Il concetto del continuum

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Jean Liedloff

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Jean Liedloff, nata e vissuta a New York, dopo aver preso parte a cinque spedizioni tra gli Yequana, indiani dell’“età della pietra” del Venezuela, ha messo a punto la sua originale rilettura critica del rapporto tra cultura occidentale e natura con la sua opera The Continuum Concept. Attualmente vive tra Londra e la California insegnando Psicoterapia e animando i numerosi centri che, ispirandosi al Concetto del Continuum, sono sorti in più parti del mondo.

In copertina disegno di Silvio Boselli

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Jean Liedloff

IL CONCETTO DEL CONTINUUM Ritrovare il ben-essere perduto

IL CONCETTO DEL CONTINUUM

La prima violenza che caratterizza la nascita della vita nella nostra cultura è la rottura traumatica del rapporto madre-bambino sin dai primi istanti di vita. La separazione violenta del neonato dalla madre, imposta dalle moderne tecniche ospedaliere di gestione del parto, viene poi ripetuta spesso orgogliosamente nel corso della vita neonatale. In realtà queste traumatiche privazioni infantili spesso costituiscono le premesse per la formazione di individui ansiosi, sradicati, aggressivi. A partire da un’originale esperienza di condivisione con una tribù di indios venezuelani, l’autrice rilegge in queste pagine il nostro contraddittorio rapporto con il bambino, spesso devastante perché privo delle più spontanee esperienze di continuum come la posizione dell’in-braccio, l’allattamento al seno, ecc. Quest’opera, conosciuta e tradotta in numerosi Paesi, chiarisce come la riappropriazione dei legami iniziali, che i genitori avvertono istintivamente verso il bambino, sia il primo ed essenziale contributo per educare alla pace in un mondo che gli adulti – bambini non amati di ieri – hanno condotto sull’orlo del baratro.

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ISBN 978-88-87507-33-3

Euro 15,50 (I.i.) 9 788887 507331

edizioni la meridiana p a r t e n z e

Colori compositi


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Indice

Prefazione di Grazia Honegger Fresco ..........................9 Come ho cambiato radicalmente le mie idee ..........................12 Il concetto del continuum ........................23 L’inizio della vita ......................................28 Il momento della crescita ........................58 Le esperienze essenziali perdute ..............77 Società ......................................................94 Riattivare i principi del continuum ........102 Qualche riflessione per concludere........110

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Prefazione

Jean Liedloff non è un’“addetta ai lavori”: non è pedagogista, né antropologa di mestiere e tanto meno filosofa. È una donna che, per una serie di circostanze, ha conosciuto intorno agli anni Sessanta popolazioni lontane dal nostro mondo tecnologizzato: gli Yequana e i Sanema del Venezuela, “ancora” in “età della pietra”. Sui confronti inevitabili lei cominciò a riflettere. La conclusione cui giunse è che la civiltà occidentale, accelerando, depredando e soprattutto devastando l’infanzia fin dalla nascita, ha interrotto il naturale processo evolutivo, entrando in una spirale autodistruttiva di rischio altissimo. Aver spezzato il continuum (la continuità con il lontanissimo passato) sarebbe – anzi è, secondo l’autrice – all’origine delle tante deviazioni di cui subiamo il danno senza riuscire tuttavia a porvi rimedio. L’orlo del baratro su cui ci troviamo – la fine del pianeta, un terzo del mondo che vive nel benessere a spese degli altri due, le guerre circoscritte ma non meno feroci, la droga stessa – sono i sintomi macroscopici di un male diffuso dal quale non ci proteggono più ideologie, né sistemi politici, né speranze di mondi migliori. Secondo la Liedloff sarebbe proprio la rottura dell’equilibrio iniziale – quella separazione violenta madre/bambino fin dai primi istanti di vita, poi ripetuta a più riprese sotto varie forme – a produrre individui sradicati, ansiosi, insaziabili, dipendenti, aggressivi quali noi siamo, in questo mondo che orgogliosamente chiamiamo “primo” o comunque il più avanzato. Una speranza potrebbe esserci se ricominciassimo dai bambini, come diceva, inascoltata, fin dagli anni trenta, Maria Montessori, vale la pena di ricordare Frédérick Leboyer, Michel Odent e con loro altri medici (pochi, a dire il vero) che non trasformano le cure sanitarie in uno strumento di potere contro l’individuo. Significa soprattutto recuperare quel rapporto stretto madre/bambino, fatto di sguardi, di contatti, di piccole parole; quell’essere insieme non possessivo che rende il figlio, futuro adulto, libero e affettivamente disponibile. Dai marsupiali fino agli umani, quanto più immatura e IL CONCETTO DEL CONTINUUM

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inetta è la prole, tanto più intensa e protettiva è la presenza del genitore. L’esogestazione, con modalità e tempi tipici di ciascuna specie, completa l’endogestazione: l’essere umano, con la sua lunga infanzia, non si sottrae a questa legge. Quel periodo di dipendenza totale, di essere due in uno, non è tempo “sprecato”, ma preludio indispensabile all’indipendenza. Non si diventa forti e sicuri se si saltano i primi vissuti in comune fatti soprattutto di contatti corporei e di sguardi. Realtà ormai accertata da studi e da ricerche tra le più diverse, il “bisogno di mamma” soprattutto nel primo anno di vita – ovvero di un referente privilegiato e affettivamente stabile – non è un capriccio infantile per intralciare i diritti di una madre, ma necessità biologica, strettamente connessa con l’equilibrio mentale dell’individuo e con l’integrità del gruppo umano a cui si appartiene. Viceversa il mondo della produttività e dell’efficienza lo nega e in base alla logica (tutta maschile) del lavoro, del time is money, dell’uguaglianza (pur sacrosanta) da difendere ha eretto barriere contro tutto questo: la nursery e il conseguente allontanamento a orari prestabiliti (che impediscono di fatto alla madre di conoscere fin dalla prime giornate il suo neonato); l’allattamento al seno poco incoraggiato con il latte artificiale subito pronto, e poi la carrozzina, il box, il girello... Tenere lontano il bambino (bellino ma scomodo), secondo una logica punitiva tutta europea, lo si fa con “il pianto che allarga i polmoni”, con l’orario rigido o il succhiotto, con il tenerlo in braccio il meno possibile “per non viziarlo”. Oggi poi, da questi pregiudizi fondati sul niente, ma avallati per decenni dalla pediatria, si è passati a una permissività confusa, a un’assenza di limiti e di contenimento che è un’altra forma di non-ascolto, di non-dialogo. Così l’essere umano resta infantile e avido, non essendosi mai saziato di quel primo legame, non avendo mai conosciuto la piena, stabile sicurezza tra le braccia materne. Né ha sperimentato subito 10

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dopo la solidarietà e la cooperazione con i coetanei che da questa deriva. Anzi, le istituzioni per l’infanzia, fondate su rigide separazioni per età e su progressive interruzioni di legami, accentuano la competizione, la negazione dei valori affettivi e favoriscono lo sviluppo dell’aggressività e dell’invidia. La vita individuale non può non risultarne alterata e così la sessualità e i rapporti sociali, fino all’ultima separatezza – quella della vecchiaia – in luoghi in cui bambini e giovani non entrano mai (così come i “nidi” sono di fatto preclusi – per ragioni igieniche, si dice – ai bambini più grandi, ai maschi adulti e così via). Vent’anni fa c’era ancora chi, da posizioni idealiste, sosteneva il valore pedagogico delle punizioni, anzi il bisogno che il bambino ne avrebbe. Vent’anni fa, in piena campagna pro latte in polvere, Leboyer veniva attaccato e ridicolizzato come poeta. E oggi? Come allora, i bambini vengono mortificati nella loro voglia di vivere e di comunicare. Le nurseries continuano ad essere, secondo la definizione di Lorenzo Braibanti, “caserme prussiane per neonati”, tenuti lontani dalle madri, brutalizzati con bagni e con prelievi spesso superflui, tacitati con soluzioni di acqua dolcificata, pur di non lasciarli alle puerpere, secondo il modello propagandato dai media e dall’onnipotente prassi medica. E se invece ponessimo fine alle “devastazioni” dell’età neonatale, se restituissimo pieno valore a quei legami iniziali che del resto molti genitori sentono istintivamente? È quanto ci propone l’autrice. Semplicistico? Forse. Ma perché non riusciamo a farlo? La Liedloff vuol farci tornare all’età della pietra? Vuole affermare il primato dell’istinto sulla ragione? Indica come salvifico un ideale in realtà conservatore e manicheo? Molti suoi critici la giudicano così. Altri, dopo un primo scossone per le sue parole ben poco concilianti, se ne sono talmente entusiasmati da creare, a partire da gruppi londinesi negli anni Settanta, una rete internazionale per studiare e approfondire il concetto del continuum. Un libro scomodo, allettante e provocatorio insieme, che ci riporta alle antiche madri, alle


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tante maternità della nostra tradizione – da Giotto a Raffaello, dal Perugino a Bellini – le tante Madonne con il bambino tra le braccia, al seno, sulle ginocchia, madri e figli che si guardano, simboli di un rapporto vitale che un tempo era sotto gli occhi di tutti e che ora abbiamo messo da parte fino a viverlo con fastidio, con disagio, con paura. Fermiamoci almeno a pensare... Grazia Honegger Fresco

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Come ho cambiato radicalmente le mie idee

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Questo libro vuole diffondere un’idea, non raccontare una storia, ma penso che sia utile raccontare almeno un po’ della mia storia, qualcosa che metta in luce la preparazione del terreno in cui ha messo le radici questo concetto. Potrebbe servire a spiegare quanto il mio modo di vedere si sia allontanato da quello degli americani del ventesimo secolo in mezzo ai quali sono cresciuta. Sono andata nella giungla del Sud America senza avere nessuna teoria da provare, se non per normale curiosità sugli Indiani e per una vaga sensazione che avrei potuto apprendere qualcosa di significativo. Durante il mio primo viaggio in Europa, a Firenze, fui invitata ad unirmi a due esploratori italiani per una spedizione alla ricerca di diamanti nella regione venezuelana del fiume Caroni, un affluente dell’Orinoco. Fu un invito dell’ultima ora, ed ebbi venti minuti di tempo per prendere una decisione, correre al mio albergo, fare le valigie, precipitarmi alla stazione e saltare sul treno in partenza. Quando all’improvviso sopraggiunse la calma, fui colta dalla drammaticità e dal senso piuttosto sinistro di quanto stava accadendo, e vedendo il nostro scompartimento nella penombra con le valigie ammucchiate riflesse nel finestrino polveroso, mi resi conto che ero in partenza verso la giungla vera. Non avevo avuto tempo di analizzare le ragioni di questa mia brama di partire, ma la mia risposta era stata immediata e risoluta. Non era l’idea dei diamanti che trovavo irresistibile, sebbene fare fortuna scavando negli alvei dei fiumi tropicali sembrava essere molto più affascinante di qualsiasi altro lavoro potessi immaginare. Era la parola giungla che conteneva quanto c’era di magico, forse in seguito a qualcosa che era accaduta quand’ero bambina. Successe quando avevo otto anni e parve avere grande importanza; vi ripenso ancora come ad un’esperienza di un certo valore. Ma, come la maggior parte dei momenti di grande illuminazione, offriva uno scorcio dell’esistenza di un certo ordine senza rivelarne la struttura né spie-


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gare come si può sostenere una tale visione nel magma della vita di tutti i giorni. Delusione ancora maggiore: la convinzione di avere finalmente incontrato l’elusiva verità servì ben poco, se non affatto, a guidare il mio cammino nella fanghiglia. La breve visione era troppo fragile per poter sopravvivere dopo essere stata vissuta, dovendosi confrontare con tutte le mie aspirazioni mondane e, in maniera oltremodo disastrosa, con la forza dell’abitudine. Forse vale la pena di rivelare che essa rappresentava un’avvisaglia di quel senso di “armonia” (in mancanza di un termine più adeguato), ed è proprio la ricerca di quest’ultimo l’oggetto del mio libro. L’episodio si verificò durante una passeggiata nella natura dei boschi nel Maine dove mi trovavo per un campo estivo. Ero l’ultima della coda; ero rimasta un pochino indietro e mi stavo affrettando a recuperare quando fra gli alberi scorsi una radura. All’estremità laterale si ergeva un abete rigoglioso e un poggio al centro era coperto di muschio verde acceso, quasi luminescente. I raggi del sole pomeridiano si rifrangevano contro il verde scuro sfumato d’azzurro della pineta. Il piccolo tetto di cielo visibile era di un celeste perfetto. L’intero spettacolo possedeva una completezza, una qualità tangibile, di una intensità tale da immobilizzarmi sui miei passi. Andai verso i bordi e poi, dolcemente, come in un luogo magico o sacro, verso il centro, dove mi sedetti, poi mi distesi con una guancia sul muschio fresco. È qui, pensai, sentendo svanire l’ansietà che tingeva la mia vita: questo era, finalmente, il luogo dove le cose erano così come dovevano essere. Tutto era al proprio posto: l’albero, la terra in basso, la rocca, il muschio, in autunno sarebbe stato perfetto; d’inverno, sotto la neve, sarebbe stato perfetto nel suo rigore; poi, una volta tornata la primavera, il miracolo nel miracolo si sarebbe avverato, avvicendandosi secondo dei ritmi precisi, e alcune cose sarebbero appassite, altre ancora sarebbero sbocciate per la prima volta, ma tutte con pari e assoluta appropriatezza. Sentii di aver scoperto il centro inafferrabile delle cose, la chiave dell’armonia stessa, e di dover aggrapparmi a questa consapevolezza che era così chiara in quel luogo. Per un attimo fui tentata di portar via una zolla di muschio da tenere come ricordo; ma un pensiero piuttosto maturo me lo impedì. Ebbi l’improvviso timore che conservando

un amuleto di muschio avrei potuto perdere il vero premio (l’intuizione che avevo avuto), e che avrei potuto proteggere la mia visione finché avessi custodito il muschio, per poi scoprire un giorno di possedere nient’altro che un pugno di vegetazione senza vita. Così non presi nulla, ma promisi a me stessa di ricordarmi della Radura tutte le sere prima di addormentarmi riprovando ancora in questo modo il suo potere stabilizzante.

Già all’età di otto anni sapevo che, crescendo, sarebbe solo aumentata la confusione di valori che i genitori, insegnanti, coetanei, tate, assistenti dei campi estivi e altri mi avrebbero inculcato. Con il passar degli anni si sarebbe complicata la situazione conducendomi verso grovigli sempre più impenetrabili di giusto e sbagliato, cose desiderabili e indesiderabili. Avevo visto già abbastanza per saperlo, ma se avessi potuto serbare la Radura con me, pensavo, non mi sarei mai smarrita. Quella sera, nel mio lettino da campeggio, richiamai alla mente la Radura sentendomi gratificata e rinnovai così il mio voto di custodire la mia visione. Per anni la sua qualità rimase intatta mentre rivedevo tutte le notti nella mia mente quel poggio, l’abete, la luce, la completezza. Ma via via che gli anni passavano, spesso mi rendevo conto di aver dimenticato la Radura per giorni, o settimane, consecutivamente; cercavo di riafferrare il senso di salvezza che precedentemente l’aveva avvolta, ma nel frattempo il mio mondo si ampliava. Quei valori molto semplici dell’asilo, bambina brava-bambina cattiva, erano stati gradualmente superati dai valori spesso conflittuali del mio ambiente culturale e della mia famiglia: un miscuglio di pregi e virtù vittoriane con una forte tendenza verso l’individualismo, le opinioni liberali e le doti artistiche e, soprattutto, con un’alta considerazione per uno spirito brillante e originale come quello di mia madre. Verso i quindici anni, mi resi conto con cupa tristezza (in quanto non riuscivo a ricordare l’oggetto del mio dolore) che avevo perduto il significato della Radura. Mi ricordavo perfettaIL CONCETTO DEL CONTINUUM

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mente della scena silvestre, ma così come avevo temuto quando mi ero astenuta dal prendere la manciata di muschio, il suo significato si era dileguato. Invece, quel vuoto amuleto era costituito solo dall’immagine mentale che avevo della Radura. Vivevo con mia nonna e alla sua morte decisi di partire per l’Europa, sebbene non avessi finito l’università. Le mie idee non erano molto chiare nel periodo della mia sofferenza, ma siccome rivolgendomi a mia madre finivo sempre per rimanerne ferita, sentivo di dover fare uno sforzo sovrumano per rimettermi sulle mie proprie gambe. Nulla di quanto gli altri si aspettavano da me sembrava valere veramente la pena: fare la giornalista per delle riviste di moda, far carriera come modella o continuare nell’istruzione superiore. Nella mia cabina sulla nave diretta in Francia piansi per paura di essermi giocata tutto quello che mi era familiare nella speranza di raggiungere qualcosa d’indefinibile. Ma non volevo voltarmi indietro. Vagai per Parigi facendo disegni e scrivendo poesie. Mi fu offerto un lavoro di modella presso Dior ma non lo accettai. Avevo delle conoscenze nella rivista francese “Vogue” ma non le sfruttai, se non per qualche lavoro saltuario come modella che non comportava alcun impegno. Ma mi sentivo più a mio agio in quel paese straniero di quanto mi fossi mai sentita nella mia natia New York. Sentivo di essere sulla strada giusta, ma non ero ancora in grado di dire che cosa stavo cercando. Durante l’estate mi recai in Italia, prima a Venezia e poi, dopo una visita in una villa della campagna lombarda, a Firenze. Là incontrai i due giovani italiani che mi invitarono in Venezuela alla ricerca di diamanti. Nuovamente, come alla partenza dall’America, fui spaventata dall’audacia del passo che stavo per fare ma non ho mai pensato nemmeno per un istante di tirarmi indietro.

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L’osservazione Quando infine la spedizione cominciò, dopo molti preparativi e ritardi, risalimmo il fiume Carcupi, un piccolo affluente inesplorato del Caroni. In un mese riuscimmo ad avanzare notevolmente a monte nonostante gli ostacoli, più che altro alberi caduti per traverso sull’acqua, fra i quali dovevamo crearci un passaggio per la canoa con asce e machete, oppure cascate o rapide sulle quali trasportavamo una tonnellata circa di matériel con l’aiuto di due indios. Il piccolo fiume si era dimezzato di volume quando montammo un accampamento stabile per esplorare dei rivoli secondari. Era il nostro primo giorno di riposo da quando ci eravamo addentrati nel Carcupi. Dopo la prima colazione il capo italiano e i due indios erano andati ad esaminare la situazione geologica, mentre il secondo italiano si dondolava piacevolmente nella sua amaca. Presi uno dei due libri tascabili che avevo comprato, scegliendo fra una limitata selezione di titoli inglesi all’aeroporto di Ciudad Bolivar, e mi trovai un posto fra le radici di un enorme albero che sovrastava il fiume. Lessi tutto il primo capitolo, non sognando ad occhi aperti ma seguendo la storia con normale attenzione, quando all’improvviso mi colpì con forza tremenda una percezione. “Eccola! La Radura!”. Tutto l’eccitamento dell’intuizione di quando ero ragazzina fece ritorno; l’avevo perduta e ora, in una Radura matura, la giungla più estesa della terra, essa aveva fatto ritorno. I misteri della vita della giungla, le sembianze degli animali e delle piante, le tempeste e i tramonti sensazionali, i serpenti, le orchidee, la sua seducente verginità, la fatica nel penetrare in essa e la generosità della sua bellezza, facevano apparire tutto ancora più vivamente e profondamente armonico. Era l’armonia in grande scala. Nel sorvolarla, era apparsa come un grande oceano verde, che si estendeva fino all’orizzonte da ogni lato, trapuntata di corsi d’acqua, elevata sui monti imponenti, donata al


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cielo nelle mani protese degli altipiani. In ogni cellula essa vibrava di vita, senza difetti: perennemente cangiante, perennemente integra e sempre perfetta. Nella mia esultanza, quel giorno pensai di essere giunta alla fine della mia ricerca, di aver raggiunto il mio obiettivo: la visione chiara delle cose nella loro assoluta e schietta integrità. Era quella “armonia” che avevo cercato fra le perplessità della mia infanzia e nelle conversazioni, nelle discussioni, nei litigi, spesso prolungati fino all’alba con la speranza di scorgerne un barlume durante gli anni della mia adolescenza. Era la Radura, smarrita, ritrovata e ora riconosciuta, questa volta per sempre. Tutto intorno a me, sopra la mia testa, sotto i miei piedi, tutto era giusto: nascere, vivere, morire ed essere rimpiazzati senza che tale ordine fosse minimamente spezzato. Accarezzai amorevolmente le grandi radici che mi abbracciavano come una poltrona e cominciai a coltivare il pensiero di rimanere nella giungla per il resto della mia vita. Al termine dell’esplorazione del Carcupi (trovammo davvero qualche diamante), quando ritornammo al piccolo avamposto di Los Caribes per i rifornimenti, in uno specchio vidi che avevo messo su qualche chilo e per la prima volta nella mia vita mi sarei potuta definire snella piuttosto che magra. Mi sentivo più forte, più capace, meno timorosa come mai prima, stavo prosperando nella mia amata giungla. C’erano ancora sei mesi per pensare a come riuscire a rimanervici dopo la spedizione, per cui non c’era motivo di affrontare problemi di ordine pratico al momento. Una volta trascorso quel periodo, comunque, ero pronta a partire. La mia fiorente salute era stata sopraffatta dalla malaria e il mio morale era stato annientato dalla voglia di carne e di verdura; avrei volentieri scambiato uno dei nostri diamanti duramente guadagnati con un bicchiere di succo d’arancia, ed ero più esile che mai.

Comprendere la giungla Ma dopo sette mesi e mezzo avevo una visione molto più precisa dell’armonia della giungla. Avevo visto gli Indiani Tauripan, non solo i due che avevamo assunto, ma interi clan e famiglie nelle loro capanne, che viaggiavano in gruppo, cacciavano e conducevano la vita che ogni specie vive nel proprio ambiente, senza alcun sostegno esterno particolare, se non il machete e l’ascia di acciaio al posto di quella originale in pietra. Erano le persone più felici che avessi mai visto, ma a quell’epoca non ci feci molto caso; essi erano così diversi da noi: più piccoli, meno muscolosi, eppure capaci di trasportare carichi più pesanti per distanze molto più lunghe rispetto ai nostri migliori uomini. Non mi soffermai a chiedermi il perché; il loro modo di pensare era strutturato diversamente. (“Per arrivare a Padacapah – uno di noi avrebbe chiesto – dobbiamo risalire il fiume in canoa oppure camminare sulla terra ferma?” e un indio avrebbe risposto: “Sì”). Raramente ho avuto la chiara impressione che essi fossero della nostra stessa specie, anche se, naturalmente, se ciò mi fosse stato chiesto avrei detto di sì senza esitare. I bambini si comportavano tutti bene allo stesso modo: non litigavano mai, non venivano mai puniti, obbedivano sempre volentieri e all’istante; l’espressione deplorevole “I ragazzi sono ragazzi” non valeva per loro, ma non mi chiesi mai perché. Non v’era dubbio nella mia mente che la giungla fosse giusta, né che qualsiasi cosa io stessi cercando fosse meglio cercarla proprio lì, ma l’armonia e la vitalità dell’ecosistema della giungla, delle piante, degli animali, degli indiani e di tutto il resto, per me non rappresentavano automaticamente una risposta né tanto meno una soluzione personale, come avevo creduto all’inizio. Non era ancora chiaro in quel momento. Mi vergognavo un po’ per il mio crescente desiderio di spinaci, di succo d’arancia e di riposo. Nutrivo un amore irrazionalmente romantico e un timoroso rispetto per la grande, indifferente IL CONCETTO DEL CONTINUUM

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foresta e, mentre mi preparavo a partire, pensavo già a come fare per ritornarvi. La verità, in effetti, era che non avevo affatto trovato l’armonia per me stessa, l’avevo solo vista dall’esterno riuscendo a riconoscerla, e comunque molto superficialmente. In un certo qual modo non vedevo ciò che era ovvio: che gli Indiani, in quanto esseri umani come me e in quanto facenti parte dell’armonia della giungla, erano il comune denominatore, ciò che teneva insieme l’armonia che mi circondava e il mio bisogno di essa. Qualche fievole illuminazione riuscì a penetrare la mia mente accecata dalla civiltà: per esempio, qualcosa che riguardava il concetto del lavoro. Avevamo scambiato la nostra canoa d’alluminio un po’ troppo piccola con un’altra troppo grande. In questo natante ricavato da un unico albero, viaggiavano insieme a noi diciassette indios contemporaneamente e, pur essendo tutti a bordo e con i loro bagagli aggiunti ai nostri, la grande canoa sembrava ancora piuttosto vuota. Trasportarla via terra, con soli quattro o cinque indios ad aiutarci in questo caso, per mezzo miglio di massi, costeggiando un’enorme cascata, era deprimente solo a pensarci. Voleva dire mettere dei tronchi d’albero di traverso rispetto alla lunghezza della canoa e trascinarla, di centimetro in centimetro, sotto il sole spietato, scivolando immancabilmente nelle fenditure dei massi tutte le volte che la canoa, ruotando, sfuggiva al nostro controllo, graffiandoci così contro il granito gli stinchi, le anche e qualsiasi cosa su cui atterrassimo. Avevamo già fatto una volta un trasporto via terra con la canoa piccola e i due italiani ed io, sapendo cosa ci aspettasse, avevamo passato diversi giorni scongiurando la dura fatica e le sofferenze. Il giorno in cui arrivammo alle Cascate Arepuchi eravamo pronti a soffrire e ci incamminammo, imbronciati, detestando in ogni istante il fatto di dover trascinare quell’aggeggio sui sassi. Quando ondeggiava lateralmente, era così pesante quella maledetta piroga, che diverse volte inchiodava uno di noi sulle rocce ardenti finché gli altri riuscivano a spostarla. Un quarto di strada più avanti tutte le anche ci sanguinavano.

Cercando una scusa, in parte, per fare un minuto di pausa, saltai su un grande sasso per fotografare la scena. Dal mio punto di osservazione privilegiato e grazie al disimpegno 16

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momentaneo, notai un fatto molto interessante: là davanti a me c’erano diversi uomini impegnati in un unico compito; due di essi, gli italiani, erano tesi, accigliati, perdendo la pazienza per qualsiasi cosa e bestemmiando ininterrottamente alla maniera che contraddistingue i toscani; gli altri, gli indios, si stavano divertendo. Essi ridevano per l’ingovernabilità della canoa, facendo di quella battaglia un gioco; si rilassavano fra le varie spinte, beffandosi dei propri graffi e si divertivano particolarmente quando la canoa, mentre vacillava in avanti, inchiodava prima uno poi l’altro sotto di essa. Colui che era bloccato a dorso nudo sul granito ardente, una volta in grado di respirare di nuovo, immancabilmente rideva in modo più sonoro, apprezzando tale sollievo. Tutti erano impegnati nello stesso lavoro; tutti stavano provando fatica e dolore. Non c’era alcuna differenza nelle nostre situazioni se non il fatto che noi eravamo stati condizionati dalla nostra cultura a credere che una tale combinazione di circostanze rappresentava senza dubbio un livello basso nella scala del benessere ed eravamo alquanto ignari di poter avere altre possibilità a riguardo. Gli indios, d’altra parte, ugualmente inconsapevoli della possibilità di scelta, erano in uno stato mentale particolarmente allegro, divertendosi in compagnia; e, naturalmente , durante i giorni precedenti non avevano avuto nessun accumulo di terrore obnubilante; ciascuna mossa in avanti era per loro una piccola vittoria. Non appena finii di scattare fotografie e mi ricongiunsi al gruppo, respinsi la scelta della civiltà e mi godetti, in modo alquanto schietto, il tratto che restava del trasporto via terra. Persino le sbucciature e i lividi che mi ritrovai si ridussero con notevole facilità a nient’altro di più di quello che erano in effetti: piccole ferite che sarebbero presto guarite e che non richiedevano né una reazione emotiva spiacevole, come rabbia, commiserazione o risentimento, né ansia per quante ancora ce ne sarebbero state prima della fine della fatica. Al contrario, mi compiacqui per il mio corpo estremamente ben fatto, che si adat-


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tava senza bisogno di istruzioni o di comandi da parte mia. Ma presto il mio senso di emancipazione cedette ancora una volta alla tirannia dell’abitudine, al grande peso del condizionamento culturale che può essere controbilanciato solo sostenendo uno sforzo cosciente. Non feci gli sforzi necessari e quindi venni fuori dalla spedizione senza aver ricavato molto dalla rivelazione. Successivamente colsi degli altri indizi sulla natura umana e sul lavoro. Due famiglie indiane vivevano in una capanna prospiciente una magnifica spiaggia bianca, una laguna in una grande cala di scogli, con alle spalle le Cascate del Caroni e dell’Arepuchi. Un capofamiglia si chiamava Pepe, l’altro Cesar; fu Pepe a raccontare la storia. Sembra che Cesar fosse stato “adottato” dai venezuelani quando era molto piccolo ed era andato a vivere con loro in una piccola città. Fu mandato a scuola, imparò a leggere e a scrivere e fu educato come un venezuelano. Quando divenne adulto, egli andò, come molti uomini di quei paesi guianesi, nella regione dell’Alto Caroni per tentare la fortuna alla ricerca di diamanti. Stava lavorando con un gruppo di venezuelani quando fu riconosciuto da Mundó, capo dei Tauripan a Guayparú. - Non ti avevano mandato a vivere con José Grande? - chiese Mundó. - Sono stato allevato da José Grande - disse Cesar, secondo la storia. - Allora sei tornato dalla tua gente, sei un Tauripan disse Mundó. Al che Cesar, dopo aver riflettuto a lungo, decise che avrebbe fatto meglio a vivere come un indio piuttosto che come un venezuelano e andò ad Arepuchi dove viveva Pepe. Per cinque anni Cesar visse con la famiglia di Pepe, sposò una graziosa ragazza Tauripan e diventò padre di una bambina. Poiché a Cesar non piaceva lavorare, insieme a sua moglie e sua figlia mangiavano ciò che coltivava Pepe nella sua piantagione. Cesar era lieto di vedere che Pepe non pretendeva che lui si creasse un orto proprio, né che lo aiutasse a lavorare nel suo, e visto che a Pepe piaceva lavorare mentre a Cesar non piaceva, andava bene così per tutti. La moglie di Cesar aiutava volentieri le altre donne e ragazze a tagliare e preparare la manioca1 per

mangiare, ma ciò che piaceva a Cesar era andare a caccia di tapiri e, di tanto in tanto, di qualche altra preda. Dopo un paio d’anni crebbe in lui il gusto della pesca e aggiunse il suo pescato a quello di Pepe e dei suoi due figli, che avevano sempre amato pescare e avevano provveduto per la sua famiglia altrettanto generosamente che per la propria. Poco prima che noi arrivassimo, Cesar aveva deciso di mettere su un orto proprio e Pepe l’aveva aiutato in tutto, dalla scelta del luogo fino all’abbattimento degli alberi che poi sarebbero stati bruciati. Pepe amava tutto questo ancora di più perché lui e il suo amico chiacchieravano e scherzavano continuamente. Cesar, avendo acquisito sicurezza in quei cinque anni e sentendo che nessuno esercitava pressioni su di lui, si era sentito libero di scegliere di lavorare proprio come Pepe o qualunque altro indiano. Tutti erano contenti ad Arepuchi, ci disse Pepe, perché prima d’allora Cesar non si sentiva più appagato e stava diventando irascibile. “Voleva crearsi un orto suo – diceva Pepe ridendo – ma non lo sapeva nemmeno lui!”. Pepe pensava che fosse divertente il fatto che qualcuno potesse non sapere di voler lavorare.

In quel momento, quella curiosa idea che noi, nel mondo “civilizzato”, lavorassimo con fatica, secondo un’erronea interpretazione, piuttosto grave, della natura dell’uomo, non mi suggerì alcun principio di generale rilevanza. Ma benché non mi fossi fatta un’idea su quello che volevo sapere, né avessi la chiara sensazione di essere impegnata in una ricerca, mi resi conto, comunque, di aver trovato una strada che valeva la pena battere; e tanto bastò per farmi stare in riga durante gli anni successivi.

1. La manioca è un arbusto delle Euforbiacee coltivato nei tropici per i suoi tuberi radicali ricchi di amido, mangiabili dopo lavaggio, cottura e pelatura (N.d.T.).

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La conferma La seconda spedizione, in una regione distante sei settimane di cammino dall’estrema frontiera del Venezuela di lingua spagnola, era guidata da un altro italiano, un professore, fermamente convinto che la giungla non fosse cosa per donne. Uno dei miei compagni della spedizione precedente riuscì, ciononostante, a strappargli un assenso con riluttanza e così mi fu possibile seguire la mia strada verso il mondo dell’“età della pietra” fra le tribù degli Yequana e dei Sanema, protetto all’esterno da una foresta pluviale che si diceva impenetrabile e situato nel bacino dell’alto fiume Caura vicino al confine brasiliano. Le personalità marcatamente individualiste degli uomini, delle donne e dei bambini erano ancor più evidenti qui perché non si era mai reso necessario coltivare un atteggiamento difensivo di indifferenza nei confronti degli stranieri, come quello dei Tauripan; ma in quella terra del tutto estranea non riuscii a recepire che gran parte dell’aspetto irreale della sua gente era dato dall’assenza di infelicità, elemento comune, invece, in tutte le società a me familiari. Devo aver pensato vagamente che da qualche parte dietro gli alberi, un po’ lontano dagli sguardi, il fantasma di Cecil B. De Mille stava dirigendo le riprese di un film nel classico stile unidimensionale della vecchia Hollywood, pertanto le “regole” del comportamento umano non valevano per loro. Per tre settimane, mentre i miei compagni erano caduti inevitabilmente nelle mani di una grande banda di pigmei, secondo quanto da loro riferitomi, e venivano custoditi come animaletti domestici, io vissi da sola con gli Yequana. In quel breve lasso di tempo disimparai le teorie su cui era basata la mia educazione più di quanto avessi fatto durante tutta la prima spedizione, cominciando a capire il valore del processo di disapprendimento. Ulteriori contributi ad una visione alternativa anche riguardo al lavoro, penetrarono oltre la barriera 18

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costruita dai miei preconcetti. Uno di questi fu l’assenza apparente nel vocabolario Yequana di un termine che indicasse il “lavoro”. Essi avevano la parola tarabaho che utilizzavano nel trattare con coloro che non erano indiani, che, a parte noi, essi conoscevano quasi esclusivamente per sentito dire. Questa era la pronuncia errata della parola spagnola trabajo e indicava piuttosto accuratamente ciò che intendevano con essa i conquistadores e i loro successori. Mi colpì il fatto che fosse l’unica parola derivata dallo spagnolo fra tutte quelle che avevo imparato da loro. Sembrava che non ci fosse un concetto Yequana di lavoro simile al nostro; c’era una parola per ogni attività che poteva intendersi come tale ma nessun termine generico. Visto che non distinguevano il lavoro da altri modi di impiegare il tempo, c’era poco da meravigliarsi che si comportassero in modo così irrazionale (così come io allora ritenevo) quando andavano ad attingere l’acqua. Le donne lasciavano il loro posto accanto al focolare parecchie volte durante la giornata, trasportando contemporaneamente due o tre piccoli recipienti ricavati da zucche, percorrevano in discesa parte della montagna, prendevano il sentiero che portava lungo un pendio inclinato che era estremamente sdrucciolevole quando era umido, riempivano i recipienti da un ruscelletto e risalivano verso il villaggio in cima. L’intera operazione impiegava circa venti minuti. Molte di loro trasportavano anche i bambini oltre ai recipienti.

Quando scesi giù per la prima volta, fui colpita dal disagio di dover fare una strada tanto lunga per un bene di cui si aveva costantemente bisogno. Era inconcepibile che per un villaggio non scegliessero un posto dove l’acqua fosse più accessibile. L’ultima parte del cammino, sulla riva del ruscello, mi rendeva ansiosa in quanto cercavo di fare attenzione ad ogni mio passo per evitare di cadere. Indubbiamente gli Yequana hanno un maggior senso dell’equilibrio e, come gli indiani nord-americani, non temono l’altezza, ma il fatto era che né loro né io siamo mai cadute, eppure soltanto a me seccava di dover prestare attenzione ai miei passi. I


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loro passi erano altrettanto cauti, ma esse non si accigliavano come me per la “fatica” di dover fare attenzione, continuavano a spettegolare e a scherzare sotto voce, in pianura o sul pendio, perché di solito si raggruppavano in due, tre o più e, come sempre, prevaleva lo spirito di gruppo. Una volta al giorno ogni donna deponeva sulla riva i recipienti e tutto ciò che indossava (un piccolo cache-sexe tipo grembiule, e i monili delle anche, delle ginocchia, dei polsi, degli avambracci, del collo e delle orecchie) e faceva il bagno insieme al suo bambino. Nonostante la presenza di tante donne e ragazzi, il bagno era carico di sensualità tipica della civiltà degli antichi romani. Ogni movimento esprimeva un piacere sensuale e i bambini erano maneggiati come oggetti tanto stupendi da spingere le donne ad assumere un atteggiamento di falsa modestia nell’esternare il loro compiacimento e orgoglio. La discesa dalla montagna veniva fatta nello stesso stile di persone “ben avvezze”, quasi pretenziose, e i loro ultimi passi pericolosi verso il ruscello avrebbero fatto onore ad una miss Mondo che avanzava per ricevere la sua corona. Era così per tutte le donne e le ragazze Yequana che io vedevo, benché le distinte personalità rendessero piuttosto varie le espressioni della loro intimità.

Riflettendoci, non avrei potuto immaginare un modo “migliore” per utilizzare il tempo che s’impiegava per andare a prendere l’acqua, almeno dal punto di vista del benessere. Se, d’altro canto, si dovessero considerare tali abitudini dal punto di vista del progresso – o ciò che lo accompagna: la velocità, l’efficienza e l’innovazione – le passeggiate per andare a prendere l’acqua sarebbero decisamente cose da imbecilli. Ma la mia esperienza sull’ingenuità delle persone in oggetto era tale da non farmi dubitare che, se mai avessi chiesto loro di escogitare un modo per non dover più andare al ruscello ad attingere l’acqua, avrebbero messo insieme delle canne di bambù o fatto una puleggia per aiutarmi a superare il tratto sdrucciolevole, oppure mi avrebbero costruito una capanna vicino alla fonte d’acqua. In effetti questa gente non aveva alcuna motivazione che la spingesse verso il progresso, in quanto non

ne sentiva l’esigenza, né subiva pressioni da nessun fronte per cambiare le proprie abitudini. Il fatto che io ritenessi un’imposizione il dover coordinare perfettamente i miei movimenti, o che mi seccasse, in base ad un principio non approfondito, impiegare il tempo per soddisfare un bisogno, non faceva altro che trasferire arbitrariamente dei valori nella loro cultura che, invece, non li possedeva. Un’altra intuizione riguardo al lavoro derivò più dall’esperienza che dalla semplice osservazione. Anchu, capo del villaggio Yequana, prese l’abitudine di guidarmi, in qualunque momento gli capitasse, verso un comportamento più felice. Avevo appena barattato un ninnolo di vetro per sette canne da zucchero, e stavo anche imparando una lezione, che citerò più in là, sulla tecnica degli scambi fra la gente, i cui buoni rapporti sono più importanti degli affari. La moglie di Anchu si era avviata a ritornare alla loro capanna in un posto isolato là vicino, e Anchu, un Sanema che sembrava essere il suo attendente, ed io dovevamo ritornare ad un villaggio che si trovava in cima ad una montagna, dopo averne scalate due. I sette fusti erano in terra là dove li aveva lasciati la donna. Anchu fece cenno al prode Sanema di prenderne tre, lui stesso ne prese in spalla altri tre, lasciandone uno per terra. Io mi aspettavo che fossero gli uomini a portarli tutti e quando Anchu indicò l’ultima canna dicendo: “Amaadeh” (Tu), per un attimo fui seccata dall’idea che mi era stato ordinato di trasportare qualcosa sul ripido percorso del ritorno quando c’erano due uomini robusti per farlo; ma appena in tempo mi sovvenne che, prima o poi, Anchu si sarebbe rivelato il più saggio di tutti. Mi misi in spalla la canna e, mentre Anchu aspettava che io facessi strada, iniziai la prima salita. Il peso del terrore per il lungo cammino del ritorno, accumulato all’andata e aggravato durante il pranzo a casa di Anchu e dal tempo trascorso nella piantagione di canna da zucchero, era ancor più insopportabile in seguito alla notizia che avrei dovuto anche trasportare una pesante canna. I primi passi furono ulteriormente gravati dal pensiero della tensione che provavo sempre durante le escursioni nella giungla, specialmente se si trattava di scalare montagne e quando trasportavo qualsiasi cosa che non mi lasciasse libere le mani. Ma, quasi improvvisamente, tutto quel peso si avvertiva meno grave. Anchu non diede minimamente a vedere che sarebbe stato opportuno camIL CONCETTO DEL CONTINUUM

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minare più velocemente, che la stima nei miei confronti sarebbe venuta meno se avessi continuato a camminare al mio passo, né che mi stesse giudicando in base alla mie prestazioni, né tanto meno che il tempo impiegato in marcia fosse in qualche modo meno auspicabile del momento dell’arrivo.

Simili imprese con i miei compagni bianchi erano sempre state caratterizzate dalla fretta, come anche dall’ansia nel tenere il passo con gli uomini per mantenere alto l’onore del sesso debole e, quindi, dall’indiscusso preconcetto che una tale occasione fosse spiacevole, perché metteva alla prova la resistenza fisica e la determinazione morale di una persona. Questa volta il comportamento, molto diverso, di Anchu e del Sanema non contenevano questi elementi permettendomi semplicemente di camminare nella giungla con una canna da zucchero sulle spalle. Era scomparso ogni senso di competizione e lo sforzo fisico non era più imposto sul mio corpo, ma consisteva in una prova gratificante delle sue capacità, mentre la mia tenace forza di volontà nei confronti del martirio non mi serviva più. Poi un nuovo piacere si aggiunse alla mia liberazione: mi resi conto che stavo trasportando non un bastone di canna soltanto, ma parte di un carico ripartito fra tre compagni. Avevo sentito parlare di “spirito di squadra” fino al punto che, a scuola e ai campi estivi, aveva finito per essere nient’altro che pura finzione. La posizione di ogni individuo era sempre stata a rischio; ci si sentiva sempre minacciati, osservati, giudicati. La schiettezza di realizzare qualcosa in collaborazione con un proprio compagno si perdeva in un groviglio di competitività; la sensazione primordiale del piacere nel riunire le forze dell’uno con quelle dell’altro non aveva mai avuto la possibilità di emergere. Mentre camminavo ero sorpresa per la velocità e l’agilità con cui procedevo; di solito, grondante di sudore e superando ogni mio limite, avrei subito rallentato. Forse stavo afferrando qualcosa del segreto degli indios su come riuscissero a superare i nostri uomini forti e ben nutriti, nonostante la loro forza muscolare fosse 20

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generalmente inferiore: essi economizzavano le forze utilizzandole solo per fare un dato lavoro, senza sprecarle in tensioni ad esso correlate. Mi ricordai, allora, di quanto fossi sorpresa in occasione della prima spedizione, quando fra i Tauripan, ognuno con un carico sulle spalle di circa 34 chili, impegnati ad attraversare un “ponte” che consisteva in un unico tronco d’albero stretto, uno di loro pensava ad una facezia e si fermava a metà del tronco, si girava, raccontava la storiella agli uomini che si ammucchiavano dietro di lui e poi procedeva oltre, ridendo insieme ai suoi amici in quella maniera stranamente musicale. Non mi è mai venuto in mente che in quelle circostanze essi potessero non soffrire, al contrario di quanto facciamo noi; pertanto la loro allegria faceva un’impressione bizzarra, quasi fossero matti. Era, infatti, proprio come la loro abitudine di raccontare una storiella nel cuore della notte, quando tutti dormivano. Anche se alcuni russavano sonoramente, tutti si svegliavano all’istante, ridevano e riprendevano a dormire e a russare in pochi secondi. Essi non ritenevano che stare svegli fosse più sgradevole del dormire, e si svegliavano completamente lucidi, come quando un lontano branco di pecari era udito da tutti gli indios contemporaneamente, sebbene stessero dormendo, mentre io, che ero sveglia ad ascoltare i suoni della giungla intorno a me, non avevo avvertito niente. Come la maggior parte dei viaggiatori, avevo osservato quel comportamento inconsueto senza comprenderlo e non ho mai tentato di accorciare le distanze fra il loro modo di esprimere la natura umana e il nostro. Ma in quella seconda spedizione acquisii un certo gusto per le nuove idee che ricavavo nel rimettere in questione concetti indiscutibili come “Il progresso è cosa positiva”, “L’uomo deve fare delle leggi in base alle quali vivere”, “Un figlio appartiene ai genitori”, “Il tempo libero è più piacevole del lavoro”.


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Verso il concetto del continuum La terza e quarta spedizione, che guidai io stessa, l’una durata quattro mesi e l’altra nove, mi riportarono nella stessa regione, e quel processo continuò. I miei diari rivelano che la tecnica di disapprendimento stava diventando per me una cosa naturale, ma mi ci volle ancora molto tempo prima di riuscire a districare e rivedere i grandi presupposti indiscussi sui quali la mia cultura fondava il proprio modo di vedere la condizione umana, come il presupposto secondo cui l’infelicità è una parte dell’esperienza tanto legittima quanto lo è la felicità e altrettanto necessaria perché quest’ultima possa essere apprezzata; oppure il concetto che è più vantaggioso essere giovani piuttosto che vecchi. Alla fine del quarto viaggio ritornai a New York con la testa piena di tutto quanto avevo visto e con un modo di vedere talmente privo di presupposti che fu come non raggiungere il traguardo dopo una lunga marcia. Le mie osservazioni erano come pezzi diversi di un puzzle che ero riluttante a mettere insieme, abituata ormai com’ero a sezionare tutto ciò che sospettavo essere solo un insieme di modelli comportamentali che si ponevano come principio della natura umana. Finché un giorno un editore mi chiese di scrivere un brano che elaborasse una mia dichiarazione apparsa sul “New York Times”2. Cominciai così a invertire il processo di lacerazione e, a poco a poco, a percepire l’ordine che pervadeva non solo le mie osservazioni nel Sud America ma anche i nudi frammenti a cui avevo ridotto la mia esperienza di vita civilizzata. Tuttavia in quel frangente ero lungi dal teorizzare; ma mentre mi guardavo intorno senza paraocchi, avvertii per la prima volta delle distorsioni nelle personalità che mi circondavano e cominciai a comprendere, inoltre, alcune

2. “Mi vergognerei di confessare agli indios che nel paese da cui provengo le donne non si sentono in grado di allevare i figli se non leggono le istruzioni scritte da qualche personalità”.

di quelle forze devianti. Dopo circa un anno individuai anche le origini evolutive delle aspettative e delle tendenze umane che cominciarono a giustificare l’elevato stato di benessere dei miei amici selvaggi rispetto a noi civilizzati. Prima di parlare di queste idee in un libro pensai che sarebbe stato meglio effettuare una quinta spedizione. Volevo osservare ancora gli Yequana, questa volta alla luce delle mie idee di nuova formazione, per vedere se le mie osservazioni, riunite in una serie di prove solo retrospettivamente, potevano essere approfondite ulteriormente con un preciso studio. Il lembo di terra che avevamo disboscato per la pista durante la seconda spedizione e utilizzato in occasione della terza e della quarta era stato occupato da una sede missionaria e da una stazione meteorologica, entrambe abbandonate. Gli Yequana, nonostante fra loro qualcuno avesse acquisito camicie e pantaloni, erano rimasti immutati, in modo piuttosto rassicurante, e i vicini Sanema, benché ridotti quasi all’estinzione a causa di malattie, erano rimasti fermamente legati alla loro antica e provata maniera di vita. Entrambe le tribù erano disposte a lavorare o a barattare per ottenere doni dal mondo esterno, ma non a cedere parte del loro modo di vedere e di vivere, né delle loro tradizioni. I vari fucili e qualche torcia creavano in coloro che li possedevano un discreto desiderio di polvere da sparo, colpi, esplosivi e batterie, ma non abbastanza da costringerli a fare lavori che non li gratificassero, né a portare a termine un compito una volta che fosse diventato noioso. Alcuni dettagli sfuggiti all’osservazione occasionale, ad esempio se i bambini fossero o no presenti durante l’atto sessuale dei genitori, furono ricavati ponendo delle domande, insieme ad altri relativi al loro modo di vedere l’universo, la mitologia, gli atti sciamanici, ecc., che potessero in qualche modo giustificare quel tipo di cultura possibile che così bene si adatta alla natura umana. Ma in generale la quinta spedizione servì a confermare che la mia interpretazione del loro IL CONCETTO DEL CONTINUUM

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comportamento, costruita con i ricordi che avevo di esso, fosse sostenuta dalla realtà. Tanto che le azioni degli Indiani di entrambe le tribù, che una volta erano giustificabili, viste alla luce dei principi del continuum, non solo divennero comprensibili ma spesso prevedibili. Mentre cercavo delle eccezioni che avrebbero potuto rivelare delle lacune nel mio modo di ragionare, scoprii che coerentemente esse “confermavano la regola”, come nel caso di un bambino che si succhiava il pollice, s’irrigidiva nel corpo e urlava come un bambino “civilizzato”, dietro cui non si nascondeva alcun mistero, in quanto era stato portato via da un missionario poco dopo la nascita per rimanere otto mesi in un ospedale di Caracas finché la sua malattia non fu curata e poté essere riportato alla sua famiglia. Il dr. Robert Coles, psichiatra infantile e scrittore, convocato da una fondazione americana per esporre un parere sulle mie idee, mi disse che era stato invitato in qualità di “esperto nel campo” ma che “il campo, purtroppo, ancora non esiste” e né lui né chiunque altro poteva essere considerato un’autorità. Il concetto del continuum, quindi, deve essere valutato per i propri meriti, allorché va a toccare, o no, quelle sensibilità e quelle facoltà parzialmente sepolte in ogni individuo, accingendosi ad esprimerle e a reintegrarle.

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Per circa due milioni di anni, pur appartenendo alla stessa specie animale, l’uomo ha raggiunto notevoli traguardi. È riuscito ad evolversi dalla condizione di primate a quella di uomo cacciando selvaggina e raccogliendo frutti con un efficiente stile di vita che, se avesse mantenuto più a lungo, gli avrebbe permesso di sopravvivere per altri milioni di anni. Molti ecologisti concordano che, allo stato attuale, le sue possibilità si sopravvivenza per un altro secolo ancora si riducono ogni giorno che passa. Durante le poche migliaia di anni dal momento in cui ha abbandonato il modo di vita al quale l’aveva condotto l’evoluzione, l’uomo non solo ha sconvolto l’ordine naturale dell’intero pianeta, ma è anche riuscito a screditare il fine buon senso che aveva guidato il suo comportamento nel corso del suo lungo processo evolutivo. Buona parte di quel buon senso è stato distrutto soltanto recentemente, via via che gli ultimi baluardi della nostra istintività sono stati divelti e sottoposti all’osservazione intransigente della scienza. Ancora più spesso succede che il nostro senso innato di ciò che è bene per noi viene minato dal sospetto, mentre la ragione, che non ha mai conosciuto a fondo i nostri effettivi bisogni, detiene il potere decisionale. Per esempio, non spetta alle facoltà della ragione decidere come si deve trattare un bambino. Abbiamo avuto un istinto così raffinato, così abile nel gestire ogni aspetto della cura dei bambini, molto tempo prima di diventare qualcosa di simile all’homo sapiens. Ma abbiamo cospirato per eludere in modo così totale queste antiche conoscenze, al punto che adesso si assumono ricercatori a tempo pieno per scoprire come ci si dovrebbe comportare nei confronti dei figli, fra di noi e con noi stessi. Non è un segreto che gli esperti non hanno “scoperto” come vivere in maniera gratificante, ma tanto più essi falliscono, tanto più tentano di far ricadere i problemi sotto la sola influenza della ragione respingendo ciò che questa non riesce a capire o a controllare.

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Le tendenze e le aspettative nell’essere umano Attualmente siamo piuttosto inclini a credere di poter guarire servendoci dell’intelletto; il nostro senso innato di ciò che è buono per noi è stato minato a tal punto che siamo scarsamente consapevoli dei suoi meccanismi e non siamo più in grado di distinguere un impulso originale da uno distorto. Tuttavia ritengo che sia ancora possibile ricominciare da questo punto, disorientati e carenti come siamo a ritrovare la strada smarrita. Se non altro potremmo individuare la direzione in cui vanno i nostri interessi più importanti, senza continuare a fare sforzi che possano, comunque, fuorviarci ancora di più. Il nostro cosciente, nelle vesti di buon “consigliere tecnico” nella guerra di qualcun altro, quando si avvede di aver agito erroneamente, dovrebbe mettersi da parte evitando di penetrare più profondamente in un territorio sconosciuto. Ci sono naturalmente moltissime attività di cui possono occuparsi le nostre facoltà intellettive senza che queste vadano ad usurpare il lavoro che per molti milioni di anni è stato svolto dalle zone infinitamente più raffinate e perspicaci della mente che vanno sotto il nome di istinto. Se anch’esse fossero coscienti, tempesterebbero in un istante le nostre teste mandandole in tilt, se non altro per la sola ragione che la mente conscia, per sua natura, riesce ad analizzare solo una cosa per volta, mentre l’inconscio è in grado di fare una serie di osservazioni, calcoli, sintesi ed esecuzioni in modo esatto e simultaneamente. Il termine esatto in questo contesto nasconde un inganno; infatti non implica che siamo tutti d’accordo su quelli che vogliamo siano i risultati delle nostre azioni, poiché le nostre idee a livello intellettuale su quello che desideriamo variano da individuo a individuo. Ciò che s’intende qui per “esatto” è quanto esiste di rispondente all’antico continuum della nostra specie nella misura in cui esso si adatta alle ten24

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denze e alle aspettative con cui ci siamo evoluti. Le aspettative, in questo senso, sono fondate così profondamente nell’uomo quanto lo è il suo stesso essere: i suoi polmoni non solo hanno, ma si può dire che siano l’aspettativa di aria; i suoi occhi sono l’aspettativa di raggi di luce della specifica gamma di lunghezze d’onda emesse da tutte le cose che gli serve vedere a quelle date ore, così come è idoneo alla sua specie; le sue orecchie sono l’aspettativa di vibrazioni provocate dagli eventi che verosimilmente lo riguardano, comprese le voci di altre persone; la propria voce è l’aspettativa di orecchie di altre persone che funzionano in simil modo. L’elenco si può allungare all’infinito: la pelle e i capelli impermeabili all’acqua: aspettativa di pioggia; i peli nel naso: aspettativa di polvere; la pigmentazione della pelle: aspettativa di sole; il meccanismo di traspirazione: aspettativa di calore; il meccanismo di coagulazione: aspettativa di incidenti sulle superfici del corpo; un sesso: aspettativa dell’altro; il meccanismo dei riflessi: aspettativa del bisogno di una pronta reazione nelle emergenze. Come fanno le forze che compongono un essere umano a sapere in anticipo di cosa avrà bisogno? Il segreto è l’esperienza: il susseguirsi di esperienze che preparano un essere umano al suo momento sulla terra comincia con le avventure della prima monocellula di materia vivente. Ciò che essa ha sperimentato in termini di temperatura, di composizione dell’ambiente circostante, di nutrimento utile ad alimentare le sue attività, di mutamenti atmosferici e di scontri con altri oggetti o membri della propria specie, è stato tramandato ai suoi discendenti. Sulla base di questi dati, trasmessi con mezzi in gran parte ancora misteriosi per la scienza, si sono verificati i lenti, lentissimi cambiamenti che, dopo un tempo incredibilmente lungo, hanno prodotto una varietà di forme che poterono sopravvivere e riprodursi affrontando l’ambiente in modi diversi. Come sempre accade quando un sistema si diversifica e diventa più complesso, adattandosi in modo più confacente ad una più vasta gamma di circostanze, ne è


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risultata una maggiore stabilità. La vita stessa è stata in parte sottratta al pericolo di estinzione a causa di catastrofi naturali. Così che, se anche un’intera forma vivente fosse stata annientata, ce ne sarebbero state tante altre atte a sopravvivere complicandosi, diversificandosi, adattandosi, stabilizzandosi. Sembra ragionevolmente giusto supporre che diverse forme “primitive” fossero estinte prima che ne sopravvivesse una, forse milioni di anni dopo l’ultima forma, diversificandosi nel tempo per evitare di essere annientata da qualche insostenibile evento naturale. Contemporaneamente, il principio stabilizzante era attivo in ogni forma e in ogni parte di ciascuna forma, attingendo informazioni dall’esperienza ereditata, dai contatti di ogni genere e attrezzando i propri discendenti in maniera sempre più complessa per far fronte più efficacemente a quelle esperienze. Pertanto l’essere di ogni individuo era un riflesso dell’esperienza che si aspettava d’incontrare. L’esperienza che poteva sostenere era determinata dalle circostanze a cui si erano adattati i suoi predecessori. Le creature in evoluzione erano state create per un clima non superiore ai 48,8°, salvo che per poche ore, né inferiore ai 7,2°, e la forma allora corrente rispondeva a tali caratteristiche; ma essa non sarebbe riuscita a mantenere uno stato di benessere se fosse stata esposta per periodi eccessivamente lunghi e ai limiti della tolleranza, così come non sarebbero stati in grado di farlo i suoi predecessori. Le riserve predisposte per l’emergenza si sarebbero esaurite conducendo alla morte dell’individuo o della specie, in caso di mancato intervento. Se si vuole sapere ciò che è giusto per qualunque specie, è indispensabile conoscere le aspettative innate di ognuna. Quanto ne sappiamo delle aspettative innate dell’uomo? Sappiamo abbastanza bene ciò che riceve, e ci viene detto spesso ciò che egli vuole, o dovrebbe desiderare, secondo la scala corrente dei valori. Ma – ironia della sorte – le aspettative che la sua storia evolutiva l’ha condizionato ad avere, in qualità di ultimo esemplare nell’antica linea di discendenza, rimangono misteriosa-

mente oscure. L’intelletto ha preso il sopravvento decidendo ciò che è meglio per lui e facendo prevalere le sue mode e le sue ipotesi. Di conseguenza la sicura aspettativa dell’uomo, che una volta era rappresentata dal fatto di essere trattato in modo adeguato in un ambiente appropriato è stata così soffocata recentemente, che ormai ci si ritiene spesso fortunati se non si è senza casa o vittime di qualche sofferenza. Ma nel momento stesso in cui un individuo dice: “Sto bene”, c’è in lui un senso di smarrimento, il desiderio di qualcosa a cui non riesce a dare un nome, la sensazione di essere decentrato, la mancanza di qualcosa. Se gli si pone il quesito a bruciapelo, raramente lo negherà. Pertanto per scoprire il preciso carattere delle sue aspettative evolute, non ha senso esaminare l’esemplare dell’uomo civilizzato così com’è attualmente. Osservare delle altre specie può essere utile ma può anche essere fuorviante. Nei casi in cui corrisponde il livello di sviluppo, i confronti con altri animali possono essere validi, come nel caso di bisogni più antichi, più profondi e più fondamentali che precedono la nostra forma antropoide, come la necessità di aria per respirare che emerse centinaia di milioni di anni fa ed è comune a molti animali nostri simili. Ma, ovviamente, è molto più utile studiare quei soggetti umani che non hanno interrotto la continuità di un comportamento e di un ambiente appropriati. Anche se riusciamo ad identificare alcune nostre aspettative che sono meno ovvie dell’aria per respirare, rimarrà pur sempre da definire una grande quantità di aspettative più impalpabili, prima di poter ricorrere ad un computer che ci aiuti a recuperare qualche minuscola frazione di esse attraverso la nostra conoscenza istintiva. È quindi indispensabile andare costantemente alla ricerca di occasioni per poter recuperare la nostra innata capacità di scegliere ciò che è giusto. L’inetto intelletto con cui dobbiamo tentare ora di riconoscere tale capacità potrà, magari, occuparsi di compiti in cui è più versato. IL CONCETTO DEL CONTINUUM

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Il continuum nell’individuo e nella cultura Le aspettative con cui ci affacciamo alla vita sono inestricabilmente legate a delle tendenze (per esempio quella di succhiare, evitare danni fisici, andare carponi, esplorare, imitare). Via via che le nostre aspettative vengono soddisfatte, a seconda delle circostanze e del modo in cui veniamo trattati, una serie di tendenze in noi interagiscono con esse, così come, ancora una volta, è stato predisposto dall’esperienza dei nostri avi. Quando si deludono le attese. intervengono delle tendenze correttive o compensatrici che tentano di reinstaurare la stabilità. Questo continuum dell’uomo si può definire come sequenza delle esperienze che corrispondono alle aspettative e alle tendenze della nostra specie in un ambiente consono a quello in cui queste si sono formate. Esso prevede un comportamento appropriato degli individui e che questi vengano adeguatamente trattati in quanto parti integranti di quell’ambiente. Il continuum di un individuo è un tutto, che è parte del continuum della sua famiglia, che a sua volta è parte dei continua del suo clan, della sua comunità e della sua specie, così come il continuum della specie umana è parte di quello della vita intera. Ciascun continuum ha le proprie aspettative e tendenze, che derivano da antecedenti formativi. Anche il continuum che abbraccia tutte le forme viventi prevede, in virtù dell’esperienza, una gamma adeguata di fattori nell’ambiente inorganico circostante. In ogni forma di vita la tendenza all’evoluzione non è casuale, ma privilegia i propri interessi, dirigendosi verso una maggiore stabilità, cioè una maggiore diversità, complessità e quindi adattabilità. Ciò non è affatto quello che noi chiamiamo “progresso”. Infatti la resistenza al cambiamento, per niente in conflitto con la tendenza all’evoluzione, è una forma indispensabile a salvaguardare la stabilità di qualunque sistema. 26

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Possiamo soltanto ipotizzare ciò che ha frenato la nostra innata resistenza al cambiamento poche migliaia di anni fa. Ciò che importa è comprendere il significato dell’evoluzione rispetto al cambiamento (non evolutivo). Essi sono diametralmente opposti: per tutto ciò che l’evoluzione crea in termini di diversificazione, rispondendo sempre più precisamente alle nostre esigenze, il cambiamento distrugge introducendo comportamenti o circostanze che non prendono in considerazione l’intera gamma di fattori implicati nel proseguimento dei nostri maggiori interessi. Il cambiamento non può far altro che sostituire un elemento del comportamento ben integrato con un altro che non lo è, rimpiazzando ciò che è complesso e adattato con qualcosa di più semplice e meno adattato, esercitando, di conseguenza, una certa pressione sull’equilibrio di tutti quei fattori all’interno e all’esterno del sistema che sono intrinsecamente correlati. L’evoluzione dunque crea stabilità, il cambiamento provoca vulnerabilità. Anche le organizzazioni sociali seguono questa regola. Una cultura evoluta e un modo di vita che soddisfino le aspettative sociali di un gruppo di individui possono essere costituiti da un’infinita varietà di strutture. I tratti superficiali di queste strutture sono variabilissimi, i loro principi essenziali lo sono meno, e per alcuni aspetti fondamentali esse tendono ad essere identiche. Tali strutture sono resistenti al cambiamento, essendosi evolute nel corso di un lungo periodo di tempo come ogni altro sistema stabile della natura. Si deduce, inoltre, che meno l’intelletto interferisce con l’istinto nella formazione dei modelli di comportamento, meno rigida ha bisogno d’essere la struttura superficiale (gli aspetti comportamentali, i rituali, la necessità di conformismo) e più inflessibile la struttura interna (nell’atteggiamento verso se stessi e nei confronti dei diritti degli altri, sensibilità ai segnali dell’istinto che favoriscono la sopravvivenza, la salute, il piacere, equilibrio delle diverse attività quali l’impulso verso la conservazione della specie, l’uso econo-


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mico delle piante e degli animali nel rispetto dell’ambiente, e così via). In poche parole, più una cultura si affida all’intelletto per decidere su una politica con delle regole, più l’individuo ha bisogno di limitazioni per poterla sostenere. Non vi sono differenze sostanziali fra un comportamento puramente istintivo, con le sue aspettative e tendenze, e la nostra aspettativa ugualmente istintiva di una cultura adeguata, all’interno della quale poter sviluppare le nostre tendenze e soddisfare le nostre aspettative, prima quelle di un preciso trattamento durante l’infanzia e poi gradualmente di un genere, più flessibile, di trattamento e di circostanze, oltre che di una serie di richieste a cui siamo pronti, ansiosi e capaci di adattarci. Il ruolo di una cultura nella vita umana è altrettanto legittimo di quello di una lingua: entrambe hanno inizialmente l’aspettativa e la tendenza a trovare il loro contenuto nell’ambiente. Il comportamento sociale di un bambino si sviluppa fra le influenze previste e gli esempi a lui offerti dalla società. Degli impulsi innati, inoltre, lo spingono ad agire così come i suoi simili si aspettano da lui, secondo quanto da lui percepito; essi gli fanno sapere ciò che si aspettano in base alla propria cultura. L’apprendimento è un processo di realizzazione di aspettative di un certo tipo di informazioni, che aumentano in un determinato ordine di complessità, così come avviene per le strutture del linguaggio. L’adattabilità al nostro tipo di aspettative, sostenute dal senso del continuum di ogni individuo, incoraggiate dal piacere, tenute in vita da una repulsione neutrale che aumenta via via che si rischia di oltrepassare i confini dell’armonia, sta alla base del sistema vitale della cultura del “giusto e sbagliato”. Le particolarità di tale sistema, inoltre, possono variare infinitamente purché esse rimangano entro i parametri di base. Esiste un enorme spazio per le differenze, individuali o tribali, senza dover tuttavia trasgredire quei limiti.

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Jean Liedloff

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Jean Liedloff, nata e vissuta a New York, dopo aver preso parte a cinque spedizioni tra gli Yequana, indiani dell’“età della pietra” del Venezuela, ha messo a punto la sua originale rilettura critica del rapporto tra cultura occidentale e natura con la sua opera The Continuum Concept. Attualmente vive tra Londra e la California insegnando Psicoterapia e animando i numerosi centri che, ispirandosi al Concetto del Continuum, sono sorti in più parti del mondo.

In copertina disegno di Silvio Boselli

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IL CONCETTO DEL CONTINUUM Ritrovare il ben-essere perduto

IL CONCETTO DEL CONTINUUM

La prima violenza che caratterizza la nascita della vita nella nostra cultura è la rottura traumatica del rapporto madre-bambino sin dai primi istanti di vita. La separazione violenta del neonato dalla madre, imposta dalle moderne tecniche ospedaliere di gestione del parto, viene poi ripetuta spesso orgogliosamente nel corso della vita neonatale. In realtà queste traumatiche privazioni infantili spesso costituiscono le premesse per la formazione di individui ansiosi, sradicati, aggressivi. A partire da un’originale esperienza di condivisione con una tribù di indios venezuelani, l’autrice rilegge in queste pagine il nostro contraddittorio rapporto con il bambino, spesso devastante perché privo delle più spontanee esperienze di continuum come la posizione dell’in-braccio, l’allattamento al seno, ecc. Quest’opera, conosciuta e tradotta in numerosi Paesi, chiarisce come la riappropriazione dei legami iniziali, che i genitori avvertono istintivamente verso il bambino, sia il primo ed essenziale contributo per educare alla pace in un mondo che gli adulti – bambini non amati di ieri – hanno condotto sull’orlo del baratro.

M

ISBN 978-88-87507-33-3

Euro 15,50 (I.i.) 9 788887 507331

edizioni la meridiana p a r t e n z e

Colori compositi


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