Antonio Bello
Don Tonino riformatore sociale. Del Sud. Anzi, l’ultimo grande riformatore sociale del Mezzogiorno che ha infranto le regole del buon costume episcopale, frantumato le sbarre invisibili dell’esclusione sociale, sovvertito l’ordine dei valori dominanti. Come tutti i grandi riformatori ha misurato la fatica del cambiamento prima sui problemi concreti, strutturali. La casa, la disoccupazione, il disagio, la criminalità, lo sviluppo. La polvere e la strada. E poi le cose che non si toccano, la cultura, le relazioni. Lo scetticismo. Le coscienze. Essere vescovo al Sud è difficile. Don Tonino lo sa. E lo impara, come testimoniano queste pagine nelle quali sono raccolte, per la prima volta, riflessioni ancora oggi di straordinaria lucidità sulle più significative esperienze in cui si è imbattuto. Come vescovo.
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Antonio Bello è stato vescovo di MolfettaRuvo-Giovinazzo-Terlizzi e presidente nazionale di Pax Christi. La sua scelta pastorale, vissuta sull’opzione radicale degli ultimi, e il suo impegno per la promozione della pace, della nonviolenza, della giustizia e della solidarietà, lo rendono ancora oggi, dopo la sua morte, tra i più audaci profeti dei nostri giorni.
SUD
A CARO PREZZO Il cambiamento come sfida
Euro 10,00 (I.i.)
ISBN 978-88-6153-837-5
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Antonio Bello
Sud a caro prezzo Il cambiamento come sfida Introduzione di Guglielmo Minervini Postfazione di Franco Cassano
edizioni la meridiana p a g i n e a l t r e
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Indice
Introduzione di Guglielmo Minervini
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Inchiodare la spina della speranza
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Protestiamo. Ma davanti allo specchio
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Per loro non c’era posto
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Perchè non si rovesci il sogno di Isaia
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Vuoto di potere?
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Trahison des clercs
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Quel graffio che non ha mai smesso di sanguinare
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Quando un tetto non copre
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Per una città accogliente
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Abbiamo steccato un po’ tutti
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Donaci, Signore, un cuore di carne
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La profezia oltre la mafia
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La lampara
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Postafazione di Franco Cassano
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Introduzione
Don Tonino pacifista, nonviolento, poeta. Ma anche riformatore sociale. Del Sud. Anzi, l’ultimo grande riformatore sociale del Mezzogiorno che ha infranto le regole del buon costume episcopale, frantumato le sbarre invisibili (chi si ricorda di Pasolini?) dell’esclusione sociale, sovvertito l’ordine dei valori dominanti. Come tutti i grandi riformatori ha misurato la fatica del cambiamento prima sui problemi concreti, strutturali, quelli che si toccano. La casa, la disoccupazione, il disagio, la criminalità, lo sviluppo. La polvere e la strada. E poi le cose che non si toccano, la cultura, le relazioni. Lo scetticismo. Le coscienze. Specie da vescovo è stato poco nei ranghi. Scende in piazza con gli operai, lotta con i marittimi, accoglie sfrattati e prostitute in episcopio, solidarizza con i profughi albanesi, s’indebita (se stesso, non la diocesi) fino all’ultimo capello per fondare comunità d’accoglienza, promuove petizioni per lo sviluppo civile e non militare del suo territorio, gira di notte nelle zone d’ombra della città raccogliendo ubriachi, matti e sbandati, litiga con gli amministratori, denuncia l’impianto clientelare delle politiche sociali, dinanzi all’omicidio del sindaco mette sul banco degli imputati le responsabilità collettive della città piuttosto che quelle soggettive del “mostro”. Un rompiscatole. Un vero rompi-scatole. Non semplicemente un abile creatore di rovesci e paradossi, con il gusto di rompere le uova delle consuetudini nel paniere delle contraddizioni, ma un’intelligenza appassionata che s’infila lucida nel cuore dei problemi. Il cambiamento del meridione passa 7
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per la testa dei meridionali. L’espressione “rompere gli ormeggi”, che ricorre in una delle sua liriche più belle, La lampara, riportata in questo volume, evoca un movimento molto simile a quello del distacco, del viaggio, insomma dell’esodo. Dalla soggezione e dalla dipendenza all’autonomia e alla “soggettività”. Pensarsi in grado di generare futuro, di tracciare con le proprie gambe una strada inedita e originale. Rielaborare con audacia la propria storia e la propria identità senza dissimularle sotto altre spoglie. Osservare il mondo a partire dal proprio punto di osservazione e non immaginando di essere altrove. Vedersi da Sud non da nord, si direbbe oggi con le categorie del pensiero meridiano di Franco Cassano. Un Sud dalla schiena dritta e non curva, con la testa rivolta in avanti e non reclinata all’indietro. Certo, don Tonino vescovo non ha più di fronte il Sud contadino e immobile di Dorso, Scotellaro e Salvemini. La sua Puglia è un Mezzogiorno sospeso tra passato e futuro, tra immobilismi e dinamismi, conservazione e innovazione, retaggi e modernità, quindi tra inerzie e slanci. Inoltre, nel tempo di cerniera che attraversa, la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ’90, il potere non ha più la forma beffarda, sfuggente e intangibile descritta da Sciascia ma al contrario appare precario e fragile. Eppure molti nodi del Sud non si sono ancora sciolti e don Tonino sperimenta sulla carne la tensione tra la debolezza e le potenzialità. Essere vescovo al Sud è difficile. I problemi sono più complessi, profondi, aggrovigliati. I tempi sono lenti, i passaggi lunghi e contorti. La normalità confina strettamente con l’eccezionalità e, talvolta, invade l’eroismo. Così, se vuoi incidere, devi dotarti di pazienza storica, sguardo esteso e simboli efficaci. Don Tonino lo sa. E lo impara, come testimoniano queste pagine nelle quali sono raccolte, per la prima volta, riflessioni ancora oggi di straordinaria lucidità sulle più significative esperienze in cui si è imbattuto. Come vescovo. Di un Sud non solo pensato ma anche agito. Di un Sud che riesci a pensare compiutamente solo quando lo agisci, ci entri dentro le viscere, lo 8
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urti. Pagine nelle quali le idee, scandite da fatti ed episodi, si rincorrono più sul filo di una biografia appassionata e vitale che su quello di una speculazione fredda e coerente. Di quella tradizione di cui era impastato, non è difficile distinguere in lui molte tracce comuni. Utopista, tormentato, irrequieto, certamente vulnerabile, perfino contraddittorio ma sempre autentico, acuto. È il modo specifico con cui si regire alla propria condizione di disadattamento, al sentirsi profondamente incarnato in una terra, amarla nelle viscere, portarsela nel sangue ma nel contempo soffrire il perimetro ristretto dei suoi limiti, avvertire il disagio delle sue insufficienze. Ancora oggi, dopo oltre un decennio dalla morte, don Tonino Bello è difficile da collocare. Troppe radici salentine sfuggono agli stereotipi: il fiero amore verso la propria comunità, la gentile disposizione all’accoglienza, la positiva e sensibile visione delle relazioni ma anche dei conflitti. Di queste radici era impastato don Tonino, il vescovo che non solo si presenta con una Fiat Cinquecento senza autista ma apre l’episcopio senza anticamera e cita disinvoltamente Gramsci, Pasolini, Bonhoeffer insieme a Moltmann e a Buber. Cosa c’è di strano? Nulla. È la sorte toccata anche alla millenaristica tradizione del Mezzogiorno, da Gioacchino da Fiore a Ignazio Silone, in cui l’atavica sete di giustizia non ha mai smesso di spingere la coscienza, spesso solitaria, oltre le strutture incompiute delle istituzioni e della politica. Forse ciò che don Tonino aggiunge a questa nobile tradizione è proprio la sua vicenda di vescovo, cioè il tentativo di conferire alla coscienza una natura collettiva, una dimensione comunitaria, di sradicarla dalla narcisistica consolazione del proprio destino per trasformarla nel polmone che soffia sul bisogno di cambiamento del suo popolo. La tensione della coscienza liberatrice è stata da don Tonino ricondotta dentro le istituzioni non come inatteso ospite, ma come elemento originario e costitutivo, da cui la stessa struttura trae motivo di esistenza. 9
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La naturalezza, con cui ha rimesso la struttura al servizio della coscienza, richiama per molti versi gli echi ormai lontani delle pagine di Silone dedicate a Celestino V. Anche don Tonino ha incessantemente ribadito, per dirla con Silone, che “Dio ha creato le anime non le istituzioni” ma non ha rinunciato alla sfida. Non si è dato per sconfitto. Perfino la prova ultima della malattia, nella tensione profondissima del dolore, è stata trasformata in un’eccezionale occasione di grazia cui l’intero popolo ha preso parte. Da un travagliato smarrimento, don Tonino scorge nella sofferenza il tempo vitale per riaffermare in modo autentico il senso della speranza. Con un’ansia intima di futuro e una fresca fiducia nella possibilità di riconciliarlo ancora con il presente. Anche per questa ragione la voce di don Tonino sarà apparsa così dissonante rispetto al coro. Eppure a un presente riconciliato con il futuro, la storia di oggi ancora ci spinge. Guglielmo Minervini
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Inchiodare la spina della speranza*
Ma se io, cari fratelli nella fede, sono stato inviato a voi a proclamare che Gesù è Risorto ed è l’unico Re e Signore; se io, chiamato a essere Vostro Vescovo, sono stato incaricato di svegliare l’aurora che già vi dorme nel cuore… chi porterà questo annuncio di speranza agli “altri”, a quella porzione del popolo di Molfetta che non coincide più col perimetro della Chiesa, a coloro che si sono allontanati da Dio, a coloro ai quali i valori cristiani non dicono più nulla? Chi farà pervenire la buona notizia di Cristo ai tanti fratelli che, frastornati dai problemi di sopravvivenza e di lavoro, non hanno più tempo di pensare al Signore, ai disoccupati, ai pescatori della nostra città preoccupati del loro futuro e angustiati dal loro presente spesso più amaro dell’acqua su cui galleggia la loro vita raminga, alle migliaia di marittimi che solcano gli Oceani del mondo portandosi dentro amarezze personali, lacerazioni di affetti, preoccupazioni familiari? Chi porterà questo annuncio di salvezza a tante persone generose che non sanno valicare i confini dell’inframondano e si battono solo per una giustizia senza trascendenze, per una libertà senza utopie, per una solidarietà senza parentele? Chi griderà l’urlo di liberazione totale, portata da Cristo, nel cuore di tanti giovani sbandati che, al loro insopprimibile bisogno di felicità, cercano risposte nelle ideologie del penDall’omelia di insediamento nella diocesi di Molfetta, Giovinazzo Terlizzi e Ruvo pronunciata il 21 Novembre 1982.
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siero negativo, nel fascino del nichilismo, nelle allucinazioni della violenza, nel paradiso della droga? Chi inchioderà una spina di speranza nel petto di tanta gente disperata, avvilita dalle miserie morali, sconfitta, emarginata, per la quale Gesù Cristo è un forestiero, la Chiesa è un’estranea, il Vangelo è solo un brandello di ricordi infantili?
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Protestiamo. Ma davanti allo specchio*
Ai credenti perché amino Ai poveri perché sperino
Carissimi fratelli, le ore drammatiche che stanno vivendo centinaia di nostri concittadini, sulle cui spalle grava la croce dello sfratto, non possono lasciarci indifferenti. La Via Crucis non è mai stato uno spettacolo da godersi alla finestra. Quando passa il corteo, bisogna scendere sulla strada e prendere posizione. Noi scegliamo quella del Cireneo, mettendoci dalla parte del condannato. Per solidarietà con tanti fratelli senza casa, non ci è più lecito cantare. Ci è consentita solo la protesta. Ma non sulle piazze. Allo specchio. Non contro gli altri, ma contro noi stessi. Non con le marce o col chiasso degli slogan, ma nel silenzio della Manifesto pubblico affisso a Molfetta il 21 ottobre 1984 per sollecitare una risposta, da parte della comunità ecclesiale e delle istituzioni pubbliche, alla drammatica domanda di abitazioni posta dalle numerose famiglie colpite da sfratto esecutivo. Al manifesto seguirà una vivace polemica e la decisione di ospitare diversi nuclei di famiglie sfollate in episcopio. *
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coscienza e stando in ginocchio. Dobbiamo protestare contro la durezza del nostro cuore che, dopo duemila anni di cristianesimo, non si è lasciato ancora convertire. Non c’è solo crisi di alloggi. C’è crisi di amore. A Molfetta le case ci sono. Potrebbero bastare per coprire l’emergenza. E basterebbero di fatto, se a una mentalità mercantilistica subentrasse una mentalità evangelica. Se al tornaconto si sostituisse l’accoglienza. Se le richieste di affitto non fossero così assurde. Se si comprendesse che i vari milioni di anticipo a fondo perduto sono un fondo veramente “perduto”, non tanto per chi li sborsa, quanto per chi li incassa. Se si prendesse sul serio l’invito del Signore: “Introduci in casa tua chi è senza tetto”! No. Non siamo tanto sprovveduti da voler risolvere il problema servendoci di Isaia e snobbando la Bucalossi, citando i numeri dei versetti biblici e trascurando la 167, poggiando sui piani pastorali e svilendo quelli di fabbricazione, ricorrendo al decalogo di Mosè e obliterando le leggi dell’urbanizzazione primaria e secondaria. Diciamo soltanto che in questo drammaticissimo momento il problema della casa non si risolve solo con i progetti edilizi: si risolve con i progetti di vita. Non bastano i provvedimenti amministrativi: occorre il cambio del cuore. Non è sufficiente che certe decisioni si prendano all’interno del consiglio Comunale: è necessario prenderle all’interno della propria anima. Un suggerimento? Eccolo: i cristiani aprano le loro case sfitte. Le congregazioni religiose facciano spazio a chi è senza tetto. Le parrocchie si mobilitino nell’aiuto degli ultimi. Per i poveri, anche una sagrestia può bastare! Solo allora potremo protestare anche in piazza. E lo faremo se i pubblici amministratori, con ritardi colpevoli o con logiche clientelari, penalizzeranno la povera gente. E il nostro grido avrà la forza dei profeti, la credibilità dei testimoni e la speranza degli uomini nuovi. 14
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Solo allora potremo celebrare liturgie vere e riti credibili. E le Ostie consacrate avranno finalmente il gusto del grano e il sapore della libertà. Solo allora potremo intonare di nuovo le nostre canzoni. Prima no! Perché anche il canto gregoriano più limpido sarebbe un sacrilegio, finché il Signore se ne va ramingo per il mondo, senza trovare una pietra dove poggiare il capo. don Tonino, vescovo
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Don Tonino riformatore sociale. Del Sud. Anzi, l’ultimo grande riformatore sociale del Mezzogiorno che ha infranto le regole del buon costume episcopale, frantumato le sbarre invisibili dell’esclusione sociale, sovvertito l’ordine dei valori dominanti. Come tutti i grandi riformatori ha misurato la fatica del cambiamento prima sui problemi concreti, strutturali. La casa, la disoccupazione, il disagio, la criminalità, lo sviluppo. La polvere e la strada. E poi le cose che non si toccano, la cultura, le relazioni. Lo scetticismo. Le coscienze. Essere vescovo al Sud è difficile. Don Tonino lo sa. E lo impara, come testimoniano queste pagine nelle quali sono raccolte, per la prima volta, riflessioni ancora oggi di straordinaria lucidità sulle più significative esperienze in cui si è imbattuto. Come vescovo.
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Antonio Bello è stato vescovo di MolfettaRuvo-Giovinazzo-Terlizzi e presidente nazionale di Pax Christi. La sua scelta pastorale, vissuta sull’opzione radicale degli ultimi, e il suo impegno per la promozione della pace, della nonviolenza, della giustizia e della solidarietà, lo rendono ancora oggi, dopo la sua morte, tra i più audaci profeti dei nostri giorni.
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ISBN 978-88-6153-837-5