O. Zanon - M. Tuggia
dorsetto 5 mm
Ombretta Zanon, psicologa e psicoterapeuta familiare, dottore di ricerca in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione, è consulente e formatrice nei servizi di educazione e cura a favore di bambini, adolescenti e famiglie. È docente presso SUPSI (Scuola Universitaria Professionale Svizzera Italiana) e collabora con l’Università di Padova.
NON SOLO PAROLE PER IMPARARE
Formarsi nelle professioni sociali con film e attività autobiografiche
NON SOLO PAROLE PER IMPARARE
Negli ultimi decenni la metodologia narrativa, intesa come setting favorevole per raccontare, ascoltare e manipolare storie, ha assunto un ruolo privilegiato all’interno dei percorsi formativi in contesti professionali, in cui la finalità prioritaria è lo sviluppo della dimensione autoriflessiva e la riqualificazione delle competenze operative. Questo libro propone suggerimenti metodologici e attivazioni esemplificative in chiave narrativa che possono essere rielaborati e ampliati da chi ha il ruolo di gestire eventi formativi a favore di operatori dei servizi della cura. In queste pagine si fa riferimento a narrazioni che appartengono a due delle categorie di mediatori di apprendimento (racconti tratti dall’autobiografia professionale e da film), perché considerate particolarmente innovative ed efficaci. Tra le tecniche di narrazione più diffusamente utilizzate c’è infatti quella che utilizza il cinema quale mediatore estremamente efficace, dal momento che i film possono rivestire una importante valenza pedagogica. A conferma dell’efficacia del medium cinematografico nella formazione con gli adulti, studi ed esperienze dimostrano che la funzione del cinema come fonte di apprendimento è riconducibile, in primo luogo, alla sua capacità di sollecitare i formandi ad entrare nelle “vite degli altri”, con la posizione di sicurezza e giusta distanza però che la virtualità del racconto filmico garantisce, per quanto verosimigliante. Vengono quindi proposte storie con linguaggi multimediali diversi e una serie di attività che sollecitano anche il racconto da parte dei professionisti in formazione di esperienze simili – per tonalità emotiva, intensità cognitiva e implicazioni concrete – a quelle che potrebbero sperimentare le famiglie che vengono incontrate quotidianamente nei servizi.
Ombretta Zanon Marco Tuggia
Marco Tuggia, pedagogista, svolge attività di formazione, consulenza e supervisione pedagogica per servizi sociali ed educativi dell’Ente Pubblico e del Terzo Settore. Collabora con l’Università di Padova. È co-fondatore di DEDU|Digital EDUcation. Con la meridiana ha pubblicato L’educatore geografo dell’umano (2020). In copertina disegno di Fabio Magnasciutti
ISBN 978-88-6153-408-7
Euro 15,00 (I.i.)
edizioni la meridiana p a r t e n z e
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Indice
Introduzione Dialogo tra narrazione e formazione
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Parte Prima Imparare con i film Il linguaggio cinematografico Attività 1. Aspetti del funzionamento familiare e componenti della genitorialità 2. Le famiglie di fronte a cambiamenti e a condizioni di vulnerabilità 3. Processi di accompagnamento di una famiglia che vive in situazione di vulnerabilità
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Parte Seconda Pratiche di narrazione autobiografica Imparare con se stessi di Marco Tuggia Attività 1. “Guide e ciechi”: ribaltamenti di fiducia 2. “Fortunatamente”: lo sguardo “positivo” come nuova narrazione 3. “Grande come il foglio”: ascolto, negoziazione, creatività 4. “Oltre”: metariflessione Bibliografia
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Introduzione
Scopo dell’insegnamento non è produrre apprendimento, ma produrre condizioni di apprendimento.1
Un altro libro sulla formazione degli adulti? Ma ce n’è veramente bisogno, con la vastità della manualistica già presente che propone un repertorio pressoché infinito di tecniche, esercizi e attivazioni da utilizzare in percorsi formativi nei contesti professionali? Sono domande che, come autori e soprattutto come formatori, ci siamo posti e su cui abbiamo a lungo riflettuto, per arrivare alla fine a concordare sulla possibile utilità di questo testo, che cerca di guardare alle pratiche formative secondo uno specifico sguardo metodologico. Sono due, infatti, fondamentalmente i fattori che entrano in gioco nella formazione e che ci hanno suggerito di trasformare l’esperienza sul campo prima di tutto in apprendimenti per noi e poi in una proposta di materiali e attività, sui quali pensiamo sia opportuno ancora teorizzare nuovi saperi pratici e sviluppare ulteriori proposte operative: • il setting formativo qui evocato riguarda la partecipazione di operatori di servizi alla persona (assistenti sociali, educatori, psicologi, 1. Malaguzzi, 1971, p. 19.
insegnanti, ecc.) che incontrano con regolarità bambini e famiglie2 in interventi sociali, clinici, educativi e scolastici nell’area della promozione, prevenzione e protezione; • i contenuti della formazione fanno riferimento principalmente ai temi dell’accompagnamento dei compiti di sviluppo nel ciclo di vita di un sistema familiare, della vulnerabilità familiare, della negligenza parentale e della promozione di una genitorialità positiva per la risposta ai bisogni evolutivi e ai diritti dell’infanzia in prospettiva partecipata e inclusiva, di cui i servizi – ma anche l’intera comunità sociale – sono corresponsabili. Un approccio teorico-pratico fondato sulle risorse e sul protagonismo delle persone si rivela infatti, in base agli studi e all’esperienza sul campo, maggiormente efficace sia per quanto riguarda gli esiti trasformativi, sia per il livello di soddisfazione e benessere di tutti gli attori coinvolti (famiglie e operatori). D’altra parte, questa impostazione relazionale e metodologica richiede da parte dei servizi di cura responsabili di bambini e famiglie, oltre a un’adesione ai principi di base, anche una declinazione concreta, sicuramente ancora da consolidare, in atteggiamenti e pratiche che si fondino su una visione multidimensionale, ecologica e quindi benevola, ma non per questo giustificazionista delle situazioni di vulnerabilità e dei relativi fattori di rischio e di protezione che si incontrano come professionisti dei servizi, anch’essi caratterizzati come gli stessi sistemi familiari – e talvolta anche di più – da fragilità, incertezze e risorse. E dopo anni di formazione con operatori, ci sembra di poter confermare che le modalità 2. Se non diversamente specificato, con la parola “bambino” si fa riferimento alla fascia d’età 0-18 anni, secondo le denominazioni contenute nella documentazione internazionale a favore dell’infanzia. Con il termine “famiglia” si intende la pluralità di configurazioni relazionali formate dalle figure genitoriali e da altre persone affettivamente significative per un bambino, anche non conviventi. Inoltre, solo per comodità di lettura, la declinazione del linguaggio al maschile è comprensiva di entrambi i generi.
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prevalentemente frontali di accrescimento della conoscenza, anche se talvolta possono apparire funzionali a una diffusione veloce e sembrare gradite agli stessi partecipanti per il basso livello di esposizione che richiedono, generano processi di perturbazione di persone e servizi che a medio e lungo termine si dimostrano superficiali ed effimeri: solo il cambiamento delle premesse sottostanti all’agire è preludio di una reale modificazione dell’agire stesso, processo questo che richiede necessariamente in formazione un tempo più lungo e un’implicazione diretta con un certo grado di immersività. Da questi presupposti potrebbero nascere per i responsabili della formazione alcune domande: dovremmo allora rinunciare alla presentazione di contenuti teorici e di indicazioni metodologiche precise in favore di modalità completamente interattive di scambio di esperienze tra i partecipanti? Quale spazio giocano nella formazione il sapere e il saper essere se la priorità prevalente o esclusiva viene assegnata al sapere fare? Quale ruolo e utilità assume in questo caso il formatore? E soprattutto: in quale modo si facilita per i formandi l’attivazione di movimenti autenticamente tras-formativi di pensieri e azioni? In realtà, anche in un approccio attivo ed esperienziale nella formazione non si tratta di eliminare l’ampliamento della conoscenza teorica, scientificamente aggiornata, possibilmente legata agli esiti della ricerca e indispensabile per qualsiasi innovazione prassica, quanto di coniugarla con l’analisi riflessiva dell’agire e soprattutto di trovare un “formato” (vale a dire tecniche e strumenti) che risulti accattivante per i partecipanti e favorisca la narrazione della propria esperienza e il loro ingaggio emotivo e cognitivo in una maniera confortevole, anche se non troppo “comoda” e confermativa di habitus mentali e concreti. I mediatori che si rivelano maggiormente efficaci nella formazione, affinché le persone sentano di poter raccontare e ripensare le loro pratiche professionali in una posizione di sicurezza psicologica e attingendo nel farlo alle cornici epi8
stemologiche più profonde e implicite, formate da significati, intenzioni e valori, appartengono indubbiamente alla categoria delle storie, quelle già scritte e ascoltate e quelle narrate: le proprie, quindi, che risuonano e si costruiscono nell’incontro con le famiglie, e quelle presentate tramite strumenti narrativi simbolici e metaforici, come i film, i libri, le immagini, le fotografie, i giochi e altre attività multisensoriali che includano un pluriverso di codici e riferimenti culturali. In questo modo si attiva e si sviluppa con finalità trasformative nei partecipanti uno “sguardo estetico”, inteso come “la capacità di una narrazione iconica di meravigliare, sorprendere, emozionare, sedurre, nutrire, educare lo sguardo e la mente del lettore”3 e come dimensione sostanziale della relazione di cura. Le potenzialità di queste strategie formative di innescare un apprendimento autentico, di cui i formandi sono gli autori e che è tale perché va a modificare le idee sottese ai loro comportamenti, si possono ricondurre all’opportunità supplementare che le storie mettono a disposizione di entrare in contatto in maniera indiretta – e quindi percepita come protetta – con scenari, anche se non reali, per molti versi simili ai propri vissuti. Si abbassa in questo modo il bisogno dei partecipanti di attivare meccanismi difensivi per preservare una “buona” immagine di sé e la disponibilità ad addentrarsi, in maniera però graduale e personalizzata, nel territorio dell’autovalutazione critica e della revisione del proprio agire professionale. Guardare in una situazione formativa delle sequenze di film, magari di animazione come proponiamo in questo libro (I Croods), partecipare ad attività che chiedono di mettersi in gioco nella propria dimensione personale oltre che professionale (attività autobiografiche) significa allora essere invitati ad accogliere da una “distanza di sicurezza” la possibile similitudine tra le vicende narrate e la propria esperienza presente e futura 3. Dallari, 2013, p. 96.
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e a farla riecheggiare con la libertà di svelarne codici e significati personali, prima da soli e poi grazie allo sguardo multiprospettico nel gruppo dei colleghi. In questa pubblicazione viene descritto il possibile impiego nella formazione di un film d’animazione e di attività autobiografiche per approfondire le tematiche relative alla genitorialità, alla vulnerabilità familiare e agli sguardi e pratiche degli operatori nei processi di accompagnamento delle persone e delle famiglie. Questo libro non ha la pretesa di essere un manuale di attività direttamente spendibili, ma intende proporre a professionisti e studenti dei suggerimenti metodologici e delle attivazioni esemplificative in chiave narrativa che possono essere rielaborati e ampliati da chi ha il ruolo di gestire eventi formativi a favore di operatori dei servizi della cura. Il testo potrebbe essere utile anche per chi voglia intraprendere o ampliare un percorso di autoformazione attraverso dei codici divergenti rispetto alla sola parola: l’apprendimento reale, che incide cioè sul nostro modo di pensare e di vivere, passa infatti anche (forse soprattutto) da strade insolite, apparentemente non logiche, che contano sulla disponibilità alla sorpresa e allo spiazzamento, toccando la pancia, il cuore e la testa insieme nel processo di evoluzione personale e professionale. Per la scrittura di questo lavoro siamo grati agli operatori e colleghi incontrati in molteplici occasioni e, indirettamente, anche a tutte le persone e famiglie che ci hanno insegnato che formarsi significa dare una nuova forma ai propri pensieri, al proprio sentire, al proprio modo di stare con sé e con gli altri nel mondo.
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Dialogo tra narrazione e formazione
Decine di migliaia di anni fa, quando la mente umana era giovane e i nostri progenitori ancora poco numerosi, ci raccontavamo storie. E ora, decine di migliaia di anni dopo, […] la maggior parte di noi ancora discute energicamente sui miti all’origine delle cose e ancora ci emozioniamo per una sbalorditiva quantità di racconti di finzione che leggiamo sui libri, vediamo a teatro o sugli schermi. […] Abbiamo come specie una vera dipendenza dalle storie.4
Il paradigma narrativo come strumento di conoscenza Anche se la narrazione ha radici profonde nella storia dell’umanità e nelle diverse tradizioni culturali, una sua più solida sistematizzazione teorica ha preso forma solo nel Novecento con il cosiddetto paradigma narrativo. Tale approccio si è progressivamente sviluppato in diversi ambiti disciplinari, dalla pedagogia, alla psicologia, fino alla medicina, senza inizialmente sviluppare delle forme di dialogo e complementarità tra le distinte aree del sapere5. 4. Gottschall, 2014, p. 10. 5. Bruner, 1986, 2006; Calabrese, 2018; Demetrio, 1996, 2003; Gottshall, 2014; Jedlowski, 2022; Smorti, 2018, 2022.
Nell’ambito della psicologia culturale, Bruner ha per primo teorizzato esplicitamente la dimensione narrativa del pensiero umano, proponendo la tesi che esistano due tipi di funzionamento cognitivo, ognuno dei quali si avvale di una modalità specifica per ordinare l’esperienza e per costruire la conoscenza soggettiva e sociale: a) il pensiero paradigmatico o logico-scientifico, che nel rapporto con la realtà “persegue l’ideale di un sistema descrittivo ed esplicativo formale e matematico”6; b) il pensiero narrativo, “il cui intento è quello di situare l’esperienza nel tempo e nello spazio”7 e quindi di comprenderla con più chiarezza e di poterla poi scambiare con altri, condividendo e soprattutto co-costruendo nella comunicazione significati, principi e valori. La nostra mente, a partire dall’infanzia, ha bisogno quindi di tradurre e governare l’esperienza sotto forma di narrazioni, attraverso le quali si impara gradualmente a ricostruire gli eventi in una sequenza cronologicamente ordinata e secondo delle connessioni di causaeffetto: “L’uomo osserva il mondo in forma narrativa per potergli assegnare un ordine e una esplicabilità razionale che altrimenti non possiederebbe”8. La narrazione ricopre quindi, prima di tutto, la funzione di aiutare la persona a capire e a orientarsi nella realtà attraverso l’utilizzo di schemi ricorrenti che raccolgono le informazioni e ne permettono il riutilizzo, prima nell’elaborazione personale e poi nella comunicazione con altri: Raccontare storie è il nostro strumento per venire a patti con le sorprese e le stranezze della condizione umana, come pure con la nostra imperfetta comprensione di questa condizione. Le storie rendono l’inaspettato meno sorpren6. Bruner, 1986, p. 15. 7. Ivi, p. 17. 8. Ivi, p. 15.
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dente, meno arcano: addomesticano l’imprevisto, gli danno un’aura di ordinarietà9.
Recentemente, nell’ambito delle neuroscienze, è stato inoltre possibile “fotografare” con tecniche di imaging il modo in cui, quando osserviamo qualcosa, lo raccontiamo, ne ascoltiamo il resoconto e lo classifichiamo sulla base di un modello derivato da vissuti simili registrati nella memoria: ogni nuova esperienza viene quindi valutata sulla base della sua conformità o meno rispetto a uno schema narrativo precedente. Spingendo all’estremo questo modello di funzionamento della percezione e della conoscenza introdotto da Bruner, potremmo affermare che noi “pensiamo per storie” e che non ci sono oggettivamente narrazioni, ma soggettivamente “pensieri narrativi”10. Anche se è stato successivamente messo in evidenza come la rigida distinzione binaria tra pensiero paradigmatico e pensiero narrativo rischi di incrementare la distanza, tuttora presente, tra discipline di area umanistica e di area scientifica, Bruner ha avuto l’indubbio merito di avviare l’attenzione sullo storytelling e sulle sue potenzialità psicologiche e pedagogiche11. Jedlowski evidenzia a questo proposito il ruolo evolutivo per la persona della narrazione autobiografica, il cui esercizio crea le condizioni perché non solo ci si possa adattare alla realtà, che si fa più intellegibile grazie al racconto, ma anche assumere una posizione consapevole e proattiva per la propria vita: “Innanzitutto, dare un nome alle cose, organizzarne la conoscenza entro una grammatica e una sintassi è di per sé un modo per appropriarsene, inserendo il vissuto entro un sistema di coordinate condivise con altri”12. Il racconto e l’ascolto reciproco di storie assumono di conseguenza una valenza realmente formativa e di apprendimento esistenziale, in quanto chi racconta si trova a verificare la validi9. Bruner, 2006, p. 49. 10. Calabrese, 2010, p. 14. 11. Alastra, Batini, 2015; Kaneklin, Scaratti, 1998; Knowles, 1996. 12. Jedlowski, 2008, p. 5.
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tà e completezza della prospettiva attraverso cui guarda e ricostruisce eventi ed emozioni. Ricoeur individua nella capacità di raccontare e di raccontarsi l’ambito privilegiato di intersezione tra l’azione, il linguaggio e l’etica. Secondo l’autore, infatti, nel rapporto tra “essere” e “voler essere” tipico del processo narrativo si inserisce una disposizione inevitabilmente anche ermeneutica, valutativa e morale, rispetto a quello che è successo: “[…] la funzione dell’ascolto non è mai neutra, ma contribuisce ad aggiungere un’interpretazione (un punto di vista) alla narrazione, la quale […] è già interpretazione, ovvero poiesis volta alla riconquista di sé”13. Ulteriori approfondimenti teorici14 hanno sostenuto come l’espressione e lo sviluppo della competenza narrativa includano una gamma di funzioni a livello individuale e intersoggettivo che sono profondamente implicate nei processi di apprendimento, dal momento che concorrono a: • • •
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fornire una struttura ed esercitare un controllo sul reale; mettere a disposizione un’interpretazione della realtà e costruire previsioni che diventano una guida per l’azione; produrre senso rispetto agli eventi, al proprio passato, presente e futuro, riconoscendo la parzialità e provvisorietà di questo processo fenomenologico e imparando ad assumere una posizione di disponibilità a rispettare e negoziare le attribuzioni di significato di altri; rinforzare la propria identità personale, sociale e professionale.
La narrazione svolge quindi un ruolo vitale nelle relazioni e nella costruzione sociale della conoscenza, dal momento che il resoconto di azioni e vicende viene generalmente organizzato secondo degli schemi (script), in gran parte convenzio13. Ricoeur, 1994, pp. 214-215. 14. Batini, Giusti, 2009.
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nali per un certo contesto socioculturale e che rispettano prima di tutto il criterio di plausibilità per gli interlocutori di quanto viene raccontato. Da tali premesse deriva che la trasformazione dell’esperienza in storie raccontabili può diventare uno strumento efficace e privilegiato per innescare processi riflessivi in un ambiente formativo in cui l’obiettivo sia trattare e qualificare le pratiche professionali.
La narrazione come metodo di formazione Le tecniche di narrazione sono oramai diffusamente considerate in terapia e in educazione come una modalità privilegiata con cui le persone possono essere aiutate a rielaborare la propria esperienza, collocando gli eventi biografici in una trama che può essere condivisa con sé e con altri, ma che soprattutto può essere de-strutturata e ri-strutturata in base a bisogni, obiettivi e cambiamenti in vista di maggiore competenza e benessere. Le pratiche narrative favoriscono in questo senso la cura di sé, della propria mente e della coscienza autobiografica15, intesa come capacità di pensare se stessi e la propria vita sotto forma di un racconto, che è in parte retrospettivamente dato, ma che è anche provvisorio e prospettivamente rivedibile16. Ritrovando nelle pieghe del racconto prodotto dei dettagli e delle risorse fino a quel momento invisibili (non sapendo di sapere), si generano sguardi inediti e multiprospettici sui propri vissuti, che si fanno in questo modo più sostenibili, e si può riavviare la traiettoria biografica se è momentaneamente cristallizzata per fatiche, ferite, insuccessi, come le teorie della resilienza ci insegnano17. 15. Mortari, 2013. 16. Smorti, 2018. 17. Castelli, 2015; De Leo, Dighera, 2005.
Nei contesti di formazione con professionisti dei servizi che si prendono cura di bambini e famiglie, le concezioni di “funzionamento familiare”, “vulnerabilità”, “genitorialità” e “negligenza parentale” – che sono i contenuti dei percorsi formativi illustrati in questo testo – assumono un ruolo centrale come oggetto di conoscenza e di analisi condivisa. Tali visioni stanno infatti alla base, in maniera spesso implicita ma non per questo meno incisiva, delle scelte operative dei professionisti nei processi di accompagnamento delle famiglie e, in particolare, dell’aiuto alle figure genitoriali nell’accudimento dei figli attraverso interventi socioeducativi e psicologici in situazioni ordinarie (promozione e prevenzione primaria) e in condizioni contrassegnate da fragilità (prevenzione secondaria e tutela), per interventi di preservation families (protezione dei legami familiari) e di re-unification families (mantenimento dei legami familiari, nel massimo grado possibile anche nelle situazioni di temporanea separazione tra figli e genitori). Un sapere forte, dichiarato e scientificamente giustificato permette infatti di: a) “vedere” di più e diversamente nella fase di analisi di un fenomeno e quindi avere una comprensione maggiormente approfondita e globale della situazione familiare che si ha la responsabilità di affiancare; b) rinforzare il saper essere e il saper fare professionale attraverso la chiarezza delle motivazioni del proprio agire, rendendo così ulteriormente solidi e trasparenti i processi di progettazione, intervento e valutazione a favore delle famiglie, in particolare qualora si presentino, inevitabilmente, degli imprevisti e delle criticità. Queste cornici teoriche possono essere efficacemente richiamate e approfondite nella formazione con i professionisti dei servizi alla persona attraverso delle presentazioni frontali, vale a dire delle brevi “lezioni” da parte dei relatori, NON SOLO PAROLE PER IMPARARE
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cui possono seguire domande e chiarimenti da parte dei partecipanti o delle esercitazioni per individuare o sperimentare virtualmente le possibili applicazioni operative dei concetti affrontati. Secondo l’approccio narrativo qui adottato, questo obiettivo di apprendimento è perseguibile più incisivamente con una modalità divergente, partecipata e plurale, vale a dire con l’utilizzo di diverse tipologie di narrazioni e di linguaggi con cui esse trovano simbolicamente forma18. Le “storie” diventano così una lente alternativa con cui accostarsi al medesimo oggetto di apprendimento: Il mondo si può guardare ad altezza d’uomo, ma anche dall’alto di una nuvola. Nella realtà si può entrare dalla porta principale o infilarvisi da un finestrino. Con le storie e i procedimenti fantastici per produrle noi aiutiamo i bambini ad entrare nella realtà dalla finestra, anziché dalla porta19.
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cipanti una conversione dello sguardo, che si fa di-vergente (e quindi anche di-vertente), potremmo dire laterale e “obliquo”21, riuscendo a vedere di più e meglio rispetto a una sola visione frontale. Le narrazioni proposte e autoprodotte possono diventare, di conseguenza, una matrice individuale e sociale di cambiamento, grazie alle attività successive di riflessione e rielaborazione cognitiva che vengono proposte dal formatore: L’esperienza intersoggettiva della narrazione è capace, più di altre pratiche di relazione educativa, di attivare – fra i partecipanti a questo setting singolare e privilegiato – uno degli aspetti più intensi della cura: quello dell’entropatia (termine al quale molti autori preferiscono quello di empatia), in cui i contenuti carichi di elementi emozionali vengono condivisi e, pur nelle inevitabili differenze di vissuto (Erlebnis) fra narratore e narratario, possono trovare occasione di mediazione, di negoziazione di senso e significato rispetto agli elementi simbolici che entrano in gioco22.
Questa affermazione di Gianni Rodari è riferita all’infanzia, ma è chiaramente estendibile anche ai processi con cui viene costruita la conoscenza nel mondo adulto e che possono beneficiare dei meccanismi proiettivi che gli stimoli di tipo narrativo e metaforico inducono con facilità e con piacere, fattore quest’ultimo non secondario per motivare a decostruire le prospettive di significato precedenti e disporsi ad acquisire saperi e competenze in ottica trasformativa. Si tratta quindi di accogliere la sfida di attivare il sistema globale dell’apprendimento contaminando il linguaggio “logico” con quello “analogico” o, come sostiene Scardicchio, tenendo insieme “Logica & Fantastica”20, contrastando la tradizionale gerarchia tra canale cognitivorazionale e quello creativo-artistico, spesso ritenuto accessorio e semplicemente ricreativo, in pratica poco “serio” o non adatto per imparare. Adottando una gamma di codici multisensoriali è infatti probabile che si verifichi nei parte-
D’altra parte, le narrazioni costituiscono comunemente un importante veicolo di socializzazione organizzativa, istituzionale e culturale23, per cui le pratiche discorsive, già molto presenti in maniera più o meno intenzionale nei servizi alla persona (come confronto informale tra colleghi e sotto forma di materiali per incontri in équipe, documentazione, consulenze e supervisioni), rappresentano in questo senso un bacino di materiale riflessivo trasferibile anche alle occasioni più strutturate di apprendimento. La metodologia narrativa, intesa come setting favorevole per raccontare, ascoltare e manipolare storie, ha assunto pertanto negli ultimi decenni un ruolo privilegiato all’interno dei percorsi formativi in contesti professionali, in cui la finalità prioritaria è lo sviluppo della dimensione autoriflessiva e la riqualificazione delle competenze operative.
18. Cappa, 2016; Franza, 2016; Mottana, 2020. 19. Rodari, 2010, p. 51. 20. Scardicchio, 2017.
21. Saramago, 2006. 22. Dallari, 2013, p. 27. 23. Poggio, 2004.
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Nella prospettiva di una pedagogia narrativa, il racconto non è solamente il contenuto all’interno di una struttura didattica tradizionale che mantiene inalterati gli equilibri nella gerarchia dei saperi “tra chi forma e chi si forma”, ma diventa lo sfondo connettore di tutte le attività formative, sia principio epistemico rispetto alla forma che assume l’oggetto della conoscenza, sia orientamento di metodo nella scelta di tecniche e strumenti che consentono ai partecipanti di essere autori dei propri testi autobiografici. Anzi, come afferma Demetrio, educare è narrare o, viceversa, narrare è educare24, anche se questa equazione non è automatica: lo diventa solo qualora l’ambiente formativo garantisca sicurezza psicologica e ausili di facilitazione per lo sviluppo delle narrazioni, su cui si possono poi innestare rinnovati apprendimenti. Va ribadito quindi che, perché le opportunità narrative siano in grado di favorire trasformazioni mentali nei formandi, non è sufficiente che essi raccontino le proprie storie in una conversazione libera: se ci si limitasse a questo, insorgerebbe il rischio paradossale che il loro sguardo sulla realtà si confermi e si irrigidisca, proprio perché ha trovato forma nel resoconto e legittimità nell’ascolto condiviso. La materia autobiografica ha bisogno, infatti, del vaglio critico dell’analisi soggettiva e del confronto dialogico nel gruppo in base ai nuovi saperi acquisiti, per flessibilizzarsi in versioni più articolate, più ipotetiche, più circolari e creative25. Narrarsi non va considerata d’altra parte in formazione una disponibilità o una competenza generale e scontata, soprattutto nell’avvio dei percorsi di apprendimento: esperienze negative pregresse, timori per l’esposizione sociale e per l’uso che potrebbe essere fatto di quanto si va a esporre, vicende e nodi emotivi irrisolti, temperamento riservato dei partecipanti, fase iniziale di costituzione del gruppo in formazione e quindi diffidenze nei confronti dei compagni e del for-
matore, ecc. inibiscono o interferiscono spesso con la composizione e il libero fluire dei racconti personali. A tale scopo, si rivela efficace la presentazione iniziale di storie di altri, una sorta di ricorso temporaneo a degli Io ausiliari offerte da un libro, da un film, da immagini e fotografie, metafore e simboli, che siano reali o fantastiche. Riecheggiando il de te fabula narratur26 rispetto a un tema affrontato, le storie svolgono allora la funzione di attivare delicatamente e senza invasività dei meccanismi di identificazione con personaggi e circostanze, che permettono e stimolano la presa di contatto con echi emotivi, ricordi di episodi, pensieri, opinioni e domande personali. Sono sempre infatti i destinatari, e non gli autori, a costruire attivamente il testo delle narrazioni, anche se solo ascoltate, nei termini di percezione di assonanze o discordanze con quanto è già da loro vissuto, conosciuto e ritenuto valido e attendibile: “Un autore scrive delle parole, che però sono inerti. Per essere portate in vita hanno bisogno di un catalizzatore, e il catalizzatore è l’immaginazione del lettore”27. Gli elementi dello stimolo narrativo “di riscaldamento” in un incontro formativo assumono allora la forma di un “pre-testo” all’interno di uno specifico “con-testo” formativo mentale e relazionale, contribuendo a creare nuovi “testi” nel sistema di significati e comportamenti dei singoli partecipanti e poi nei sistemi relazionali e operativi di cui fanno parte.
24. Demetrio, 2012; Franza, 2018. 25. Crispoldi, 2021; Taylor, White, 2004; Zanon, 2016.
26. Eco, 1979. 27. Gottschall, 2014, p. 12.
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Parte Pratiche di narrazione Seconda autobiografica
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Imparare con se stessi di Marco Tuggia
La sfera di ciò che pensiamo e che facciamo è limitata da ciò che non riusciamo a notare. E siccome non riusciamo a notare che non riusciamo a notare c’è poco da fare per cambiare finché non notiamo come il non riuscire a notare modelli i nostri pensieri e le nostre azioni.166
Autobiografia e formazione: appunti dalla teoria Le pratiche di narrazione autobiografica sono uno strumento oramai conosciuto e consolidato anche tra i professionisti che lavorano nel sociale167, spesso utilizzate sia come un ausilio per prendersi cura di sé e della propria biografia, sia come un metodo per la rielaborazione delle esperienze vissute anche nei contesti di lavoro. Quello che qui proponiamo è un’applicazione di tecniche narrative all’interno di setting formativi e, in particolare, in una declinazione metodologica forse fino ad ora poco esplorata, che 166. Laing, 1970. 167. Demetrio, 1996.
prevede la possibilità da parte dei professionisti di sperimentare su di sé quello che in seguito potrebbero chiedere alle persone con cui si trovano a intervenire. L’opportunità di narrare queste esperienze biografiche profondamente intime, in presa diretta e in un contesto protetto come quello formativo, ha come obiettivo lo sviluppo di una maggiore sensibilità e consapevolezza nei confronti di ciò che i propri “utenti” o “pazienti” o “educandi” potrebbero sentire e pensare. L’operatore coinvolto in questi percorsi formativi ha la preziosa possibilità di utilizzare l’elaborazione di queste esperienze sia a livello personale, sia a livello gruppale come fonti di orientamento utili a realizzare i futuri interventi in maniera più attenta e rispettosa dei vissuti delle persone e dei loro ritmi di vita, ma anche con maggiore efficacia. Non si tratta semplicemente di mettersi nei panni di qualcuno o far finta di essere qualcuno, esperienze che in campo formativo sono favorite da altre tecniche, come ad esempio il role playing o il fishball168. La novità sta nel fatto che, nello spazio formativo, all’operatore è chiesto di essere se stesso fuori dal ruolo professionale, di sperimentare direttamente su di sé strumenti o dinamiche e, successivamente, attraverso momenti dedicati al debriefing, apprendere a utilizzare le proprie e altrui comprensioni cognitive, emotive e pratiche, derivanti dall’esperienza compiuta, come mappe per orientarsi nei suoi diversi ambiti di intervento dei servizi cui appartiene. In sintesi, possiamo dire che l’utilizzo della narrazione dell’esperienza biografica all’interno di un contesto formativo con e tra professionisti permette di perseguire tre principali obiettivi: 1. raggiungere un miglior livello di conoscenza di sé sia a livello emotivo che cognitivo, imparando a maneggiare con consapevolezza le proprie emozioni, i propri costrutti personali, i propri limiti cognitivi; 168. Jelfs, 1986; Euli, 2004.
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2. sviluppare una maggiore comprensione empatica del punto di vista dell’altro; 3. comprendere l’importanza di esercitare costantemente una vigilanza critica verso l’impatto che le pratiche di intervento sociale e educativo possono avere sulle persone di cui ci si sta prendendo cura. Parafrasando il tutto, potremmo dire che questo approccio alla narrazione autobiografica fa leva sulle due “regole auree” e universali dell’umana convivenza: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” e “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”. In chiave formativa, queste regole ci invitano non solo a imparare dall’esperienza che facciamo, ma anche a trasferire tale sapienza alle relazioni che abbiamo con le persone in qualsiasi contesto in cui le incontriamo, senza nessuna deroga. Neppure nel contesto della relazione d’aiuto professionale.
Autobiografia e formazione: appunti di metodo È opportuno precisare che in questo modo si propone una diversa accezione della pratica autobiografica, solitamente intesa come una rielaborazione di esperienze personali, in forma frequentemente scritta, da svolgersi in un tempo successivo al verificarsi di alcuni eventi e all’interno di un setting in cui la persona si ritrova a tu per tu con se stessa e con il proprio mondo interiore. Da un punto di vista metodologico, la narrazione autobiografica, nella forma che qui illustriamo, prevede infatti due fasi principali: • la sperimentazione su di sé di situazioni specifiche: i partecipanti entrano in contatto con il contenuto dell’unità formativa tramite la proposta di alcune tecniche che chiedono di viverlo in prima persona, senza la mediazione fornita 70
dall’assunzione di ruoli o da forzate immedesimazioni in ipotetici e stereotipati personaggi; • la rielaborazione dell’esperienza personale: i partecipanti si ritrovano in cerchio e danno inizio a un tempo dedicato al debriefing, che è a sua volta suddiviso in due momenti. Prima si condividono le emozioni provate nel corso dell’esperienza e le riflessioni su quanto accaduto; successivamente, il formatore chiede ai partecipanti di provare a trasferire gli elementi esperiti durante l’esercitazione nel contesto lavorativo, ponendo alcune domande, come, ad esempio: Che cosa abbiamo capito o appreso da questa esperienza da un punto di vista professionale? o Quali indicazioni possiamo ricavare da questa esperienza rispetto alle occasioni in cui interagiamo con le persone nei diversi contesti di lavoro sociale ed educativo? La narrazione autobiografica che si genera a seguito di un’esperienza personale proposta dal formatore si costruisce in e tramite il gruppo dei partecipanti al percorso formativo e via via si arricchisce e si amplia grazie all’ascolto dei contributi di ciascuno. È opportuno mettere in luce un secondo aspetto metodologico. La proposta di utilizzare la narrazione di sé in contesti formativi tra professionisti del lavoro sociale può incontrare a volte, da parte dei partecipanti, delle resistenze che meritano attenzione. Secondo la nostra esperienza, possiamo raggruppare queste forme di diffidenza in tre principali categorie, che rappresentiamo sotto forma di “frasi tipo” che in questi anni di formazione abbiamo raccolto dalla viva voce dei partecipanti. Proponiamo di seguito, per ciascuna affermazione dei professionisti, anche alcune possibili ed esemplificative risposte che i formatori potrebbero utilizzare trovandosi ad affrontare reazioni simili. 1. “Non ho voglia. Non me la sento”: il presupposto da cui partiamo e che costituisce per
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noi un principio etico è che nessuno deve mai sentirsi obbligato a svolgere qualsiasi tipo di attività proposta nel corso di una formazione. Conseguentemente, le persone che dichiarano di non voler partecipare, devono essere rassicurate sul fatto che sono pienamente libere di decidere cosa fare e che, in qualsiasi fase del lavoro, possono decidere se entrare in gioco o interrompere l’attività. D’altro canto, questa è una prima e interessante occasione per il formatore di evidenziare come, specularmente, anche le persone di cui ci si occupa nei servizi possono non avere voglia di essere seguite o non sentirsi di fare o dire quello che a loro viene chiesto da parte degli operatori. Di fronte a queste situazioni, non solo è inappropriato costringerle ad agire secondo quanto richiesto, ma il loro eventuale rifiuto non ci deve autorizzare a trarre semplicistici giudizi su una loro presunta mancanza di volontà a collaborare. Iniziare una relazione di cura rispettando le resistenze dell’altro, nelle diverse forme con cui esse si manifestano, non solo evita l’insorgere o l’irrigidirsi di resistenze difficili poi da riconfigurare, ma è anche un modo per comunicare il pieno riconoscimento del diritto e del valore di avere delle opinioni divergenti su quanto viene indicato di fare. 2. “Per me il piano personale è una cosa e il piano lavorativo è un altro. Perché devo raccontare cose della mia vita ai colleghi?”: anche in questo caso vale innanzitutto il principio del rispetto della libertà delle persone di decidere se e come partecipare all’attività formativa proposta. Il formatore può cogliere l’occasione per ricordare che le persone che incontriamo nei servizi sono spesso costrette dalle circostanze della loro vita a interagire con noi, proprio sul piano personale, sui vari aspetti della loro vita. Difficilmente esse hanno la possibilità di scegliere. D’altro canto, l’operatore nel setting protetto della formazione ha l’opportunità di
sentire su di sé quello che le persone provano sul piano personale quando interagiscono con un professionista. L’orizzonte del rispetto delle due “regole auree” sopra citate può portare alla consapevolezza che, lasciata la formazione e ritornati nel contesto lavorativo, sia meglio evitare di assumere un certo stile relazionale o di proporre alcune attività. Un’esperienza di questo tipo può inoltre suggerire di impegnarsi maggiormente o diversamente nell’individuare nuove modalità per aiutare le persone a superare i timori e le resistenze che possono nascere nel farsi accompagnare in un percorso di crescita e sviluppo personale. 3. “Un medico non deve sperimentare su di sé un farmaco per capire cosa prova il paziente o quali potrebbero essere gli effetti!”: premesso nuovamente il rispetto del suddetto principio di libertà di adesione alla proposta, il formatore può aiutare i partecipanti a prendere consapevolezza che il medico può permettersi di non provare su di sé una terapia o un farmaco per il semplice fatto che questo è già avvenuto tramite la sperimentazione su cavie animali o su umani volontari. Infatti, nei prontuari farmaceutici il medico trova già scritte tutte le indicazioni necessarie per una corretta somministrazione. Ma oltre a questo, il lavoro sociale e educativo si muove prevalentemente su un piano relazionale che, seppure importante anche nell’area medica, non ha certamente la stessa rilevanza e lo stesso impatto. La possibilità quindi per l’operatore sociale, educativo e psicologico di vivere in prima persona un’esperienza simile a quella sperimentabile dalle persone di cui ci si occupa può permettere un aumento della capacità di modulare l’intervento professionale non su una casistica astratta, ma su una specifica persona: come ci ricorda Olivetti Manoukian, è necessario un passaggio “dal sapere al saper usare il sapere”169. 169. Manoukian Olivetti, 2015, p. 180.
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Alla luce di quanto riportato, possiamo evidenziare che, dal punto di vista del metodo, l’emersione di possibili resistenze a una proposta di lavoro di questo tipo non va letta come un semplice e sgradevole intoppo che si frappone a un normale svolgimento dell’attività formativa. La modalità con cui il formatore le accoglie e se ne prende cura apre una breccia di riflessività sul fatto che l’assunzione di un ruolo professionale nel campo del lavoro socioeducativo porti con sé il rischio di generare delle scissioni170 tra l’Io personale e l’Io professionale. Se la distinzione dei due piani è senza dubbio necessaria per difendersi dalle fatiche derivanti dall’incontro con il mondo emotivo degli altri, spesso carico di dolore e sofferenza, e soprattutto per evitare meccanismi confusivi e pericolose identificazioni o collusioni, è altresì rischioso che l’utilizzo di tale distinzione si manifesti in una separazione difficilmente ricomponibile e che possa indurre ad arrogarsi il diritto di comportarsi con gli altri così come non vorremmo che nessuno mai si comportasse con noi. Una scissione dell’Io di questo tipo finisce per giustificare pratiche professionali di stampo autoritario di fronte alle quali le persone hanno il “diritto” di contrapporsi con gli strumenti a loro disposizione, condizionate dalla loro disperazione e impotenza.
1. “Guide e ciechi”: ribaltamenti di fiducia
Presentiamo ora quattro proposte di esercizi di narrazione autobiografica che abbiamo sperimentato in diversi contesti formativi e che hanno dimostrato la loro efficacia rispetto al raggiungimento dei rispettivi obiettivi. Questi verranno descritti dal punto di vista del formatore che può accingersi a utilizzarli nella sua pratica professio-
La prima proposta di esercitazione autobiografica consiste nell’utilizzo di una tecnica abbastanza diffusa in diversi ambiti formativi chiamata “Guide e ciechi” (o “Camminata cieca”), appositamente rivisitata per essere applicata in contesti formativi con operatori sociali. Uno dei principali obiettivi della tecnica è solitamente quello di favorire lo sviluppo della fiducia tra i membri di un gruppo che si sta costituendo oppure, nel caso di un gruppo già esistente, che sta attraversando un momento di difficoltà o desideri evolvere verso una maggiore interdipendenza e integrazione. Nel nostro caso proponiamo di usare tale tecnica con un obiettivo diverso: gli operatori sociali che lavorano con persone che si trovano in situazione di vulnerabilità, disagio, fragilità, marginalità hanno spesso il compito di costruire un progetto in cui sono declinati gli obiettivi che si vogliono raggiungere tramite l’intervento. Per formulare tale progetto, è necessario conoscere in maniera più ampia possibile la condizione globale della persona, compiendo quella che viene definita un’analisi della situazione171. Da tempo oramai la lettura e la ricerca in questo campo hanno sottolineato quanto sia importante che tale conoscenza non sia frutto solo dell’osservazione e della valutazione unidirezionale del professionista, ma sia l’esito di un percorso di co-costruzione con le stesse persone che ne sono protagoniste. Il professionista, quindi, è impegnato a creare le condizio-
170. Ibidem.
171. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2017; Tuggia, 2020.
Mettersi in gioco e giocare: alcune proposte
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nale. Non si tratta però di indicazioni metodologiche che devono essere applicate in modo rigido, in quanto esse prefigurano solo un possibile scenario che va poi interpretato e personalizzato dal formatore, congruentemente con il suo stile e soprattutto con il contesto dove si trova a operare.
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ni e offrire strumenti affinché esse si raccontino, portino il loro punto di vista, diano voce alla loro storia, problemi e desideri. Ma questo comporta che il professionista si “fidi” del loro racconto, si lasci guidare dalle loro narrazioni; disposto anche a “perdersi” in esse172, a seguire piste sconosciute che vanno ben oltre ciò che con le sue lenti professionali sarebbe in grado cogliere. La tecnica che proponiamo offre quindi ai partecipanti la possibilità di vivere un percorso attraverso il quale prendere contatto con le proprie resistenze e fatiche, per assumere una postura professionale che richiede, in un’ottica rovesciata, di lasciarsi condurre da chi dovrebbe, a rigor di logica professionale, essere condotto. Vediamo ora le varie tappe in cui si snoda la tecnica. Briefing
Il formatore divide il gruppo dei partecipanti in due sottogruppi: al primo assegnerà il ruolo di guide e al secondo il ruolo di ciechi. Chiede poi di costruire liberamente delle coppie formate rispettivamente da una guida e da un cieco e consegna a ciascuna di esse una benda di stoffa. Invita poi ogni guida a bendare il proprio partner. Vengono infine date alcune indicazioni introduttive: • scopo dell’attività è quello di accompagnare i ciechi a esplorare e conoscere l’ambiente in cui ci si trova, offrendo loro l’occasione di utilizzare in modo particolare alcuni sensi, ossia il tatto, l’udito e l’olfatto; • guide e ciechi non possono comunicare tra loro tramite la parola, ma solo con il contatto: l’invito è quello di rimanere in silenzio, accompagnati dal suono di una musica; • le guide hanno il compito di far vivere ai ciechi una piacevole esperienza e pertanto devono scegliere con cura il tipo di esplorazione (dove 172. Passig, Scholz, 2011; Prandin, Di Nardo, 2020.
condurre il cieco, quali oggetti e persone fargli incontrare) e al contempo prestare attenzione a evitare che il cieco si possa trovare in una situazione di potenziale pericolo. Attività
Comunicate queste consegne, il formatore avvia la musica scelta e invita le guide a iniziare l’accompagnamento dei ciechi nell’esplorazione dell’ambiente. Dopo un tempo che varia dai 5 ai 10 minuti, chiede alle guide di fermarsi, lasciare il proprio cieco nel punto in cui si trova in quel momento, affiancarsi a un altro cieco e iniziare un nuovo accompagnamento esplorativo. Il formatore, dopo altri 5 minuti circa, invita le guide a riportare i ciechi al centro della stanza. Quando tutte le coppie sono arrivate nel luogo stabilito, le guide sono invitate a sbendare i ciechi. A questo punto, il formatore propone uno scambio di ruoli: tutte le guide ora diventano dei ciechi e viceversa. Ricomincia il percorso nelle medesime modalità descritte. Debriefing
A conclusione dell’attività e ricostruito il cerchio con i partecipanti, il formatore propone di avviare un confronto a partire da alcune domande stimolo, come ad esempio: • Come vi siete sentiti nel ruolo di guida? Quando avete sostituito il vostro compagno cieco con un altro, avete notato delle differenze nella vostra modalità di accompagnarlo? Avete notato delle differenze nella disponibilità del cieco nel farsi condurre da voi? • E come vi siete sentiti invece nei panni del cieco? Che cosa avete provato quando siete stati lasciati (“abbandonati”) dalla vostra guida e NON SOLO PAROLE PER IMPARARE
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siete rimasti in attesa che qualcuno vi venisse a prendere? Quali differenze avete sperimentato nelle diverse modalità di essere accompagnati?
Si è giunti così a una nuova fase cruciale in cui il gruppo può accettare che il formatore proponga un ribaltamento di prospettiva:
Il formatore facilita la libera espressione riformulando e verbalizzando contenuti ed emozioni che via via emergono dai partecipanti: piacere e fatica, rilassamento e tensione, divertimento e preoccupazione si intrecciano nelle loro comunicazioni. Prese di contatto con se stessi si confrontano con anonime esecuzioni di un compito dato. Suoni, odori, contatti inaspettati e sorprendenti si scontrano con rigidità sensoriali. Progressivamente si aprono domande su di sé. Qualcuno inizia a interrogarsi sul proprio modo di vivere la professione sociale. È il momento in cui il formatore può percepire che il gruppo è pronto a connettere l’esperienza vissuta nel qui e ora con l’esercizio del proprio lavoro. È possibile allora porre un nuovo quesito:
Provate ora a immaginare che le guide rappresentino le persone che voi incontrate nei vostri servizi e che i ciechi invece siate voi operatori: cosa vi suggerisce questa diversa prospettiva?
Che cosa avete capito da questa esperienza per quanto riguarda la vostra attività professionale? In questa seconda fase del confronto, i partecipanti condividono le proprie riflessioni, che solitamente hanno in comune un’interpretazione prevalente dell’esercitazione: le guide simboleggiano gli operatori sociali e i ciechi sono i “destinatari” dei loro interventi, coloro che devono cioè essere aiutati a superare le difficoltà che stanno attraversando nella loro vita fidandosi della conduzione degli operatori. Si susseguono così riflessioni sull’importanza della cura della relazione, sul rispetto dei tempi e delle comprensioni dell’altro, sull’attenzione a non spingere l’altro verso direzioni predefinite dall’operatore, sulla necessità di imparare a prendere il passo, seppur incerto o claudicante, dell’altro, sulla capacità di sentire come l’altro chiede di essere accompagnato verso un futuro tutto da esplorare. 74
In questa terza parte dello spazio dedicato al debriefing si apre un nuovo scenario, in cui emozioni e riflessioni si rendono a volte incerte, contraddittorie, dissonanti. La fatica a riconoscere, non solo a livello intellettuale, che gli “utenti” siano reali portatori di un preciso punto di vista, di un loro sapere, di una loro legittima e dignitosa “verità” e che compito della professionalità dell’operatore sia quella di abbandonare le proprie certezze, di sospendere le proprie valutazioni per lasciarsi condurre verso una conoscenza che va oltre le proprie teorie implicite ed esplicite, emerge in maniera dirompente, seppur lentamente. Il piacere del perdersi con l’altro acquisisce l’acre sapore della paura del perdersi nell’altro, dell’essere privi di orientamento, del non riuscire più a ritrovare la strada di casa. Ma è proprio questa dissonanza emotiva e cognitiva che permette, a partire dal racconto di quanto sperimentato su di sé, di iniziare a ricucire le possibili fratture createsi nel pensare che l’altro sia solo destinatario di un aiuto e non un potenziale protagonista della costruzione o ricostruzione della propria vita. Inoltrarsi in questi pensieri significa fare i conti con alcune idee profondamente radicate nel lavoro sociale e che producono importanti resistenze negli operatori, anche in questo caso da ascoltare con rispetto da parte del formatore. Ad esempio, emerge il costrutto secondo cui “è compito dell’operatore analizzare e valutare le persone che stanno vivendo una situazione di difficoltà: se si toglie tale funzione, si finisce per
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depotenziare il suo ruolo!”. Oppure, i professionisti portano l’istanza che “se gli utenti avessero le competenze per analizzare la propria situazione, non avrebbero bisogno di aiuto!”. Infine, un terzo esempio di resistenza riguarda il dubbio radicale che l’utente dica la “verità” su di sé e che il suo racconto sia “oggettivo”. Permettere l’emersione di queste riluttanze, giocare continuamente sui rovesciamenti di ruoli avvenuti nel corso delle varie fasi dell’esercizio e, soprattutto, sollecitare a ricordare e raccontare quanto sperimentato, consente agli operatori di aprire nuove visioni sul proprio ruolo professionale, di rendere possibili nuove rappresentazioni delle capacità delle persone seguite dai servizi e dell’idea stessa di verità e oggettività della conoscenza, scoprendo così spazi imprevisti per le pratiche173.
173. Alcuni albi illustrati potrebbero essere proposti durante questo modulo formativo per la loro attinenza con i temi del decentramento, dell’inversione figura-sfondo e dell’ampliamento del campo percettivo, fra cui si citano: Cornelio, Dall’altra parte, L’alfabeto del mondo, L’altro, Sembra questo sembra quello…, Zoom. I riferimenti completi degli albi sono riportati in una sezione specifica della bibliografia.
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dorsetto 5 mm
Ombretta Zanon, psicologa e psicoterapeuta familiare, dottore di ricerca in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione, è consulente e formatrice nei servizi di educazione e cura a favore di bambini, adolescenti e famiglie. È docente presso SUPSI (Scuola Universitaria Professionale Svizzera Italiana) e collabora con l’Università di Padova.
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Formarsi nelle professioni sociali con film e attività autobiografiche
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Negli ultimi decenni la metodologia narrativa, intesa come setting favorevole per raccontare, ascoltare e manipolare storie, ha assunto un ruolo privilegiato all’interno dei percorsi formativi in contesti professionali, in cui la finalità prioritaria è lo sviluppo della dimensione autoriflessiva e la riqualificazione delle competenze operative. Questo libro propone suggerimenti metodologici e attivazioni esemplificative in chiave narrativa che possono essere rielaborati e ampliati da chi ha il ruolo di gestire eventi formativi a favore di operatori dei servizi della cura. In queste pagine si fa riferimento a narrazioni che appartengono a due delle categorie di mediatori di apprendimento (racconti tratti dall’autobiografia professionale e da film), perché considerate particolarmente innovative ed efficaci. Tra le tecniche di narrazione più diffusamente utilizzate c’è infatti quella che utilizza il cinema quale mediatore estremamente efficace, dal momento che i film possono rivestire una importante valenza pedagogica. A conferma dell’efficacia del medium cinematografico nella formazione con gli adulti, studi ed esperienze dimostrano che la funzione del cinema come fonte di apprendimento è riconducibile, in primo luogo, alla sua capacità di sollecitare i formandi ad entrare nelle “vite degli altri”, con la posizione di sicurezza e giusta distanza però che la virtualità del racconto filmico garantisce, per quanto verosimigliante. Vengono quindi proposte storie con linguaggi multimediali diversi e una serie di attività che sollecitano anche il racconto da parte dei professionisti in formazione di esperienze simili – per tonalità emotiva, intensità cognitiva e implicazioni concrete – a quelle che potrebbero sperimentare le famiglie che vengono incontrate quotidianamente nei servizi.
Ombretta Zanon Marco Tuggia
Marco Tuggia, pedagogista, svolge attività di formazione, consulenza e supervisione pedagogica per servizi sociali ed educativi dell’Ente Pubblico e del Terzo Settore. Collabora con l’Università di Padova. È co-fondatore di DEDU|Digital EDUcation. Con la meridiana ha pubblicato L’educatore geografo dell’umano (2020). In copertina disegno di Fabio Magnasciutti
ISBN 978-88-6153-408-7
Euro 15,00 (I.i.)
edizioni la meridiana p a r t e n z e Partenze Cop Non solo Parole_08022024.indd Tutte le pagine
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