Profeti scomodi, cattivi maestri

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Gabriella Falcicchio PROFETI SCOMODI,

CATTIVI MAESTRI Imparare a educare con e per la nonviolenza Prefazione di Antonia Chiara Scardicchio Traduzione di Gianluigi Gugliermetto

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Indice

Prefazione ....................................................... 9 Parte Prima VALORE DELLA NONVIOLENZA, VALORI PER LA NONVIOLENZA

L’abbraccio festivo: educazione e nonviolenza ..................................................... 17 Le relazioni umane in prospettiva nonviolenta tra apertura al tu e conflitti creativi ............................................. 23 Camminare in silenzio e solitudine: il ritorno a se stessi e la critica delle istituzioni .............. 29 Sul silenzio negli spazi educativi .................. 33 La nonviolenza è più gentile .............................. 35 Vivere disarmati la cultura e le relazioni ...... 39 Riservatezza e fiducia per educarsi insieme restando sulla soglia dell’interiorità .............. 43 Parte Seconda EDUCARE CON E PER LA NONVIOLENZA Disarmare il linguaggio dell’educazione ...... 51 La nonviolenza e l’educazione iniziano dal corpo ....................................................... 53 La malattia come apertura al tu del corpo ... 55 Mano nella mano con il morente verso la realtà liberata dal limite ............................ 57 I bambini hanno bisogno del mondo magico ......................................... 59 Me lo leggi? ................................................... 63 Contro la logica del lavoro nel campo educativo: scuola produttiva o scuola generativa? ......................................... 65 La strage degli innocenti: i bimbi al primo giorno di asilo ................................. 69 Piccole violenze invisibili a scuola ................ 71 Colpa tua! Il lessico punitivo tra i banchi di scuola ..................................... 73 Al di qua del conflitto: limiti e potenzialità del sistema educativo ............. 77 Esporre i bambini alla bellezza ..................... 81


Parte Terza SGUARDI NONVIOLENTI L’emancipazione reciproca: donne e uomini del futuro ............................ 85 Violenza sulle donne? Cominciamo dalla violenza ostetrica .................................. 89 Per una nascita rispettata e un futuro di pace ........................................................... 91 Il cibo della felicità e la formazione del gusto del mondo ..................................... 97 Non uccidere, né con l’atto né con il pensiero ........................................ 101 Aperture. La nonviolenza è in cammino. Anzi, è in volo! ............................................ 105 Bibliografia .................................................. 107


Prefazione1

La nonviolenza è il punto della tensione più profonda tesa al sovvertimento di una società inadeguata Aldo Capitini

Accadde ormai alcuni anni fa. Mia figlia Sofia, allora di 3-4 anni, abituata a trovare per casa libri che in copertina recavano il volto di Aldo Capitini, riconoscendolo davanti a una locandina sbottò allegra puntando il ditino: “Nonno Aldo!”. La sua esclamazione mi riempì di tenerezza e non potei fare a meno di riflettere su quanto lo sento “padre” e, da figlia, sull’affetto con cui lo porto alle nuove generazioni. La dedica a lui, il mio più caro “cattivo maestro”, nasce da quell’episodio e dal mio sentimento di gratitudine filiale; intende anche riprendere la metafora della genitura universale che Aldo stesso propone come rappresentativa delle relazioni nonviolente. Questo libro nasce innanzitutto come omaggio, o meglio restituzione, a nonno Aldo in occasione dei 50 anni dalla morte. Nasce per valorizzare 1. I testi qui raccolti sono un’ampia selezione degli articoli pubblicati su “Azione nonviolenta” dal 2010 in poi. I titoli sono stati talora ritoccati per armonizzare l’andamento degli argomenti nel volume. In alcuni casi, sono state apportate lievi modifiche al lessico, senza alterarne i contenuti. Per i box, nei quali è indicata la paternità di scrittura, ringrazio Daniele Taurino, responsabile dei giovani del “Movimento Nonviolento”, studioso di filosofia e instancabile attivista del movimento con il quale il dialogo è quotidiano; Antonio Vigilante, tra i più attivi studiosi italiani della tradizione nonviolenta, nonché docente di storia e filosofia nella scuola secondaria; Antonella De Benedittis, educatrice e insegnante di infaticabile pratica nonviolenta. Un ringraziamento corale va a tutta la famiglia della nonviolenza, a cominciare dal presidente del MN e direttore di AN, Massimo Valpiana, alle innumerevoli voci che disseminate nelle lande della penisola mostrano che la nonviolenza è viva e continua il suo cammino di pace e fratellanza tra i popoli.

“Azione nonviolenta” (AN) e il “Movimento Nonviolento” (MN), nati dalla prima Marcia della Pace e della Fratellanza tra i Popoli voluta da Aldo, due realtà che resistono grazie alla tenacia di uomini e donne persuasi dell’irrinunciabilità della nonviolenza e della lotta nonviolenta. Nasce per unificare gli articoli scritti negli anni su AN in un unicum non disorganico che, nella varietà di temi dovuta alla forma originaria dell’articolo, offre così una visione panoramica e aperta sulla nonviolenza, in particolare sull’educazione nonviolenta, con e per la nonviolenza. Il libro, inoltre, nasce anche per riportare nella formazione di docenti, educatrici ed educatori, genitori e chi opera nel sociale la tradizione e i valori della nonviolenza, che per un certo lasso di tempo sono rimasti silenti (ma non inattivi) e che ora è tempo di riproporre nel dibattito e nelle pratiche quotidiane. Quelle stesse che, con una scelta di vicinanza e compartecipazione alla vita dei lettori, sono ancorate negli spunti autobiografici. Non è per il desiderio di narrarsi, ma per la convinzione che abbiamo bisogno di una pedagogia vicina all’esistenza, capace di radicarsi e di germogliare dal quotidiano in cui tutti, i Tutti, possano riconoscersi, per nutrirsene ed esserne vivificati. Movimento Nonviolento a cura di D. Taurino Il “Movimento Nonviolento” è costituito da pacifisti integrali, amici e amiche della nonviolenza, che rifiutano in ogni caso la guerra, la distruzione degli avversari, l’impedimento del dialogo e della libertà di informazione e di critica. Il MN sostiene il disarmo unilaterale (come primo passo verso quello generale) e affida la difesa unicamente al metodo nonviolento. Germinato dall’opera intellettuale e pratica di Aldo Capitini, che lo volle costituire dopo il successo della prima Marcia PerugiaAssisi del 1961, da lui ideata e promossa, deve la sua continuità all’infaticabile lavoro di Pietro Pinna, che dal 1962 raggiunse il filosofo presso il centro perugino. Oggi, dopo il grande impegno nella lotta per il riconoscimento del-

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l’obiezione di coscienza al servizio militare e le campagne per l’obiezione fiscale alle spese militari, l’associazione opera in vari campi, con la fondamentale direttrice dell’opposizione integrale alla guerra: dalle campagne contro il nucleare alla promozione dell’economia nonviolenta; dall’impegno per il disarmo al sostegno al servizio civile e ai corpi civili di pace; dalla lotta al razzismo alla costruzione di pratiche di convivenza civile; dall’approfondimento del metodo nonviolento alla formazione e all’educazione alla pace, coniugando la ricerca e l’approfondimento teorico con l’azione. Il MN è la sezione italiana della “War Resisters’ International”, l’internazionale dei resistenti alla guerra, con sede a Londra, del Beoc (Ufficio Europeo dell’Obiezione di Coscienza con sede a Bruxelles) e fa parte della rete italiana per il disarmo, del tavolo interventi civili di pace e della rete per la pace. Dal 2014 tiene la segreteria della campagna per la difesa civile non armata e nonviolenta. La sede nazionale, prima ubicata a Perugia, è stata trasferita nel 1989 a Verona. Il carattere fondamentale di “movimento” è mantenuto grazie ai centri territoriali, strutture informali dislocate sul territorio nazionale finalizzate a diffondere e sviluppare il metodo nonviolento attraverso “il lavoro di gruppo, con persone in più luoghi”, secondo il volere di Capitini. “Azione nonviolenta”, la rivista della nonviolenza italiana a cura di D. Taurino Era il 1963: a margine della “dieci giorni” internazionale sulle tecniche della nonviolenza tenutasi a Perugia, si riunirono una quindicina di persone, quelle disponibili a parlare specificamente dello sviluppo del “Movimento Nonviolento” (fino ad allora poco più che un’etichetta). Piero Pinna avviò la discussione con il monito, che lo caratterizzava, di “non voler abbracciare tutto per poi finire a stringere nulla”. Accanto alla nascita di gruppi d’azione diretta nonviolenta, Capitini pone l’esigenza di un “centro di lavoro” che possa essere al tempo stesso informativo, teorico e formativo. Così, si decise l’importante passaggio dal foglio ciclostilato di notizie del movimento, che al tempo saltuariamente girava, a una vera e propria rivista a stampa; e Piero potè efficacemente – d’accordo con Capitini – vinco-

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lare la presa di responsabilità d’entrambi con la condizione che si assicurasse seduta stante la copertura finanziaria della rivista per almeno tre numeri. I soldi furono raccolti e dal 10 gennaio 1964 “Azione nonviolenta” andò in stampa... un’intuizione che dura da più di cinquant’anni.

La nonviolenza ha continuato nei decenni (attraversando due secoli) a scorrere come un pacato fiume sotterraneo, che di tanto in tanto affiora in fresche sorgenti e che, anche nel contesto italiano, dopo la scomparsa prematura di Aldo, non ha cessato di fertilizzare il terreno sociale. I giovani studiosi sono tornati a interessarsi alla sua figura e al suo messaggio, così come studentesse e studenti che lo conoscono testimoniano l’appassionamento che quest’uomo “piccolo ma che guardava lontano” sa generare. Non si può negare, tuttavia, che il clima sociale nel quale viviamo sia oggi più che mai maldisposto verso la nonviolenza. Una guerra diffusa che dura dal 1991, la recrudescenza di nazionalismi nazifascisti, l’aggressività fluida e normalizzante del capitalismo neoliberista hanno modificato il paesaggio sociale, portando su piani del tutto secondari istanze di gestione creativa dei conflitti, di apertura al tu di Tutti, di costruzione condivisa della pace e di reale e concreta partecipazione di Tutti ai processi democratici, anche in vista di un orizzonte omnicratico. È altrettanto vero che è rintracciabile la venatura nonviolenta in moltissimi movimenti che hanno a cuore “un altro mondo possibile” e che – sebbene senza un esplicito riferimento – hanno tra le fonti di ispirazione la tradizione nonviolenta, con i suoi riferimenti valoriali, le sue realizzazioni, le sue tecniche. La frammentazione e la diffusione, il moltiplicarsi di realtà, ispirazioni, oggetti di riflessione fuori da una grande narrazione è parte della nostra tarda modernità e non vogliamo interpretarla come la retrocessione da un’epoca “aurea”, ma aggiungervi la nota della positività e


vedere il seme della nonviolenza, seminato a spaglio, cadere dove vuole e germogliare là dove troverà un sostrato fertile. È anche per continuare a fertilizzare che nasce questo libro. La nonviolenza è generativa: può portare alla luce un’umanità più aperta, più felice, più in pace, pur nella consapevolezza che anche la nonviolenza, come ogni prodotto umano, è discutibile e non ha pretese assolutizzanti. La nonviolenza è aperta: l’aggettivo che più qualifica Aldo Capitini, il quale lo attribuisce con particolare rilevanza proprio all’educazione, tanto da farne il titolo dei suoi ultimi due volumi. Per lui l’educazione è lotta, è inquietudine per l’educatore che si fa profeta scomodo, dilaniato dalla consapevolezza delle storture del mondo, della sua iniquità, della violenza che affligge l’umano e che si scaglia anche contro l’incolpevole non-umano. Chi educa dice no, è questa la sua parola d’elezione. Un no che entra nella carne come una spina, che non rappacifica mai con la realtà-com’essa-è e che porta a comunicare appassionatamente proprio questo dramma intimo tra le persone, soprattutto tra i bambini e i giovani. Certo, il no capitiniano alla realtà-com’essa-è è il volto inquieto del sì alla liberazione: a cosa servirebbe obiettare se non ci fosse quella tensione, quella apertura a un domani sperabile? Oltremodo drammatica è la realtà di tutti perché ravvisa in noi il senso dell’insufficienza di uno stato di cui quasi ci accontenteremmo ottusi, e ci riaccende la protesta contro l’umanità-società-realtà attuale, e il dolore per ogni essere che vediamo soffrire, anche il gatto morente che ho visto questa mattina nell’angolo di una strada e che ha alzato lo sguardo dei suoi occhi celesti e ancora brillanti verso me che lo chiamavo; ma nel farci vivere profondo il dramma, ci radica il senso della liberazione, dell’autenticità della realtà in cui tutti gli esseri sono presenti2.

Le parole di Aldo fanno venire i brividi, commuovono, chiamano: è la loro caratteristica. Oggi più che mai gli educatori corrono il rischio di “accontentarsi ottusi” dei loro compitini dettati dai burocrati della politica. Si tratta di una politica non miope, non ingenuamente disattenta, non disinteressata all’educazione, alla scuola, ai ragazzi, ma pienamente e tragicamente (per noi!) consapevole nell’arrecare danni forse irreversibili. È oggi che insegnanti, formatori, genitori devono sentirsi interpellati dalla forza del dissenso capitiniano per dire no e diventare spine nel fianco, come sono stati i maestri che verranno nominati in questo libro. L’educazione a cui vogliamo pensare è la vita stessa nel suo andare e la connettiamo alla nonviolenza nella misura in cui desideriamo qualificarla come drammaticamente cosciente dei limiti della realtà, ma anche – attraverso l’educazione stessa – capace di tendersi, di sporgersi su un futuro di liberazione che abbracci Tutti e dischiuda per Tutti la dimensione della festa. Tutti, “plurale di Tu”, parola sacra del lessico capitiniano, categoria principe, parametro irrinunciabile di ogni discorso pedagogico (e politico). Non un orizzonte da vagheggiare, ma il metro di ogni azione che si voglia giusta ed equa, adesso, qui. Aldo Capitini (Perugia, 23 dicembre 189919 ottobre 1968) a cura di D. Taurino Per un rivoluzionario che “era andato controcorrente all’epoca del fascismo e nuovamente all’epoca del post-fascismo. Forse troppo per una sola vita. Ma bello” (cit. Pietro Nenni al funerale di Capitini), qualsiasi categoria risulta limitante. Aldo Capitini fu senz’altro un rivoluzionario perché non accettò la realtà così com’è, con le sue ingiustizie e violenze, proponendo una prospettiva e un metodo per la trasformazione profonda della società nei sui vari aspetti (morale, pedagogico, politico, religioso, ecc.). In questa prospettiva Capitini ebbe sempre ben chiaro in mente che l’ideale della nonviolenza era (almeno nel panorama italia-

2. Capitini, 1951, p. 50.

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no) la novità assoluta della sua opera; non solo la teorizzò sul piano filosofico, politico e pedagogico, ma la mise in pratica in innumerevoli iniziative individuali e collettive come la fondazione di riviste (“Azione nonviolenta”, “Il potere di tutti”) e associazioni (oltre al “Movimento Nonviolento” vale la pena citare la “Società Vegetariana Italiana”), azioni dirette (i COS e i COR, la Marcia Perugia-Assisi, ecc.). Un’eredità plurale e aperta ancora da scoprire, studiare e praticare insieme: “Sarà pur bene che qualcuno lo faccia: il fuoco viene sempre acceso da un punto”.

Al cuore di ogni riflessione in tal senso, resta la domanda capitiniana: Dobbiamo aiutarlo [il fanciullo] a svilupparsi per far parte di questa umanità-società-realtà, pur nella nostra convinzione che questa umanità-società-realtà non sia accettabile?

Si tratta del quesito pedagogico per eccellenza, la cui risposta fa da discrimine tra un’educazione che accetterà il reale come naturalmente buono (o legittimamente cattivo, il male necessario), e chiederà ai nuovi nati di adeguarvisi per riprodurlo identico o con blande riforme, e un’educazione che sceglierà l’opzione radicale di aggiungere tramutando. Quella lotta tormentosa che sottosta alla seconda opzione non è tanto contrapposizione, fronteggiamento, quanto “coscienza appassionata della finitezza”, accoglienza del limite con l’apertura mite che Tolstoj chiama “non-resistenza al male con il male”, con l’aggiunta di una tensione rivoluzionaria che non si accontenta di mettere il belletto alle cose, ma vuole trasformarne radicalmente l’intima struttura. In questo passaggio si colloca l’azione educativa, in cui a tramutare è la qualità nonviolenta dell’operare. L’azione nonviolenta riscrive la storia, ne è il varco, riconfigura, riproporziona, porta la realtà a una metamorfosi totale e corale. Realizza la compresenza. Celebra la festa. 12

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Lev Tolstoj (Jàsnaia Poljana, 9 settembre 1828-Astàpovo, 20 novembre 1910) a cura di A. Vigilante Lo scrittore di Guerra e pace e Anna Karerina, tra i più grandi di ogni tempo, è anche uno dei padri della nonviolenza. In seguito a una crisi spirituale si converte a una concezione religiosa, etica e politica al tempo stesso, esposta soprattutto nei libri Della vita (1888) e Il Regno di Dio è dentro di voi (1893). Al centro del suo pensiero c’è il messaggio del Vangelo, interpretato in polemica con la Chiesa ortodossa (dalla quale verrà scomunicato), che Tolstoj accusa di giustificare l’oppressione del popolo da parte dei ricchi e la disuguaglianza sociale, con la violenza che comporta. Nella sua purezza, il messaggio evangelico è rivoluzionario, spazza via non solo la Chiesa, ma anche lo Stato, anch’esso al servizio della violenza dei forti contro i deboli. Seguire il Vangelo vuol dire stare dalla parte degli ultimi, condannare la superstizione, lo sfruttamento, la disuguaglianza, la guerra. Non con la violenza, bensì attraverso la non resistenza al male e la disobbedienza. Se lo Stato è al servizio della violenza, la sua legge non è vincolante per chi segue la legge morale del Vangelo. Si può, anzi, si deve disubbidire allo Stato. La nuova società nascerà non da una rivoluzione cruenta, ma dalla conversione interiore e dalla non collaborazione con il sistema politico-economico violento.

L’educazione è anche oggetto di riflessione e di azione nonviolenta. Senza che l’educazione si tramuti essa stessa – nelle sue finalità, nelle sue concettualizzazioni, nelle sue pratiche quotidiane, nei suoi metodi – sfiorisce la possibilità di fare festa e la liberazione torna ad allontanarsi, fino ad apparire come un miraggio sfuocato e irraggiungibile, un’utopia inconsistente e scialba. C’è bisogno che l’educazione si disarmi, inventando un’architettura del lessico e dei saperi educativi completamente diversa da quella che ha prevalso finora, se è vero che l’educazione di millenni ha condotto all’apoteosi della distruzione bellica che è sotto gli occhi di tutti.


L’educazione agisce prima, è questo il suo proprium. Il punto di vista preventivo – e non meramente (e spesso inefficacemente) riparatorio – unito alla mole di studi dei più vari campi scientifici, ci permette di dire oggi che un’educazione che fa bene passa per una buona nascita, per una sana e ricca relazione con la propria madre e i vari caregiver, per un continuum di relazioni che permettano al bambino e alla bambina di essere se stessi senza subire costrizioni, di esprimersi creativamente, di muoversi liberamente, di imparare vivendo (e non solo facendo). Di essere gioiosi, felici, a partire dal corpo. Tuttavia questo quadro quasi scontato dal punto di vista ideale urta ogni giorno con modalità di accudimento ed educazione spesso opposte. I primi momenti dei piccoli umani passano all’insegna di una cattiva nascita, segnata dalla violenza primaria dell’interferenza medica, che come atto di benvenuto toglie al neonato nelle ore più importanti della sua vita la persona che rappresenta l’unico habitat possibile, infliggendogli un imprinting devastante. Quello che verrà dopo è coerente con questo benvenuto, che depriva delle relazioni calde, corporee, significative per sostituirle con la disperata solitudine dei bambini consumatori e iper-tecnologizzati. La violenza in educazione non è solo quella dei lividi che affiorano sulla carne. Di invisibile violenza – parola impronunciabile avvolta dal tabù – è costellata la quotidianità dei bambini che non sanno che significa correre in un campo di fiori, coltivare un albero, giocare a perdifiato, sudare (perché sudare è vietato...), respirare l’aria. Fa male dirlo, ma siamo ancora troppo poco coscienti dei danni immensi dell’educazione, con le file ordinate dei piccoli nei corridoi, i banchi allineati a cui i più grandetti sono inchiodati per ore nelle aule, con l’obbligo di chiedere il permesso per ogni movimento, con una didattica omologante e standardizzata che butta fuori chi non sta a galla con l’arma della diagnosi e i bisogni speciali, con una modalità di apprendimento individualistica e

competitiva che azzera la creatività e annienta l’identità personale. Quei bambini, i nostri bambini, saranno per anni ammaestrati a divenire tanti bei “soldatini obbedienti”. Alcuni diventeranno gli iperadattati del sistema, altri cresceranno con un oscuro livore dentro, più o meno refrattari al sistema ma senza i mezzi per scardinarne i meccanismi; a volte, senza neppure i mezzi per salvare se stessi. Pochi, troppo pochi riusciranno a non soccombere, avendo coscienza di quanto armata e bellica sia stata la loro educazione finora. Derubati della festa, vogliamo almeno augurarci che essi diventeranno i nuovi profeti di un domani sperabile. Che cos’è la nonviolenza? Possiamo esplicitamente definire la nonviolenza come unità amore verso tutte le persone nella loro individualità singola e distinta, persona da persona, con vivo interesse anche alla loro esistenza, in un atto di rispetto ed effetto senza interruzione, con la persuasione che nessuna persona è chiusa nel suo passato, e che è possibile dire un tu più affettuoso e stabilire un’unità più concreta con tutti. Come tale, dunque, la nonviolenza è tutt’altro che passiva, anzi è attiva e inventiva, aperta a una trasformazione della realtà e della società, in ciò che esse sono violenza, oppressione, morte e pesce grande che mangia pesce piccolo. La nonviolenza è, perciò, iniziativa di qualche cosa di diverso, auspicante una trasformazione. Sarebbe un errore educare i fanciulli alla conoscenza della realtà e della società attuali come perfette, e non avviare – corrispondendo del resto ad una intima loro esigenza – che esse possano trasformarsi in meglio, ad un migliore servizio verso la realtà di tutti. La categoria della trasformabilità della realtà e della società va coltivata attivamente e ricondotta sempre ad esigenze etico-sociali, non individualistiche e fantastiche. La pedagogia della nonviolenza ha, dunque, una forma indiretta ed una forma diretta: l’indiretta che consiste nell’esercizio dello sviluppo individuale e del dialogo democratico, la diretta che è nell’esplicita fede in un atto di unitàamore verso tutti, che si aggiunge, come da un centro di vita religiosa, alla realtà circostante. [...] Perciò non è soltanto importante che il fanPROFETI SCOMODI, CATTIVI MAESTRI

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ciullo sia circondato da un ambiente e da occasioni che lo tengano lontano dalla violenza [...] Ma importa, e anche più, la disposizione del fanciullo ad una vicinanza con tutti gli esseri, sia confermata dagli adulti, arricchita di sapere e di tecniche, posta al centro della vita stessa, per cui diventa gioia ogni estensione di affetto, e dolore ogni eccezione che si debba fare per stretta necessità di difesa o di giustizia, eccezione che si augura non sia più necessaria in seguito3.

Note al testo I testi raccolti sono un’ampia selezione degli articoli pubblicati su "Azione nonviolenta" dal 2010 in poi. I titoli sono stati talora ritoccati per armonizzare l’andamento degli argomenti nel volume. In alcuni casi sono state apportate lievi modifiche al lessico, senza alterarne i contenuti. Per i box, nei quali è indicata la paternità di scrittura, ringrazio Daniele Taurino, responsabile dei Giovani del Movimento Nonviolento, studioso di filosofia e instancabile attivista del Movimento Nonviolento con il quale il dialogo è quotidiano; Antonio Vigilante, tra i più attivi studiosi italiani della tradizione nonviolenta nonché docente di storia e filosofia nella scuola secondaria; Antonella De Benedittis, educatrice e insegnante di infaticabile pratica nonviolenta. Un ringraziamento corale va a tutta la famiglia della nonviolenza, a cominciare dal presidente del MN e direttore di AN Massimo Valpiana, alle innumerevoli voci che disseminate nelle lande della penisola mostrano che la nonviolenza è viva e continua il suo cammino di pace e fratellanza tra i popoli. 3. Capitini, 1959, pp. 2-8.

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L’abbraccio festivo: educazione e nonviolenza

Il conoscere il mondo è connesso con il volerlo cambiare Aldo Capitini Per il mio punto di vista, le materie vengono ricondotte a valori, e perciò l’educatore le costruisce e le vive associandole ad un valore da vivere preliminarmente, con la fiducia che nell’atto di educare questo valore non va perduto, ma vive nell’educando [...] Facciamo un esempio: io insegno la botanica, ma preliminarmente a questo studio è l’attenzione affettuosa che ho “alle piante”, la gioia per il loro dispiegarsi, il dolore per il loro appassire; i nomi delle piante, le loro varie forme e molteplici manifestazioni, sono cose connesse che seguono al valore che è il sentirsi vicini e uniti ad esse; se io ho rinunciato a un sapere che prescinda da un valore, soltanto nella struttura del valore unito al sapere vivrò l’insegnamento in questa parte; nell’atto di educare, ho la certezza che il valore non è estraneo all’educando, e che se egli lo vede in me, ne ha una conferma in sé, ed anche potrà andare oltre nell’intensificazione dell’amore per tutti gli esseri: il sapere egli se lo cercherà sulla base di questo valore, se lo costruirà attraverso domande a me o sue letture, e ricerche o esperienze1.

Nella mia travagliata ricerca giovanile di un orizzonte che non avesse chiusure, l’incontro con Aldo Capitini una decina di anni fa è stata una salvezza. Pur amando molta riflessione filosofica e pedagogica, capace di aprire il cuore, sentivo 1. Capitini, 1968, pp. 189-94.

che lo studio non bastava, che nei singoli pensatori che incontravo restavano aree inesplorate o non toccate affatto dall’apertura promossa. Amavo Mounier e la sua scrittura, ma non trovavo il posto dell’animale; amavo la Montessori e Dewey ma non mi comunicavano l’appassionamento verso un cambiamento che va oltre e su taluni aspetti tacevano del tutto. Don Milani, Danilo Dolci, Mario Lodi, Gianni Rodari mi appassionavano. Quando mi imbattei nel libro curato nel 1970 dal preside Virgilio Zangrilli, Pedagogia del dissenso, vi trovai una sintetica disamina del pensiero di Aldo Capitini. Un uomo assetato di infinito, a cui nessun “progresso” bastava, che finalmente scardinava da dentro il meccanismo odioso del potere, anche nell’educazione, e guardava a Tutti, nessuno escluso: tutti gli esseri venuti alla vita, tutti uniti dall’abbraccio della compresenza, tutti nel movimento cooperativo verso la liberazione. Liberazione che necessita della presenza di ciascuno, pur non aspettando una sorta di unanimità di intenti, perché sa iniziare ora, dispiegandosi in ogni atto di apertura al tu, di nonuccisione, di nonmenzogna, di noncollaborazione con il male, rivelandoci, soprattutto in alcuni momenti, l’orizzonte di Tutti, la compresenza perfetta, la luce del mattino. In quei momenti epifanici l’orizzonte festivo si fa presente e trasfigura la realtà così limitata in cui viviamo, mostrandoci che l’apertura nonviolenta non è una sorta di deposito crediti che vale per un aldilà ultraterreno, tantomeno per mettere al riparo la nostra anima, ma è quotidianità che si allarga oggi, fenditura, crepa, ferita finanche nel tessuto apparentemente fitto e robusto della violenza ordinaria; finestra da cui ci si può affacciare per vedere lo splendore della festa, che non al di là, ma proprio qua e si svilupperà pienamente in un “domani sperabile”. La nonmenzogna, fondamento dell’unità con l’altro Io non sono solo, non sono il solo individuo, altri furono. Prima di me, altri vi sono ed altri PROFETI SCOMODI, CATTIVI MAESTRI

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verranno: individui esistenti concretamente, pensanti e viventi, con una incomparabile somiglianza a me. Se un’unità intima mi lega al libro, all’opera d’arte del tale o del talaltro, unità mi lega con l’altro essere umano. Egli non è tanto altro che non vi sia un’unità profonda, un atto che ci leghi. Come ho sperimentato tante volte che, giunto dinanzi ad un paesaggio nuovo, pure qualche cosa mi pareva che di familiare ci fosse tra me ed esso; così non trovo mai un essere umano con cui non senta una certa familiarità e che qualche cosa di importante mi possa legare a lui. Con la persuasione religiosa approfondisco la consapevolezza che l’altro è un individuo esistente, presente. Il proposito di non mentirgli mai, rinnovato ad ogni istante, vince continuamente l’essere separati, quella separazione che non è la differenza spirituale che ha pur sempre una base di unità, ma la separazione materiale, di cosa vicino a cosa. Io potrò propormi fini altri quanto si voglia; ma l’altro non lo avvicino in modo assoluto a me, e resta fuori finché penso di mentirgli2.

Il mondo appare diverso dopo l’esperienza incarnata dell’apertura al tu. La compresenza, corredata del tratto misterioso ai più che esprime l’aggettivo “escatologico”, si mostra per quello che è: non teoria filosofica o credo religioso, ma “vita da provare”, non accertabile fuori dall’apertura. Quando l’esperienza è avvenuta, la realtà non sarà più la stessa né in sé, nel suo essere oggettivo, né agli occhi di chi ha vissuto l’unità-amore e il suo potere tramutativoliberante. In essa si è inserito “l’atto atomico della nonviolenza”, dice Aldo in piena guerra fredda. Da quel momento, comincia il cammino. Abbiamo tentato di non dare la morte né col pensiero né con l’atto, per vedere se la realtà ci seguisse?

Questa frase illumina sulla qualità dell’azione nonviolenta, che non mira ad agire “sulla realtà” alla maniera dell’homo faber, del costruttore, dell’ingegnere, il mito moderno del soggetto onnipotente in grado di forgiare il 2. Capitini, 1937, pp. 55-56.

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mondo secondo i propri scopi e i propri desideri di autorealizzazione. No, non è quella l’azione che può tramutare la struttura intima della realtà. Può al più ben amministrare quanto già esiste; più di frequente limitarsi a riprodurne i limiti e le iniquità pur di perseguire quanto si prefigura. L’azione nonviolenta, di cui quella educativa è espressione massima – è piuttosto quella dell’homo religiosus, che accarezza le cose con gratitudine e non distrugge, abitato dalla consapevolezza che con la silenziosa aggiunta dell’apertura quotidiana a tutti, il mondo cambia, la realtà si accende e va. Credo che nella visione capitiniana, sintetizzata nella frase di prima, ci sia la svolta antropologica della nonviolenza, insieme alla critica verso la società attivistica che lavora puntando obiettivi (parola bellica!), si rivolge a target (parola bellica!), adotta strategie d’azione (parola bellica!), pianifica e misura i risultati. Certo Aldo non si trova immerso nel linguaggio che ogni giorno subiamo in ogni contesto, il linguaggio ingegneristico-funzionale-gestionale-finanziario (sempre di matrice bellica!) che ammorba come una micosi la comunicazione contemporanea plasmando le menti a sua misura. Ma Capitini conosceva bene l’ubriacatura industriale (e bellica!) che rinfocola gli entusiasmi da fine Ottocento al fascismo e vuole parlare con un altro linguaggio, pur non maturando alcuna nostalgia antimodernista e contraria al progresso tecnico. Il punto di osservazione è diverso, e la sua frase illumina su questo anche chi voglia incamminarsi. È facile – specie negli ambienti dove è ipertrofica la riflessione a scapito dell’azione – come l’università, proporre analisi che iniziano dalla decostruzione della violenza – il suo linguaggio, le sue forme, i processi – per poi elaborare l’eventuale proposta innovativa, di segno diverso. Non è strano in questi casi verificare che di innovativo c’è poco e si qualifica più come “non violento” che come “nonviolento”. La fusione delle due parole, nota a chi conosce


Aldo, ci riporta all’incoraggiamento di prima: non partiamo dalla realtà violenta, partiamo piuttosto dal punto di osservazione che l’apertura al tu ci ha dispiegato, quello in cui ci siamo ritrovati esperendo la compresenza, e da lì riguardiamo la realtà: ci segue? Allora essa appare trasfigurata, non più solo affetta dal limite, dal dolore, dall’ingiustizia, dalla morte, ma anche illuminata dalla luce del mattino; non più pesantemente ancorata a un passato-presente scoraggiante, ma capace di alzarsi in volo. È lo sguardo, o forse sarebbe meglio dire l’abbraccio, del profeta, direbbe Aldo, qualificando – di tutti gli amici della nonviolenza – proprio chi fa l’educazione. Parlare di educazione e nonviolenza significa avere interesse per tutta la realtà, osservandola con l’occhio del profeta. La dimensione che attraversa tutta la nonviolenza è quella educativa, quella di un amore pensoso che intessendo relazioni feconde, genera la realtà liberata. Certo la qualificazione nonviolenta dell’educazione chiede – e a gran voce oggi – una riflessione radicale della pedagogia come sapere che troppo spesso ha riprodotto i rapporti di potere, gli stereotipi culturali, i limiti della realtà piuttosto che eroderli internamente offrendo contesti, modalità, contenuti audacemente oltre il confine, non di rado asfittico, del fare educativo sancito dalle istituzioni e dalle pratiche comuni. La pedagogia oggi rischia di aver ben poco da dire senza l’impulso nonviolento e, omettendo un discorso coraggioso di critica e di proposta che non rimescoli obsoleti richiami retorici a valori in via di estinzione, nuoce ai più fragili: i piccoli, le nuove generazioni, i giovani che iniziano la vita assetati accanto a pozzi secchi e presto si assuefanno a uno stato di carenza di orizzonti cronico e disperante. L’educazione nonviolenta invece si nutre della “viva dualità” tra la realtà limitata e la realtà liberata, di un dinamismo fatto della speranza incarnata da maestri e maestre che, prima delle materie scolastiche, prima delle regole del vivere

civile, prima della formazione professionale (tutte cose transeunti, opinabili e più che mai oggi incerte), vogliono, desiderano vivere la vita con i piccoli, abbandonando cliché, spogliandosi dei ruoli e cominciando a guardare anche l’educazione dal “punto di arrivo comune”: la festa. Se deflagrasse nell’educazione la dimensione festiva, come unica vera tonalità del vivere insieme e dell’educarsi insieme, si aprirebbe la stagione rivoluzionaria – e come tale osteggiatissima da ogni potere – del piacere nei luoghi della vita e dell’educazione. Il piacere dei genitori di giocare e studiare e scoprire il mondo con i loro figli; il piacere delle maestre di consegnare ai bambini le chiavi preziosissime degli universi scritti nei libri e il brivido di avventurarvisi; il piacere di incontrarsi e riconoscersi per creare, inventare il futuro; il piacere anche quello esplicitamente corporeo di darsi la mano, abbracciarsi, tenersi vicini quando si ha paura, stringersi forte quando ci si desidera. Troppo è dominata nel considerare l’educazione l’idea di armonia delle attitudini, delle facoltà, delle esperienze, e la tradizione della civiltà greco-europea ha presentato proprio qui uno dei suoi aspetti dominanti; il concetto di educazione è ravvivato, invece, e sottratto ad un pericolo conservatore, proprio introducendovi una viva dualità, inserendo cioè in esso un elemento di tensione che discrimina il passato e chiede un futuro; e poggia quindi maggiormente su ciò che è liberante, trasformante, creativo. [...] Entra nella pedagogia la fiducia di potersi occupare anche di quelli che sono considerati strumenti di liberazione (o vie del dover essere) etici, religiosi, sociali, estetici, in quanto essi operano come valori educativi; parte che di solito non si guarda, badando piuttosto allo studio dell’essere, e perciò ai sistemi di istruzione, ai lati psicologici e sociologici. [...] Mi pare, cioè, che l’educazione debba dare il senso di una tensione, di una insoddisfazione per ciò che c’è; e che la pedagogia debba anch’essa aggiungere al suo molteplice e indispensabile lavoro, questa attenzione e questo aperto studio di tensioni alla liberazione come operarono e come ancora opereranno3. 3. Capitini, 1951, p. 4.

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Quello che è mancato alla nostra civiltà frastornata dall’attivismo scientista della modernità e dell’industrializzazione, quello che riemerge forte negli anni Sessanta e Settanta per poi subire l’affossamento della cultura dominante e che rappresenta il cardine, a mio avviso, di ogni pedagogia possibile oggi è il piacere. Che è del corpo, nel corpo, tra i corpi. L’educazione è stata troppo a lungo intristita dall’ideologia del sacrificio e della sofferenza (espiatoria e ascetica) che hanno intriso di mortificazioni anche l’idea di impegno (e in quanti ambienti “impegnati” è ancora così!). Lo mostra con chiarezza l’unità modulare omologata, costrittiva e immobilizzante del banco, via via più rigido e scomodo man mano che si sale verso le scuole superiori e l’università. Negli spazi educativi istituzionali tutto comunica controllo e disciplinamento: restare “inchiodati” alla cultura dei grandi che ci hanno preceduto, chiedendo il permesso anche dopo i 18 anni per andare in bagno, passando le giornate in posizioni innaturali che deformano il corpo con gli anni e uccidono l’entusiasmo dei più. E mentre il corpo è immobile, si pretendono menti dinamiche; mentre il corpo è reso rigido, si pretendono personalità flessibili; mentre si vive troppe ore di troppi anni in luoghi chiusi, si pretendono menti aperte; corpi omologati e menti capaci di accogliere le differenze. I riottosi – cioè quelli con un residuo di vitalità resistente – saranno presto bollati come patologici, bisognosi di diagnosi e trattamento, una modalità dilagante di trasformare in etichette medicalizzate quelli che ieri erano comunque i soggetti indisciplinati, fastidiosi, intemperanti rispetto alle regole di mortificazione senza scopo dell’educazione. Senza scopo? No, con uno scopo implicito ma ormai chiarissimo: ridurre – non facilitare! – l’autonomia di azione e di pensiero, la libera iniziativa, l’espressione creativa e sfornare a tempo debito un suddito ben confezionato pronto alla società dello sfruttamento 20

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lavorativo tardo-moderno e del relativo consumo compensativo e vorace. Nell’illusione di essere cittadini liberi di scegliere. Molto è peggiorato, dalle analisi degli anni Settanta, anche nei contesti educativi. E chi fa l’educazione è più che mai privo di chiavi di lettura innovative. La nonviolenza è una di queste, forse l’unica in grado di scrivere ex novo il lessico dell’educazione, ma necessita della metanoia dell’educatore/trice stesso/a, la sua conversione interiore, quell’esperienza della festa che ribalta i punti di osservazione e può avviare movimenti rivoluzionari. Gli atti dello smascheramento, di togliere i veli, di additare i re nudi non sono affatto obsoleti e acquistano potere liberante se vissuti dentro pratiche radicalmente diverse, che certo richiedono e richiederanno lotte agli educatori. Lotta: la parola più sconosciuta a chi vive nelle realtà educative, più facilmente incline a descriversi come “in trincea”. Ma noi sappiamo che la nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra, qui tutto infranto lì tutto intatto. La nonviolenza è guerra anch’essa, o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata. La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa4.

Quello che è mancato anche alla riflessione nonviolenta dei padri e che può rappresentare una pista di ricerca interessante, soprattutto nell’educazione, è stato connettere la lotta con il piacere dell’avvicinamento alla liberazione. Se Aldo ha l’intuizione centrale, la festa, egli stesso non coglie il potere liberante del corpo e si muove nei limiti di un ascetismo (molto più marcato in Gandhi, ad esempio) che non riconosce al corpo tutta la sua bellezza creativa e 4. Capitini, 1948, p. 57.


creatrice, anche di liberazione. Ma oggi abbiamo tutti gli strumenti scientifici per restituire al corpo l’ascolto e l’abbraccio che merita, liberando le sue componenti selvatiche (non selvagge, mi insegna il caro amico Giuseppe Barbiero, perché selvaggi diventano gli animali in gabbia, non quelli liberi di correre nella savana) che, anch’esse, muovono verso la liberazione. Ignorare questi aspetti significa indebolire tanto l’intenzione nonviolenta quanto le possibilità realmente emancipatorie dell’educazione. Approfondirli significa scoprire, dopo secoli di dualismi e scissioni che ci hanno abbrutiti trasformandoci in animali da guerra, che il corpo non è nemico ma collaboratore nella scrittura di un nuovo lessico educativo che, prima e oltre qualsivoglia obiettivo, è fatto del godere insieme del cammino. Perché “nonviolenza” è una parola unica? Il neologismo capitiniano La nonviolenza non è cosa negativa, come parrebbe dal nome, ma è attenzione e affetto per ogni singolo essere proprio nel suo essere lui e non un altro, per la sua esistenza, libertà, sviluppo. La nonviolenza non può accettare la realtà come si realizza ora, attraverso potenza e violenza e distruzione dei singoli, e perciò non è per la conservazione, ma per la trasformazione, ed è attivissima, interviene in mille modi, facendo come le bestie piccole che si moltiplicano in tanti e tanti figli. [...] Nonviolenza è apparentemente un termine negativo. Il rifiuto della violenza è un atto positivo che richiede volontà e molta energia interiore. [...] Della nonviolenza si può dare una definizione molto semplice: essa è la scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, è particolarmente di esseri umani. [...] La nonviolenza è, dunque, dire un tu ad un essere concreto e individuato; è avere l’interessamento, attenzione, rispetto, affetto per lui, è aver gioia che esista, che sia nato, e se non fosse nato, noi gli daremmo la nascita: assumiamo su di noi l’atto del suo trovarsi nel mondo, siamo come madri5. 5. Capitini, 1955; 2004, pp. 73-74.

Una parola oggi riconosciuta dall’Accademia della Crusca Il 1° ottobre 2016 un nutrito gruppo di studiosi e amici della nonviolenza, guidati da Rocco Altieri, direttore della rivista “Quaderni Satyagraha”, ha interpellato l’Accademia della Crusca affinché contribuisse con autorevole parere all’aggiornamento nei dizionari cartacei e on line dell’obsoleto lemma non violenza o non-violenza, di frequente ancora rilevato, a favore del lemma nonviolenza, come parola che porta con sé i significati propositivi legati all’attiva costruzione della pace, oltre che di opposizione alla violenza. Il 5 ottobre 2016, la redazione del servizio di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca ha risposto con una puntuale analisi delle varianti presenti nei dizionari, evidenziando anche la registrazione contemporanea del lemma separato o col trattino e della parola unica. “Queste scelte mostrano una consapevolezza dell’ormai quasi definitivo passaggio da composto non univerbato a forma prefissata con nonfino alla successiva perdita del trattino e alla considerazione di nonviolenza come parola unica, diversamente da molti prefissati analoghi che però hanno mantenuto come grafia più diffusa quella non univerbata. [...] la lessicografia contemporanea – anche quando privilegia la forma non univerbata – considera nonviolenza come un’unità lessicale: esito che senza dubbio è stato favorito dalla spinta del Movimento Nonviolento, che ha attribuito un nuovo valore alla parola.” La compresenza, il cuore della nonviolenza Il punto di partenza dell’apertura alla compresenza è che l’io non è solo ma è con altri, tutti, anche i morti, e ciò che viene fatto, è fatto con l’aiuto di tutti. [...] l’attività creante valori non è solitaria, non è individualistica; nell’intimo è aiutata. [...] Finisce la prospettiva umanistica dei forti creatori di valori, e gli altri sono meno o nulla; invece tutti contano. La compresenza non è una società per iscrizione, adesione, iniziazione, battesimo, una società particolare, ma comprende tutti gli esseri “nati” (nascere è entrare non solo nella natura ma anche nella compresenza). Bisogna che si propaghi dall’apertura religiosa alla compresenza un’opera continua di restituzione a tutti, anche sul piano economico, sociale, culturale6. 6. Capitini, 1967, pp. 73-81.

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Disarmare il linguaggio dell’educazione

Fare presto, e bene, perché si muore Danilo Dolci

Quante volte mi è capitato? Credo tutte le volte. Entro in una scuola, faccio la mia formazione sull’intercultura, i conflitti, la nonviolenza e poi c’è sempre un’insegnante perplessa che fa: Sì, tutte le cose che dice lei sono belle... però, nelle aule ci stiamo noi, ci vuole ben altro per noi che stiamo in trincea.

I docenti stanno in trincea. E quando gli educatori della cooperativa non sanno che pesci prendere con i bambini di Bari Vecchia, mi chiamano per trovare nuove strategie. I professori universitari di didattica fanno ricerche con precisi target di studenti. E i più ben intenzionati, i più idealisti tra educatori e pedagogisti, bramano di innescare il cambiamento. Sempre sperando che le strategie per innescarlo abbiano un buon impatto. Ahia! Ho come la sensazione di essermi riempita di lividi. Quando passo davanti alle scuole vedo fiorellini ritagliati alle finestre, nuvolette e tendine ricamate e poi dentro è una trincea, dove strateghi innescano un cambiamento che abbia un impatto su un bersaglio di allievi?! C’è qualcosa che, come al solito, non mi torna. Il XX è stato il secolo della scoperta del bambino, Piaget, Montessori, Dewey e tanti altri inizia-

no a parlare di rispetto, amorevolezza, dolcezza, accoglienza... la famosa rivoluzione puerocentrica, no? E poi ci ritroviamo tutti in trincea?! Se il linguaggio riflette le cose, inizio ad aver paura che al di là delle tendine accada qualcosa di inquietante che lascerà morti e feriti lungo il percorso. In effetti i dati sugli abbandoni e la dispersione scolastica danno l’idea di un campo profughi. Ma c’è dell’altro: il linguaggio non si limita a riflettere le cose, perché è uno dei più potenti costruttori delle cose, delle rappresentazioni mentali delle persone che lo usano per compiere azioni concrete. Quindi il linguaggio agisce nella realtà in modo attivo, contribuendo a costruire la realtà di cui parla, nel modo in cui ne parla. Cioè, finché un docente starà in trincea, la sua aula sarà una trincea. Finché il cambiamento bisognerà innescarlo, qualcuno dovrà pur munirsi (munirsi!) di micce, esplosivo e detonatore. Il linguaggio, insegna da decenni Noam Chomsky, performa la realtà, le dà vita, struttura la nostra mente a leggere secondo finestre teoriche ben precise e ci fa agire di conseguenza. Le metafore non sono solo figure retoriche, ma forme del mondo della vita, che proprio per il loro carattere sintetico-analogico, sono molto più potenti del linguaggio razionale-analitico. Dire al proprio amato “stare con te è un paradiso” è ben diverso che dire “trascorrere del tempo con te è arricchente e appagante per gli alti livelli di condivisione fisica e spirituale”, vi pare? Certo, il potere delle parole non è deterministico, ma possiamo iniziare a cambiare le cose, modificando il modo con cui le diciamo. Può essere un esercizio divertente ascoltarsi parlare e trovare le metafore belliche nascoste nelle parole di tutti i giorni, per chiedersi: è proprio quello che volevo dire? A volte, anche le metafore guerresche possono avere senso (il conflitto può essere una deflagrazione e una bella ragazza una bomba), ma scoprire che il linguaggio comune è così tanto intriso di guerra lascia PROFETI SCOMODI, CATTIVI MAESTRI

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stupiti e chiede anche – se vogliamo un altro mondo – di trovare altre immagini (che la tradizione nonviolenta già porta con sé). Una delle più belle è quella del camminare libero, l’espressione più libera del sé e più vicina all’andare temporale dell’esistenza. Il cambiamento allora può essere avviato, percorso, raggiunto, vissuto con soste, rallentamenti, accelerazioni, pisolini sotto un albero, merende in allegria, cantando, chiacchierando, contemplando, respirando. Le strategie e le tattiche possono lasciare il posto al metodo di vecchia memoria, che contiene in sé l’odòs, la strada da attraversare per andare oltre, senza scomodare architetture bellicose. L’educazione, come la vita stessa, diviene camminare insieme, fare un pezzo di strada insieme, in un avventuroso labirinto. Ancora, agganciata al labirinto che nasce in Occidente, a Creta (con la forma dell’utero) c’è la metafora a me molto cara della fecondità, unita a quella agricola della fioritura. Queste due metafore portano con sé il mondo ricco della generazione, della creatività, dell’invenzione, del nutrimento che dà vita e ha cura della vita dal primo giorno. Questo lessico, in parte presente già nell’educazione, in parte archiviato perché sentito retorico, buonistico o addirittura reazionario, può essere oggi reinventato per dare all’educazione le parole della nonviolenza, con l’intima persuasione che anche quelle parole faranno davvero un’educazione nonviolenta. Inventiamola: è l’ora!

Danilo Dolci (Sesana, 28 giugno 1924Trappeto, 30 dicembre 1997) a cura di A. Vigilante Nato a Sesana (Trieste) nel 1924, nei primi anni Cinquanta interrompe gli studi di architettura per frequentare la comunità cristiana di Nomadelfia, fondata da don Zeno Saltini a Fossoli, in Emilia. Nel 1942 si trasferisce in Sicilia (Trappeto, Partinico, Palermo), dove si 52

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impegna per organizzare la popolazione e lottare contro la miseria, la disoccupazione e la mafia (di cui denuncia i rapporti con la politica). I metodi usati sono stati quelli nonviolenti: i digiuni, lo “sciopero alla rovescia” (portare i disoccupati a lavorare in segno di protesta), le marce, la documentazione sociologica delle condizioni di vita. Dagli incontri con i pescatori e i contadini nasce la “Maieutica Reciproca”, una metodologia dialogica che diventa il suo principale strumento di lavoro. Il suo impegno mira a trasformare la società agendo sui rapporti, con il passaggio dalle relazioni asimmetriche proprie del dominio a quelle collaborative, paritarie e dialogiche del potere (termine che in lui acquista un senso positivo, come realizzazione delle possibilità vitali di ognuno). La Maieutica Reciproca intende favorire il passaggio dalla trasmissione unidirezionale, che è propria del dominio, alla comunicazione autentica, anche nel contesto scolastico.


La nonviolenza e l’educazione iniziano dal corpo

Nella tradizione nonviolenta, italiana e non, i riferimenti al corpo sono pochi e contraddittori. Questa dimensione fondamentale dell’esistenza è considerata periferica, quando non oggetto di pratiche di “controllo” che tengano a bada istinti come la fame o il sesso. Stessa sorte – Foucault insegna – ha avuto il corpo nell’educazione, disciplinato, omologato nelle divise, immobilizzato nei banchi, zittito da una scuola che è capace di fare a meno di palestre e palloni, di giardini e orti, preferendo fiaccare le spalle dei bambini con volumi sempre più pesanti. I tempi sono maturi affinché si ripensi al corpo come attore imprescindibile e alla cura del corpo – il proprio e quello degli altri – come momento essenziale per la costruzione della nonviolenza attiva e di un percorso di crescita che non lo svaluta a mero contenitore di cibo, mezzo di trasporto della mente o fardello che svilisce la spinta dell’ideale. Capitini stesso definisce il corpo “questo animale che portiamo con noi”, in un’accezione che non è, certo, nobilitante. Sappiamo oggi che questo animale vive un rapporto diretto con la violenza, come chiarisce James Prescott in un bell’articolo del 1975, quando viene deprivato del piacere del contatto. Siamo portati a considerare a rischio bambini che subiscono violenza diretta, abusi, percosse e sappiamo quanto sia alta la correlazione tra

botte ricevute e botte inferte a compagni di scuola prima, a mogli e figli dopo. Quello su cui fa riflettere Prescott è l’effetto deleterio dell’assenza di contatto fisico caldo, tenero, intenso, continuo per il bambino, che necessita di ricevere carezze, per crescere felice di vivere e senza spinte distruttive. Queste affermazioni appaiono ad un confronto con la realtà quotidiana più rivoluzionarie di quanto possano sembrare. C’è una condanna tacita verso i genitori che tengono i bambini in braccio, ad esempio, così come dormire insieme senza temere lo scoccare di età fatidiche o condividere la nudità col proprio figlio è ancora problematico. Perché? Perché siamo pervasi di fantasmi pseudo-psicanalitici (uniti a remore moralistico-religiose) che, con l’auctoritas di psicologi televisivi, ci dicono che i bambini non si autonomizzano se non comprendono subito (subito, quando?) le linee di confine tra lettone e lettino, che vedere o toccare gli organi genitali materni e paterni crea senso di inferiorità e inadeguatezza. Questo rischia di tradursi in un distacco precoce tra corpi naturalmente spinti a toccarsi, a giocare, a stringersi, un distacco che spesso addolora i genitori e sempre intristisce i bambini, che iniziano a soffrire la solitudine della contemporaneità a cominciare dalla fredda sensazione di carenza di contatto. Fuori dalle mura domestiche, l’incubo del pedofilo, che varca la frontiera del vecchio bavoso e investe entrambi i generi e tutte le età, o il terrore della zingara ruba-bambini, rinforza la barriera contro il contatto corporeo tra esseri umani. A fatica si diffonde la consapevolezza che costruire un mondo di pace non può non passare dalla gioia di vivere insieme e questa dalla possibilità di condividere l’allegria dei sensi, della carezza, dell’abbraccio, di quella prossimità di cure che le ricerche più avanzate mostrano essere vitali per la costruzione di personalità forti e resilienti, di intelligenze creative, di persone capaci di tollerare il dolore e le frustrazioni. PROFETI SCOMODI, CATTIVI MAESTRI

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Allora, dedichiamo tempo a un bel bagno caldo con nostro figlio, giochiamo con l’acqua, facciamoci lavare i capelli, permettiamogli/le di giocare con il nostro corpo senza inutili pudori, lasciamo altrove la logica degli obiettivi da raggiungere, della scaletta da rispettare, degli orari stabiliti e raccontiamoci storie mentre ci massaggiamo olio sulla schiena. Mettiamoci sul divano, comodi comodi, a fare i compiti il pomeriggio, senza scarpe e a gambe incrociate e poco importa se la grafia non sarà perfetta. Prepariamo una cena simpatica da mangiare senza posate, stendendo un tappeto in salotto e sedendoci tutti per terra. Giochiamo a inventare giochi senza giocattoli. Lasciamo liberi i bambini di non usare le scarpe in casa, di sentire il pavimento sotto le piante dei piedi, se lo desiderano, e di togliersi i vestiti se hanno caldo. Facciamogli provare l’allegria di una grattatina alla schiena, massaggiamogli i piedi dopo una camminata o a sera, non risparmiamogli un bacio e un “ti amo tanto” sussurrato all’orecchio in un momento qualsiasi, senza ragione che non sia il piacere di dire l’amore. La nonviolenza comincia così. E continua così.

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