Daniela Manzitti
ISBN 978-88-6153-693-7
Euro 14,50 (I.i) 9 788861 536937
Daniela Manzitti
OH MÀ!
Daniela Manzitti, madre di tre figli, nasce a Torino nel 1970 da genitori immigrati dal Sud. Nonostante un’adolescenza umile e povera, riesce comunque a diplomarsi grazie all’aiuto di una coppia che decide di “assistere” la sua famiglia nella precaria situazione economica in cui versa. Alle spalle un matrimonio burrascoso, una convivenza difficile che la distrugge psicologicamente, tanto da spingerla a tentare il suicidio per ben due volte. Nel 2013 Michael, il secondogenito, incomincia il suo percorso di ragazzo difficile e lei fa di tutto per non perderlo definitivamente.
“ Odiami ragazzo mio, odiami finché vorrai… Io, al contrario, continuerò ad amarti con la stessa intensità di sempre e anche di più. Tua madre ”
OH MÀ! Storia di Michael, ragazzo difficile
Daniela Manzitti
Oh MĂ !
Storia di Michael, ragazzo difficile
edizioni la meridiana
Indice
Introduzione....................................................................... 9 L’inizio della fine............................................................. 11 “Dov’è suo figlio?”.......................................................... 17 In gabbia.......................................................................... 27 Ritorno alla normalità..................................................... 33 “Oh Pà, svegliati”............................................................ 43 Un “curriculum” da criminale........................................ 67 Il braccialetto elettronico................................................ 89 L’allontanamento..............................................................93 Sorvegliato speciale........................................................107 La fine che ancora non c’è.............................................113
Dedicato a mio figlio e a tutti quei figli che non sanno di essere l’unica ragione di vita dei propri genitori‌
Introduzione
Questo non è il classico libro... Si tratta del mio manoscritto in cui racconto un periodo della mia vita che vede protagonista mio figlio Michael... Un ragazzo “difficile” che, cresciuto per strada, aveva scelto di vivere fuori dalle regole e dal rispetto della legalità. Il mio è un racconto diretto, esplicito e senza fronzoli. È il racconto di una madre... Mi era stato proposto da più parti di scrivere un vero libro ma, insieme ai miei ricordi, alle mie emozioni, alle mie angosce, sarebbero stati aggiunti quei “fronzoli” di cui vi parlavo prima. La mano di “qualcuno” che nulla sa di noi, avrebbe dovuto dare un valore aggiunto al mio racconto. Ma come avrebbe potuto? Chiunque sarebbe stato, che ne avrebbe potuto sapere più di me? Quindi sappiate che troverete errori, ripetizioni, troverete qualche imprecisione e la punteggiatura non sempre al posto giusto. Ma i fatti no, i pianti no, questi sono tutti reali, tutti esatti. Leggerete fra le righe il mio infinito amore per i miei figli, nonostante tutto. Apprenderete la fragilità nascosta di Mike, in particolare, il suo malessere celato dietro la sua apparente “pacatezza”... Ho inserito alcune lettere estrapolate da un’assidua corrispondenza tra me e lui, tra me e suo padre e tra quest’ultimo e suo figlio. Ho dedicato a suo padre qualche pagina. Un padre assente, ma che ha amato i suoi figli a modo suo, come ha saputo fare. Un uomo che troppo presto ha lasciato questo mondo ma, prima di esalare l’ultimo respiro, ha chiesto a Dio di poter ri9
vedere e abbracciare i suoi figli, nonostante l’enorme difficoltà che c’erano per quanto riguardava Mike, al tempo detenuto... Ho incluso alcune foto del mio adorato ragazzo ripreso come tutti i giovani della sua generazione: con le loro stranezze, le loro espressioni, il loro stile. Da esse non trapela la sua “turbolenza”, bensì la sua “normalità”. Del suo “lato oscuro” vi racconto io nel testo che vi apprestate a leggere. In questo documento, come io lo definisco, parlo di Mike e dei suoi rapporti familiari, della sua trasformazione, delle sue certezze e delle sue poche paure... Descrivo il mio stato d’animo a seconda del momento, le mie brevi e rare gioie e le molte sofferenze. Scriverlo è stato per me uno “sfogo” e, allo stesso tempo, un “supplizio”: dover rivivere tanti avvenimenti drammatici ha fatto sì che il mio stato psico-fisico si indebolisse ulteriormente... Mentre lo terminavo, gli eventi sono precipitati coinvolgendo mio figlio in un’altra brutta storia, la più grave di tutte, probabilmente. Sono certa che nel leggere riuscirete a vedere e a vivere con me gli eventi che hanno portato mio figlio ad essere definito “un ragazzo difficile”... Vi emozionerete e piangerete con me; le lacrime di una madre possono scolpire la roccia più dura e quindi anche i cuori di chi non crede nell’amore incondizionato genitoriale o vi pone dei limiti: non ci sono barriere che impediscano ad una madre di donare la propria vita per i suoi figli!
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L’inizio della fine
Abitiamo in un quartiere popolare di Corato e, come in tutti i quartieri popolari, il degrado, l’abbandono, la delinquenza, lo spaccio e, non da ultima, l’ignoranza regnano sovrani. Mike, il mio secondogenito, è uno di quei ragazzi letteralmente cresciuti per strada. Io lavoravo presso il Politecnico di Bari come vigilante e spesso sceglievo il turno di notte per questioni economiche. Ciò comportava che uscissi di casa intorno alle 21.00, e rientrassi la mattina seguente alle 08.30 circa. Certo non era facile per me lasciare dei ragazzini di 14, 12 e 4 anni da soli, in casa, affidandomi solo alla preghiera affinché andasse tutto bene. Ma non potevo farne a meno. Quando rientravo la mattina dopo, il cuore mi tornava a battere. Mia figlia era molto responsabile, Mike era tranquillo e affettuoso e il piccolo cresceva con tutta l’attenzione possibile. Mike frequentava la scuola di calcio da quando aveva 7 anni e il mister non faceva altro che dirmi che era un ottimo elemento. A scuola non era certo una “cima”, ma non mi aveva mai dato problemi, infatti arrivò fino in terza media, senza alcun aiuto. Questa apparente quiete durò per qualche anno. Intanto, nel quartiere, si verificavano i “soliti” furtarelli, arresti, perquisizioni in abitazioni, come ormai eravamo abituati a vedere. Alcuni vicini di casa erano avvezzi ad entrare e uscire dal carcere e io notavo che mio figlio era spesso attratto da questi soggetti che, quando erano agli arresti domiciliari, si “servivano” 11
di lui perché andasse a comprar loro le sigarette o portasse messaggi ad altri ragazzi. Spesso Mike si fermava sotto il loro balcone per delle ore. Io gli chiedevo di evitare di sostare lì e non capivo che cosa avessero tanto da raccontarsi. Tutto proseguiva nella “normalità” anche se, col passare del tempo, gli atti di microcriminalità aumentavano giorno per giorno. D’altro canto io, se trovavo qualche lavoretto da fare anche di giorno, non esitavo ad accaparrarmelo, in quanto il mio ex non mi passava nulla e le spese non mancavano. Una mattina, rientrando dal lavoro, mi fermò una vicina dicendomi che la sera precedente c’era stato un furto in un’abitazione del quartiere. La cosa non mi stupì più di tanto, ma aggiunse anche altri episodi delinquenziali, verificatisi in zona, nell’ultimo periodo. Mio figlio cresceva e diventava sempre più irraggiungibile, cominciavo a non trovarlo più a letto quando tornavo dal lavoro. Spesso non rientrava per pranzo, il cellulare sempre spento o senza risposta e, per quel poco che lo vedevo, non mi sembrava più neanche molto lucido. Fino a quel momento non sapevo neanche cosa fosse e che odore avesse la marijuana, ma un giorno lui rientrò con gli occhi talmente rossi e barcollando che insistetti nel portarlo dal dottore fino a che mia figlia mi spiegò che quelli erano gli effetti del “fumo”. Mi sentii morire, avevo sempre detestato quella roba e chi la spacciava. Dovetti un po’ adeguarmi “per cause di forza maggiore” al fatto che lui ne facesse uso, perché da quel momento in poi divenne per lui un’abitudine e io non avevo la possibilità di impedirglielo, dovendo badare al lavoro e quindi allontanarmi per svariate ore nell’arco della giornata. I rimproveri erano quotidiani e, a volte, quando avevo il turno di riposo, trascorrevo la notte accampata in macchina, nascosta nel buio, ad aspettare che rientrasse e per vedere quali persone frequentasse. Era sempre così sereno, “allegro” e non faceva 12
altro che ripetermi: “Non ti preoccupare, me la vedo io”. Fu l’inizio della fine. Non avevo più pace, né di giorno né di notte. Spesso, andando al lavoro, percorrevo tutti i miei cinquanta chilometri piangendo, senza neanche riuscire a vedere la segnaletica stradale, tante volte rischiando di uscire di strada. Incominciavo a sentire voci di quartiere che lo definivano come l’artefice di alcuni atti criminosi come scippi e rapine. Mi rendevo conto che quel ragazzo che rientrava in casa mia per farsi una doccia o per mangiare qualcosa non era più il mio amato Mike, ma un estraneo che anteponeva il divertimento con i suoi amici, alla nostra serenità. In casa, infatti, c’era ormai soltanto depressione e sconforto che aumentavano sempre di più e non si poteva più lasciare nulla di “incustodito”: oggetti di valore, oro, piccoli gioielli, telefoni, fotocamere… tutto poteva essere usato da lui come “merce di scambio” o venduto. Una sera, mi chiamò il più piccolo dei miei figli e mi disse spaventato: “Mamma, è venuto... e si è portato via Mike in macchina”. Si trattava di un soggetto molto violento e pericoloso, conosciuto nel quartiere come uno che “spezzava le ossa”. Fui presa dal panico ma, allo stesso tempo, da una furia incontenibile. Mi precipitai sotto casa e incrociai il tizio che stava portando via mio figlio. Non ci pensai neanche un attimo, disposi la mia macchina di traverso affinché lui non potesse passare, scesi dall’auto e andai verso il suo finestrino: “Dove stai portando mio figlio?”. Mike tentò subito di tranquillizzarmi, ma avevo capito che si sarebbe trattato di un “regolamento” di conti, e continuai: “Se hai qualcosa da dire a mio figlio, digliela qui, davanti a me e fallo scendere immediatamente!”. Questo non mi guardava neanche in faccia e non proferiva parola. Mio figlio mi convinse a spostare l’auto, dicendo che, da lì a poco, sarebbe tornato. Mi rivolsi ancora una volta al guidatore e dissi: 13
“Riportami subito mio figlio e che non abbia neanche un graffio”. Così fu... Pensai addirittura di aver esagerato e di essermi sbagliata. Dopo circa un paio di mesi, mio figlio era recluso a Trani. Una sera avevo lo sguardo perso nel vuoto dalla finestra. Notai questo tizio che, però, non era solito girare in quella strada, ma non ci feci la giusta attenzione. Dopo circa 10 minuti, io ero sul divano a guardare la tv, sento gridare i miei vicini: “Daniela, Daniela, la tua macchina sta andando a fuoco!”. Mi precipitai dalle scale, pensai già all’enorme danno che ne sarebbe conseguito per le mie già precarie tasche, afferrai il tubo di gomma che avevo in giardino e, con l’aiuto di altre persone che si erano riversate in strada, riuscimmo a spegnere subito l’incendio. Praticamente quello fu il dispetto che quel tizio aveva messo in atto nei miei confronti a seguito di quell’affronto che gli avevo fatto tempo prima, approfittando dell’assenza di mio figlio. Un giorno, era ora di pranzo, sentii suonare il campanello, era mio figlio accompagnato da due individui adulti che io non conoscevo. Solo nel vedere che lo “scortavano” su per le scale, mi intimorii. Chiesi chi fossero e loro, senza neanche presentarsi, mi spiegarono che mio figlio aveva scippato una signora anziana, la loro mamma. Mi sentii così imbarazzata e in difficoltà e chiesi subito come stesse la nonnina. Questi risposero che per fortuna non si era fatta nulla, ma il valore della collana che le era stata scippata era di circa 300 euro. Non esitai un attimo, andai in camera da letto, presi i risparmi che avevo e pagai subito il debito. Mio figlio non disse neanche una parola, soltanto che appena possibile me li avrebbe restituiti. Io gli risposi che soldi da lui non ne volevo, perché non lavorava e non volevo che commettesse altre cattive azioni per ridarmeli. Lo implorai 14
solo di smetterla di fare certe cose, perché non era ciò che gli avevo insegnato e lui mi promise che non l’avrebbe più fatto... Purtroppo non fu così, la sua dipendenza era ormai arrivata ad uno stadio in cui non era più lucidamente controllabile. Al suo diciottesimo compleanno organizzammo una festicciola con i suoi amici “bene”, quelli che frequentava in tempi migliori e che aveva allontanato per dare spazio ad altri meno raccomandabili. Fu, probabilmente, l’ultima giornata che trascorremmo con ciò che rimaneva del mio caro ragazzo... da lì in poi soltanto disperazione e impotenza presero il sopravvento nel mio cuore. Dovetti arrendermi e accettare “quelle voci” così devastanti che continuavano ad arrivarmi sempre più chiare e nitide. In quel periodo erano talmente tante le rapine che venivano effettuate in zona che, arrivato il giovedì, giungeva un elicottero della polizia o carabinieri da Bari che “parcheggiava” nel campo sportivo di Corato fino al sabato. Noi abitiamo nelle vicinanze del campo ed era inevitabile sentirlo quando si alzava in volo, solitamente dopo le 19.00. Poteva essere un fatto normale, senonché, pochi minuti dopo il suo decollo, arrivava una pattuglia e mi chiedeva se mio figlio fosse in casa. Io regolarmente rispondevo: “Non c’è, è uscito e non so dove sia, perché?”. La loro risposta era: “Va bene signo’, quando viene ci faccia chiamare”. Con il “senno di poi”, capii l’utilità di quell’elicottero... A breve iniziò la serie delle prime perquisizioni. Vedere quattro/cinque poliziotti, carabinieri, che ti piombano in casa mettendo a soqquadro ciò che rimane della tua vita straziata, alle più impensabili ore del giorno e della notte, alcuni con la sensibilità del caso, altri con l’arroganza della divisa, è un’esperienza che ti ferisce, che ti umilia e ti fa capire quanto la vita sia stata ingiusta con te... con te, che stai crescendo tre figli, da sola, 15
senza un aiuto, senza aver mai fatto male a nessuno, chinando il capo e lavorando anche diciotto ore al giorno per vivere dignitosamente...
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“Dov’è suo figlio?”
Era dicembre, faceva molto freddo, mi alzai e vidi che nella sua stanzetta c’era la finestra aperta e lui dormiva. Pensai ad un colpo di vento. La mattina seguente, uguale... e così le altre successive. Chiesi a mio figlio perché dormisse con la finestra aperta, e lui mi disse che si sentiva bene così... Era una domenica mattina dei primi giorni dell’anno, precisamente le 05.15, Mike era appena salito. Suonò il campanello, era la polizia: “Signora c’è suo figlio?”, mi venne il panico, sentivo che stava per accadere qualcosa di grave, molto grave... risposi “Sì, sì, sta dormendo”. Salirono, entrarono in casa con determinazione. Erano in quattro, in borghese, tant’è vero che gli chiesi di mostrarmi i tesserini per accertarmi che fossero davvero tutori dell’ordine. Lui si era già infilato nel suo letto, ma sapeva bene cosa stesse succedendo. Entrarono nella stanzetta: “Botto’, è inutile che fai finta di dormire, alzati che ce ne andiamo”. Mio figlio rivolse subito lo sguardo verso di me; la mia sofferenza si poteva toccare con le mani e lui se ne accorse. Abbassai gli occhi affogati di lacrime ma trattenni i singhiozzi... con forza. Lui era come se li stesse aspettando. Lì mi spiegai perché dormisse da tempo con la finestra aperta... “Dobbiamo arrestare suo figlio” Mi gelò il sangue, ma non vidi in lui alcun timore; cominciò ad aprire i cassetti e a prendere la sua roba, era come se sapesse già come “procedere”. Io, come se stessi vivendo in un film, non mi rendevo conto che mio figlio potesse aver commesso ciò di cui, da tempo, si “spar17
lava”. Mentre Mike preparava le sue cose, io ero sull’uscio della stanzetta, in silenzio, senza chiedere nulla. Pensai che se avessi aperto bocca, avrei potuto metterlo in difficoltà. Non sapevo per quale reato lo stessero arrestando, nella testa avevo solo tanti “pezzi di puzzle” che si componevano... Mi chiese se avessi dei soldi da dargli e io detti tutto ciò che avevo, circa 60 euro. Lo ammanettarono e fu per me un’altra pugnalata al cuore! Finalmente raccolsi quel poco di sangue freddo che mi circolava ancora nelle vene, lo guardai negli occhi e gli dissi soltanto: “Mi raccomando Mike, non fare lite con nessuno”. Li seguii giù per le scale, volevo svegliarmi da quell’incubo... ma non stavo dormendo. Rasente il portone, c’era la Grande Punto, e mi ricordai di quante volte l’avessi vista girare nel mio quartiere, sotto casa, senza sapere che appartenesse alla pattuglia in borghese. La strada era deserta, intravvidi solo i miei vicini di casa che guardavano dalla finestra. Mentre gli chinavano il capo per farlo entrare in auto, lui si girò verso di me e disse: “Oh Mà, non ti preoccupare, salutami T... e M..., ti voglio bene”. Sapevo solo che stava per entrare in “un mondo sconosciuto”, un mondo dove le regole vanno rispettate, e non mi riferisco a quelle imposte dal direttore del carcere... Ci recammo al primo colloquio, c’era molta gente in fila ad aspettare di poter accedere in quella stanza dove si veniva identificati, si lasciavano i soldi per i detenuti e il “pacco” contenente abiti, biancheria, scarpe e derrate alimentari. Erano circa le 6.30 e faceva molto freddo. C’era gente comune, qualcuno che dava l’impressione di essere stato egli stesso carcerato, qualcun altro, invece, di aspetto normale, nonni, giovani e bambini. Ricordo di un’anziana, di esile corporatura, mi disse che aveva 84 anni e che veniva da anni 18
a trovare suo nipote, il quale non aveva altri parenti che si occupassero di lui. Ricordo che, nel raccontarmi la sua “storia”, non poté trattenere le lacrime al pensiero che, qualora lei fosse venuta a mancare, il ragazzo non avrebbe avuto altri visitatori e temeva per la sua fragilissima situazione psicologica. Si entrava a gruppi, a seconda della sezione dove il detenuto era “ospitato”. Finalmente, arrivò il nostro turno; ci fecero lasciare ogni oggetto personale negli armadietti: cinture, bracciali, orecchini, ecc., potevamo portare soltanto i fazzoletti per il naso. Attraversata una porta, c’erano due sgabuzzini, uno per la perquisizione delle donne e dei bambini, un altro per quella degli uomini. La perquisizione era meticolosa ed era persino vietato masticare gomme o caramelle. Dopo di che, attraversato un cortile, ci trovammo dinanzi ad un enorme cancello di metallo massiccio, di uno spessore di almeno 10 cm, una parete di ferro. Fu in quel momento che ebbi l’impressione che al di là di quel muro avremmo trovato un “altro mondo” e provai un’angoscia che mi percorse tutto il corpo. Mio figlio era in prigione, privato della sua preziosissima libertà, non si sapeva per quanto tempo. Oltrepassata questa barriera mostruosa, ci trovammo a dover passare attraverso un metal detector, in fondo al quale ci attendevano due pastori tedeschi, tenuti al guinzaglio da altrettante guardie penitenziarie. Molto discretamente e con serenità, questi ultimi si avvicinavano a noi, ci giravano intorno e poi si allontanavano, non avendo annusato “sostanze strane”. Alcuni parenti erano spaventati dai due esemplari, ma non c’era motivo che potessero essere esonerati dal controllo che, nei loro confronti, veniva effettuato con maggiore attenzione e sensibilità. Finito quest’ulteriore controllo, ci recammo in un ambiente dove erano dislocate due sale colloqui. È inutile specificare come anche questi luoghi fossero fatiscenti e depri19
menti, a cominciare dal colore delle pareti. Ci divisero in due gruppi e a noi toccò una sala un po’ più vivace, grazie a dei murales disegnati sulle pareti che rappresentavano alcuni personaggi di Walt Disney. C’erano otto tavolini, ancorati saldamente al pavimento, attorniati ognuno da quattro sgabelli, anch’essi fissati al suolo. Nei due angoli opposti della stanza erano affisse due telecamere, un condizionatore e quattro ventilatori a soffitto. Prendemmo posto e rimanemmo in attesa. Io mi sentivo così abbattuta ma, allo stesso tempo, molto emozionata e ansiosa. Non vedevo mio figlio da quindici giorni e non avevo avuto alcuna notizia che lo riguardasse. Avevo timore di come lo avrei trovato, facevo mille pensieri. Anche gli altri due miei figli erano molto in pena, quasi si potevano sentire i nostri cuori che battevano all’unisono. Uno ad uno arrivarono i detenuti, entrarono da una porticina opposta al lato dal quale eravamo entrati noi. Il rumore dei “chiavoni” inseriti nella serratura, rimbombavano nella stanza ogni volta che aprivano. Tutti entravano, tranne Mike. Noi ci guardavamo e l’ansia cresceva attimo dopo attimo... Finalmente, eccolo! Il cuore mi arrivò in gola, cominciai a singhiozzare e a tremare come una foglia. Gli andai incontro, lo abbracciai come non avevo mai fatto, con l’intensità che non ricordavo di avere mai avuto prima nei suoi confronti. Lui rispose calorosamente al mio saluto, e mentre lo faceva, mi sussurrò all’orecchio che non voleva vedermi piangere, perché stava bene e, tra l’altro, è anche una delle loro regole “interne” quella di non piangere durante le visite, per non turbare la “quiete” degli altri visitatori e detenuti. Abbracciò calorosamente anche i suoi fratelli che, però, non si fecero sfuggire lacrime. Effettivamente era di bell’aspetto, un po’ perché lo è di suo, un po’ perché era ben curato e ben vestito... Aveva i capelli tagliati, era ben profumato e indossava un jeans e una maglietta 20
che non erano suoi, ma gli erano stati prestati da un compagno di cella, in quanto la roba che aveva portato da casa il giorno dell’arresto era ormai da lavare. Portò con sé una busta piena di dolciumi, cioccolate, patatine e una bottiglia di Coca Cola. Poi ci spiegò che era una prassi, in quanto loro devono intrattenere i parenti facendoli sentire a loro agio. Lo martellammo di domande su come stesse, con chi, se mangiasse abbastanza, se fosse trattato bene, se avesse notizie dall’avvocato, se avesse necessità di qualcosa, come trascorresse le giornate e così via... Io non riuscii neanche a pronunciare una parola di ciò che mi ero preparata prima di entrare. Avrei voluto rimproverarlo, sgridarlo, farlo sentire in colpa per quella situazione... Niente, neanche una parola a questo riguardo; l’averlo trovato in perfetta forma, sereno e senza pretese, mi aveva resa già troppo felice. Il suo atteggiamento, il suo modo di spiegare, il suo tranquillizzarci, mi dava l’impressione che fosse davvero cresciuto, che non fosse più il ragazzino di cui mi ricordavo. È vero, quel giorno, in carcere, non ritrovai il mio adorato Mike, ma un uomo che faticavo a riconoscere e che, in quel contesto, ero orgogliosa di aver conosciuto, perché mi trasmetteva quella serenità che non mi sarei mai aspettata. Si parlò molto, le domande che gli porgevamo si accavallavano e non a tutte riuscì a dare una risposta, o non volle. Mi indicò il nome dell’avvocato che aveva scelto, gli era stato consigliato da altri suoi coetanei e, da allora, lo segue ancora. Ci mise in guardia per il fatto che a breve avremmo ricevuto sicuramente altre notifiche... purtroppo ci rese consapevoli che, quello per cui era stato arrestato, non era stato l’unico reato che aveva commesso. Quando lesse nei miei occhi lucidi la mia disperazione per ciò che stava dicendo, mi abbracciò forte e mi disse di non preoccuparmi per lui, ciò che aveva fatto, doveva pagarlo. Aggiunse 21
di pensare a me stessa e ai suoi fratelli, lui se la sarebbe cavata. Tra l’altro, nella sua sezione erano detenuti altri ragazzi che già conosceva, provenienti da comuni limitrofi, e che avevano commesso reati simili al suo, oppure per spaccio, rapine, ecc. Ci fece una lista di cose che gli dovevamo portare: accappatoio e maglie senza cappuccio, scarpe e lenzuola. Poi aggiunse di spedirgli il prima possibile l’immagine della Madonna che lui teneva in stanzetta e una foto della sua fidanzata che non era potuta entrare al colloquio ed era rimasta, a malincuore, fuori ad aspettare. Ci parlò di un ragazzo marocchino che stava in cella con lui e che non riceveva visite da nessuno perché la sua famiglia era in Marocco. Con grande sensibilità mi chiese se potevo portargli da vestire; mi disse la taglia e il numero di scarpe. Io certamente non avevo in casa qualcosa che potesse andare bene a Joseph, a parte le lenzuola, né tantomeno avevo abbastanza soldi per andare a comprare in negozio. Gli dissi, allora, che il sabato sarei andata al mercato, ai banchi degli indumenti usati, avrei trovato qualcosa per lui e, solo dopo averla lavata, gliel’avrei portata al colloquio successivo. Per quanto riguardava le sigarette, ogni detenuto gliene cedeva una parte delle proprie. Due ore passarono in un istante, non mancò di dare a sua sorella messaggi da portare a qualche amico, alla sua fidanzata e un abbraccio grande grande alla sua carissima nonna, che tante volte lo aveva difeso e mai gli aveva fatto mancare il suo affetto. Uscimmo da quel colloquio come non avremmo mai potuto sperare. Sereni. Quando arrivammo in fondo a tutte le stanze attraversate in precedenza incontrammo un’amica di mia figlia che era lì per far visita al suo fidanzato. Si salutarono, si chiesero a vicenda delle situazioni in corso e poi ci chiese se eravamo venute con due uomini. Noi rispondemmo che eravamo solo noi tre e le chiedemmo spiegazioni per 22
quella domanda. La sua risposta fu che aveva visto entrare nella nostra auto, che lei conosceva bene, due uomini che sembravano molto spigliati nel rovistare l’interno dell’auto e anche il portabagagli. Noi rimanemmo stupiti di questo e avevamo dei dubbi che fosse vero. Durante il tragitto di ritorno chiamai un amico per aggiornarlo sullo stato psico-fisico di Mike e gli accennai questo particolare. Lui mi disse che era possibile che agenti di polizia in borghese si fossero introdotti nell’auto per fare una perquisizione approfittando che noi eravamo impossibilitati ad accorgercene. E aggiunse che avrebbero potuto anche piazzare una microspia per intercettare i nostri discorsi. Insomma, tutto era possibile se il magistrato lo avesse ritenuto opportuno. Non ci potevo credere, mi sentii violata nella mia privacy e mi domandai che se fossero arrivati a fare quello, chissà che altro poteva aspettarci. Rimasi molto amareggiata e cominciammo a chiederci se avessimo detto qualcosa di compromettente, di illegale, qualcosa che avrebbe potuto peggiorare la posizione di mio figlio. Sui nostri cellulari trovammo decine di messaggi di chiamate di tanti che volevano avere notizie di Mike e una volta rientrati a casa, furono molti gli amici che vennero a suonare al campanello per sapere di lui. Da quel giorno, attendere che passasse un’altra settimana per poterlo rincontrare, mi sembrò un’eternità. Passarono diverse settimane e quindi si avvicendarono diversi colloqui. Ogni volta che andavamo la nostra angoscia diminuiva, purtroppo ci stavamo abituando a questo triste rituale. Di buono c’era il fatto che Mike se la cavava bene, non lo trovavamo mai triste, anzi ci diceva che le giornate passavano tranquillamente. Lui era in cella con altri cinque ragazzi che avevano più o meno commesso gli stessi reati: la mattina si alzavano, a turno facevano le pulizie, tra un caffè e l’altro giocavano a carte, cucinavano, passeggiavano. 23
Certo mancava loro la cosa più importante: la libertà... Purtroppo, ciò che Mike ci aveva anticipato durante un colloquio, non tardò a verificarsi. A breve, arrivarono altre notifiche di indagini in corso per diverse rapine. Nel frattempo, ci scrivevamo lettere anche solo per chiederci come stessimo. Ci disse un trucco per come dovevamo incollare i francobolli in modo che lui potesse riutilizzarli per risponderci. Si raccomandò di non scrivere mai con la penna di colore rosso, perché è di cattivo auspicio. Spesso si dilettava a disegnare fiorellini o altri simboli carini per rallegrare la lettera. Imparò anche a realizzare piccoli lavoretti con materiale di recupero, come il riso, il cartone, gli stuzzicadenti. Io chiamavo spesso l’avvocato per avere aggiornamenti sulla situazione.
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Daniela Manzitti
ISBN 978-88-6153-693-7
Euro 14,50 (I.i) 9 788861 536937
Daniela Manzitti
OH MÀ!
Daniela Manzitti, madre di tre figli, nasce a Torino nel 1970 da genitori immigrati dal Sud. Nonostante un’adolescenza umile e povera, riesce comunque a diplomarsi grazie all’aiuto di una coppia che decide di “assistere” la sua famiglia nella precaria situazione economica in cui versa. Alle spalle un matrimonio burrascoso, una convivenza difficile che la distrugge psicologicamente, tanto da spingerla a tentare il suicidio per ben due volte. Nel 2013 Michael, il secondogenito, incomincia il suo percorso di ragazzo difficile e lei fa di tutto per non perderlo definitivamente.
“ Odiami ragazzo mio, odiami finché vorrai… Io, al contrario, continuerò ad amarti con la stessa intensità di sempre e anche di più. Tua madre ”
OH MÀ! Storia di Michael, ragazzo difficile