Potere e partecipazione

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Saverio Di Liso – Domenico Lomazzo

POTERE E PARTECIPAZIONE Un’esperienza locale di amministrazione condivisa Presentazione di Rocco D’Ambrosio Postfazione di Gaetano Veneto

edizioni la meridiana


RINGRAZIAMENTI

Tante persone abbiamo incontrato in questo nostro percorso politico e istituzionale e a tutte vorremmo dedicare un pensiero grato. A cominciare da Mimmo Guido e gli amici dell’Associazione “Polis – Impegno per la Città”; per continuare con l’Associazione “Cercasi un fine” e don Rocco D’Ambrosio, professore ordinario di Filosofia Politica presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, che ringraziamo anche per aver acconsentito ad anteporre la sua presentazione a questo lavoro e a sostenerne la pubblicazione; e per finire con le tante persone che hanno variamente segnato la nostra esperienza di vita, proponendoci il richiamo continuo alla “libertà nella verità”. Un grazie particolare al prof. Gaetano Veneto, già professore ordinario di Diritto del Lavoro presso l’Università di Bari “A. Moro” e oggi direttore del Centro Studi “Diritto dei Lavori”, per la sua amichevole Postfazione. Dedichiamo questo lavoro alle nostre famiglie. Ai nostri figli, Francesco e Nicolò, Lucia e Antonio, consegniamo quel poco che siamo riusciti a fare, offrendo loro le nostre spalle, affinché possano salirvi sopra e di là lanciarsi verso ciò che la vita vorrà riservare loro.

2018 © edizioni la meridiana – Cercasi un fine via Sergio Fontana, 10/C – 70056 Molfetta (BA) – tel. 080/3971945 www.lameridiana.it info@lameridiana.it ISBN 978-88-6153-652-4


INDICE

Presentazione di Rocco D’Ambrosio

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Prefazione

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1. Potere e partecipazione: alcune riflessioni 1.1 Il potere 1.2 Potere, nonviolenza e bene comune 1.3 La partecipazione 1.4 Il potere dei senza potere

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2. Forme del potere e della partecipazione: decentramento e autonomia amministrativa 2.1 Il potere tra centro e periferia 2.2 Decentramento o autonomia?

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3. Prove di amministrazione condivisa: la Prima Circoscrizione di Bari dal 2009 al 2012 3.1 Il consenso: un’elezione a sorpresa 3.2 La responsabilità: la Circoscrizione come una “casa di vetro” 3.3 Il potere: i limiti dell’istituzione circoscrizionale e le dimissioni 4. Partecipazione pubblica e governo del territorio 4.1 L’amministrazione pubblica per i cittadini 4.2 Processi decisionali condivisi

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Conclusioni

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Postfazione di Gaetano Veneto

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Bibliografia

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PRESENTAZIONE di Rocco D’Ambrosio

Scriveva Sturzo nel 1938: Che cos’è infatti la politica se non l’organizzazione e la garanzia della produzione, della distribuzione della ricchezza, la protezione del paese, i mezzi per sviluppare l’industria, i mestieri, la cultura, le arti? È l’ordine terreno e il benessere necessario agli uomini per vivere.

Sono queste parole che mi sono venute spesso in mente leggendo il bel testo di Erio Di Liso e Domenico Lomazzo. Il loro argomentare ricorda spesso cosa sia la politica autentica: esperienza concreta, ma al tempo stesso anche riflessioni storiche, giuridiche e filosofiche; gestione del potere, ma anche partecipazione dei cittadini; pubblica amministrazione, ma anche esperienze amministrative aperte alla partecipazione dei cittadini e al loro controllo di trasparenza; analisi concentrica del territorio, ma anche studio di competenze e funzioni delle autonomie locali; amministrazione condivisa, ma anche approfondimento delle sue origini e motivazioni di fondo; partecipazione pubblica, ma anche individuazioni di linee per un buon governo di prossimità e del territorio. Un libro ricco e interessante che, accogliendo la lezione di Aristotele, in politica come in ogni campo umano, non oppone pratica a teoria e viceversa. Infatti l’energia morale di una comunità locale è un fattore tanto teorico quanto pratico, in sintonia con la lezione classica che, nella prassi istituzionale come in quella educativa, coniuga sempre conoscenza e pratica, mai l’una senza l’altra. Non basta, infatti, che i membri di una comunità civile conoscano genericamente il modello di ordine e di giustizia, che la Costituzione indica, perché il loro vivere insieme sia coerente con le proprie finalità: è necessario che tra i membri sia diffusa un’energia morale di natura e portata sufficiente a realizzare il progetto costituzionale. Il libro è anche una testimonianza viva di quanto si possa riformare la politica, specie dal basso, e far diventare prassi quei principi etici

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che fondano il nostro vivere civile. Tuttavia, una vena di amarezza si coglie, specie quando gli autori fanno riferimento alla brevità dell’esperienza realizzata e, soprattutto, all’opposizione pratica e teorica di quei politici locali che, tra ipocrisie e interessi di bottega, hanno permesso, se non favorito che questa esperienza finisse. Era ancora Sturzo a invitare, in un momento (nel 1926) in cui il suo partito subiva l’oppressione e le limitazioni fasciste, ad avere coraggio e a far tesoro di quanto seminato, in vista di nuove e più durature realizzazioni politiche: Oggi, adunque, è l’inverno politico del Ppi, ma “sotto la neve il pane” dice il proverbio. Nessuno sciupio di forze, nessuna mossa discutibile, nessun gesto inutile: il raccoglimento, lo studio, la preparazione. Essere, anzitutto, se stessi, cioè, rigidi assertori di libertà, aperti negatori del regime fascista, vigili scolte di moralità pubblica, ranghi disciplinati di uomini di carattere e di fede. Il pensiero, la meditazione, lo studio, la prova del dolore e del sacrificio, l’esempio del carattere, la forza della convinzione valgono assai più di cento conferenze e di mille articoli di giornale, costretti alla mutilazione o dosati con 99 di lode al governo per potere contenere quell’uno di biasimo che perde ogni valore. L’esempio di giorni aspri del primo risorgimento, deve farci convinti, che nessuna forza armata o potere di principi o di dittatori valgono a contenere la diffusione delle idee e ad impedire che si affermino in istituti politici, quando esse sono mature. E non occorrono i molti a questo fine.

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PREFAZIONE

Questo libro nasce dall’esigenza di raccontare un’esperienza civica e politica. Un’esperienza germinata in ambiente familiare e parrocchiale, maturata in attività associazionistiche e tra banchi dell’università e proseguita in attività politiche e istituzionali. È nell’ambiente parrocchiale degli anni Ottanta e Novanta che ha preso forma, inizialmente, l’interesse degli autori per la politica. Quell’ambiente formativo ha costituito per gli autori un punto di riferimento culturale e civile, anche quando hanno intrapreso strade politiche diverse. L’uno, seguendo un’esperienza associazionistica in un gruppo territoriale, “Polis-Impegno per la città” – conclusasi con l’elezione al Consiglio circoscrizionale ne “i Democratici” (1999-2004) –, e collaborando alle attività formative dell’Associazione “Cercasi un fine”, ha potuto sperimentare una “scuola di politica” fatta di iniziative pubbliche e formative. L’altro, frequentando, dopo gli studi universitari, i circoli giovanili e gli ambienti politici cattolico-democratici, ha provato a mettere a servizio di movimenti e comitati territoriali le proprie competenze giuridico-amministrative. Poi, ad un certo punto, dal 2009 al 2012, le loro strade si sono ricongiunte, per una serie di particolari circostanze, grazie anche all’azione “collante” e “propulsiva” di alcuni amici, in un’esperienza politico-istituzionale: stesso partito (Italia dei Valori – IDV) ma diversa funzione – presidente di circoscrizione, l’uno, consigliere circoscrizionale, l’altro – nella Prima Circoscrizione Palese-Santo Spirito del Comune di Bari. In quella vicenda politico-istituzionale confluirono e si riannodarono i loro percorsi formativi e culturali, basati essenzialmente sull’idea di “città dell’uomo a misura d’uomo” – titolo di un libro di Giuseppe Lazzati, da cui l’Associazione “Polis” trasse spunto per la pubblicazione di un periodico locale, “Città dell’Uomo”, tra il 2004 e il 2010 –

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e indirizzati, da quel momento in poi, verso azioni politiche e istituzionali improntate ai principi della democrazia partecipata. Questo libro, dunque, contiene il racconto di un’esperienza politica intrecciata ad alcune riflessioni di stampo filosofico-politico e a una ricostruzione storico-giuridica del rapporto di potere tra Stato e Comuni, Centro e Periferia, visto lungo il percorso di evoluzione del decentramento amministrativo, con particolare riguardo, in tal senso, alla città di Bari e alla Prima Circoscrizione, Palese-Santo Spirito. L’idea del libro è comune, ma le parti sono sviluppate in modo separato e autonomo, assecondando le sensibilità e le competenze peculiari dei due autori. Il primo e il terzo capitolo sono di Saverio Di Liso; il secondo, il quarto e le conclusioni, di Domenico Lomazzo. Il primo capitolo, di carattere generale e di impostazione filosofico-politica, propone alcune sintetiche riflessioni sul potere e sulla partecipazione, ricavandole dalle letture personali, oltre che dal canovaccio delle lezioni tenute alle Scuole di formazione all’impegno sociale e politico realizzate dall’Associazione Onlus “Cercasi un fine”. Il secondo capitolo si sofferma sull’evoluzione della pubblica amministrazione e degli Enti Locali che da “amministrazioni-autorità”, arroccate all’esercizio esclusivo del potere, diventano, anche a seguito di un mutato quadro normativo, amministrazioni aperte alla partecipazione dei cittadini e, inevitabilmente, anche più trasparenti. Il potere tra lo Stato centrale e gli Enti Locali si declina nell’equilibrio e nella redistribuzione dei rapporti di “forza” tra i Comuni e gli istituti infracomunali, comunque denominati, Municipio o Circoscrizione. L’analisi, in particolare, concentra l’attenzione sul rapporto di competenze e funzioni tra il Comune di Bari e il citato Istituto di prossimità ai cittadini che, nato per garantire partecipazione pubblica, si è configurato nel tempo come istituto deliberativo, seppur sprovvisto di strumenti e risorse fondamentali per rispondere alle sempre più complicate istanze dei cittadini. Il terzo capitolo propone il racconto di una contestualizzazione empirica di quei canoni di “amministrazione condivisa”, così come si sono andati delineando nell’esperienza politico-istituzionale del 2009-2012, nella Prima Circoscrizione Palese-Santo Spirito del Comune di Bari. Infine, nel quarto capitolo viene sottolineata l’importanza della partecipazione pubblica, quale elemento insostituibile di democrazia e quale elemento rilevante per un buon governo di prossimità e del territorio. A titolo esemplificativo si ripercorrono le tappe di un percorso di trasparenza e di coinvolgimento dei cittadini all’amministrazione locale, realizzata mediante la compartecipazione a questioni afferenti la


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viabilità, i lavori pubblici, le strade e il verde urbano e con lo strumento della Consulta del Laboratorio Urbanistico Partecipato. Quest’ultimo, un organismo volutamente istituzionalizzato all’interno della Circoscrizione, ai sensi dell’art. 11 dell’allora vigente Regolamento sul decentramento amministrativo, ha inteso dare spazio e dignità civica ai cittadini proprio al fine di sviluppare quel senso di appartenenza al territorio che qualifica il senso di comunità dei cittadini. Noteranno, i lettori, che talvolta, all’interno di un discorso ben fondato e documentato (con riferimenti a testi, leggi, regolamenti, delibere consiliari, note e lettere degli organi circoscrizionali, comunicati stampa e quant’altro di simile), il racconto dell’esperienza cede il passo a considerazioni e riflessioni di carattere personale. Con questo lavoro, gli autori hanno cercato di comunicare l’idea che non sono le istituzioni, quelle politiche in particolare, a “fare le persone” ovvero a condizionarne o determinarne i comportamenti pubblici e individuali, ma piuttosto che sono proprio le persone a “fare le istituzioni”. Si spera di essere utili ai giovani, e ai meno giovani, che intendono impegnarsi – non per opportunismo o mestiere – per il bene comune.

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POTERE

E PARTECIPAZIONE: ALCUNE RIFLESSIONI

1.1 Il potere Quando si riflette sul potere, si è presi dalla tendenza o dalla tentazione di ridurne l’intera portata al suo “volto demoniaco”. Emblematico è, in tal senso, il libro di Gerhard Ritter, Il volto demoniaco del potere (Die Dämonie der Macht), pubblicato nel 1940. Si stava, in quegli anni, al cospetto di una dittatura e di una guerra nelle quali l’“accanimento distruttivo” stava portando l’Europa e il mondo in un abisso senza ritorno. Molto lucidamente Ritter aveva tentato di smascherare le perversioni del potere, ravvisandone le matrici nella “mezza luce crepuscolare”, la morale ambigua di chi non sa decidere “sì, sì; no, no”, ma si permette in ogni situazione una “mutevolezza” di giudizi, che inficiano la prassi e i valori della vita quotidiana (cfr. D’Ambrosio, 2008, pp. 63-66). A questa visione del potere, largamente diffusa, si connettono altri due atteggiamenti che caratterizzano l’esercizio del potere nei partiti e nelle istituzioni: la distinzione di amico e nemico e, consequenzialmente, l’incondizionata preferenza per il primo e il fanatico rigetto del secondo. Fu Carl Schmitt, ne Il concetto di politico (Der Begriff des Politischen, 1932), a elevare l’energia conflittuale (appunto amico-nemico) a norma dell’agire politico. Da una parte l’amico – politicamente inteso – colui che mi appartiene, colui che condivide valori familiari, sociali e obblighi reciproci; dall’altra il nemico, l’antagonista politico, l’estraneo, lo straniero, l’ospite ostile (cfr. D’Ambrosio, 2011, pp. 196199). L’energia conflittuale genera un atteggiamento dicotomico, ipersemplificato e ideologico che reca con sé l’attività dell’etichettare: da una parte, chi è affine a me, in un legame “familistico”, “clientelare” o “simil-mafioso”, qualificato bonariamente anche quando sbaglia e pro-

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tetto a oltranza nei suoi errori; dall’altra, l’avversario politico, il nemico, sottoposto a un processo di classificazione che lo condanna come incapace di azione politica, come capace di corruzione, come bête noire da tenere a distanza (cfr. D’Ambrosio, 2011, pp. 192-196). Questo significato “demoniaco” e “ideologico” del potere è talmente diffuso da non essere minimamente contestato, neanche da chi, almeno teoricamente, ne conosce significati alternativi. Tuttavia, riteniamo che tale significato possa essere ridimensionato o, almeno, meglio compreso al cospetto di una visione più generale. Norberto Bobbio (1909-2004), noto studioso italiano di filosofia politica, intese collegare strutturalmente la politica alla nozione di potere, ossia alla categoria del dominio di un uomo su un altro uomo (“la capacità di produrre effetti in qualche modo rilevanti, intenzionali e correlati agli interessi dei soggetti coinvolti”: Lukes 1996, pp. 722-745) e ha classificato il potere politico seguendo una definizione di Rousseau: esso è “l’insieme dei mezzi che permettono di conseguire gli effetti voluti” (Bobbio, 1983, pp. 826-935). Ebbene, secondo questa definizione, il potere si caratterizza come una pura “capacità di fatto” di comandare o eseguire quello che un’autorità, cioè una “capacità di diritto”, può giustificare e legittimare. In altri termini, se nell’autorità (una certa figura istituzionale, in forza delle leggi o del consenso popolare) risiede il diritto di dirigere e di comandare, di essere ascoltati e di essere obbediti dagli altri, con il potere si allude alla forza di cui si dispone e grazie alla quale si possono obbligare gli altri ad ascoltare o ad obbedire (Gatti, 2011, pp. 243-248). Non esiste solo il potere politico, caratterizzato, come sosteneva Bobbio, e prima di lui Max Weber, dal monopolio o possesso esclusivo dei mezzi di coazione fisica, ma anche altri tipi di potere: il potere paterno, di carattere naturale o tradizionale; il potere dispotico o punitivo, quale conseguenza o sanzione di un delitto; il potere economico, che si vale del possesso di certi beni (per esempio i “mezzi di produzione”) per indurre chi non li possiede a una certa condotta; il potere ideologico che si fonda sulla capacità di influenzare con certe idee i propri consociati (membri di uno stesso “gruppo”) o l’opinione pubblica più in generale. I diversi tipi di potere si servono solitamente di alcuni “meccanismi” che possono essere così individuati: l’uso della forza, che consiste nell’escludere possibilità alternative, riducendole nel caso limite a una sola, al fine di ottenere un certo scopo; la coercizione, ossia la capacità di ottenere il conformarsi degli altri alla nostra volontà, facendo ricorso a minacce o sanzioni; la manipolazione, che per un verso è indurre l’altro (allettandolo o corrompendolo) a modificare i propri desideri e a


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conformarli ai nostri, e per altro verso è influire sulle altrui credenze e preferenze mediante l’autorevolezza, o mediante la persuasione razionale, intesa come comunicazione della propria verità agli altri. L’inquadramento appena proposto denota una tendenziale connotazione di volta in volta “persuasiva” o “violenta” del potere, quale esercizio di un “dominio” sull’altro.

1.2 Potere, nonviolenza e bene comune Eppure, esiste una lettura alternativa del potere, incastonata all’interno della riflessione antropologica, pratica e pedagogica sulla nonviolenza (cfr. Dolci, 1974; Martin, 1990). Essa propone un meccanismo di tutt’altra natura, non più fondato sul dominio più o meno esplicito di uomo su uomo, ma riassumibile nella coesistenza dei seguenti principi: “nessuna violenza” (rinuncia al potere come dominio) e “il proprio potere” (il potere come affermazione delle proprie capacità individuali e originali) (cfr. Patfoort, 1988, pp. 4-7). Il valore politico del principio nonviolento, lungi dall’essere inteso come pura passività, si coniuga con una concezione dell’uomo e della società fondata sul principio partecipativo, dialogico e universalistico. Di qui si apre un varco verso una concezione più positiva del potere, dalla quale potremo trarre i lineamenti della partecipazione, quale fattore di azione e di cambiamento della realtà. Nella sua analisi sulla fine dell’epoca moderna, il filosofo e teologo Romano Guardini (1885-1968) individuò i due fattori fondamentali del potere in una “energia, capace di modificare la realtà delle cose” e in una “coscienza che ne sia consapevole” (Guardini, 2015, p. 118). Da questo punto di vista si potrebbe dire, parafrasando parole bibliche e senza temere di essere fraintesi: “In principio sta il potere” (cfr. Giussani, 2009, p. 10). Pertanto, chi detiene il potere o lo ha ricevuto o lo ha conquistato, ma in tutti e due i casi il potere gli proviene da altro (D’Ambrosio, 2008, pp. 18-28). Se colui che lo detiene riconosce che gli proviene da Dio, allora esso è riconosciuto come “mite”, non contempla alcuna sfrenatezza e viene esercitato con uno stile responsabile e promozionale del bene comune (D’Ambrosio, 2008, p. 19). Qui, peraltro, in questa dipendenza o “appartenenza all’Altro”, colui che esercita il potere trova il suo vero “destino”, che è un “destino comune” e non un destino di solitudine o di autoreferenzialità (cfr. Giussani, 2009, pp. 20-22). Conseguentemente, colui che vive questa dimensione positiva del potere sa orientare le sue risorse alla realizzazione del bene comune.

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Non è facile identificare il “bene comune” in una società pluralistica e fondata in prevalenza sugli interessi egoistici. Bisogna, invero, evitare la tendenza sia all’ingenua assolutizzazione del bene comune, sia alla sua riduzione alla somma degli interessi particolari. Il rapporto tra potere e bene comune è un rapporto dinamico, fondato sulla varietà e mutevolezza dei beni e sull’approssimazione a realizzarli per tutti. Potremmo, aristotelicamente, definire il bene comune come il realizzare se stessi, in quanto singoli e in quanto umanità, sopra e contro la minaccia del non-essere (cfr. D’Ambrosio, 2008, p. 52). Con altre parole, il bene comune è “l’insieme delle condizioni della vita sociale, che permettono ai singoli come ai gruppi di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente” (Gaudium et spes, 1965, n. 26; cfr. anche il n. 74, che individua tredici cose necessarie che costituiscono il bene comune: il vitto, il vestito, l’abitazione, il diritto a scegliere liberamente il proprio stato di vita e a fondare una famiglia, il diritto all’educazione, al lavoro, al buon nome, al rispetto, alla necessaria informazione, alla possibilità di agire secondo il retto dettato della propria coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà). Quando chi detiene il potere, lo radica sulla appartenenza a un Altro – al Mistero – allora costui sa orientare tale capacità di cambiamento non all’interesse proprio e dei propri affiliati (sodali, clientele, partiti) ma al bene comune, al bene di tutti e di ciascuno. Quando invece chi detiene il potere non riconosce che esso gli proviene da altro, allora il suo esercizio può degenerare in forme autoreferenziali, idolatriche e ideologiche (D’Ambrosio, 2008, p. 31). Questa consapevolezza dell’origine del potere e delle degenerazioni del potere consente, in ultima istanza, di giudicare i momenti più difficili e delicati dell’esercizio del potere all’interno delle istituzioni politiche, persino la decisione delicatissima delle dimissioni: un atto egoistico o una scelta altruistica? Un atto di debolezza o di coraggio? Se chi detiene una responsabilità o un potere riconosce che esso gli deriva da altro, allora egli può tener conto anche della possibilità, gravissima, della “rinuncia”: “il potere dimostra la sua grandezza nella rinuncia al potere” (Ratzinger, 1967, pp. 170-171). In altri termini, nell’esercizio di una libertà consapevole e responsabile può manifestarsi una delle più alte forme di potere.

1.3 La partecipazione

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La partecipazione in politica è costitutivamente connessa al potere, o non è partecipazione.


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Il filosofo e politologo tedesco Eric Voegelin (1901-1985) lo ha spiegato chiaramente: la metaxý, termine greco che sta per “partecipazione”, designa lo stare tra la vita e la morte, la perfezione e l’imperfezione, l’eternità e il tempo. La condizione umana e quella sociale risiedono proprio nel situarsi, e nel dover scegliere, tra l’ordine e il disordine, la verità e la menzogna, il bene e il male, l’interesse privato e il bene comune. Chi nega la metaxý, la partecipazione, cade in una rivolta egofanica, cioè in un’esperienza di sovrabbondanza dell’Io, che nega, di conseguenza, qualsiasi valore comunitario e teofanico – l’appartenenza a Dio – dell’Io stesso (cfr. D’Ambrosio, 2008, p. 31). Da un punto di vista empirico “partecipare” vuol dire “uscire dal particulare” e adoperarsi per qualcosa che trascende i propri diretti e immediati interessi. Le condizioni necessarie a una partecipazione sociale sono: 1) il superamento della distanza tra individui, ovvero l’aggregazione, e il superamento di situazioni di individualismo ed esclusione; 2) la riduzione dei rapporti di subordinazione, mediante una dislocazione o distribuzione del potere, ovvero l’uguagliamento. Inoltre, mentre la partecipazione sociale è rivolta alle organizzazioni e alle associazioni della società civile (azienda, scuola, ospedale, mass media, ecc.), la partecipazione politica è mirata alla polity, cioè allo Stato e alle istituzioni e organizzazioni politiche (Parlamento, partiti, voto, referendum, ecc.) (cfr. Sani, 1996, pp. 502-508; Ceri, 1996, pp. 508-511). La Costituzione italiana riconosce ai cittadini il “diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 Cost.). La funzione dei partiti politici va dalla strutturazione del voto (campagne elettorali e organizzazione competitiva), all’integrazione, mobilitazione e partecipazione degli iscritti e dei cittadini alla polity (sistema di governo delle istituzioni pubbliche), al reclutamento del personale politico, all’aggregazione di interessi politici, alla programmazione politica o formazione delle policies, cioè delle politiche dei governi (Bartolini, 1996, pp. 516-532). È noto, tuttavia, che i livelli di partecipazione politica in Italia sono estremamente bassi. Se chi parla di politica o si informa di politica (tramite TV, internet e giornali) supera il 70% della popolazione italiana, chi invece partecipa a comizi, svolge attività gratuita per un partito o versa soldi ai partiti non tocca il 10% (cfr. Istat, La partecipazione in Italia, 2013). Questi bassi livelli di partecipazione politica a detta di alcuni sono “fisiologici” e difficilmente modificabili (per cui bisogna accontentarsi di inserirsi in uno dei canali partecipativi tradizionali e noti); per altri, invece, il deficit di partecipazione democratica dimostra la perfettibi-

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lità delle democrazie contemporanee: una maggiore e migliore partecipazione renderebbe i cittadini più informati, più competenti, capaci di limitare le pressioni lobbistiche o le forme partitocratiche e di dare voce a settori di popolazione altrimenti “muti” (cfr. Cotturri, 2005). Qui ritroviamo, secondo una prospettiva empirica e “dal basso”, la legittimazione dell’attivismo civico o cittadinanza attiva come esercizio di poteri e responsabilità dei cittadini nella vita quotidiana della democrazia (cfr. Moro, 1998; Fondazione della Cittadinanza attiva, www.fondaca.org). Esso ha molte e differenti forme: le organizzazioni di volontariato, i gruppi di auto-aiuto, i movimenti di base, le organizzazioni di tutela. Anche gli obiettivi sono vari: ambiente, esclusione sociale, salute, educazione, cultura, sviluppo locale, cooperazione internazionale, ecc. E pure le azioni concrete sono molteplici: ad esempio creare e animare centri di accoglienza per stranieri, organizzare servizi di strada per recupero tossicodipendenti, lottare contro l’abusivismo edilizio, promuovere commercio equo e solidale, dare assistenza legale, psicologica e materiale alle vittime di reati, eccetera. I soggetti di tali azioni sono i cittadini comuni che investono tempo, risorse, conoscenze ed energie. Ora, secondo il nuovo modello di amministrazione condivisa, fondata su un paradigma pluralista, paritario e circolare, i cittadini non sono strumenti dell’amministrazione, ma suoi alleati. Il rapporto tra autorità (politici e amministratori) e cittadini non è più asimmetrico, ma fondato su trasparenza, rispetto reciproco e collaborazione: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (art. 118 Cost.). Mentre la forma tradizionale di sussidiarietà prevede l’attribuzione verticale di responsabilità da un livello istituzionale all’altro fino al soggetto più vicino a soddisfare i bisogni della collettività (logica dell’appalto), ora la sussidiarietà può assumere una connotazione “orizzontale” o “circolare”, ossia diviene “dislocamento di poteri” e “alleanza fra soggetti” che si sostengono, si sussidiano vicendevolmente. Il flusso di potere, pertanto, si inverte, non va solo dai soggetti pubblici ai cittadini, ma anche dai cittadini ai soggetti pubblici: il potere d’iniziativa ce l’ha anche la società civile (cfr. Arena, 2003; 2004).

1.4 Il potere dei senza potere 20

Quanto detto finora trova una sua “colorazione” ideale e motivazionale


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– che ben corrisponde alle ragioni profonde dell’esperienza politica e istituzionale che si racconta nei capitoli successivi – in uno scritto di Václav Havel (1936-2011), primo presidente della Repubblica Ceca post-comunista degli anni Novanta e Duemila. La partecipazione è – per dirla con il titolo del libro di Havel – Il potere dei senza potere. È, questo, un testo dattilografato “in fretta” nel 1978, come traccia di lavoro per una quarantina di contributi dei dissidenti cecoslovacchi e polacchi, e circolato nel samizdat (l’editoria clandestina) all’interno dei Paesi “Blocco sovietico” e poi in Occidente (la prima traduzione italiana risale al novembre del 1979). Se si segue questa analisi appassionata e lucida delle società “posttotalitarie”, cioè di un luogo dove la partecipazione era negata, forse a partire da lì potremmo raccogliere “una sollecitazione per tornare a interrogarsi sul rapporto tra l’uomo e la politica, o meglio tra l’uomo e il potere” (vedi M. Cartabia, Prefazione, in Havel 2013, p. 22). Infatti, a fronte di una de-moralizzazione (una rassegnazione alla menzogna e alla falsificazione imperanti) che consolida il sistema (o i sistemi) di potere nei quali viviamo e languiamo, l’esperienza di Havel costituisce un invito a tornare all’“Io” (non a quello “ipertrofico” della modernità, ma a quello cosciente del proprio limite e teso a rispondere alla realtà e a Dio) per ricreare “luoghi, comunità, gruppi” che costituiscono il “pre-politico” e che inverano il significato partecipativo del potere. Il “manifesto” di Havel – “manifesto” non solo per la densità e concisione nell’affronto dei temi, ma anche per via dell’incipit (“uno spettro si aggira per l’Europa orientale: in occidente lo chiamano “dissenso”: Havel, 2013, p. 31) che parafrasa il ben più celebre “Manifesto del partito comunista” di Marx – delinea il “sistema post-totalitario”, che in molti tratti presenta analogie con i sistemi totalitari: ad esempio i “meccanismi di manipolazione” diretti e indiretti associati alle “tecniche del potere”, nonché l’“ideologia”, la cui “funzione originaria” è quella di “fornire all’uomo, in quanto vittima e sostegno del sistema post-totalitario, l’illusione di essere in sintonia con l’ordine umano e con l’ordine dell’universo”. Del resto, chi non coglie un fondo di similitudine tra l’ideologia (ovvero la giustificazione teorica della base “fisica”, ossia burocratizzata, del potere: cfr. Havel, 2013, p. 35), e il “conformismo” lieve (privo di giudizioso approfondimento) praticato nelle società capitalistiche occidentali? Secondo Havel è la “vita nella menzogna”, una sorta di ordine “meta-fisico”, di “cemento”, il principio di coesione e lo strumento

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della disciplina di una massa “anonima” di cittadini all’interno di uno Stato totalitario o post-totalitario. Persino in una società liberal-democratica come l’Italia, per quanto attanagliata da una crisi sconvolgente, il rischio che il potere (dei partiti nelle istituzioni) si serva dell’ideologia e dei mezzi di comunicazione (TV pubblica e privata, giornali) è sempre dietro l’angolo: là dove esiste la competizione pubblica per arrivare al potere e quindi anche il controllo pubblico su di esso, viene altresì controllato il modo in cui il potere si legittima ideologicamente (Havel, 2013, p. 43).

Come “ribellarsi” a questa “crisi” (che è essenzialmente “crisi dell’identità umana”), e all’“auto-totalitarismo sociale” – ovvero al “conformismo” e all’“indifferentismo” pratico del cittadino consumatore delle società occidentali – che ne è al contempo effetto e causa, e provare a vivere la “vita nella verità”? (Havel, 2013, pp. 47, 50, 53) Piuttosto che perseguire forme di “ribellione” solamente esteriori o, per altro verso, orientate all’esercizio di democrazia diretta in funzione antitetica e polemica nei confronti della partitocrazia delle istituzioni politiche, bisognerebbe ripartire – sostiene Havel, e in questo ci trova assolutamente d’accordo – dalla sfera segreta della vita, la quale possiede non solo una dimensione esistenziale (restituisce l’uomo a se stesso), noetica (rivela la realtà com’è) e morale (è un esempio), ma ha anche un’evidente dimensione politica (Havel, 2013, pp. 55-56).

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Da questa sfera segreta della vita, che si trova al di sotto della “superficie ordinata della vita nella menzogna”, emerge l’“autocoscienza civile” – preludio necessario della “autocoscienza politica”, di cui si ha impellente bisogno oggi – che si tramuta in atteggiamento di dissidenza nei confronti dell’uniformismo delle “convenzioni politiche”, della “zavorra delle abitudini e delle categorie politiche”, e di qui aprirsi a un atteggiamento “politicamente più ricco di prospettive” (Havel, 2013, pp. 70-71). La “sfera segreta della vita” è un fattore di potere, non al modo delle “strutture di potere” (o “strutture di peccato”: Sollicitudo rei socialis, 1987, nn. 36-37). Essa rivendica meno “strutture di potere” e più “lavoro minuto”, onesto e responsabile, creativo e solidale – diremmo oggi, più “cittadinanza attiva” e democrazia partecipativa – vero antidoto alla “politica cattiva” e volàno di un “cambiamento dell’uomo”, e dunque della “nazione” (Havel, 2013, pp. 83-87). Questo lavoro “minuto”, “dissidente” nei confronti della “malapolitica” rinchiusa nelle sue “comunicazioni rituali”, non è l’azione di un’élite, di un’“avanguardia sociale” che “sa meglio di tutti come


POTERE E PARTECIPAZIONE

stanno le cose”. Si tratta di una “lotta fondamentale, cioè quotidiana, ingrata e interminabile perché l’uomo possa vivere con dignità, libertà e verità”, una lotta che non ponga mai un limite a se stessa, non sia mai imperfetta, incoerente, per non cadere nelle insidie del tatticismo politico, della speculazione e dell’immaginazione (Havel, 2013, p. 122).

Di fronte alla “crisi della democrazia”, che è “crisi planetaria della condizione umana”, non resta che attivare “una nuova esperienza dell’essere; un rinnovato ancoraggio nell’universo; una riassunzione di responsabilità suprema” (Havel, 2013, pp. 125, 128). Dalla rinnovata “esperienza dell’essere”, l’uomo concreto, nel suo tessuto di relazioni quotidiane, è in grado di dare significato alla speranza e alla responsabilità, di riedificare le comunità, quali “strutture aperte, dinamiche e piccole”, di riabilitare i valori “quali la fiducia, la sincerità, la responsabilità, la solidarietà, l’amore” e, infine, di costruire una “politica antipolitica”, cioè una politica “non intesa come tecnologia o manipolazione del potere, come organizzazione cibernetica degli uomini o come arte dell’utile, dell’artificio e dell’intrigo”, ma una politica “come moralità in azione, come servizio alla verità, come preoccupazione per il prossimo” (Havel, 2013, pp. 128, 129, 161). In questa riflessione di Havel trovano radice, in fin dei conti, le profonde ragioni culturali e morali per un serio e fattivo impegno sociale e politico-istituzionale. Anche nel piccolo di un Comune o di una Circoscrizione o Municipio è possibile agire a favore del “bene comune”, cioè rendere la soggettività dei singoli più consapevole e libera e il potere politico più condiviso e partecipato in vista del bene della comunità e dei cittadini.

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