come già si diceva, le condizioni di marginalità, disagio psico-sociale, esclusione cui molti cittadini non europei sono condannati, in particolar modo da una politica fondata sul pregiudizio e tendenzialmente esclusiva, possono indurre a una maggiore propensione alla commissione di reati, rendendo particolarmente difficoltosi i processi di integrazione.
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a lui affidate, ritenendolo, finalmente, la persona di fiducia che fa per loro. Cercano così di regolarizzarlo una volta scaduto il permesso. Inizia l’odissea burocratica tipica di questo Paese che continua ad avere una legislazione farlocca, degna promanazione della propria classe dirigente riguardo alla quale è difficile e compromettente dare definizioni. Di fronte alle richieste disperate del piccolo imprenditore, tutti i don Abbondio di turno allargano le braccia. L’aspetto positivo, però, è concentrato nel dato esperenziale: i due coniugi hanno conosciuto, saputo, capito, ci hanno creduto, tanto da metterci la faccia e impegnarsi in prima persona sul fronte dell’accoglienza. Sono cronache, non opinioni. Sono numeri, non parole. Sono fatti, non chiacchiere. E i fatti restano, le parole passano, specialmente quando hanno a che fare con le menzogne dei pifferai magici. È sempre una questione di conoscenza e di corretta informazione, che fatica tremendamente a trovare un suo legittimo e sacrosanto spazio nell’universo-mondo delle fake news e delle bufale. Un’altra bufala immensa? Quella dell’identità italiana e occidentale che sarebbe strumentale a giustificare il diritto di uno o più popoli europei a essere padroni in casa propria in virtù della sovranità esercitata all’interno dei confini nazionali; che trasmette un messaggio di questo genere: non venite perché non vogliamo mischiarci a voi, abbiamo il dovere di preservare la nostra identità, l’identità della nostra nazione. Un’emerita fesseria: perché, curiosamente, ci condanna a una crisi identitaria al contrario. Si mettano l’anima in pace questi novelli de Gobineau8: Il conte Joseph Arthur de Gobineau (Ville-d’Avray, 14 luglio 1816 – Torino, 13 ottobre 1882), fondatore nel XIX secolo della teoria razzista contemporanea. Scrisse un saggio sulla presunta ineguaglianza delle razze umane. Alla fine del secolo scorso l’inglese Chamberlain, forte ammiratore dei tedeschi, riprese le teorie del de Gobineau, sostenendo che ogni uomo, per il
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l’identità italiana e mediterranea, crogiuolo di popoli e di etnie (non razze perché le razze scientificamente non esistono, aveva ragione Einstein)9, è esattamente il contrario del detto “prima gli italiani”. Lo dicono natura e scienza, prima di politica e filosofia: gli italiani sono bruni, biondi, rossi e hanno lineamenti nordici, mulatti, orientali; occhi azzurri, neri, marroni, verdi, grigi, diversamente da tutti gli altri popoli, proprio perché una razza italiana pura è totalmente inesistente. Siamo meravigliosamente diversi; siamo straordinariamente meticci. No, l’identità italiana, non è quella nefandezza che ci vogliono propinare, bensì quella della Magna Grecia, quella della cultura classica, quella della cittadinanza romana riconosciuta a tutte le popolazioni – anche le più lontane – dell’impero, quella giudaico-cristiana (sembra lontana anni luce, è vero), quella dell’Illuminismo, quella del Risorgimento, della Resistenza, quella dell’accoglienza, quella dei porti, quella del “dove mangiano tre, c’è posto anche per quattro”. L’identità italiana è quella mediterranea, del mare nostrum; è quella di Lampedusa, con gli occhi fissi verso il mare per vedere se c’è qualcuno che ha bisogno di aiuto. È quella di Riace, con le braccia aperte: quelle braccia che hanno vinto la sfida dell’accoglienza, che hanno osato duellare con i potenti e che rimarranno come splendido lascito alle generazioni future chiamate a ricostruire un nuovo umanesimo sui nostri disastri morali e materiali. L’identità italiana è quella della Costituzione repubblicasol fatto di appartenere a una certa razza, possedesse delle qualità destinate a realizzare determinati fini. 9 “Io appartengo all’unica razza che conosco, quella umana” è la frase pronunciata da Albert Einstein al suo ingresso negli Stati Uniti, nel 1933. A seguito delle persecuzioni razziali, egli aveva deciso di lasciare il proprio Paese, la Germania, per trovare rifugio in un Paese libero. Il grande scienziato voleva evidenziare che la razza umana è scientificamente unica e che, di conseguenza, non possono esistere differenze basate sulla diversità biologica, ma solo su quella etnica (diversità culturale, linguistica, storicosociale). 26
na antifascista e antirazzista; quella dei diritti umani, quella del diritto di asilo dell’art. 10. Non lo dico io: lo dice la storia millenaria scritta nel nostro codice genetico, impressa nella nostra natura di essere umani. Una storia traboccante, straripante, talmente preziosa da impedirci di abdicare, lasciando che i ciarlatani abbiano il sopravvento. Un’altra idiozia vestita di menzogne? Ne abbiamo in quantità e per tutti i gusti. Ad esempio, la retorica sulla cittadinanza e, in particolare, sullo ius soli: “Se la devono meritare la cittadinanza, non si diventa italiani così facilmente”. E allora gli ottocentomila ragazzi che sono nati in Italia e frequentano le scuole dei nostri figli; che vanno nelle stesse parrocchie, nelle stesse aule di catechismo; che vengono nelle nostre case, giocano e studiano con i nostri figli; che parlano l’italiano e i nostri meravigliosi dialetti; che sventolano il tricolore nelle partite della nazionale, gioiscono per le vittorie e gemono, con noi, sulle nostre disgrazie, sui nostri terremoti, sulle nostre inondazioni; che difendono i nostri colori; che piangono con noi, i nostri morti; ecco, questi 800mila ragazzi, non se lo meritano di essere italiani? E chi invece è nato all’estero da genitori italiani, non è mai venuto in Italia, non conosce una parola della nostra lingua e si ricorda della cittadinanza italiana solo quando questa gli serve per andare più facilmente da Caracas a Miami, merita di essere definito italiano? Di avere la cittadinanza italiana? Chiacchiere, fandonie, bugie con le gambe corte. Ce le raccontano ogni sera i talk show nostrani in cui si parla di migranti, di tragedie del mare, di blocchi navali al largo della Libia, di muri e di sovranità, di crociere e di pacchie, con il sedere pigramente adagiato su comodi divani e le mani posate su pance rigonfie e sovrabbondanti di quotidiane futilità. Un teatrino ripugnante, messo lì per fare audience e mietere consensi elettorali, lontano dalla serietà e dalla tragicità delle vicende, delle vite, degli uomini. Lontano dall’umano. 27
Allora, vi prego: lasciatevi pacatamente turbare da questo libro fino alla fine. Poi deciderete: se riporlo nello scaffale come un ricordo bello o brutto o se continuare voi stessi, con le vostre forze, con le vostre conoscenze, a raccontare un evento, una storia, un’epoca, per la quale, prima o poi, saremo giudicati. Perché quel momento arriverà. E nessuno di noi potrà dire: “Io non c’ero, io non sapevo”.
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Ciao, sono Melville
Sì, esatto, avete sentito bene: mi chiamo come Herman Melville, il vostro scrittore americano. Sì, sì, d’accordo, sono sudanese, precisamente del Sud Sudan, ma ne avevo sentito parlare a scuola. Scuola. La chiamava così padre Louis, un missionario comboniano venuto a vivere con noi nel villaggio e che riuscì a organizzare una classe con i bambini che non erano costretti a lavorare tutto il giorno per aiutare i genitori. E poi, la sera, continuava con quelli che tornavano dal lavoro: stanchi loro e stanco lui. Che razza di prete: non parlava mai di religione ma sempre di scuola, istruzione, futuro, progresso. E parlava anche di Dio, sempre senza parlare di religione. Chi di noi era musulmano, musulmano rimaneva. Mi fece appassionare allo studio, quel buon uomo; e che bello che era andare a scuola; e dopo avermi insegnato l’inglese mi propose la lettura, appunto, delle opere di Herman Melville: che forte quello lì! Con il suo Moby Dick mi insegnava l’umanità in una terra dove, davvero, non ne è rimasta molta da un bel po’. Ma vi ricordate quando il capitano Achab, nell’inseguire la balena bianca, si fa sfuggire una lacrima? Di sotto il suo cappello abbassato, una lacrima di Achab cadde in mare: e tutto il Pacifico non contenne ricchezze paragonabili a quella goccia di pianto.
Che meraviglia! A proposito di lacrime, permettetemi di porvi una domanda: quante lacrime dei miei (anzi dei 51
nostri) fratelli disperati sono cadute nel vostro (anzi nel nostro) Mediterraneo? Lo sapete quante sono? Io credo che non ci sia uomo sulla terra capace di contare quelle lacrime, in grado di capire se sono più le gocce del mare o le lacrime in esso versate. E Bartleby lo scrivano? Quello che diceva sempre “preferirei di no”, anche a costo di lasciarsi morire? Ah, forte pure quello. Mi ha insegnato a dire di no. Ma una volta non ho potuto dire di no. Purtroppo. E quindi – come vi raccontavo – siccome parlavo a tutti del mio scrittore preferito, piano piano il mio nome – Waleed – fu sostituito da un soprannome: Melville. Tutti, nel villaggio mi chiamavano ormai così. Però adesso devo essere forte. E sì, devo essere forte per raccontarvi la mia storia. Ho 15 anni, sono nato e vissuto nel Sud Sudan e di mestiere faccio il bambino soldato. Quella fu la volta in cui non potetti dire di no: dalle mie parti, nelle milizie dei ribelli ci finisci perché vengono a prenderti, come capitò a me. Infatti nel mio Paese infuria da diversi anni una sanguinosa guerra civile e io ero uno dei pochi del villaggio che sapeva leggere e scrivere e che conosceva anche la lingua inglese. Insomma, tutte quelle cose belle che avevo imparato furono la causa della mia perdizione. Addirittura ciò mi valse la nomina quasi diretta, dopo solo qualche settimana, a comandante. Quando vennero a prendermi a casa, il territorio del mio villaggio era sotto il controllo dei ribelli. Dissero a mio padre che mi avrebbero portato in città per un lavoro, ma lui sapeva bene di cosa si trattava. Tuttavia, in quel momento, conveniva a lui e alla sua coscienza fingere di credere a quella bugia. La sventurata sorte di essere arruolato non è toccata solo a me, naturalmente: siamo in migliaia di migliaia a essere irreggimentati nelle milizie dei ribelli e anche nei ranghi dell’esercito nazionale. Siamo piccoli, ci nascondiamo fa52
cilmente, abbiamo rispetto e paura dei grandi e, a quell’età, non abbiamo ancora il senso del male dentro. Quel male che poi ti inoculano e che ti devasta la vita. Non è una roba da “animali” perché tra gli animali tutto ciò non accade, non esiste. Appena arruolati, non vi era il tempo dell’adattamento, non erano conosciute forme di gradualità: l’appuntamento con la normalità della ferocia era immediato. Il che significava uccidere. Perché l’obiettivo vero era trasformarci in macchine assassine. Ripeto: cose che gli animali non fanno e neanche pensano. Scusatemi se ve lo dico: cose che voi in Occidente conoscete bene. Ero stato assoldato da neanche una settimana, quando una mattina fui svegliato dalle grida di uomini trascinati in catene. Si trattava di prigionieri, catturati due giorni prima. Questi si dividevano in varie tipologie: quelli – in genere graduati – che potevano costituire merce di scambio con l’esercito governativo; quelli ritenuti troppo pericolosi e che andavano eliminati il prima possibile; quelli che non erano abili al lavoro, soprattutto per le ferite e le menomazioni riportate; e quelli, fieramente opposti, che non intendevano neanche abbassare la testa. Di queste categorie l’unica che poteva sperare di sopravvivere era la prima. Per gli altri valeva il detto “Non facciamo prigionieri”: la loro cattura equivaleva a una anticipata condanna a morte. All’inferno non ci sono protocolli o convenzioni da rispettare: vale la legge dell’inumano. Mi portarono davanti a uno di loro. Tutto lasciava intendere che era giunto il mio momento. La vittima sacrificale era legata a un palo e non doveva aver subito neanche tutte le torture che normalmente erano praticate in casi analoghi. Gli occhi erano ancora vispi, reattivi, spalancati. Iniettati di sangue. Urlava. Urlava e ululava come una bestia consapevole di essere arrivata alla fine del viaggio. Ma non c’era implorazione alcuna in quello sguardo: sapeva di non avere spe53
ranze (qualcuno dice che a volte questo è un vantaggio) e per questo riusciva a trasmettere con quegli occhi tutta la rabbia possibile. Nessuna speranza, dunque. Perché non esiste giustizia su questa terra. E non esiste giustizia perché non c’è pietà, non c’è perdono. Quindi non esiste speranza. Esiste il male, quello sì, il male assoluto. Mi viene da chiedere se esista anche il Bene. Gli impostori – che affidano a guerre e violenze le loro fortune – dicono di sì. Dicono anche che Dio è dalla loro parte, ma quello loro è il dio-menzogna: lo creano loro e se ne servono. Lo usano e lo buttano: un dio usa e getta. Un dio con la “d” minuscola, che pongono davanti a tutti i loro discorsi, i loro comizi. Un dio che serve a giustificare il sangue che dovrà essere versato per quietare la loro brama di dominio, per soddisfare la loro voracità, non rendendosi conto che la sola parola “Dio”, sulla loro bocca, è bestemmia, è blasfemia. Mi misero in mano un mitra, non una pistola perché avrei potuto sbagliare il primo e anche il secondo colpo. Serviva una raffica come iniziazione alla disumana normalità; serviva una sventagliata di colpi mortali che non lasciasse alcuno scampo al malcapitato. E neanche a me. Occorreva una scarica di proiettili micidiali che spedisse subito a un’altra vita il condannato e mandasse subito all’inferno me. Perché quello era l’inferno. Mi dissero: “Spara, non avere problemi, quell’uomo ha violentato due donne nei nostri villaggi e ha ucciso tre sentinelle sorprendendole alle spalle: ora tocca a lui”. Alcuni chiamano questa giustizia. Io non sapevo cosa fosse giusto e in cosa consistesse la giustizia nella terra dei tutti contro tutti. Mi chiedevo però che spazio potesse esserci per la giustizia in un posto in cui la violenza deturpa le anime delle persone e le rende mostruose. Delle mie perplessità, nel premere il grilletto, ci fu chi intese prendersene subito cura. Puntandomi un revolver calibro 7 e premendolo con leggerezza contro la mia tempia 54
sinistra, facendomi distintamente percepire il rumore della sicura che veniva tolta. Tutto era chiaro. Non mi voltai neppure, rimasi paralizzato: io, a guardare il disgraziato che mi era davanti; lui a guardare me, disgraziato a mia volta. Per la prima volta colsi una traccia di rassegnazione in quello sguardo, sempre iniettato di sangue: capiva che quella pistola puntata alla mia testa sarebbe stata la sua definitiva condanna a morte. Sparai. Non avendo alcuna dimestichezza con l’arma, più di una decina di colpi si conficcarono nella giugulare della vittima provocando un fiotto di sangue e un conseguente spruzzo sul mio viso, sul braccio che puntava la pistola verso di me e su un altro commilitone, quello che rideva di più. Un risultato lo raggiunsi subito: l’uomo era esanime, per terra, non ci fu neppure bisogno del macabro rituale del colpo di grazia sparato alla nuca delle vittime già incoscienti. Piansi per lo stress, prima ancora che per il dolore. Il mio aguzzino mi disse che era tutto normale, che la prima volta piangevano tutti e che a 12/13 anni è anche comprensibile che si pianga dopo aver ucciso un uomo. Ma io piangevo perché sapevo di non poter più tornare indietro, di aver oltrepassato una soglia. Raccontare la mia adolescenza adesso mi fa quasi ammutolire: nessun essere umano potrebbe mai desiderare di ricordare quei momenti e quello che accadde dopo. Cominciai a fare qualunque cosa senza avvertire alcun senso di colpa. Quando, durante le razzie nei villaggi fedeli ai lealisti, vedevo un bambino che moriva pensavo che era stato fortunato, perché non avrebbe dovuto vivere ancora. Perché non avrebbe dovuto più sopportare la pesantezza della vita a cui io ero ormai condannato. Dopo le esecuzioni di quel giorno continuammo a camminare nella selva spostandoci con due truppe regolari e una truppa di nuove reclute. Trascorsa qualche settimana il drappello dei novizi fu affidato al mio comando. Tutti minori, adolescenti come me, anche più grandi; ma il coman55
do mi toccava per i motivi che vi ho detto. L’addestramento proseguiva ed era frequente che i prigionieri di guerra fossero uccisi da altri bambini come era accaduto a me, quasi un rito di mostruosa consacrazione sull’altare della ferocia. Quando poi si arrivava nei pressi di un villaggio controllato dal governo, era quello il momento in cui sapevamo tutti che sarebbero iniziate le atrocità. Il saccheggio, gli incendi, gli omicidi, le razzie, le violenze, gli stupri. Tutto mi passa ancora davanti agli occhi. Con il trascorrere dei mesi, in conseguenza di quel maledetto ruolo di comando che mi avevano affidato, ero io a dover dare il via: o almeno a lasciare che le cose andassero così. Era terribile: i più grandi non si fermavano neanche di fronte alle bambine. I nostri maestri erano stati proprio bravi a insegnarci il male assoluto. Eravamo al tempo stesso carne da macello e macellai. Praticamente, uccidevamo e stupravamo per vivere: anzi, per sopravvivere. Io, tuttavia, riuscivo a resistere: non mi abituavo a quella inconcepibile ferocia figlia dell’assurdità delle condizioni in cui vivevamo. Pensate che se mio padre avesse potuto garantirmi almeno un tozzo di pane e una brocca di acqua al giorno avrebbe mai lasciato che io mi imbarcassi in questa specie di traghetto di Caronte? Il mio popolo non è più cattivo o più buono. Molto più semplicemente è disperato. E la disperazione finisce, a volte, con il cancellare l’umanità, con il rendere disumani. Quanti di voi in Europa o in Occidente possono immaginare quella ferocia? È anche normale non concepire qualcosa quando non la si vive. E quando non la si conosce, anche perché penso che i vostri mezzi di informazione, durante la nostra guerra, fossero distratti da ben altro19. È vero: i Tg nazionali (e non solo quelli italiani) hanno parlato pochissimo di un conflitto, come quello del Sud Sudan, che in quattro anni e mezzo ha cagionato la morte di 190.000 persone; 2,2 milioni di sfollati all’interno del Paese; 2,5 milioni di profughi verso altri Paesi. Si ritiene, tuttavia, che a 19
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Intanto la guerra si complicava per tutti: per noi e per i filogovernativi. Le città controllate dall’autorità nazionale avevano grossi problemi interni a causa della scarsità di cibo. Ma, sciaguratamente, ciò non induceva a deporre le armi e ci costringeva a combattere senza sosta. Avevamo fame e i nostri superiori cominciarono a drogarci prima degli scontri per garantire la ferocia necessaria nel combattimento e in quello che accadeva dopo. Avevano capito, i nostri capi, che ad alcuni di noi non interessava più la vittoria perché non interessava più la vita. Non era, diciamo così, di grande stimolo continuare a vivere in quelle condizioni. E in guerra, questo stato d’animo può essere pericoloso, perché non rende possibile affrontare l’avversario con la grinta e la determinazione necessarie. Capii allora che dovevo darci un taglio. Che era arrivato il momento di tentare di fuggire da quella dannazione, anche a costo di rimetterci la pelle. Quando hai combattuto in quelle condizioni per quasi due anni e sei rimasto in vita, i tuoi capi cominciano ad avere fiducia in te perché pensano di aver preso possesso della tua anima: anzi, di averla talmente devastata da poterla invadere senza ostacoli. Ma io, con grande fatica, avevo resistito sino a quel momento. È vero: avevo incendiato, ucciso, rapinato e stuprato, ma alla fine ero riuscito a conservare un grande vantaggio rispetto agli altri, perché ero ancora in grado di detestarmi, avevo schifo delle mie azioni, me ne vergognavo. Il disgusto di me stesso costituiva una specie di personale linea Maginot rispetto al demone dell’indifferenza. Scoprivo, giorno dopo giorno, che abituarmi alla devastazione della mia anima non era più possibile, nonostante tutto e nonostante tutti. Decisi allora di fuggire, avrei dimostrato come fosse stata mal riposta la fiducia che mi ero guadagnato. Ma pensavo di non avere scelta, che ne valesse la pena. causa delle condizioni difficili causate dal conflitto, i morti siano stati molti di più: 382.900. La disinformazione sulle tragedie del mondo è un tratto portante della maggior parte dei media occidentali. 57
Una mattina ci eravamo scontrati con una milizia governativa: loro erano in quindici, noi più del doppio. Avevamo sentito in lontananza l’agitarsi degli animali che annunciavano la presenza di umani. Una fortuna per noi e una sciagura per loro. Godemmo del privilegio di poterci appostare tra gli alberi alla destra e alla sinistra del sentiero. Del resto, avevamo temporaneamente sconfinato in una zona controllata dai governativi per procurarci del cibo e saremmo tornati in territorio protetto dopo alcune ore. Per cui i miliziani lealisti non avevano motivo di preoccuparsi, soprattutto perché non avevano idea di come alcuni loro presidi fossero diventati vere e proprie gruviere negli ultimi mesi. Insomma, avemmo facilmente la meglio: dopo tre minuti di fuoco serrato (partito esclusivamente dalle nostre armi), i malcapitati erano stecchiti in terra. Tuttavia, la nostra localizzazione ci costrinse ad allontanarci in tutta fretta. Sapevamo che il mancato rientro alla base della pattuglia trucidata avrebbe fatto scattare una immediata caccia all’uomo su tutta l’area. Era sera. Nella concitazione ed euforia generale non fu per me difficile far perdere le tracce piazzandomi tra gli ultimi posti del drappello; ero consapevole del fatto che nessuno avesse il tempo di controllare o, quantomeno, di osservare comportamenti anomali in un momento come quello. Per la prima volta in due anni, gustai una forte sensazione di liberazione, più che di libertà. La libertà sarebbe semmai stata per il dopo. Comunque, avevo sviluppato un ottimo senso dell’orientamento: le letture di imprese di mare e di naviganti servono anche a questo. Così, dopo essermi liberato della divisa, in quattro giorni riuscii a tornare a casa. Ma forse non ero più lo stesso di prima. Era come se avessi perso almeno una parte della mia identità. Tornato in famiglia e tornato a frequentare la scuola che amavo tanto mi rendevo conto di come il mio pensiero fosse fermo, ancorato. Rigidamente fissato su un’unica immagine: uccidere. 58
Intanto mio padre non mi accolse bene. Dal mio rientro viveva in un perenne stato di ansia: aveva ragione perché sapeva che qualcuno sarebbe venuto a riprendermi. In effetti, non passarono due mesi prima che si presentassero tre soldati per riportarmi con metodi non del tutto gentili all’accampamento. Tutto questo, dopo aver massacrato di botte mio padre che, secondo loro, avrebbe dovuto denunciare il proprio figlio. Capii subito cosa mi spettava: il colonnello doveva dimostrare che non c’è scampo per chi fugge, per chi abbandona la causa. Fui pestato selvaggiamente. Tuttavia, mi resi conto che non volessero uccidermi quando capii che quasi tutti i colpi erano sferrati all’altezza dell’addome e che le bastonate erano invece consapevolmente localizzate nella parte basse della schiena; e del resto, se mi avessero voluto eliminare lo avrebbero fatto nel mio villaggio, davanti agli occhi dei miei familiari. Seguì un numero di frustate che non ero nelle condizioni di contare. Dopodiché, insieme ad altri tre compagni di sventura che subivano la stessa punizione, sebbene per altri motivi, fummo gettati esanimi in una grande buca e lasciati per due giorni senza cibo e senza acqua. La buca fu coperta e fummo abbandonati quasi senza luce in condizioni indescrivibili. Tanto è vero che uno di noi quattro morì prima delle ventiquattro ore. Il suo fisico non aveva resistito alle numerose emorragie interne provocate dalle botte e dopo una serie di rantoli la sua vita si spense tra sofferenze atroci. Pensai che i suoi aguzzini lo avessero ferito a morte volutamente per dimostrare a noi che eravamo vivi solo per una pura casualità e non perché qualcuno avesse voluto risparmiarci la vita. Trascorsi i due giorni ci tirarono fuori dalla buca e ci assegnarono un posto nelle truppe. Tornai visibilmente tumefatto, ma vivo: avevo resistito, il mio corpo aveva resistito e, forse, questo era un segno. La zona in cui ero stato assegnato non era sicura. Non ero più il comandante e, quindi, non potevo neanche dare 59
suggerimenti circa l’orientamento. Il nostro nuovo comandante non era certo un capolavoro e cinque giorni dopo fummo sorpresi da uno squadrone governativo che era riuscito a individuarci e che era sulle nostre tracce già da un bel po’: una spia aveva certamente fatto il suo sporco lavoro. Infatti, nei nostri villaggi non mancava chi, ogni tanto, raggiungesse il campo avverso e rilasciasse informazioni in cambio di denaro. Eravamo noi, stavolta, le vittime dell’imboscata. Eravamo una truppa anche abbastanza corposa, di ben sessantadue unità, ma si capiva subito che non ci sarebbe stato scampo perché l’operazione di accerchiamento era stata curata dai lealisti nei minimi particolari, con estrema meticolosità. Il numero di punti da cui partiva il fuoco e la posizione in accerchiamento non lasciavano dubbi sull’esito finale e mortale che di lì a poco avrebbe avuto quella brevissima battaglia. Decisi subito di non combattere: mi buttai per terra, fingendo di essere ferito a morte e di aver perso conoscenza e mi infilai sotto il cadavere di un compagno, avendo il tempo e il modo di sporcarmi con il suo sangue per rendere la scena più credibile. A terra, con gli occhi chiusi, sentivo il fragore delle armi, le voci straziate di chi era ferito, le urla di chi ordinava di battere in ritirata chiamando a raccolta gli altri. Ma non ci fu niente da fare: dopo un quarto d’ora la carneficina era consumata. Le dimensioni della strage non permisero ai governativi di verificare quanti fossero ancora in vita per il colpo di grazia finale, anche perché avevano consapevolezza di aver conseguito la loro vittoria più grande negli ultimi mesi. Proprio quello scontro determinò, una volta sparsa la voce nei giorni successivi, uno spostamento delle truppe Onu di stanza in quella zona con la missione “Unimis”. Sporco di sangue, ancora intontito per quello che avevo vissuto, quasi incredulo di essere daccapo nel mondo dei vivi, mi trattenni in zona: fuggiti i governativi, sapevo che qualcuno sarebbe venuto a cercarci. E così fu. Dopo alcune 60
ore affluirono nella zona i caschi blu ai quali mi consegnai a mani alzate. In meno di dieci giorni ero morto e risuscitato due volte: forse era davvero un segno. Mi portarono così in un campo di rifugiati alla periferia di Yanhio, nella parte occidentale del Paese e dopo qualche giorno fui assegnato a un programma Unicef per minori in compagnia di tanti altri bambini (loro ci chiamavano così, “children”): soldati come me, che come me, avevano ucciso, saccheggiato, violentato. Ho iniziato a consumare cibo regolarmente solo dopo tre anni. Gli occhi dei miei compagni del campo erano i miei occhi: dentro di loro mi specchiavo. I loro traumi erano i miei traumi, i miei incubi. Ci sono ferite così profonde che hanno bisogno di più di una vita intera per essere curate. Ma adesso ero lì, in un luogo lontano, pronto a far dimenticare al mondo la mia esistenza. Anche perché di quel mondo non volevo saperne più nulla. Avevo 15 anni e avevo vissuto due volte. Mi aspettava dunque la mia terza vita. Alzai gli occhi verso l’alto e mi accorsi, per la prima volta, che il cielo poteva essere anche azzurro.
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LA SANGUINOSA GUERRA NEL SUDAN DEL SUD La Guerra civile nel Sudan del Sud è un conflitto iniziato nel dicembre del 2013 e terminato nell’estate del 2018. Nel 2011, in seguito al referendum del 9 luglio (passato con oltre il 98,83% dei voti favorevoli), si è costituita la Repubblica del Sud del Sudan, ma questo non ha favorito la pace. Due parti politiche contrapposte hanno infatti combattuto per la guida politica dello Stato appena costituito. Si è trattato di un conflitto particolarmente feroce: nel marzo 2016 l’Onu rese noto che fino ad allora vi erano stati, a causa della guerra civile, più di 190.000 morti e 2,2 milioni di sfollati. Nello stesso anno, l’alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Said Raad al-Hussein, rese noto un rapporto su stupri di massa ferocemente eseguiti nel corso della guerra civile. Secondo questo drammatico resoconto, soltanto nello Stato federale di Unità sarebbero stati perpetrati nell’anno 2015 milletrecento stupri in cinque mesi. Gli stupri di massa furono usati dal governo ma anche dai ribelli come salario per i loro combattenti. Poiché ebbero luogo in modo sistematico e diretti sempre contro determinati gruppi etnici sono stati classificati come crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il 27 giugno 2018 le parti in conflitto hanno concordato una tregua a Khartum, in Sudan, e il 12 settembre è stato finalmente concluso un nuovo trattato di pace ad Addis Abeba; il moderatore della Chiesa presbiteriana scozzese, John Chalmers, affiancato dai vertici della Chiesa anglicana e della Chiesa cattolica, è stato un protagonista del dialogo. Straordinario il gesto di papa Francesco che, in occasione di un incontro svoltosi a Roma il 10 aprile 2019, si è inginocchiato ai piedi dei rappresentanti del governo sud-sudanese implorando la pace. Indubbiamente ciò ha enormemente favorito il progressivo processo di pacificazione. 62
LA VERGOGNA DEI BAMBINI SOLDATO Coerentemente con la Convenzione sui diritti del fanciullo, che definisce minore chiunque abbia meno di 18 anni, secondo l’Unicef un bambino soldato è una persona sotto i 18 anni di età, che fa parte di qualunque forza armata o gruppo armato, regolare o irregolare che sia, a qualsiasi titolo – tra cui combattenti, cuochi, facchini, messaggeri – chiunque si accompagni a tali gruppi, diversi dai membri della propria famiglia. La definizione comprende anche le ragazze reclutate per fini sessuali e per matrimoni forzati. Si stima che siano 300.000 i minori coinvolti in conflitti in tutto il mondo. La maggior parte di questi bambini soldato ha tra i 15 e i 18 anni, ma numerosi sono quelli d’età inferiore (10-14 anni) e vi sono testimonianze di reclutamenti di bambini ancora più giovani20. Si ritiene che l’aumento del fenomeno registrato negli ultimi anni abbia varie cause. Le armi leggere che sono utilizzate sono facilmente trasportabili e utilizzabili anche da bambini, dopo soli pochi giorni d’addestramento. I ragazzi inoltre si assoggettano più facilmente degli adulti alla disciplina militare, non pretendono paghe, difficilmente disertano, e sono facilmente sacrificabili: è documentato, ad esempio, che nella guerra Iran-Iraq, bambini erano mandati all’attacco di postazioni d’artiglieria, anche attraverso campi minati. Alcuni minori si arruolano “volontariamente” per sopravvivere, in Paesi devastati economicamente dai continui conflitti o per proteggersi dalle violenze o anche per il desiderio di vendicare le atrocità perpetrate contro la propria famiglia o comunità. Anche le ragazze sono reclutate, spesso con la forza, sebbene in numero minore dei loro coetanei maschi.
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Fonti: Rapporto Amnesty International, 2018. 63
I bambini sono trattati spesso con brutalità e le punizioni per eventuali errori sono molto severe. Il tentativo di fuga è punito con la prigione o addirittura con esecuzioni sommarie. Oltre al rischio di morire o di essere feriti in modo grave durante i combattimenti, la fase di crescita rende i bambini particolarmente vulnerabili ai rigori della vita militare: schiene deformate per il peso delle armi, scarsità di risorse alimentari, quindi malnutrizione, infezioni respiratorie e cutanee, sono tra le più frequenti conseguenze. Ma le malattie fisiche non sono l’unica e più grave conseguenza dell’arruolamento. Tutti i bambini soldato porteranno nella loro vita ferite psicologiche difficili da rimarginare. L’essere stati testimoni, o l’aver essi stessi commesso atrocità, avrà serie conseguenze non solo nella loro esistenza (incubi ricorrenti, incapacità di riadattamento, ecc.) ma anche nell’intera struttura sociale in cui essi stessi sono inseriti, poiché li renderà diffidenti ed ostili verso una società che non ha saputo proteggere e ha distrutto “la naturale fede del bambino nella vita”. Il ricorso a bambini soldato ha ripercussioni anche sugli altri minori. Infatti, se i ragazzi possono usare le armi o essere utilizzati come spie, tutti i bambini saranno guardati con sospetto. Si rischia così che altri ragazzi siano uccisi, imprigionati, interrogati solo per paura di un loro coinvolgimento con gruppi armati o con l’esercito. L’uso dei bambini soldato è tra l’altro considerato lavoro minorile illegale anche in caso di impiego in assenza di operazioni belliche. Di seguito un elenco dei Paesi in cui si è registrata la presenza di minori nel corso di conflitti armati recenti: Afghanistan, Albania, Algeria, Angola, Burundi, Cambogia, Colombia, Congo (ex Zaire), Etiopia, Filippine, Guatemala, India, Indonesia, Iraq, Israele, Libano, Liberia, Messico, Myanmar, Papua, Perù, Russia (Cecenia), Ruanda, Sierra Leone, Somalia, Sud Africa, Sri Lanka, Sudan, Tagikistan, Turchia, Uganda. 64
LA MISSIONE DI PACE “UNIMIS” La missione di pace intitolata “Unimis” in Sudan è stata decisa con la risoluzione n. 1590 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Si tratta di una delle missioni più grandi mai organizzata perché ha mandato sul terreno diciottomila persone, tra militari e civili. Le truppe sono state dislocate in diversi settori e adesso vigilano sul rispetto degli accordi dell’ottobre 2018, con cui le parti in causa hanno raggiunto la pace. Il quartier generale della missione è a Khartum (capitale del Sudan del Nord e, per questo, ritenuto territorio neutrale) sotto la direzione del generale Singh Lidder.
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ISBN 978-88-6153-769-9
Euro 18,00 (I.i.)
9 788861 537699
Salvatore Maurizio Moscara
pubblico, impegnato nel sindacato dal 1997, attivo sul fronte del contrasto alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose negli enti locali con l’organizzazione Officine della Legalità, nonché nel campo del volontariato sociale su temi come l’accoglienza dei migranti, l’educazione alla pace, alla legalità e alla cittadinanza attiva, la costruzione di percorsi di giustizia sociale. È responsabile dell’Organizzazione di volontariato PER.I.P.L.O, ente del terzo settore che si occupa di accoglienza diffusa, inclusione sociale, contrasto alle povertà educative, cura delle persone in difficoltà. In particolare, il progetto attivato dal 2016 si chiama “Le Querce di Mamre” e consiste nell’accoglienza di giovani rifugiati in una casa di comunità e nel loro inserimento in un percorso di responsabilizzazione e autonomia.
MARENOSTRO
Salvatore Maurizio Moscara,dirigente
Un libro parlante che dà voce alle voci di chi, in vita, non ha avuto il diritto di essere donna o uomo, bambina o bambino. Sono le voci di chi fuggiva da violenze, persecuzioni, fame, guerre ed ora giace nel Mediterraneo a due passi da casa nostra. Voci dei prigionieri torturati nei lager libici; della delusione dei latinos americani davanti alla tortilla border innalzata davanti a loro, al confine tra USA e Messico; della disperazione delle popolazioni sub-sahariane nell’attraversamento del deserto del Mali. Nessuno di noi può dire che non c’era, che non sapeva mentre quelle voci urlavano il loro diritto alla libertà, alla dignità e alla vita. Eravamo tutti al corrente di tutto, talvolta anche in diretta mentre la politica era intenta a raccogliere consenso sui social. Il movimento dei popoli è sempre stato una sfida. Percepirlo ancora come minaccia ci allontana dalla nostra umanità e dal futuro. I migranti, questi diversi da noi, sono l’occasione che l’Occidente ricco, che si sente al sicuro nei propri confini e bastevole a se stesso, ha di comprendere che una società chiusa è destinata a morire. Nessuno si salva da solo. Oggi più di ieri. Non li abbiamo salvati mentre le loro voci imploravano un approdo. Riascoltare quelle voci, grazie a questo libro, è un modo per custodire la memoria e ricordare che il nostro mare è anche il loro: mare nostrum, appunto. Sull’una e sull’altra riva ci sono volti, persone, vite, anime. Basta poco – davvero poco – perché nessuno diventi un altro naufrago senza volto.
SALVATORE MAURIZIO MOSCARA
MARENOSTRO Naufraghi senza volto