José María Castillo
José María Castillo (1929) è stato professore nella Facoltà di Teologia di Granada, professore invitato all’Università Gregoriana di Roma, alla Pontificia Università Comillas di Madrid ed all’Università Centroamericana (UCA) di El Salvador. Nel 2011 ha ricevuto il titolo di dottore honoris causa dall’Università di Granada ed è autore di numerose pubblicazioni con ampio successo editoriale.
Euro 15,50 (I.i.) Scopri i contenuti multimediali
edizioni la meridiana paginealtre
ISBN 978-88-6153-656-2
ISBN 978-88-6153-656-2
9
788861 536562
edizioni la meridiana
L’umanità di Gesù
Con la meridiana ha pubblicato L’umanità di Dio (2014) e La laicità del Vangelo (2016).
José María Castillo
L’umanità di Gesù
raggiungere e l i b i s s o p È “divino” l e d a z z e n e la pi ra in cui u s i m a l l e n solo seguire n o c l e n o m a ci impegni umano”. ” ’ l l e d a z z e la pien più divini o m a i t n e v i d Cioè, in cui a r u s i m a l l e n iù umani. diventiamo p
edizioni la meridiana paginealtre
È possibile raggiungere la pienezza del “divino” solo nella misura in cui ci impegniamo a conseguire la pienezza dell’“umano”; possiamo arrivare a essere “più divini” solo diventando “più umani”. Questa proposta deve invadere e impregnare tutta la vita e l’attività della Chiesa: la sua teologia, il suo sistema organizzativo, la sua morale, le sue leggi, la sua presenza nella società e soprattutto nella vita e nella spiritualità dei cristiani. È una proposta che deriva dal centro stesso della fede cristiana: il Dio del Cristianesimo è il “Dio incarnato”. Cioè il “Dio umanizzato” che si è fatto conoscere in un essere umano, Gesù di Nazareth. Ma nella storia del Cristianesimo di fatto l’umanità di Gesù e le sue conseguenze sono state più difficili da accettare della divinità di Cristo. Questa difficoltà porta direttamente a dover affrontare questa domanda: chi occupa realmente il centro della vita della Chiesa, Gesù e il suo Vangelo o san Paolo e la sua teologia? A partire da questa si materializzano altri interrogativi: da dove e da chi si sono presi i grandi temi che si propongono e si spiegano nella teologia cattolica? Su cosa o come si giustificano il culto, i riti e in generale la liturgia che si celebra nei nostri templi? A partire da chi e da quali argomenti si legittima il modo di governare che si esercita nella Chiesa? Quale modalità di presenza deve avere la Chiesa? Perché il Cristianesimo appare più come una religione e molto meno come la presenza del Vangelo di Gesù nel nostro mondo? Finché la Chiesa non affronta queste questioni e dà loro la dovuta risposta, non potrà recuperare la sua identità e compiere la sua missione nel mondo.
José Maria Castillo
L’umanità di Gesù Traduzione a cura di Lorenzo Tommaselli
edizioni la meridiana p a g i n e a l t r e
Indice
Introduzione 7 L’umano come punto di partenza
11
Cosa ci rende umani?
19
Incontrare Dio nella nostra umanità
31
Il problema è iniziato con Paolo
41
Gesù e Paolo
55
Paolo e la religione
73
Paolo e la Chiesa
91
Chiese con più religione che umanità
99
Da Gesù al discredito di “essere uomo”
133
Conclusione: una domanda urgente
149
Bibliografia 157
Introduzione
Le crisi e i cambiamenti che la vita e la cultura ultimamente stanno sperimentando, i nostri dubbi e le nostre oscurità, le molte domande senza risposta che attualmente stiamo accumulando, proprio quando abbiamo raggiunto i più alti livelli scientifici e tecnologici, stanno mettendo in evidenza non solo i limiti della nostra condizione umana, ma anche il fatto che, ora più che mai, il ricorso al divino, al religioso, al sacro, lo abbiamo, probabilmente, mal posto e mal risolto. Frequentemente si è pensato che per esaltare “il divino” sia necessario sacrificare “l’umano”. Le religioni molte volte hanno seguito questa strada. In generale, da migliaia di anni si continua a pensare che, per trovare “il divino”, bisogna dominare, sottomettere e vincere “l’umano”. Ecco perché la questione di Dio non sempre ha avuto le migliori relazioni possibili con le aspirazioni, i desideri e gli aneliti degli uomini. Detto questo in maniera tanto generica quanto certa, se ci atteniamo al caso particolare del Cristianesimo, tutto questo problema si complica e si aggrava, perché noi cristiani accettiamo – e confessiamo come dogma di fede – che Gesù di Nazareth è al tempo stesso e per essenza vero Dio e vero uomo. Ovvero noi cristiani crediamo fermamente (o dovremmo crederlo) che in Gesù il Nazareno si uniscono (senza mischiarsi né confondersi) “il divino” e “l’umano”. Una cosa che mai è stata, e non lo è ancora, facile da comprendere e ancor meno da accettare tranquillamente. Da questo derivano le tensioni, i dubbi e i conflitti
7
José María Castillo
che si sono verificati nella Chiesa dei primi secoli. Con una particolarità che richiama prepotentemente l’attenzione. La maggiore difficoltà non è nell’accettazione della divinità di Cristo, ma nell’accettazione della sua umanità. Di ciò parleremo nelle pagine di questo libro. Come è logico, nei ridotti limiti di questo lavoro non pretendo di sviscerare la lunga e complessa storia del problema appena delineato. Pertanto mi limiterò a esprimere quello che, a mio modo di vedere, è la tesi fondamentale proposta, ovvero: è possibile raggiungere la pienezza del “divino” solo nella misura in cui ci impegniamo nel conseguire la pienezza dell’“umano”. Detto in altro modo: diventiamo più divini nella misura in cui diventiamo più umani. Si consideri che l’umano “chimicamente puro” non esiste. Esiste solo “l’umano” fuso sempre con “l’in-umano”. Proprio per questo lo sforzo di raggiungere la pienezza dell’umano è sempre un impegno che supera indicibilmente quello che offre la condizione umana. Fino al punto di poter affermare con sicurezza che il risultato di arrivare a essere pienamente umani ci supera, ci trascende e non è alla nostra portata. Ecco perché, quando nella vita incontriamo qualcuno così profondamente umano che ci turba per la sua bontà e la sua umanità senza incrinature e incoerenze, tale incontro ci stupisce, ci sconcerta e ci sembra persino che in un’umanità così stupefacente intravediamo o intuiamo i simboli del Trascendente, “le sentinelle dell’orizzonte1” ultimo della nostra limitata immanenza. Stando così le cose, si comprende il ruolo ambiguo, confuso e forse persino ingannevole e contraddittorio che le religioni, con le loro leggi e i loro rituali, hanno esercitato e hanno rappresentato tante volte nella storia. Come
Ricoeur P., De l’interprétation. Essai sur Freud, Seuil, Paris 1965, pp. 508-10. 1
8
L’umanità di Gesù
allo stesso modo si capisce perché tante volte le relazioni tra “il religioso” e “l’umano” siano state – e continuino a essere – così problematiche e conflittuali. Per questo non è infrequente trovare negli ambienti religiosi persone che sono tanto profondamente religiose come profondamente inumane. Ecco perché le implicazioni tra religione e violenza si sono verificate e riprodotte tante volte nella storia. Diciamolo con chiarezza e fermezza: questo ci mette sulla strada giusta per capire perché proprio il gran conflitto di Gesù, che lo ha portato alla morte violenta, sia stato lo scontro diretto con gli uomini della religione e per motivi strettamente religiosi. La cosa è evidente. Il conflitto tra “il religioso” e “l’umano” è stato, e continua a essere, una costante che fa pensare. Nulla di strano quindi che “i processi della modernità”, proprio perché sono stati “processi di secolarizzazione”, siano stati considerati come “processi di depotenziamento e dissoluzione dell’essere umano2”; soprattutto processi per attaccare direttamente e liquidare la religione. Altrimenti, perché a questo punto i Diritti dell’uomo e del cittadino (1789) e a maggior ragione la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) non hanno trovato la dovuta accoglienza e il dovuto inserimento nella costituzione, nella legislazione e nel governo interno della Chiesa? I problemi che tutto questo ha causato alla stessa Chiesa e a tanta gente che per queste ragioni si è allontanata dalla religione sono inimmaginabili. Tutto ciò ci mette di fronte a un futuro sempre più incerto. Soprattutto da quando, a partire da Friedrich Nietzsche, l’annuncio della morte di Dio è stato considerato direttamente connesso con la morte dell’essere umano.
Metz J.B., Memoria passionis. Una evocación provocadora en una sociedad pluralista, Sal Terrae, Santander 2007, p. 87. 2
9
José María Castillo
Restiamo allora senza nulla? Ci vediamo in questo modo destinati a vivere in balia dell’inarrestabile tecnologia al servizio di un benessere insoddisfatto e insaziabile, che non dà mai senso alle nostre vite? In una situazione così, la proposta di questo libro è che non basta richiamare alla memoria Dio. Non basta continuare a ricordare la sofferenza delle vittime. Ancor meno sarà sufficiente ripetere argomentando gli aspetti buoni della religione. Se andiamo direttamente fino al ricordo pericoloso e sovversivo di Gesù, troviamo proprio lo scontro diretto con un modello di religione e di pratica religiosa che ha già dimostrato ampiamente la sua insufficienza e la sua inefficacia. Per questo chiediamo alla Chiesa che si ricordi di Gesù, che lo tenga veramente presente, che assuma il suo progetto di vita. Solo allora ci renderemo conto che un tale progetto ci porta direttamente a essere umani. Così, forse, potremo comprendere come e perché, essendo pienamente umani (o ricercando questa pienezza di umanità), troviamo il senso delle nostre vite proprio in Dio, nel Dio che ci trascende e che per questo qualifichiamo come “pienezza del divino”.
10
L’umano come punto di partenza
Quando parliamo di convinzioni religiose, di temi legati alla religione, al soprannaturale, al divino e a Dio è imprescindibile considerare sempre che parliamo di tutto questo – in ogni caso – a partire dalla nostra condizione umana. In altre parole siamo limitati e condizionati sempre da ciò che realmente siamo. Tutti siamo né più né meno che esseri umani. Con tutto quello che questo suppone e comporta in termini di genialità e di grandezza, certamente. Ma anche con quello che comporta inevitabilmente in termini di limitazione; detto altrimenti, ciò che comporta la condizione umana con tutte le sue limitazioni. Siamo sempre quello che siamo realmente, semplicemente esseri umani. Quali che siano le nostre origini, le nostre convinzioni, i nostri aneliti, i nostri propositi, le nostre convinzioni più forti, i nostri saperi, i titoli e le cariche che abbiamo, gli incarichi che ci conferisce la società, la Chiesa, l’istituzione o il collettivo al quale apparteniamo, ecc. In questo mondo, a partire dal primo fino all’ultimo, dal più importante fino al più insignificante, tutti siamo quello che in realtà siamo: esseri umani. Dico queste cose così elementari e ovvie, perché frequentemente capita che i molti limiti che coartano e frustrano le brame, i desideri, i sogni, gli aneliti che viviamo nella nostra intimità segreta, ci portano a pensare – senza rendercene conto – che siamo più che umani. Fino ad arrivare alla convinzione che ci troviamo in una posizione superiore al resto dei mortali. Questo capita a coloro che sono persuasi (e si sentono sicuri nella loro persuasio-
11
José María Castillo
ne) che loro – e solo loro – possiedono saperi divini, che valgono più di qualsiasi sapere umano; poteri divini che stanno al di sopra dei poteri umani; diritti divini che si antepongono ai meri diritti umani; cariche divine che sono sempre superiori a qualsiasi carica umana. Ebbene, nella misura in cui questo è vero e capita nella vita di non poca gente, nella stessa misura è assolutamente certo quello che ha già detto Mircea Eliade: “Per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo”3. E non solo lo spazio, ma anche tutta la realtà perde la sua omogeneità. Perché la conseguenza principale e fondamentale del fatto religioso è che rompe l’omogeneità del reale. Questo è la conseguenza più forte dell’esperienza religiosa, in quanto si riferisce alla presenza della religione nella società. Se è certo che “il sacro è il reale per eccellenza” – non solo è il reale, è la realtà più forte della vita – “il sacro” è anche “potenza, efficacia, fonte di vita e di fecondità”4. Da questo deriva inevitabilmente il fatto che il sacro si antepone al profano. Ciò sta a dimostrare che in questo mondo il divino si antepone e si deve sovrapporre all’umano. Arriviamo, così, a quello che ho delineato prima: per le persone credenti le verità religiose si devono anteporre alle verità profane, i poteri religiosi si devono sovrapporre ai poteri civili, gli uomini consacrati hanno una dignità che sta al di sopra di ogni dignità o potere umano; e così di seguito. Coerente con questo modo di pensare, già Rudolph Otto aveva affermato senza esitazione che le parole “soprannaturale” e “sovracosmico” sono adatte per designare una realtà e una maniera di essere “assoluta-
Eliade M., Lo Sagrado y lo Profano, Guadarrama, Madrid 1967, p. 25. Id., Tratado de Historia de las Religiones, Cristiandad, Madrid 2000, pp. 63-4. 4 Id., 1967, op. cit., p. 31. 3
12
L’umanità di Gesù
mente eterogenee”, della cui peculiarità sentiamo qualcosa, senza poterlo esprimere attraverso concetti chiari5.
Inoltre mai dovremmo dimenticare che “il sacro” e “il profano” sono categorie che non solo rompono l’omogeneità del reale, ma anche che una simile rottura di solito si mette al servizio di interessi e privilegi umani. Ossia rompe anche l’armonia del reale, divide, spacca e porta al conflitto con non pochi elementi importanti della realtà. In maniera tale che colloca alcuni nella sfera del potere, sottomette altri al potere o al servizio del potere, dello status sociale, delle classi dominanti. Legittimando così i poteri pubblici e in definitiva mettendosi al servizio di forze e dinamismi sociali che sono causa del mantenimento delle disuguaglianze, che danneggiano le persone, distruggono l’armonia del tessuto sociale e rendono più difficile la convivenza. Da questo derivano le inevitabili cause di violenza che nascono tra persone di “credi” diversi, nazionalità diverse e gruppi umani contrapposti gli uni con gli altri. La penosa storia delle guerre di religione, dell’Inquisizione, delle molte privazioni o limitazioni della libertà, della resistenza a qualsiasi forma di illuminismo e così via, rappresenta le diverse fratture della realtà, derivate dalla rottura di tale omogeneità del reale. In definitiva, tutto questo è stato solo la drammatica conseguenza che si è verificata tra gli esseri umani, a partire dal momento in cui la nostra esistenza umana ha smesso di avere l’umanità come punto di partenza per interpretare e vivere la nostra esistenza terrena; a partire da allora si è assunta la sacralità come la realtà per eccellenza. Ma, nel momento in cui è successo questo, nell’esistenza
Otto R., Lo Santo. Lo racional y lo irracional en la idea de Dios, in “Revista de Occidente”, Madrid 1965, p. 47.
5
13
José María Castillo
umana si è introdotto un “elemento estraneo” che ha dilatato, complicato e deformato la visione del reale. Fino a renderci incapaci di comprendere Dio stesso, quando il Trascendente si è umanizzato in Gesù di Nazareth ovvero è diventato visibile e tangibile sulla nostra terra, cioè nella nostra immanenza. Il Trascendente non è l’essere “infinitamente superiore”, ma l’“incommensurabile”, cioè colui che appartiene a un “ordine assolutamente diverso6”. Da ciò deriva, come è stato detto molto bene la tensione tra il proclamare la trascendenza divina e la pretesa di definirla, poiché l’atto di nominarla equivale a una forma di possesso concettuale7.
Chi definisce Dio, in ultima analisi sta dicendo che conosce Dio. E chi afferma di conoscere Dio, in realtà non parla di Dio in sé, ma della rappresentazione di Dio che noi uomini ci facciamo. Il Vangelo lo dice senza giri di parole: “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18) ovvero, Dio non è alla nostra portata. Cosa che ribadiscono i vangeli sinottici: “Il Padre lo conosce solo il Figlio” (Mt 11,27; Lc 10,22). Anzi, già a partire dall’Antico Testamento Dio non si è fatto vedere e non ha potuto essere conosciuto “in se stesso” da Mosè nella teofania del monte sacro, il Sinai (Es 33,18-23)8. Per questo è così importante insistere sul fatto che non è la stessa cosa parlare del Trascendente e parlare dell’in-
Nordmann S., Phénomenologie de la transcendance, L’écarts, Paris 2012, pp. 9-10. 7 Estrada J.A., ¿Qué decimos cuando hablamos de Dios? La fe en una cultura escéptica, Trotta, Madrid 2015, p. 83. 8 Brown R.E., El evangelio y las cartas de Juan, Desclée, Bilbao 2010, p. 40. 6
14
L’umanità di Gesù
finito. Perché l’infinito è solo l’immanente senza fine. Ma prima di tutto questo è possibile? E, se fosse possibile, questo presunto “infinito” (potere senza fine, bontà senza fine, ecc.) ci porterebbe (inevitabilmente) alla contraddizione che comporta un mondo di miserie, limitazioni e sofferenze che presumibilmente sarebbe stato pensato, creato, permesso e gestito da un estraneo “infinito”, che può tutto e vuole sempre il meglio per le sue creature. Cosa che equivale a ripetere ancora una volta l’eterna questione contro la quale sono andati a sbattere tutti quelli che, di fronte al dolore e alla crudeltà senza né capo né coda, hanno gridato – e continuano a gridare: “Dove sta Dio?”. Un simile “dio” è solo la “rappresentazione” maldestra che noi mortali ci facciamo del Trascendente. Da ciò scaturisce la necessità urgente e pressante che abbiamo di recuperare mentalmente, nelle nostre idee e nelle nostre convinzioni più profonde, la nostra umanità. Siamo umani. Ciò che abbiamo e possiamo gestire è la nostra umanità con le sue capacità e le sue possibilità. In maniera tale che a partire da questo è possibile metterci in relazione con la realtà. Non ci mettiamo in relazione con il reale a partire dal sacro o a partire da quello che si presume sia il divino. Perché “il sacro” è una costruzione umana e “il divino”, per definizione, non è alla nostra portata, ci trascende sempre e in ogni caso. Per questo ogni rivelazione divina comporta sempre l’enorme pericolo di convertire – o confondere – “Dio in se stesso” con quello che sono solo nostre “rappresentazioni” di questo Dio. Noi uomini a partire dalla nostra umanità corriamo sempre il rischio di confondere l’uno con l’altro. Oggi possiamo parlare in questo modo perché, come è stato ben detto, i presupposti tradizionali sulla rivelazione hanno smesso di essere convincenti e hanno perso plausibilità. Tali presupposti appartengono a tempi passati, nei
15
José María Castillo
quali tutti credevano in Dio, ognuno seguiva la sua religione. Allora, partendo dalla base (che nessuno metteva in dubbio) dell’esistenza divina, derivava un’antropologia di ricerca. Così si ponevano le basi che rendevano possibile la rivelazione universale, sia che fosse quella specifica di Israele, quella che presenta la Chiesa o quella che offrono l’Islam, il Buddismo, l’Induismo, ecc.9 Più che in tempi già passati e superati, oggi ci rendiamo conto che nei libri sacri ci sono pretese rivelazioni della divinità che non possono essere manifestazione o comunicazione di quello che Dio è in sé. Mi riferisco alle presunte rivelazioni che ci presentano un “dio violento”, vendicativo e estremamente pericoloso. La documentazione abbondante che c’è nella Bibbia su questa drammatica questione, fa impressione a chiunque10. Non solo perché subito ci viene da pensare che Dio non può essere questo, ma anche per un altro motivo che, se si pensa a fondo, risulta più sconvolgente. Non solo Dio non può essere così, ma in questi pretesi “testi sacri” e in coloro che li utilizzano per giustificare guerre, torture, sottomissioni, dominazioni e violenze, con chiarezza emerge che Dio non solo è terribilmente pericoloso, ma emerge subito che tale religione, che ci presenta un simile Dio, comporta anche un pericolo di alta tensione: ci deforma Dio, deforma il religioso, il sacro e deforma persino noi stessi, che siamo come ciechi nel metterci in relazione con la realtà così come è.
Estrada, op. cit., p. 97. Schwager R., Brauchen wir einen Sündenbock? Gewalt und Erlösung in den biblischen Schriften, Thaur, Wien/München 1994, pp. 64-81; cfr. Castillo J.M., Victimas del pecado, Trotta, Madrid 2007, pp. 141-5; Brandscheidt R., Der Gott des Alten Testaments und die Gewalt, in “Trierer theologischen Zeitschrift”, n. 118, 2009, pp. 1-15. Basti pensare che il tema della violenza di Dio si trova nella Bibbia con più frequenza di quello della violenza umana: Estrada, op. cit., p. 110. 9
10
16
L’umanità di Gesù
Quanto pericolosa può essere la religione, quando la religione ci fa vedere la realtà non a partire dalla nostra umanità, ma dalla sacralità! Perché “il sacro” rompe l’omogeneità del reale, ci deforma la nostra visione e la nostra valutazione della vita, delle persone, dei valori, di quello che importa e di quello per cui non vale la pena, fino ad arrivare a renderci incapaci di comprendere noi stessi, la cultura e la vita, in definitiva incapaci di accettare Dio e di credere in lui; o di rifiutarlo come qualcosa che non interessa o che ci viene rappresentato persino come un pericolo minaccioso. Un pericolo di cui il meglio che possiamo fare è disinteressarci o persino allontanarcene.
17
Cosa ci rende umani?
Per rispondere a questa domanda bisogna iniziare facendo una distinzione elementare: parlare dell’essere umano e di essere umano non è la stessa cosa. Nel primo caso parliamo di un “problema antropologico”, nel secondo di un “problema etico”. Inoltre, i due problemi citati hanno a che vedere tra loro molto più di quanto sicuramente immaginiamo. Con questo intendo dire che, se oggi conosciamo le origini dell’essere umano molto meglio di quanto si conosceva ai tempi di Darwin, le nuove ricerche sull’argomento stanno sottolineando che l’evoluzione, verificatasi a partire dagli scimpanzé fino agli esseri umani, non è stata frutto solo della selezione naturale e del caso11. Determinante è stato il comportamento umano, come spiegherò di seguito. Certamente, non cercherò di dare una soluzione definitiva al dibattito che coinvolge esperti in paleontologia, archeologia, biologia e altri ambiti del sapere. Non sono uno specialista al riguardo e non posso pronunciarmi. Ma pur accettando questa limitazione logica è indiscutibile che oggi abbiamo dati consolidati, accettati dalla comunità scientifica, tali da essere presentati come conclusioni attendibili su cui basare la tesi di questo libro. Si è soliti accettare l’idea che l’essere umano, denominato Homo sapiens, cioè la specie che raggiunse il tipo di intelligenza necessario per costituire una civiltà, abbia
Tattersall I., Los señores de la tierra. La búsqueda de nuestros orígines humanos, Pasado y Presente, Barcelona 2012, pp. 21-3.
11
19
José María Castillo
un’età di alcune centinaia di migliaia di anni12. Sebbene dai resti anatomici riconoscibili in Africa le prime vestigia dell’Homo Sapiens risalgano a quasi più di centomila anni, i primi gingilli – che indicherebbero una sviluppata capacità estetica e simbolica – si collocano intorno a centomila anni prima di Cristo13. Dunque si può affermare con certezza che da allora l’essere umano è stato definitivamente differenziato dalle specie che lo precedono nell’evoluzione? La risposta a questa sola domanda incappa nella difficoltà rappresentata da alcuni fatti ben noti. Per esempio, si sa che gli scimpanzé creano legami con i loro simili, litigano e fanno pace, imbrogliano, uccidono, costruiscono strumenti e si medicano da soli; vivono in società molto articolate e lottano per acquisire uno status sociale più alto, si alleano, si dedicano a intrighi che alcuni studiosi hanno definito addirittura politici14. Allora, stando così le cose, cosa ci distingue propriamente dagli scimpanzé e ci rende nello specifico umani? Come è noto, nell’anatomia dell’essere umano si trovano una serie di componenti che differiscono notevolmente dalla configurazione anatomica degli scimpanzé. Tra queste le dimensioni del cervello. Ma, anche, i geni che regolano la formazione del cervello umano e quello dello scimpanzé differiscono molto più nell’espressione che nella struttu-
Mayr E., in “Bioastronomy News”, 7/3, 1995, cit. da Chomsky N., Hegemonía o supervivencia, Ediciones B, Barcelona 2004, p. 7. 13 Wood B., Collard M., The Human Genus, in “Science”, 284, 1999, pp. 65-71; Tattersall, op. cit., p. 26. 14 Tattersall, op. cit., p. 10. Cfr. Johanson D., Edey M., Lucy: The Beginnings of Humankind, Warner Books, New York 1981; Asfaw B. et al ., Australopithecus garhi: a new species of early hominid from Etiopia, in “Science”, 284, 1999, pp. 629-35. 12
20
L’umanità di Gesù
ra15. Probabilmente per questo ci sono autori rinomati che, come nel caso di Carl Sagan, ci ricordano ancora l’opinione di Darwin secondo la quale “la differenza tra l’intelletto umano e quello degli animali superiori, per quanto grande, è sostanzialmente di grado e non di specie”16. Ebbene, giunti a questa constatazione, che (a quanto pare) si rivelava indiscutibile per Darwin, tocchiamo il tema e l’argomento decisivi quando si tratta di fissare la differenza tra gli animali superiori (per esempio lo scimpanzé) e gli esseri umani. L’argomento a cui mi riferisco è la capacità simbolica o l’“attitudine simbolica”. È proprio questa capacità, o quest’attitudine, che ci differenzia nello specifico e ci distingue dagli esseri viventi “pre-umani”. Si è detto giustamente: il modo esclusivo con cui elaboriamo le informazioni è senza dubbio l’elemento che ci rende diversi dagli altri organismi […]. Il ragionamento simbolico non solo manca ai nostri più stretti parenti viventi, le grandi scimmie antropomorfe, ma sembra assente anche nei nostri parenti estinti più prossimi (e perfino nei primi esseri umani con le nostre sembianze) 17.
Detto con maggior chiarezza, noi uomini siamo umani perché possediamo una capacità simbolica e siamo capaci di esprimere le nostre esperienze simboliche, capacità questa inaccessibile agli altri viventi. Per questo stesso motivo si è fatto notare giustamente che
Coqueugniot H., Hublin J.J., Veillon F. et al., Early Brain Growth in Homo Erectus and Implications for Cognitive Ability, in “Nature”, 431, 2004, pp. 299-302. 16 Sagan C., Los dragones del Edén. Especulaciones sobre la evolución de la inteligencia humana, Crítica, Barcelona 2015, p. 128. 17 Tattersall, op. cit., pp. 15-6. 15
21
José María Castillo
nonostante una prolungata e paziente stimolazione, le scimmie non sono riuscite finora a dipingere immagini che un osservatore obiettivo possa accettare come rappresentazioni. Cosa che non mi sorprende. Il tratto di alcune linee disegnate su una superficie o incise su osso o avorio con un intento figurativo è stato un avvenimento di enorme grandezza intellettuale nella storia umana, simile a molte delle grandi scoperte scientifiche18 .
La capacità simbolica e l’espressione simbolica sono, dunque, ciò che ci differenzia dalle scimmie: ma cosa significa e quali conseguenze implica? Per rispondere a questa domanda fondamentale, comincio col ricordare che uno dei fenomeni più straordinari della storia della paleontologia è stato la scoperta, a Sima de los Huesos a Atapuerca, di un manufatto che consisteva in uno splendido bifacciale, ricavato da una quarzite rosata (per cui è stato chiamato Excálibur), l’unico pezzo di industria trovato fino al giorno d’oggi in quel luogo e che non ammette altra interpretazione se non quella di essere l’espressione simbolica più antica di cui si abbia notizia19. Stiamo parlando di un oggetto intagliato da un antenato più di centomila anni fa. Che significato ha questo prezioso e antichissimo ornamento per il problema che stiamo tentando di analizzare? I ricercatori di Sima del los Huesos – tra altri studiosi di paleontologia – ci hanno spiegato che, dopo le scoperte
Leakey R., Lewin R., Nuestros orígines. En busca de lo que nos hace humanos, Crítica, Barcelona 2015, p. 222. 19 Mendizábal I.M., El primate que quería volar. Memorias de la especie, Espasa-Caple, Barcelona 2012, p. 138. Cfr. Carbonell E., Mosquera M., The Emergence of a Symbolic Behaviour: the Sepulchral Pit of Sima de los Huesos, Sierra de Atapuerca, Burgos, Spain, in “Comptes Rendus Palevol”, 5, 2006, pp. 155-60. 18
22
L’umanità di Gesù
e le ricerche di Atapuerca, la storia della encefalizzazione nell’evoluzione umana ha subito un cambiamento radicale. Ora sappiamo che la dimensione del corpo non è cambiata a partire dall’Homo ergaster, scoperto negli strati di 1,8 milioni di anni a Est del lago Turkana (Kenya), fino all’Homo heidelbergensis, il primo ominide che (seicentomila anni fa) sia esistito in Europa. Tuttavia, mentre la dimensione del corpo non si è modificata in tante migliaia di anni, di fatto la dimensione del cervello è aumentata in modo sorprendente, passando da una media di circa 800 cm3 nell’Homo ergaster, fino a qualcosa di più di 1200 cm3 negli esemplari che si sono scoperti a Sima de los Huesos20. Perché si è verificata questa crescita del cervello, fin quasi a raddoppiare il suo volume, mentre il resto del corpo rimaneva quasi tutto della stessa dimensione? Dagli utensili e dai manufatti scoperti, che utilizzavano – e dovettero produrre – quegli ominidi che si stavano evolvendo verso la specie Homo sapiens, si evince che nei loro cervelli si sviluppò un doppio tipo di intelligenza. L’intelligenza tecnologica e l’intelligenza sociale. Lo sviluppo tecnologico si manifestò nell’intaglio di pietre taglienti o utili per la caccia, per tagliare, per la propria difesa, per l’alimentazione, ecc. Lo sviluppo della tecnologia richiese, inoltre, lo sviluppo dell’immaginazione e della pianificazione nella facoltà di intendere la natura e i condizionamenti ambientali nei quali si svolge la vita. D’altra parte, lo sviluppo delle relazioni sociali suppone e ha bisogno delle capacità indispensabili per avvertire e
Mendizábal, op. cit., p. 143; Arsuaga J.L. et al., Three New Human Skulls from the Sima de los Huesos Middle Pleistocene site in Sierra de Atapuerca, Spain, in “Nature”, 362, 1993, pp. 534-36; Arsuaga J.L., Martínez I., La specie elegida. La larga marcha de la especie humana, Planeta, Madrid 2013, pp. 189-94. 20
23
José María Castillo
prendere coscienza del comportamento degli altri membri del gruppo21. Anzi – e soprattutto – chi è stato capace di tagliare un manufatto bifacciale, ricavato da una quarzite rosata, non si è limitato a costruire uno strumento tecnologico, ma aveva in mente un oggetto di carattere estetico, quindi un oggetto che non apparteneva più alla tecnica, ma che viveva ed esprimeva la simbologia. In ogni caso, e quali che siano i condizionamenti cronologici e ambientali di questi fatti, è fuor di dubbio che nell’Età della pietra e con circa 76.000 anni di antichità appaiono nel Nord Africa (per esempio, nella Grotte des Pigeons in Marocco) perline per il logico ornamento personale, cosa che garantisce che circa centomila anni prima di Cristo esistevano una mentalità e una sensibilità profondamente segnate dall’esperienza e dall’espressione simbolica22. È attualmente assodato che nel Mesolitico le sepolture dimostrano che quegli individui credevano in una vita oltre la morte. Dal tipo di offerte – oggetti di selce e gioielli – dei corredi funerari, inoltre, è evidente che immaginavano la vita ultraterrena come un prosieguo della vita terrena23. E – cosa che è più significativa – erano già frequenti e abbondantemente accettati i rituali religiosi in relazione con la morte e la sepoltura24. Quanto detto fin qui fornisce i dati e le testimonianze necessari per giungere a una conclusione decisiva: non è stata
Mendizábal, op. cit., p. 175. Tattersall, op. cit., pp. 260-61. 23 Wunn I., Las religiones en la Prehistoria, Akal, Madrid 2012, p. 206. 24 Maringer J., Vorgeschichtliche Religion. Religionen im steinzeitlichen Europa, Benziger, Einsideln/Zürich/Köln 1956, p. 76, cit. in Wunn, op. cit., p. 211. Per un’informazione più aggiornata e dettagliata dei rituali religiosi legati alla morte e alla sepoltura cfr. Burkert W., Homo necans. Interpretaciones de ritos sacrificales y mitos de la antigua Grecia, El Acantilado, Barcelona 2013, pp. 50-61. 21
22
24
L’umanità di Gesù
l’intelligenza tecnologica la causa del grande sviluppo della dimensione del cervello dell’uomo, ma l’intelligenza sociale. Perché è evidente che la collaborazione tra gli uomini era, già da allora, molto stretta. Neppure animali tanto sociali e cooperativi come gli scimpanzé mostrano un grado di cooperazione e interesse per il benessere altrui simile a quello degli esseri umani25. In concreto a Sima de los Huesos esistono prove che quelle persone (coi loro grandi cervelli) si prendevano cura di coloro che soffrivano limitazioni o non erano nelle loro piene capacità. Come anche si sa che quelle stesse persone erano capaci di comunicare tra loro mediante un linguaggio parlato. Questo ci dice che si intensificarono le relazioni personali tra i membri del gruppo e le relazioni sociali diventarono più complesse e più intense tra loro. Giunti a questo punto, risulta decisivo comprendere – ed esserne sempre molto consapevoli – che, quando parliamo di simboli e di mentalità simbolica, ci stiamo riferendo a una delle questioni più importanti e specifiche di ciò che è l’“essere umano” e in generale la “condizione umana”. Si suole dire che già Picasso, a quanto pare, affermò che i pittori rupestri (per esempio, quelli delle grotte di Altamira) gli avevano lasciato ben poco da inventare. Cosa che è perfettamente comprensibile. Perché mentalità simbolica e sviluppo tecnologico non sono in assoluto vasi comunicanti. Lo ripeterò in altro modo più avanti. Ma, più che questo, adesso è necessario sottolineare che nelle relazioni specificamente umane l’aspetto più particolare e caratteristico non è il linguaggio, la comunicazione linguistica, ma la simbologia, cioè la comunicazione simbolica. La differenza sta nel fatto che mediante il linguaggio comunichiamo “conoscen-
Mendizábal, op. cit., p. 177; Silk J., Chimpanzees are Indifferent to the Welfare of Unrelated Group Members, in “Nature”, 437, 2005, pp. 1357-9. 25
25
José María Castillo
ze”, mentre mediante i simboli comunichiamo “esperienze”. Soprattutto le esperienze che implicano una totalità di senso nella vita e per la vita degli uomini. Un esempio può chiarire e rendere concreto ciò che intendo esprimere. Come comunica una mamma col suo bambino? Come gli trasmette l’esperienza del suo affetto o in che modo gli può dare sicurezza, liberarlo dalla paura, renderlo felice? Mediante conoscenze, discorsi e teorie? Sappiamo che questo non è possibile. Come, allora? Facendo in modo che il bambino si senta amato, protetto, sicuro. E come lo può ottenere? Con il tatto, il calore umano, il bacio, l’abbraccio, la carezza. L’aspetto simbolico precede il linguaggio, l’idea, la conoscenza. I simboli determinano ciò che sono le nostre vite in quanto vite umane. La comunicazione simbolica è la cosa più rapida, più diretta, più immediata che percepiamo tra noi uomini. “Lo sguardo precede l’occhio” disse già Jean-Paul Sartre. E in modo geniale lo ha precisato Pedro Laín Entralgo. Vedere non è lo stesso che guardare. Perché ricevere informazioni non equivale a comunicare esperienze, emozioni, sentimenti. La complessità del cervello, di cui non conosciamo tuttora che la metà di ciò che racchiude, dà adito a tutto questo; anche a ben più di quanto possiamo sospettare. In ogni caso, e per quanto riguarda la comunicazione umana, ciò è specifico della condizione umana. Ebbene, stando così le cose e ricapitolando, non può esservi dubbio che la convinzione più diffusa nella comunità scientifica oggigiorno è che circa 100.000 anni fa esisteva in Africa un mosaico di popolazioni di Homo sapiens, molte delle quali conservavano tratti arcaici. Una di queste popolazioni, che aveva caratteristiche anatomiche proprie della umanità moderna, sperimentò un’enorme espansione demografica e aumentò numericamente in modo notevolissimo. Questo accadeva tra gli 80.000 e i 60.000 anni fa. Così l’Homo sapiens si diffuse per tutto il continente
26
L’umanità di Gesù
africano, spostando e sostituendo le altre popolazioni. Passò il tempo e circa 30.000 anni fa si estinsero gli ultimi neanderthaliani, in modo che l’Homo sapiens rimase come l’unica specie umana non solo nel continente africano, ma anche in Europa26. Di fatto si può accettare con sicurezza l’insieme di grandi avvenimenti nell’esistenza dell’essere umano, come ha saputo riassumere il famoso paleontologo keniota Richard Leakey: Forse per 100.000 anni gli Homo sapiens sono stati buoni cacciatori-raccoglitori e vissero in piccole bande, a loro volta parte di alleanze sociali e politiche più ampie. Il loro mondo materiale fu probabilmente limitato, ma il loro mondo mitico dovette essere molto ricco e questa ricchezza andò passando da una generazione all’altra. Più tardi, tra i 20.000 e 10.000 anni fa, la gente iniziò ad organizzare la propria vita pratica in altro modo, a volte sfruttando risorse alimentari diverse, il che implicò una minore mobilità, maggiore stabilità e forse maggiori possedimenti. Infine da 10.000 anni la produzione alimentare – qualcosa di diverso dalla raccolta – si trasformò in una pratica più comune, crebbero i villaggi per trasformarsi prima in piccoli paesi, poi in città, in città-stato e infine in stati-nazione. Si sarebbe realizzato quello che noi chiamiamo la civiltà, basata sul generarsi di lenti cambiamenti culturali. La gamma di possibilità pratiche, intellettuali e spirituali alimentata dalla civiltà è l’espressione ultima del potere della cultura. Che è certamente ciò che ci distingue da tutte le altre specie del mondo27.
Ivi, pp. 193; 198; Cfr. Forster P., Ice Ages and the Mitochondrial DNA Chronology of Human Dispersals: a Review, in “Philosophical Transactions of the Royal Society of London”, B 365, 2004, pp. 255-64. 27 Leakey, Lewin, op. cit., p. 282. 26
27
José María Castillo
Ma perché proprio la cultura? Perché la cultura, intesa e definita come chiunque voglia farlo, è (in ogni caso) il risultato non solo di avanzamenti e progressi tecnologici, ma soprattutto la conseguenza di esperienze ed espressioni simboliche che uniscono gli uomini in costumi, tradizioni, forme fondamentali di vita e di gestione delle relazioni umane e della convivenza nelle sue più varie manifestazioni. Ebbene, oggi si sa con certezza che circa 3300 anni prima di Cristo nacque in Mesopotamia la scrittura (cuneiforme). Con essa nacquero anche l’agricoltura e la metallurgia, proprio come oggi si intendono e si spiegano questi termini. Allora comparve quello che oggi chiamiamo la “civiltà”28. Così la civiltà nacque in forma di un grande impulso storico delle tecnologie. Cosa che può rafforzare la fede del secolo nelle grandi realizzazioni tecnologiche. Ma quel grande salto in avanti nella lontana storia della tecnica provocò la prima comparsa di alcuni fatti conosciuti fin dall’Antichità: l’aumento delle disuguaglianze economiche, la gerarchia sociale verticale, il potere dispotico. Una serie di fatti che in definitiva stanno a significare che il processo dal quale nacque la civiltà dimostra in tutta chiarezza che l’evoluzione tecnologica e l’evoluzione sociale possono dissociarsi e avanzare in senso opposto e in direzione diametralmente contraria l’una dall’altra: l’evoluzione tecnologica come “progresso”; l’evoluzione sociale come “degrado” o anche come decomposizione29. Cosa che è perfettamente comprensibile se consideriamo che il progresso tecnologico si raggiunge maneggiando molto
28 Bottéro J., Mésopotamie. L’écriture, la raison et les dieux, Gallimard, Paris 1987, p. 8. Daraki M., Las tres negationes de Yahvé. Religion y politica en el antiguo Israel, Abada, Madrid 2007, pp. 6-7. 29 Daraki, op. cit., p. 8.
28
L’umanità di Gesù
denaro (e produce molto denaro); come anche sappiamo che al contrario il progresso sociale si è limitato e si è concentrato in gruppi molto ristretti, in paesi molto specifici e in settori privilegiati. Per questo la storia della cosiddetta civiltà è stata piuttosto la storia del progresso di pochi e dell’umiliazione della maggioranza. Se ora riprendiamo la domanda iniziale di questo capitolo: “Cosa ci rende umani?”, la risposta si orienta in una direzione sufficientemente concreta: quella dell’esperienza simbolica, che è nata, cresciuta ed è diventata vita in noi, non principalmente nel perfezionamento delle tecnologie – che abbiamo scoperto nella fabbricazione di strumenti di difesa e di lotta per proteggerci, sentirci sicuri, attaccare il nemico, aggredire, uccidere, mangiare – ma soprattutto nell’arricchimento della comunicazione simbolica, che esprime relazione, incontro, cortesia reciproca, sensibilità verso ciò che rende felici gli altri, aiuto per coloro che ne hanno bisogno, dialogo e bontà. Il pensiero simbolico, che rende più gradita, sopportabile e intima la convivenza, è ciò che ha umanizzato i nostri lontani antenati. Questa è stata la forza che ha sviluppato smisuratamente il loro cervello. Almeno questo è ciò che si può concludere se ci atteniamo alle numerose tracce di oggetti ornamentali, perline, a indizi di cerimonie rituali con i vivi e con i defunti, riti religiosi, pratiche e osservanze cerimoniali che, a partire dal Paleolitico (specialmente dal Mesolitico), si diffusero non solo attraverso le grandi estensioni dell’Africa, ma anche per tutto l’immenso continente euroasiatico. La documentazione scoperta negli innumerevoli scavi archeologici lo ha dimostrato abbondantemente30.
Meuli K., Griechische Opferbräuche, in “Phyllobolia. Festschrift Peter von der Mühll”, Basel 1946, pp. 185-288; Kühn H., Das Problem 30
29
José María Castillo
Per finire, ho detto all’inizio di questo capitolo che l’essere umano è arrivato a essere umano proprio comportandosi come tale. Il comportamento umano ci umanizza. Il termine “umano” viene dal latino humus, terra. Da questo deriva la correlazione di umano (lo stesso di umile) con ciò che è letteralmente proprio di ciò che sta più in basso, la terra, ciò che è attaccato al suolo, persino ciò che striscia a terra o al suolo. Ossia è l’opposto di tutto quanto significa grandezza, potere, onore, importanza. Quindi parlare dell’umanità di Gesù equivale a parlare non solo della sua condizione terrena, ma con quest’espressione si sottolinea soprattutto il suo modo o stile di vita. Detto con più precisione, quando facciamo riferimento all’umanità di Gesù, in realtà parliamo proprio del suo progetto di vita. Quanto di più opposto a tutto ciò che è “dominio” sulla terra, ma è proprio dell’identificazione con la terra, con ciò che sta in basso, unito al suolo. A partire da questo diventa possibile, si vive e si percepisce in modo palpabile come realtà la nostra umanità. E l’umanità di Gesù.
des Urmonotheismus, Abb. Mainz, Wiesbaden 1950, p. 22, nota 17; Vorbichler A., Das Opfer auf den heute noch erreichbaren ältesten Stufen der Menschheitsgeschichte, St.-Gabriel-Verlag, Mödling 1956, cit. in Burkert, op. cit., p. 36.
30
José María Castillo
José María Castillo (1929) è stato professore nella Facoltà di Teologia di Granada, professore invitato all’Università Gregoriana di Roma, alla Pontificia Università Comillas di Madrid ed all’Università Centroamericana (UCA) di El Salvador. Nel 2011 ha ricevuto il titolo di dottore honoris causa dall’Università di Granada ed è autore di numerose pubblicazioni con ampio successo editoriale.
Euro 15,50 (I.i.) Scopri i contenuti multimediali
edizioni la meridiana paginealtre
ISBN 978-88-6153-656-2
ISBN 978-88-6153-656-2
9
788861 536562
edizioni la meridiana
L’umanità di Gesù
Con la meridiana ha pubblicato L’umanità di Dio (2014) e La laicità del Vangelo (2016).
José María Castillo
L’umanità di Gesù
raggiungere e l i b i s s o p È “divino” l e d a z z e n e la pi ra in cui u s i m a l l e n solo seguire n o c l e n o m a ci impegni umano”. ” ’ l l e d a z z e la pien più divini o m a i t n e v i d Cioè, in cui a r u s i m a l l e n iù umani. diventiamo p
edizioni la meridiana paginealtre
È possibile raggiungere la pienezza del “divino” solo nella misura in cui ci impegniamo a conseguire la pienezza dell’“umano”; possiamo arrivare a essere “più divini” solo diventando “più umani”. Questa proposta deve invadere e impregnare tutta la vita e l’attività della Chiesa: la sua teologia, il suo sistema organizzativo, la sua morale, le sue leggi, la sua presenza nella società e soprattutto nella vita e nella spiritualità dei cristiani. È una proposta che deriva dal centro stesso della fede cristiana: il Dio del Cristianesimo è il “Dio incarnato”. Cioè il “Dio umanizzato” che si è fatto conoscere in un essere umano, Gesù di Nazareth. Ma nella storia del Cristianesimo di fatto l’umanità di Gesù e le sue conseguenze sono state più difficili da accettare della divinità di Cristo. Questa difficoltà porta direttamente a dover affrontare questa domanda: chi occupa realmente il centro della vita della Chiesa, Gesù e il suo Vangelo o san Paolo e la sua teologia? A partire da questa si materializzano altri interrogativi: da dove e da chi si sono presi i grandi temi che si propongono e si spiegano nella teologia cattolica? Su cosa o come si giustificano il culto, i riti e in generale la liturgia che si celebra nei nostri templi? A partire da chi e da quali argomenti si legittima il modo di governare che si esercita nella Chiesa? Quale modalità di presenza deve avere la Chiesa? Perché il Cristianesimo appare più come una religione e molto meno come la presenza del Vangelo di Gesù nel nostro mondo? Finché la Chiesa non affronta queste questioni e dà loro la dovuta risposta, non potrà recuperare la sua identità e compiere la sua missione nel mondo.