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settembre 2020
IL FANTASMA DEL TABIÀ La storia che sto per raccontare si svolse nell’estate 1975 in Auronzo di Cadore, grosso paesotto montano della val d’Ansiei, sviluppato lungo il corso dell’omonimo torrente. Le ultime propaggini del paese, vale a dire le borgate di Reane, rio Muri, Giralba, Samprede, sono caratterizzate, ieri come oggi, da ampi prati di fondovalle dominati qua e là da fienili o tabià, alcuni in ottimo stato di conservazioni, altri in totale disfacimento, altri ancora riadattati a residenza di vacanze. È appunto in un tabià di rio Muri, lungo la strada statale che porta a Misurina e Cortina che inizia la nostra storia, disarmante, banale o curiosa per come potrebbe essere soggettivamente interpretata. Da qualche tempo, nel fienile di Giovanni Cella in rio Muri, accadeva qualcosa di strano. Per tutta l’estate 1975 si poteva notare in tarde ed alterne serate una fioca luce filtrare attraverso le fessure dei tronchi in rovere stagionato del grazioso, ma ancora efficiente, tabià dell’anziano contadino e montanaro. Non c’erano finestre nel fienile, ma solo una stretta porticina che non lasciava passare alcuna luce. Ma la stessa porticina consentiva invece di percepire deboli rumori o sussurri provenienti dall’interno. La luce era davvero fioca e si spegneva immediatamente quando qualche curioso si avvicinava al fienile. Come le lucciole d’estate che, quando cerchi di catturarle per illuminare la tua egoistica mano chiusa a pugno, si allontanano auto spegnendosi. Piano piano la curiosità dei villeggianti vicini, aumentava con il passare dei giorni. Da dove proveniva quella luce? E quei lamenti? L’alta pietraia di base del tabià non consentiva di spiare da sotto le fondamenta per vedere cosa stesse accadendo in superficie, ammesso e non concesso che la lucciola o altro animale avessero consentito l’illecita ingerenza. Tutto questo fece pensare ad un fatto insolito, curioso, da chiarire. La luce non poteva essere quella di una torcia elettrica. O di una lampada a petrolio, pericolosissima in mezzo a tanta paglia e fieno. E le litanie, a volte allegre, in altri momenti tristi, erano tutte comunque espresse a bassissima voce e di chiara origine umana. Potevano essere parificate al canto dei grilli ben distinguibili in lontananza ma muto nell’avvicinarsi sempre di più a loro. Gli audaci che si erano spinti fin sulla porticina laterale del tabià giuravano che attraverso le fessure non avevano notato nulla, né sentito alcun suono, né intravisto alcuna figura umana, né altro elemento che facesse pensare ad una clamorosa burla. Insomma, un mistero. Ovviamente le ispezioni fatte di giorno non offrivano elementi utili per capire cosa succedesse in quel posto di notte. Un occhio esperto avrebbe colto solo delle impercettibili sacche sulla paglia che potevano avere infinite spiegazioni logiche. Le varie interpretazioni razionali via via fornite non convincevano. C’era chi legittimava le voci come naturale conseguenza dell’ardore di due giovani amanti, magari una coppia clandestina che non voleva farsi registrare in albergo e preferiva la sensuale paglia a una più comoda alcova. Chi addirittura pensava a un’immensa bufala organizzata dai villeggianti per prendere per i fondelli i grulli montanari da sempre sensibili a storie di gnomi, streghe, fate e folletti, specie nel Cadorino. Altri ancora, forse per
alimentare una morbosa voglia di soprannaturale ipotizzavano che nel tabià avvenisse qualche rito satanico. Forse la spartizione di anime tra Dio e il diavolo come narravano le tante storielle popolari. Il proprietario del tabià, Giovanni, avanti con gli anni e un po’ rincitrullito non aveva alcuna spiegazione, ammesso che avesse capito il problema che coinvolgeva la sua proprietà. Insomma, spiegazioni e contro spiegazioni si sprecavano alimentando le chiacchere nei bar del paese. La cosa andò avanti per l’intera estate. Poi come in tutte le favole che non possono eternamente durare, un gruppo di ragazzotti del paese decise di mettere la parola fine al Fantasma del tabià come l’insolito fatto era stato battezzato circolando di bocca in bocca tra Reane e Giralba. Per questo, sul finire di settembre, dopo lunghi e infruttuosi piantonamenti notturni sul posto, due audaci auronzani e un villeggiante ebbero la fortuna di vedere la tremula luce e di sentire la vocina dell’oltretomba. Si avvicinarono cautamente al tabià, in questo facilitati dall’erba appena sfalciata che assorbiva tutti i rumori, e si accostarono alla porta che dalle ispezioni gior-
naliere sapevano essere sempre aperta e priva di chiavistello interno. Interpretare il loro stato d’animo per questo improvvisato cronista, a distanza di tanti anni, non è stato facile. È probabile che a fronte della baldanzosa sicurezza che sempre esibivano questi giovanotti, in fin di conti avessero anche loro un’atavica e inconscia paura. Ma la voglia di chiarire tutto per essere poi protagonisti nelle chiacchere dei bar del paese per chissà quanto tempo, fu più forte e vinse qualsiasi paura. I ragazzi spalancarono la porta del tabià che come sempre si presentava muto e silenzioso. Tre potentissime torce sciabolarono luce a 360 gradi per concentrarsi tutte quasi simultaneamente, sull’angolo sinistro del capanno. Qui, accovacciata sul fienile, una donna molto anziana, probabilmente sugli ottant’anni e completamente vestita di nero, cercava di ripararsi con le braccia, il viso e gli occhi da tanta, improvvisa e violenta luce. Al suo fianco, una lanterna emetteva gli ultimi aneliti di fumo. Era la Irma. La simpatica vecchietta di Reane, da anni vedova e sola, che a detta delle persone che frequentavano la sua povera casa, viveva il tramonto della propria esistenza senza quelle comodità che sono abituali ai nostri giorni. Ma conservando un gran rimpianto per le tradizioni che tanti anni prima rappresentavano quotidiane regole di vita e comporta-
mento per le anziane cadorine. Come si venne successivamente a sapere dalla stessa Irma, una volta superato lo shock per essere stata scoperta in così flagrante crisi di rimpianto del passato, tutto nacque dalla voglia dell’ottuagenaria di ricostruire le tarde serate della sua giovinezza. Voleva rivivere i filò in tabià per ascoltare le storie degli anziani e le ninne nanne per i neonati. E per sperare di rivedere lui, il giovanotto che ospite del tabià avrebbe avuto maggiori possibilità di scambiare qualche parola con lei o altro più audace messaggio. Forse anche un fuggevole e casto bacio. A questo patrimonio di ricordi nonna Irma voleva ridare ideale vita attraverso una concreta rappresentazione scenica. Ecco spiegata la tremula luce della lanterna che la vecchietta si affrettava a spegnere non appena percepiva una presenza esterna. E senza minimamente preoccuparsi del rischio di scatenare un tremendo incendio. Il suo abito nero, poi, la mimetizzava con il buio interno del tabià, che nessuno voleva vedere nei dettagli più di tanto. Così quando nonna Irma decideva la sua serata di ricordi, si incamminava all’imbrunire verso la sua amata capanna e nessuno faceva caso a questa curva ombra nera che, lungo il ciglio della strada per Misurina raggiungeva il luogo dei dolci ricordi e profumi della sua giovinezza. Per poi abbandonarlo solo quando l’orologio della età scandiva il momento di rientrare nei luoghi abituali. Per riappropriarsi del suo doloroso dovere di essere vecchia donna sola, emarginata e superata dal vento della modernità. Dunque, chiarito il mistero del fantasma del tabià. La storia fece il giro del paese e commosse tutti dando alla Irma un’inaspettata quanto poco gradita pubblicità. Ma per lei come poi si seppe per sua stessa ammissione, l’essere stata scoperta nel suo innocente gioco comportò una doppia ferita. Era stata privata della possibilità di ritornare con la sua fantasia bellissima e corteggiata fanciulla. E si era certamente consolidata ancora di più la fama di vecchia decrepita che viveva di stravaganze. Solo il tabià sarebbe rimasto per lei muto testimone della sua intramontabile voglia di giovinezza. La stupenda cattedrale che avrebbe ospitato il matrimonio con il suo grande e immenso amore.
Oscar De Gaspari
Il grappolo d’uva Il contadino Giuseppe viveva in un podere con la moglie e i suoi due figli. In un caldo pomeriggio d’autunno il bravo uomo, stanco per l’aratura non ancora terminata, notò tra i filari delle viti che delimitavano i confini della sua proprietà un bel grappolo di uva bianca miracolosamente sfuggito alla vendemmia di poche settimane prima. Assetato com’era, stava per staccare avidamente i bianchi e succulenti chicchi quando notò in lontananza la moglie che stava facendo il bucato sotto un sole che ancora picchiava. - Povera donna - pensò il contadino -la sua giornata di lavoro non ha mai fine, sarà certamente più stanca e assetata di me - Tergendosi il sudore dalla fronte la donna drizzò la schiena e con uno sguardo di dolce riconoscenza verso il marito, accettò l’inaspettato e gradito dono. Ma prima di addentare l’uva notò in lontananza il figlio maggiore che zappettava la terra dell’orto, dura e sempre avara di generosi raccolti - Povero ragazzo - rimuginò tra sé e sé la donna - Ha solo diciotto anni e fino ad oggi ha conosciuto unicamente la vanga e la dura fatica dei campi. È giusto che sia lui a godere di una meritata pausa - E con animo serena la mamma consegnò il frutto al figliolo. Il ragazzo, felice per la sorpresa, depose la vanga e compiaciuto della sua condizione di uomo che viveva per la natura, donò uno sguardo d’assieme alla sua amata campagna, l’orto, il cortile, gli animali della fattoria, gli alberi immobili sotto il caldo della morente estate. Ma subito la sua attenzione venne catturata dalla sorellina che, seduta dinanzi al portone di casa, stava preparando tutte le verdure che sarebbero state consumate all’ora di cena. - La mia sorellina è ancora una bambina e deve faticare ogni giorno per andare a scuola - pensò subito il fratello - poi a casa aiuta la mamma nei lavori domestici. Non ha amichette con cui giocare. Lei ha più diritto di me a gustare questa fresca delizia - E con grande sorriso diede alla piccina l’invitante grappolo d’uva. Tutta felice per il dono che l’avrebbe dissetata senza dover ricorrere come sempre, all’acqua del pozzo, la bimba ebbe un improvviso soprassalto. Aveva notato in lontananza il padre che stava arando il podere e vedendolo tanto affaticato si precipitò da lui per offrirgli il dono ricevuto poco prima dal fratello. Il babbo fermò il trattore. Riconobbe il grappolo d’uva e tutto il giro che doveva aver fatto e alzando gli occhi al Cielo ringraziò Iddio per avergli donato una famiglia tanto cara, buona e generosa. *** Ecco una bella storia che potrebbe insegnare molto ai nostri giorni in fatto di altruismo, dopo la terribile esperienza – non ancora conclusa -dell’epidemia da Covid 19. Il riconoscimento della solidarietà dovrebbe muovere le nostre azioni quotidiane. Non solo. Dobbiamo anche dimenticare l’arroganza che manifestiamo nella consapevolezza del posto sociale che occupiamo e che ci rende insensibili alle disgrazie degli altri. L’emergenza sanitaria dovrebbe averci insegnato il recupero della solidarietà. Oscar De Gaspari