PASSAGGI
“Per sopravvivere mi ero sdoppiata in due persone, quella serena e quella con un segreto soffocante, terribile. Ora in me c’è solo voglia di riscatto. Non voglio più pensare a ciò che non ho.”
collana
Annalisa Graziano
edizioni la meridiana
Annalisa Graziano SOLO MIA
Annalisa Graziano, foggiana, è giornalista professionista. Laureata in Lettere, con un Master in scienze della Comunicazione, è responsabile della Comunicazione e della Promozione del Volontariato Penitenziario del CSV Foggia. È membro dell’Organo di Indirizzo della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, assistente volontario delle Case Circondariali di Foggia e Lucera e dell’Ufficio locale di Esecuzione Penale Esterna di Foggia. Ha curato diverse pubblicazioni tra cui Dalla strada al chiuso: i risultati di una ricerca (2012); L’altra possibilità (2016); Un’altra storia per Foggia. L’eredità del 21 marzo 2018 (2019). Con la meridiana ha pubblicato Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre (2017).
Solo Mia Storie vere di donne
la meridiana
ISBN 978-88-6153-732-3
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9 788861 537323
PASSAGGI
Euro 16,00 (I.i.)
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Annalisa Graziano
Solo Mia Storie vere di donne
edizioni la meridiana
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Indice
Parte prima Eva 13 Nina 17 Una sera col fiato spezzato 21 Il primo livido 25 Una storia al capolinea 29 Anche sola 34 Identità 37 Sopravvissuta 40 Il convegno 44 Racconti dal carcere 49 Violenza e responsabilità 53 Un appuntamento mancato 57 Un caffè macchiato con spolverata di cacao 61 Fragile e forte 65 Parte seconda Un nuovo inizio La penna in carcere Errare, non sbagliare Cambiare per un figlio Amori e delusioni Un prezzo troppo caro Il reinserimento Il carcere come liberazione Bulli da tastiera L’amore di una vita Delitto d’onore
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Parte terza La persona giusta 135 Un segreto 140 I ricordi intrusivi 153 Mia 156 La responsabilità del linguaggio 160 Il perdono 164 L’odio verso l’amore 167 Una dedica 173 Ringraziamenti 175
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Parte prima
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Eva
Non sarebbe accaduto mai più. L’aveva pensato tante volte, ora era decisa. Si accarezzò il fianco con la mano destra, stringendo con l’altra la tazzina del caffè, sul fondo del lavello. Provava dolore, ma non aveva ancora il coraggio di guardarsi allo specchio. Sapeva già cosa aspettarsi e, tra le lacrime, fece un sospiro profondo. L’estate precedente era stata la volta del braccio e il livido, dopo qualche giorno, aveva assunto una strana forma. Un cuore. “Che cosa ridicola e di cattivo gusto”, pensò, ricordandolo, con un sorriso amaro. Nemmeno il suo corpo sembrava rispettarla, esattamente come Vittorio. “Sei proprio una stupida”, si disse. Quando squillò il telefono, si accorse di avere ancora la mano sotto l’acqua bollente. La asciugò velocemente sul pantalone del pigiama e respirò, per darsi un contegno: chiunque fosse non doveva capire, non doveva sapere. Afferrò un fazzoletto e soffiò il naso, poi prese il cellulare e rispose alla madre, raccattando un po’ di energie per fingere entusiasmo. “Buongiorno, mamma”. “Eva, tesoro – esordì la donna, con la voce rassicurante di sempre – ma che fine hai fatto? Ieri non ti sei fatta viva, mi fai preoccupare quando sparisci così”. Si impose di non crollare. “Tutto bene, tranquilla”. Si poggiò stancamente sul frigo e dovette mordersi il labbro per soffocare il dolore. “Sono un po’ raffreddata e sono andata a dormire presto. Oggi ho da finire un progetto in ufficio e voglio essere con13
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centrata. Anzi, devo proprio lasciarti, sono in ritardo. Un bacio, ti voglio bene mamma”. Sembrò crederle e, anche se a malincuore, accettò miracolosamente di chiudere subito la conversazione. Si sentì sollevata e, allo stesso tempo, in colpa: non avevano mai avuto segreti. Erano cresciute insieme, da sole, dopo che suo padre era morto in un tragico incidente stradale, in un giorno di fine gennaio, poco prima del suo settimo compleanno. Le strade erano ghiacciate e la vecchia auto era uscita fuori strada. Era piccola allora, ma alcuni ricordi erano ancora vivi. Le lacrime della madre seduta a terra in camera da letto, il cuscino stretto tra le braccia. I parenti e i vicini che suonavano alla porta, le carezze. La neve che si posava sul davanzale e lei che temeva che il suo papà potesse sentire freddo, senza la copertina con gli gnomi che usavano quando guardavano i cartoni animati, abbracciati sul divano. “Perché correvi quella sera, perché non sei stato attento? Ora saresti qui”, pensò triste mentre stendeva il correttore, cercando di camuffare il gonfiore degli occhi. Da quel giorno di gennaio la madre aveva dovuto trovare la forza di rialzarsi, di convivere con il dolore. E oggi, a distanza di vent’anni, aveva una vita più movimentata della sua. Il lavoro come segretaria dell’avvocato Liberati, impiego che le aveva trovato il cognato un mese dopo l’incidente, il caffè del sabato mattina con le amiche storiche, lo yoga e il corso di dizione. “Il docente si trucca ed è un po’ troppo barocco – le aveva raccontato con un sorrisino malizioso – ma è un bel tipo e poi devo assolutamente correggere queste dentali, tesoro”. In realtà, aveva una buona dizione, ma sua madre amava da sempre sperimentare nuovi ambienti. Eva sperò che potesse essere l’occasione giusta per incontrare qualche bel signore 14
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distinto. Era ancora una donna affascinante, dimostrava dieci anni in meno, nonostante la tragedia che l’aveva segnata per tutta la vita. “Caterina, perché non cerchi di rifarti una vita?”, le ripetevano le amiche. Ma dell’argomento proprio non si riusciva a parlare. La chiusura era netta. “Fidanzarmi alla mia età? Non esiste proprio. Che poi, diciamocelo: dopo i sessanta anni gli uomini diventano dei pesantoni, noiosi. Se devo avere accanto qualcuno a cui badare, a questo punto scelgo un bel cucciolo in canile.” Di fatto, qualcuno già c’era nella vita di Caterina, il caro vecchio Luciano. Erano stati compagni di scuola e, negli anni, non si erano mai persi di vista. Eva aveva capito ben presto che quel signore taciturno era innamorato di sua madre: non aveva mai smesso di guardarla con quella particolare luce negli occhi. Era stato sempre presente dopo l’incidente e si era preso cura di loro anche nei suoi momenti più difficili, come il divorzio da “quella ruffiana di Concetta”. Le due donne non erano mai andate d’accordo e certo la moglie di Luciano aveva le sue ragioni, lo avrebbe capito anche un cieco che lui provava un sentimento per la biondina conosciuta al liceo. Ad Eva i primi anni aveva fatto anche un po’ pena, non doveva essere piacevole vivere nella competizione. Poi però aveva dovuto dare ragione a sua madre quando si scoprì che era una sorta di Sally Spectra in salsa paesana, perfida ma meno simpatica. “La cosa è molto semplice – le aveva spiegato la mamma, con fare scientifico, il giorno che Luciano aveva comunicato di essere andato via di casa – Concetta è una pettegola, è cattiva e limitata, capisci? Ha trovato il bravo ragazzo da accalappiare, un po’ tontolone diciamolo, di buona famiglia, e pensava di aver vinto la lotteria. Ha recitato la parte della santa fin quando la sua vera natura non è venuta fuori. Una irriducibile natura maligna.” 15
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E con quella pillola di saggezza, in casa Martini, “il capitolo Concetta” era stato archiviato. Per Luciano, in verità, non era stato semplice. Era molto cattolico e la scelta della separazione doveva essere stata particolarmente dolorosa. Ma Concetta Spectra era riuscita a logorare anche i suoi principi più saldi, richiedendo molta pazienza e coraggio. Una forza che Eva non aveva ancora recuperato. Le sue storie sentimentali erano dei totali fallimenti. Trovava sempre la persona sbagliata nel momento sbagliato. Un record di errori, uno dopo l’altro. L’ultimo però non era solo uno sbaglio. Aveva toccato il fondo e questa volta ci aveva sbattuto la schiena contro. Doveva risalire.
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Nina
In ufficio raccontò di aver avuto una brutta nottata a causa del raffreddore. Gli occhi erano ancora gonfi, ma doveva consegnare il progetto sul contrasto alla povertà educativa e non poteva mettersi in ferie. Il suo lavoro le piaceva, la faceva sentire utile alla comunità. E poi veniva pagata per avere idee e scriverle, la sua passione da sempre. Lo stipendio non era altissimo, è vero, ma era sufficiente per pagare l’affitto del bilocale in centro. Aveva sempre vissuto in periferia con sua madre e tutte le mattine, alzandosi all’alba per essere alle 7.20 alla fermata dell’autobus, si era ripromessa che avrebbe preso un buco in centro storico, appena fosse diventata indipendente economicamente. E così era stato. La mansarda di via Le Maestre le era piaciuta subito, quando l’aveva vista sul sito dell’agenzia immobiliare, due anni prima. Aveva mandato immediatamente le foto tramite WhatsApp a sua madre e a Nina, la sua migliore amica, una sorella. “Wow, molto carina Evuccia. Ma c’è un buco di balcone dove bere vino e fumare, mentre ci lamentiamo dell’universo maschile?”, le aveva risposto, con una faccina sorridente. “Ovvio. Ci entrano giusto due sedie e un tavolino e si vede il Duomo. Nina, la adoro già.” “Ok, ma controlla che non ci siano in giro piccioni. Non ho intenzione di beccarmi una chiazza mentre mangio. Gli impacchi ai capelli me li faccio da sola. Aggiornami, che vado a scegliere una bottiglia per l’inaugurazione.” Dopo tre settimane erano nel piccolo soggiorno a sballare pacchi assieme a sua madre, mentre Luciano tentava di mon17
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tare la libreria componibile, ripetendo come un mantra quanto fossero avanti i nordeuropei. Erano stati due giorni di lavoro intenso, alla fine la casetta era arredata come nei sogni di Eva. Le amiche avevano brindato alla nuova avventura sul terrazzino, stanche ma soddisfatte. “Sono felice per te, sorella – le aveva detto Nina. – Ora devi solo trovarti un maschio sano. Perché, diciamocelo, quel Saverio era un quadro antico. Ma poi, c’è ancora chi si chiama Saverio nel XXI secolo? Non è un nome da vecchio zio tirchione, con i calzini bianchi e la medaglia al valor civile di sugo sulla cravatta?” Erano scoppiate a ridere, mentre Nina scattava selfie a ripetizione e metteva filtri “per sembrare abbronzate e strafighe”. Era una ragazza divertente e molto sensibile. Si erano conosciute all’asilo e non si erano più lasciate. Le loro mamme erano diventate amiche e spesso Caterina accompagnava Eva a trascorrere i pomeriggi a casa di Nina, quando l’avvocato Liberati le chiedeva di fare lo straordinario, in vista di qualche causa particolarmente importante. Avevano frequentato le stesse scuole, fino al liceo. Sempre in classe insieme, allo stesso banco. E avevano condiviso tutto, tranne i fidanzati. Era stata una promessa fatta in seconda media, quando avevano capito di provare entrambe una simpatia per Daniele, il compagno con il ciuffo in terza fila. “Dobbiamo giurarci che non litigheremo mai per uno stupido maschio – aveva detto Nina – anche perché a te, Eva, piacciono solo i nerd e quindi sarà cosa facile.” Non avevano mai discusso per cose serie. L’unica volta in cui non si erano parlate per tre giorni era stato quando Nina le aveva confidato di non voler continuare gli studi all’università e di voler provare, qualche settimana dopo, il concorso per diventare agente penitenziario. Eva non l’aveva presa bene, le erano venuti i brividi. “Nina, ma sei impazzita? Ti rendi conto che i poliziotti penitenziari sono detenuti pure loro? Che avrai a che fare con 18
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dei delinquenti? E se qualche carcerato dovesse aggredirti o suicidarsi mentre sei in servizio? Non puoi farlo, non te lo permetterò.” Quella sera si erano lasciate senza salutarsi e Nina non si era fatta sentire con l’amica nemmeno per messaggio: la sua decisione l’aveva già presa, avrebbe tentato il concorso e il fatto che Eva non la capisse, come sua madre, l’aveva fatta arrabbiare. Le loro preoccupazioni non le avrebbero tarpato le ali. Era certa che il carcere potesse e dovesse rappresentare anche l’anticamera per una seconda possibilità, che non fosse solo un luogo di dolore. Sua zia Marisa aveva insegnato letteratura italiana, per quindici anni, in un istituto penitenziario al Nord e spesso le aveva raccontato episodi relativi a quegli anni. L’affascinava l’impegno che la comunità esterna portava in quelle sezioni per contribuire alla riabilitazione, e il ruolo che rivestivano gli agenti, non solo a livello di sicurezza. “Non sono semplici custodi – le aveva detto zia Marisa – sono parte dell’équipe trattamentale assieme agli educatori e ai medici. Devono possedere competenze specifiche, anche perché a contatto ogni giorno con i ristretti ci sono loro, devono essere anche un po’ psicologi.” Dopo tre giorni da quella discussione Eva si era decisa a mandarle un messaggio. Caterina l’aveva fatta riflettere e poi non sopportava la lontananza dall’amica. Non sapeva come rompere il ghiaccio, però. Nina era una testa dura e un semplice messaggio di scuse non sarebbe bastato. Allora le era venuto in mente di scattare una foto con una maglietta a strisce e di inviargliela. “Vado bene come membro della banda Bassotti, ispettore? Ci vediamo alle 18 al bar sotto casa, porta il libro dei quiz: ti aspetta un’interrogazione di due ore, pizzette incluse.” Nina era risultata tra le prime in graduatoria e per festeggiare avevano programmato un pomeriggio di shopping nel 19
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loro negozio preferito, al motto di “Bisogna compensare le giornate in divisaâ€?. Sembrava ieri e invece erano trascorsi giĂ cinque anni.
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Una sera col fiato spezzato
Il progetto sulla povertà era stato chiuso entro i termini e, mentre guidava per rientrare a casa, Eva pensò che fosse arrivato il momento di parlare all’amica di quanto accaduto il giorno prima. Del resto, Nina l’aveva già messa in guardia su Vittorio: aveva una specie di sesto senso sugli uomini e il lavoro in carcere l’aveva sviluppato ancora di più. “Sembra un bravo ragazzo, ma mi dà l’impressione di essere un po’ costruito. Tieni sempre alta la guardia. Qualcosa non mi convince”, le aveva detto all’inizio di quella relazione. Non si sbagliava. Quando arrivò a casa, si svestì per fare la doccia e decise di guardarsi allo specchio. Questa volta aveva due brutti segni bluastri sulla schiena, grandi: le facevano un male cane. “Che grande bastardo”, pensò mentre le tornavano in mente le immagini della sera prima. Ancora una volta era bastato un pretesto per umiliarla e farla soffrire. “Che cosa ho fatto di male? Non merito anche io un uomo che mi ami sul serio, una persona buona che voglia prendersi cura di me?”, si disse con la voce spezzata dal pianto, scivolando sul tappeto del bagno, con la pomata per gli ematomi stretta in mano. E invece Vittorio era uno di quegli uomini che si dovevano evitare come la peste, scansare. Il giorno prima era arrivato a casa già nervoso, sbuffando. Eva era appena rientrata e stava mettendo a posto la spesa negli scaffali. Gli aveva aperto la porta con un sorriso e lui 21
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l’aveva evitata, dicendo che era stanco e che aveva avuto una giornata dura al lavoro. Si era buttato sul divano, accendendo il televisore e alzando il volume. Non una parola, non un gesto gentile. Non lo tollerava quando faceva così: era già successo altre volte. Poi le chiedeva scusa, spiegando che era teso per un qualche motivo, sempre banale. Eva aveva richiuso le buste della spesa come le aveva insegnato Luciano, per salvare spazio, e aveva iniziato a cucinare. Aveva comprato due spigole enormi e il salmone, il suo pesce preferito, e aveva messo in frigo una bottiglia di bianco frizzante. “Vittorio, potresti aprire almeno il vino?” gli aveva chiesto, dividendosi affannosamente tra i fornelli e la tavola da apparecchiare. Non si era mosso. Gli aveva fatto la stessa domanda, con un tono di voce più alto. “Che cazzo ti gridi?”, le aveva risposto alzandosi controvoglia. “Che cretina”. “Che cosa hai detto?” gli aveva chiesto, irritata. Non l’aveva degnata neanche di uno sguardo. Le aveva dato le spalle e si era diretto verso il bagno, per tornare subito dopo. “Ma che schifo c’è? È tutto disordinato. Quante volte ti devo dire che mi dà fastidio entrare in un bagno messo peggio di quelli pubblici? Non sei buona neanche a tenere ordinato un buco di casa.” Eva era rimasta gelata, ancora una volta. “Vittorio, ti ricordo che sono stata tutto il giorno in ufficio: devo chiudere un progetto importante entro domani. Poi sono andata a fare la spesa per preparare una cena decente. Quando sei arrivato, stavo ancora sistemando le cose. E ho pensato che fosse meglio prima cucinare, visto che eri stanco. Che motivo c’è di essere così scortese? Essere gentile ti risulta proprio impossibile?” Aveva fatto una pausa, ma non aveva ancora finito. Doveva smetterla di umiliarla. 22
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“E poi ho sentito che mi hai dato della cretina, senza motivo. Tu, invece, che ti stravacchi sul divano e non ti preoccupi nemmeno di chiedermi se ho bisogno di una mano, sei il solito gentiluomo, vero?” Era freddo, quasi compiaciuto della scena. Eva aveva capito che si divertiva a farla stare male, ma non si spiegava il perché. Non avrebbe dovuto volerle almeno un po’ di bene? “Mi è passata la fame, vado a bere una birra con Antonio. Magari il pub ha un bagno più decente del tuo.” Si era alzato di scatto, con il cellulare in mano. “Il bagno è pulito, c’è solo qualcosa in disordine, per la fretta. Il pesce è praticamente pronto. Che cosa ne faccio?” “Buttalo se non lo vuoi, non mi riguarda. Sembra pure vecchio, chissà dove l’hai preso”, aveva detto, con un mezzo sorriso storto, mentre infilava la giacca. Lei lo aveva raggiunto vicino alla porta, le lacrime le rigavano il viso. “Ma smettila di piangere: sei ridicola, noiosa. Quando capirai che mi dai fastidio quando ti comporti come una bambina idiota? Quando maturi, hai quasi trent’anni. Ok, sei cresciuta senza uno straccio di padre, ma ora basta. Sono passati vent’anni, Cristo. Non puoi fare la vittima del destino per sempre. Non sei né la prima né l’ultima a cui il padre si è sfracellato per strada. Sei stomachevole.” No, suo padre no. Non era degno di nominarlo. Non aveva il diritto di trattarla come una pezza e poi ferirla sul suo punto debole, rigirando il dito in una piaga che non si era mai rimarginata. “Ma perché sei così squallido e crudele?” gli aveva gridato piangendo, “che cosa ti ho fatto?” “Guardati, ti cola il muco sulla maglia. Fai pena, sei disgustosa. Me ne vado, così ti fai la tua sceneggiata da sola.” “No, adesso tu ti togli questa giacca e ti siedi su quel divano. Mi spieghi perché mi tratti così, perché ti diverte umiliarmi in questo modo.” 23
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Eva si era avvicinata con l’intenzione di tirargliela via e lui l’aveva spinta con forza, facendola sbattere violentemente contro il termosifone. Poi le aveva sputato addosso, con disprezzo. Le si era spezzato il fiato. E non era finita. Le aveva messo una mano al collo, senza stringere troppo: era furbo, i lividi non si dovevano vedere. “Non ti permettere mai più, puttana” le aveva sussurrato all’orecchio. “Questa giacca costa più di questa casa. Ma che ne sai tu, che vai a comprare i vestiti nei centri commerciali con quella cretina della tua amica?” Se ne era andato lasciandola così, sbattendo la porta. Si sentì male ricordando la scena e vomitò. Quando si riprese, si lavò il viso e i denti e si guardò allo specchio: aveva le occhiaie, gli occhi gonfi. Sembrava malata. Questa volta era andato oltre. O forse era lei che non poteva sprofondare più in basso.
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Il primo livido
Vittorio, come era già accaduto le altre volte, non si sarebbe fatto vivo per qualche giorno. Eva decise che avrebbe usato quel tempo per elaborare una strategia e liberarsene definitivamente. Doveva convincere, però, prima di tutto se stessa. Era consapevole di avere una qualche forma di dipendenza emotiva, frutto della manipolazione di quell’uomo, ma avvertiva il bisogno di spezzare quelle catene affettive. Voleva imparare a sentirsi bene anche da sola, senza qualcun altro che, teoricamente, dovesse prendersi cura di lei e che poi risultasse non adeguato. Per molti anni era vissuta nel terrore di essere abbandonata e, ogni volta che si chiudeva una relazione, anche se per sua scelta, ne usciva con le ossa rotte. “Eva, devi imparare a stare anche da sola”, le aveva raccomandato sua madre alla fine della sua prima storia importante, durante gli anni del liceo. E invece lei, per un motivo o per un altro, da sola non c’era mai stata. I rapporti precedenti si erano conclusi sempre con una sensazione di mancato amore. I ragazzi che aveva scelto si erano rivelati insicuri e immaturi, troppo gelosi o troppo poco interessati e interessanti. Si era sforzata di essere sempre presente, per poi ritrovarsi – senza nemmeno accorgersene – in esperienze di sacrificio e sottomissione emotiva. Ogni volta, spendeva troppa energia nell’amare o nel tentare di ricevere amore e approvazione. Riduceva gradualmente i propri spazi, fino a quando quell’impegno diventava ingestibile e la relazione terminava con lacrime e sessioni di consolazione interminabili con sua madre e Nina. 25
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Ogni volta si riprometteva che non ci sarebbe cascata e che avrebbe avuto più rispetto dei propri bisogni, considerando se stessa oltre che l’altra persona. Poi, la storia si ripeteva. Così, un anno e mezzo prima, dopo la breve relazione con Sandro, ribattezzato da Nina “Sandrone il Gingillone” per la sua tendenza a rimandare sempre, Eva aveva giurato a se stessa che si sarebbe data del tempo per riflettere. Il destino non l’aveva assecondata. Tre settimane più tardi aveva incontrato Vittorio durante una cena con amici. Avvocato in carriera, modi gentili, bello, davvero bello. Non lo aveva notato subito, ma lui aveva fatto di tutto per sedersi accanto a lei, offrendole del vino con un sorriso irresistibile. Avevano iniziato a parlare di legalità, tribunale e terzo settore e alla fine della cena le aveva chiesto di andare a prendere un drink. Dopo quella sera, erano stati un paio di volte al cinema, al ristorante e al teatro. E quando lei lo aveva invitato a cena a casa sua, era iniziata la relazione più dolorosa della sua vita. Nei primi mesi ad Eva era sembrato di toccare il cielo con un dito. Per la prima volta si sentiva amata, curata, ricoperta di attenzioni. Poi, durante l’estate, Vittorio aveva iniziato a cambiare atteggiamento. Spariva anche per due giorni, con la scusa di fantomatiche cause da preparare per fine anno. Quando lei aveva provato a cercarlo, le aveva risposto male, accusandola di opprimerlo. “Eva, inizi a togliermi aria. Perché non chiami tua madre o quella Nina, quando hai bisogno di parlare? Io ho cose più serie da fare che ascoltare i tuoi piagnistei. Anzi, sai che cosa ti dico? Piuttosto, vai a fare una corsa al parco, che inizi a mettere su troppa cellulite. Così ti sfoghi pure e non rompi.” Le prime volte lo aveva giustificato per quelle critiche, dandogli quasi ragione. 26
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“Beh, non hai tutti i torti. In effetti è un periodo che non mi sento molto in forma. Farò come dici.” Ogni buon proposito franava con la sfuriata successiva e le offese al suo aspetto fisico o alla sua casa, alle sue amicizie, diventavano sempre più frequenti. Non era solo ciò che diceva, era il tono: sprezzante, cattivo. Godeva nel farle male. Quando uscivano, trascorreva tutto il tempo al cellulare a chattare, spesso con qualche amica. “Non è colpa mia se le donne mi guardano e mi cercano. Fattene una ragione, se vuoi stare con me. Anzi, dovresti solo essere orgogliosa del fatto che ti ho scelta. Potrei avere un sacco di ragazze e, invece, sto con te che nemmeno ti curi a dovere.” Era questo, più o meno, il concetto che le ripeteva a ogni discussione. “Vittorio, smettila di ferirmi, inizio a stancarmi” gli aveva detto una sera, esausta. “Tu ti stanchi? Io sono già stanco. Che c’è, hai conosciuto uno dei tuoi pupazzi? Fammi vedere il cellulare.” Lei si era rifiutata e lui aveva iniziato a insultarla pesantemente. Le lacrime di Eva avevano solo peggiorato la situazione: l’aveva presa per un braccio e l’aveva scossa talmente forte che le aveva lasciato un livido enorme. Era stata costretta a mettere camicette e magliette a maniche lunghe per un mese, nonostante il caldo, per non far vedere quel maledetto ematoma a forma di cuore. Era stata malissimo. L’aveva mandato via di casa dicendogli che non l’avrebbe più voluto vedere, ma dentro si sentiva vuota. Le mancava, anche se era cattivo. Così, quando era ricomparso sotto l’ufficio con una mazzo enorme di rose rosse e un biglietto di scuse, lei ci era ricascata. Erano seguiti tre mesi di pace, in cui sembrava che fosse tornato quello dell’inizio. Poi, le cattiverie erano ricominciate come prima. Sempre più frequenti, sempre più dure. Puntualmente, arrivavano anche le scuse, le giustificazioni. 27
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Il circolo ripartiva ma Eva iniziava a consumarsi. Era sempre triste, mangiava pochissimo, sembrava malata. Era infelice eppure non riusciva a porre fine a quell’agonia. Non aveva il coraggio di parlarne con nessuno, nemmeno con sua madre e con Nina. Si vergognava di quello che accadeva, forse anche di se stessa e della sua debolezza. Metteva pezze al cuore e alle situazioni e si chiedeva in cosa avesse sbagliato. Nell’ultimo periodo si era convinta che avessero solo bisogno di stare un po’ di tempo tranquilli, così quella sera si era decisa a parlargli chiaramente. Dopo la cena a base di pesce, gli avrebbe spiegato come si sentiva. Ma a tavola non ci erano nemmeno arrivati. Vittorio aveva esagerato come al solito, in più aveva usato il dolore per la perdita di suo padre contro di lei. Era stato un colpo al cuore, più forte di qualunque schiaffo, più doloroso di qualsiasi cattiveria.
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