14 minute read

Il fantasma del tabia

La storia che sto per raccontare si svolse nell’estate 1975 in Auronzo di Cadore, grosso paesotto montano della val d’Ansiei, svilup pato lungo il corso dell’omonimo torrente. Le ultime propaggini del paese, vale a dire le borgate di Reane, rio Muri, Giralba, Sampre de, sono caratterizzate, ieri come oggi, da ampi prati di fondovalle dominati qua e là da fienili o tabià, alcuni in ottimo stato di con servazioni, altri in totale disfacimento, altri ancora riadattati a residenza di vacanze. È appunto in un tabià di rio Muri, lungo la stra da statale che porta a Misurina e Cortina che inizia la nostra storia, disarmante, banale o curiosa per come potrebbe essere soggetti vamente interpretata. Da qualche tempo, nel fienile di Giovanni Cella in rio Muri, accade va qualcosa di strano. Per tutta l’estate 1975 si poteva notare in tarde ed alterne serate una fioca luce filtrare attraverso le fessure dei tronchi in rovere stagionato del grazioso, ma ancora efficiente, tabià dell’anziano con tadino e montanaro. Non c’erano finestre nel fienile, ma solo una stretta porticina che non lasciava passare alcuna luce. Ma la stessa porticina consentiva invece di percepire de boli rumori o sussurri provenienti dall’interno. La luce era davvero fioca e si spegneva im mediatamente quando qualche curioso si avvicinava al fienile. Come le lucciole d’estate che, quando cerchi di catturarle per illuminare la tua egoistica mano chiusa a pugno, si allon tanano auto spegnendosi. Piano piano la curiosità dei villeggianti vicini, aumentava con il passare dei giorni. Da dove proveniva quella luce? E quei lamenti? L’alta pietraia di base del tabià non consentiva di spiare da sotto le fondamenta per vedere cosa stesse acca dendo in superficie, ammesso e non concesso che la lucciola o altro animale avessero consen tito l’illecita ingerenza. Tutto questo fece pensare ad un fatto insolito, curioso, da chiarire. La luce non poteva essere quel la di una torcia elettrica. O di una lampada a petrolio, pericolosissima in mezzo a tanta paglia e fieno. E le litanie, a volte allegre, in altri momenti tristi, erano tutte comunque espresse a bassissima voce e di chiara origine umana. Potevano essere parificate al canto dei grilli ben distinguibili in lontananza ma muto nell’avvicinarsi sem pre di più a loro. Gli audaci che si erano spinti fin sulla porticina laterale del tabià giuravano che attraverso le fessure non avevano notato nulla, né sentito alcun suono, né in travisto alcuna figura umana, né altro elemento che facesse pensare ad una clamorosa burla. Insomma, un mistero. Ovviamente le ispezioni fatte di giorno non offrivano ele menti utili per capire cosa succedesse in quel posto di notte. Un occhio esperto avrebbe colto solo delle impercettibili sacche sulla paglia che potevano avere infinite spiegazio ni logiche. Le varie interpretazioni razionali via via fornite non convincevano. C’era chi legittimava le voci come naturale conse guenza dell’ardore di due giovani amanti, magari una coppia clandestina che non vole va farsi registrare in albergo e preferiva la sensuale paglia a una più comoda alcova. Chi addirittura pensava a un’immensa bufala or ganizzata dai villeggianti per prendere per i fondelli i grulli montanari da sempre sensi bili a storie di gnomi, streghe, fate e folletti, specie nel Cadorino. Altri ancora, forse per alimentare una morbosa voglia di soprannaturale ipotizzavano che nel tabià avvenisse qualche rito satanico. Forse la spartizione di anime tra Dio e il diavolo come narravano le tante storielle popolari. Il proprietario del tabià, Giovanni, avanti con gli anni e un po’ rincitrullito non aveva alcuna spiegazione, ammesso che avesse capito il problema che coinvolgeva la sua proprietà. Insomma, spie gazioni e contro spiegazioni si sprecavano alimentando le chiacchere nei bar del paese. La cosa andò avanti per l’intera estate. Poi come in tutte le favole che non possono eter namente durare, un gruppo di ragazzotti del paese decise di mettere la parola fine al Fan tasma del tabià come l’insolito fatto era stato battezzato circolando di bocca in bocca tra Reane e Giralba. Per questo, sul finire di set tembre, dopo lunghi e infruttuosi piantonamenti notturni sul posto, due audaci auronzani e un villeggiante ebbero la fortuna di vedere la tremula luce e di sentire la vocina dell’oltretomba. Si avvicinarono cautamente al tabià, in questo facilitati dall’erba appena sfalciata che assorbiva tutti i rumori, e si ac costarono alla porta che dalle ispezioni gior

naliere sapevano essere sempre aperta e priva di chiavistello interno. Interpretare il loro stato d’animo per questo improvvisato cro nista, a distanza di tanti anni, non è stato facile. È probabile che a fronte della baldan zosa sicurezza che sempre esibivano questi giovanotti, in fin di conti avessero anche loro un’atavica e inconscia paura. Ma la voglia di chiarire tutto per essere poi protagonisti nel le chiacchere dei bar del paese per chissà quanto tempo, fu più forte e vinse qualsiasi paura. I ragazzi spalancarono la porta del ta bià che come sempre si presentava muto e silenzioso. Tre potentissime torce sciabola rono luce a 360 gradi per concentrarsi tutte quasi simultaneamente, sull’angolo sinistro del capanno. Qui, accovacciata sul fienile, una donna molto anziana, probabilmente sugli ottant’anni e completamente vestita di nero, cercava di ripararsi con le braccia, il viso e gli occhi da tanta, improvvisa e violen ta luce. Al suo fianco, una lanterna emetteva gli ultimi aneliti di fumo. Era la Irma. La simpatica vecchietta di Reane, da anni vedo va e sola, che a detta delle persone che frequentavano la sua povera casa, viveva il tramonto della propria esistenza senza quelle comodità che sono abituali ai nostri giorni. Ma conservando un gran rimpianto per le tradizioni che tanti anni prima rappresenta vano quotidiane regole di vita e comportamento per le anziane cadorine. Come si venne successivamente a sapere dalla stessa Irma, una volta superato lo shock per essere stata scoperta in così flagrante crisi di rim pianto del passato, tutto nacque dalla voglia dell’ottuagenaria di ricostruire le tarde sera te della sua giovinezza. Voleva rivivere i filò in tabià per ascoltare le storie degli anziani e le ninne nanne per i neonati. E per sperare di rivedere lui, il giovanotto che ospite del tabià avrebbe avuto maggiori possibilità di scam biare qualche parola con lei o altro più audace messaggio. Forse anche un fuggevole e casto bacio. A questo patrimonio di ricordi nonna Irma voleva ridare ideale vita attra verso una concreta rappresentazione scenica. Ecco spiegata la tremula luce della lanterna che la vecchietta si affrettava a spegnere non appena percepiva una presenza esterna. E senza minimamente preoccuparsi del ri schio di scatenare un tremendo incendio. Il suo abito nero, poi, la mimetizzava con il buio interno del tabià, che nessuno voleva vedere nei dettagli più di tanto. Così quando nonna Irma decideva la sua serata di ricordi, si incamminava all’imbrunire verso la sua amata capanna e nes suno faceva caso a questa curva ombra nera che, lungo il ci glio della strada per Misurina raggiungeva il luogo dei dolci ricor di e profumi della sua giovinezza. Per poi ab bandonarlo solo quando l’orologio della età scandiva il momento di rientrare nei luoghi abituali. Per riappro priarsi del suo doloroso dovere di essere vecchia donna sola, emarginata e superata dal vento della moder nità. Dunque, chiarito il mistero del fanta sma del tabià. La storia fece il giro del paese e commosse tutti dando alla Irma un’i naspettata quanto poco gradita pubblicità. Ma per lei come poi si seppe per sua stessa ammissione, l’essere stata scoperta nel suo innocente gioco com portò una doppia ferita. Era stata privata della possibilità di ritornare con la sua fanta sia bellissima e corteggiata fanciulla. E si era certamente consolidata ancora di più la fama di vecchia decrepita che viveva di stravagan ze. Solo il tabià sarebbe rimasto per lei muto testimone della sua intramontabile voglia di giovinezza. La stupenda cattedrale che avrebbe ospitato il matrimonio con il suo grande e immenso amore.

Advertisement

Il grappolo d’uva

Il contadino Giuseppe viveva in un podere con la moglie e i suoi due figli. In un caldo pomeriggio d’autunno il bravo uomo, stanco per l’aratura non anco ra terminata, notò tra i filari delle viti che delimitavano i confini della sua proprietà un bel grappolo di uva bianca miracolosamente sfuggito alla vendem mia di poche settimane prima. Assetato com’era, stava per staccare avidamente i bianchi e succulenti chicchi quando notò in lontananza la moglie che stava facendo il bucato sotto un sole che an cora picchiava. - Povera donna - pensò il contadino -la sua giornata di lavoro non ha mai fine, sarà certamente più stanca e assetata di me - Tergendosi il sudore dalla fronte la donna drizzò la schiena e con uno sguardo di dolce riconoscen za verso il marito, accettò l’inaspettato e gradito dono. Ma prima di addentare l’uva notò in lontananza il figlio mag giore che zappettava la terra dell’orto, dura e sempre avara di generosi raccolti - Povero ragazzo - rimuginò tra sé e sé la donna - Ha solo diciotto anni e fino ad oggi ha conosciuto unicamente la vanga e la dura fatica dei campi. È giu sto che sia lui a godere di una meritata pausa - E con animo serena la mamma consegnò il frutto al figliolo. Il ragazzo, felice per la sorpresa, depose la vanga e compiaciuto della sua condizione di uomo che viveva per la natura, donò uno sguardo d’assieme alla sua amata campagna, l’orto, il cortile, gli animali della fattoria, gli alberi immobili sotto il caldo della morente estate. Ma subito la sua attenzione venne catturata dalla sorellina che, seduta dinanzi al por tone di casa, stava preparando tutte le verdure che sarebbero state consumate all’ora di cena. - La mia sorellina è an cora una bambina e deve faticare ogni giorno per andare a scuola - pensò subi to il fratello - poi a casa aiuta la mamma nei lavori domestici. Non ha amichette con cui giocare. Lei ha più diritto di me a gustare questa fresca delizia - E con grande sorriso diede alla piccina l’in vitante grappolo d’uva. Tutta felice per il dono che l’avrebbe dissetata senza dover ricorrere come sempre, all’acqua del pozzo, la bimba ebbe un improvviso soprassalto. Aveva notato in lontanan za il padre che stava arando il podere e vedendolo tanto affaticato si precipi tò da lui per offrirgli il dono ricevuto poco prima dal fratello. Il babbo fermò il trattore. Riconobbe il grappolo d’uva e tutto il giro che doveva aver fatto e al zando gli occhi al Cielo ringraziò Iddio per avergli donato una famiglia tanto cara, buona e generosa. *** Ecco una bella storia che potrebbe inse gnare molto ai nostri giorni in fatto di altruismo, dopo la terribile esperienza – non ancora conclusa -dell’epidemia da Covid 19. Il riconoscimento della solidarietà dovrebbe muovere le no stre azioni quotidiane. Non solo. Dobbiamo anche dimenticare l’arroganza che manifestiamo nella consapevolezza del posto sociale che occupiamo e che ci rende insensibili alle disgrazie degli altri. L’emergenza sanitaria dovrebbe averci insegnato il recupero della soli darietà.

CASTELLO DI RONCADE “500 ANNI DI STORIA”

Il Castello di Roncade è uno degli esempi più interessanti, nel Nord Italia, dell’ar chitettura rinascimentale. Inoltre, è l’unica villa pre-palladiana cinta da mura medievali sovrastate da maestosi merli in cui sono custoditi 500 anni di storia vini cola. Il castello sorge al centro di Roncade, cittadina trevigiana a poca distanza da Venezia e immerso nella campagna veneta. Un viaggio che inizia dall’antica nobiltà veneziana, fino alla produzione di vini pre stigiosi. Il maniero fu donato nel 900 da Ottone II ai Conti di Collalto. In seguito, venne distrutto per mano di Cangrande della Scala. Fu Girolamo Giustinian, patri zio veneto, ad attuarne nel XVI secolo la ricostruzione, sulla traccia del precedente edificio. Nel 1930 il Barone Tito Ciani Bas setti sceglie il Castello di Roncade come il luogo che avrebbe ospitato la famiglia e il suo sogno. Si tratta dello sviluppo di un’at tività vinicola in un’antica terra vocata alla viticoltura, sin dall’epoca romana e della Serenissima. L’azienda vitivinicola, guida ta da Vincenzo Ciani Bassetti, oggi circonda il Castello. Dietro la villa c’era il “brolo” di 3 ettari e un grande orto con frutteto di 30 ettari. Oggi, la famiglia Ciani Bassetti sta curando un progetto di recupero del “brolo piccolo” con il reimpianto di viti, alberi da frutta e gelsi, alberi della tradi zione agricola del territorio da sempre utilizzati per l’allevamento del baco da seta. I gelsi tratteggiano il viale centrale, ai lati il vigneto con piante di merlot, cabernet sau vignon e cabernet franc suddivisi da una siepe di alberi da frutto di varietà in uso all’epoca quali cachi, nespole, pere e mele. Le viti sono, invece, i cloni delle barbatelle originali che il papà del Barone Vincenzo portò in Italia da Bordeaux per produrre il Villa Giustinian, il taglio bordolese tutt’o ra vino di punta dell’azienda. I locali sono ancora quelli originali del 1500. La Bottaia è semi interrata ed è situata sotto le mura dal lato sud est del Castello perché è l’area più asciutta. Sempre su questo lato delle mura infatti, proprio sopra la barchessa, ci sono i granai, un tempo luoghi per es siccare le granaglie, oggi sale espositive. Il vino rosso dopo aver completato la fer mentazione in cantina di trasformazione a Mogliano Veneto ritorna al Castello per fare l’affinamento in legno. La bottaia, in fatti, è divisa in due parti, la bottaia delle grandi botti (5.000 l) l’una e la barricaia. Centodieci ettari vitati, con un terroir ca ratterizzato da un microclima con scarse precipitazioni e da uno strato di “caran to” a pochi centimetri di profondità, permettono di produrre vini di qualità. Ogni anno vengono prodotte 350.000 bottiglie di vino. Vini bianchi profumati e vini ros si corposi che hanno saputo distinguersi, vincendo importanti riconoscimenti nelle guide e nei concorsi enologici. Le due anti che barchesse quella a Nord e quella a Sud hanno visto nascere tutti i vini del castel lo. In origine non c’era il giardino come lo vediamo oggi, ma una grande corte dove erano svolte le attività agricole della Villa. Villa Giustinian è una delle prime Ville co struite dei veneziani in terra ferma per fare “affari”, ovvero commerciare con Venezia i prodotti dell’agricoltura lungo il fiume Sile e Musestre. Il giardino come lo vediamo oggi è del 1500 circa. Fu voluto dai Giu stinian per rendere l’acceso alla villa più elegante e consono all’immagine della fa miglia con due Cedri uno del Libano e uno dell’Himalaya e 2 magnolie Grandi Flora che hanno circa 200 anni. Gli alberi più vecchi sono però le Lagestroemie (accanto alla Villa) che di anni ne hanno quasi 300; mentre le figure in pietra d’Istria sono del 1600 è un battaglione di Schiavoni con 3 ufficiali in alta uniforme, 2 tamburelli e un porta bandiera e una serie di fanti con ar chibugio. Per chi vuole soggiornare in un castello e vivere un’atmosfera d’altri tempi immersi nel verde e nella storia sono stati restaurati degli appartamenti nelle vec chie torri di guardia e delle camere doppie all’interno del corpo centrale della villa. Negli appartamenti ricavati dalle torri e nelle camere all’interno della villa princi pale, ogni dettaglio è curato nel particolare. Le sale e le barchesse sono una location straordinaria per matrimoni, banchetti, conferenze, feste di laurea. Il legame tra il vino e l’ospitalità è iniziato nel 1988, con l’intenzione di Vincenzo Ciani Bassetti di offrire un soggiorno ameno ai numerosi clienti. Soggiornare al Castello di Ronca de significa per l’ospite immergersi nella vita della villa Veneta. Il Castello sorge in una posizione strategica per raggiungere le mete del turismo veneto, Venezia, Trevi so, Jesolo, Caorle, Lignano, Cortina d’Ampezzo. Ospita ogni anno molti visitatori, vogliosi di conoscere ed esplorare le sue suntuose sale passeggiando lungo i secoli

di cui è stato testimone. Varie sono anche le manifestazioni che si svolgono all’in terno di questo complesso medievale con degustazioni di food e vino, visite guidate, mercato dell’artigianato. Durante la visita guidata della durata di un’ora circa, com presa nel costo del biglietto, una guida accompagnerà il pubblico alla scoperta della storia e della vita che anima Villa Giusti nian, residenza della famiglia del barone Vincenzo Ciani Bassetti. Al wine- shop di Villa Giustinian è possibile degustare i vini bianchi profumati e vini rossi corposi che si sono distinti, vincendo importanti riconoscimenti nelle guide e nei concorsi enologici anche internazionali. Una visita al Castello è una piacevole viaggio dall’an tica nobiltà Veneziana fino ai giorni nostri con la produzione di vini prestigiosi.

INFO: Castello di Roncade - Via Roma 141 - 31056 Roncade Treviso Tel. O422 708736- Email: info@castellodi roncade.it - www.castellodironcade.com

Rudy De Pol

This article is from: