Made in mokapop.com
RONIN
N°3 GIU
2017
1
Ciao a tutti! Quattro mesi dalla pubblicazione del numero uno di Ronin, e sono successe moltissime cose. Ormai ogni numero conta una base di almeno 500 lettori. Come curatore di questa rivista gratuita ne sono molto contento, segno che la cosa piace, che gli autori sono attivi e che producono e propongono cose che interessano. Ma che cosa succede in questo terzo numero? Intanto alcune delle storie che sono partite nel primo e nel secondo numero trovano un proseguimento (Scarafaggio, Zero, Una notte come tutte le altre) altre storie partono (Zakk Void e Dr. MarkMan), ci sono poi prose, poesie, illustrazioni, e storie one shot che troverete come ogni numero a farvi compagnia. Questo nostro terzo è un piccolo ma importante passo verso il consolidamento di questa rivista e di questo approccio. Come al solito sono a ricordarvi che potete contribuire anche voi proponendo le vostre opere qui: facebook.com/groups/RoninSviluppo/ Grazie per il supporto e per leggerci. E grazie agli autori perchè senza di loro sarebbe un bel problema... Se volete partecipare alle altre nostre iniziative noi, come al solito, siamo qui: facebook.com/groups/MokapopPlaza/ e anche qui: facebook.com/MokapopStorytellers/ Buona lettura. Pietro Rotelli
INDICE ALLA RINFUSA PACHINKO BLUES Izzo - Partinico UNA NOTTE COME TUTTE LE ALTRE (Pt.3) Francesca Piantanida ZAKK VOID (Pt.1) Orlando - Rotelli WOLO Chialvo - Voto - Rotelli SCARAFAGGIO (Pt.2) Izzo - Manfredini - Daraghiati - Della Verde DR. MARKMAN (Pt.1) Perrone - Martinuz IL LAVORO è LAVORO Leonte - Voto L’OMINO DALLA FACCIA TRISTE Stefano “Bzi” Bonazzi BATTERI Claudio Cosentino PASATIEMPO Cretella - Della Verde ZERO (Pt.2) Rotelli - Cansone IL LUNGO INVERNO Riccardo Sciarra ALIENI Bruno Farinelli NINFA Erika Asphodel FORESTE DANNATE Alberto Cotevino STORIE DI FUMO Fabio Lastrucci LOW DISTRICT POWER PLANT Ivan Paduano
RONIN
Periodico gratuito online della comunità Mokapop. progetto editoriale e grafica: Pietro Rotelli Ogni diritto relativo alle storie qui contenute è dei singoli autori.
DESTINAZIONE PARADISO Francesco Elisei GLI ULTIMI Matteo Gatto CALLIOPE Francesco Segala TEMPO INCOMPLETO Michele Cavalieri D’Oro UNA DONNA COL CERVELLO: intervista a Mauro Nigro Francesco Elisei
In copertina: PORTRAIT Gianlorenzo Di Mauro 2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
NINFA Erika Asphodel
12
13
14
15
16
continua...
UNA DONNA COL CERVELLO: intervista a mauro nigro di francesco elisei Io e Mauro ci conosciamo, tramite Facebook, almeno dal 2011, Mauro è il classico artista eclettico, che non riesce mai a fare una cosa alla volta: scrittore, sceneggiatore, regista e videomaker, musicista, cantante…playboy? Mauro fa parte della Mokapop Community ed è per questo che siamo particolarmente orgogliosi della sua vittoria al FI PI LI Horror Festival (tenutosi a Livorno questo Aprile) nella sezione “horror e thriller” col corto “Una donna col cervello”! (guarda il trailer: https://www.youtube.com/ watch?v=xZy74MSsuzk ) Quindi vogliamo mostrarvi alcuno dei suoi bei videoclip, ecco i link, andate subito a vederli: https://vimeo.com/71902201 https://www.youtube.com/watch?v=y--Jx3LfM6k https://www.youtube.com/watch?v=xtqeiGwYGeQ E adesso proviamo a fargli qualche domanda! D: intanto complimenti per la tua vittoria al festival FI PI LI! Mi diverte molto l’idea che tu venga dai video musicali…devo forse paragonarti a Michael Bay? R: in realtà io vengo da anni ed anni di visione di film. Quando ancora nemmeno sapevo come fossa fatta una telecamera. Immagino questo aiuti molto. Poi c’è stata anche un bel po’ di esperienza in televisione (aaaaaggggh sento già quelli di accademie, dams e scuole sperimentali gridare dal dolore), che mi ha dato velocità, praticità e capacità tecniche. Più un’attitudine: se vuoi una cosa e nessuno ti dice che si può fare, fattela da solo. Poi ci sono i quattro corti fatti, “Una donna col cervello” compreso, in cui prendo assolutamente tutto il tempo che voglio. Però i videoclip sono davvero un ottimo mezzo, se sfruttati nel modo giusto. Per me non ha senso alcuno fare il semplice playback con il cantante figo ecc. E’ noioso ed onanistico. Puoi raccontare piccole storie brevi che hanno due vantaggi. Enfatizzano la musica ed al contempo trattengono lo spettatore. Questo permette di far ascoltare tutto il pezzo fino alla fine. Direi che è abbastanza importante. Nel mentre si può sperimentare visivamente. Da
idee minimali ad effetti speciali. D: quanto è difficile, in Italia, coltivare il sogno di fare cinema? E soprattutto: perché sei ancora in Italia? Dal mio punto di vista quasi impossibile. Sono nato nella periferia geografica. Oggi con l’avvento delle nuove tecnologie le cose sono cambiate molto, rendendo materialmente possibili delle buone autoproduzioni o produzioni low budget(o ancora meglio no budget). Ma il cinema quello “vero”, dove girano i soldi e si ci può campare, è ancora altrove. Con amici stiamo provando a cambiare un po’ di cose (vedi la fondazione della RETE CINEMA CALABRIA, unione di alcuni di quelli che vogliono fare questo mestiere nella mia regione), ma credo sia un processo lungo di cui io non vedrò, temo, i frutti direttamente. Resta la passione. Perché sono in Italia? Sinceramente perché forse sono già troppo vecchio per andarmene. Ho iniziato questo mestiere comunque tardi(sottolineo mestiere. Io sono un mestierante. Gli artisti con me non c’entrano). Temo che non sia più possibile attraversare il confine, se non con qualche corto, come fortunatamente già successo. Poi non si sa mai. Attualmente non so neanche per quanto riuscirò a fare questo lavoro. D: cinema e fumetti, e soprattutto: cinecomics. Dicci la tua! 17
Cinema e fumetti sono un binomio quasi inscindibile. Si alimentano vicendevolmente da sempre. Spesso in maniera non dichiarata. Però credo sinceramente che siano estremamente vicini. È il concetto di esprimere qualcosa per immagini. Che, detto sinceramente, è più rischioso che nella semplice scrittura. Scrivendo(cosa che faccio anche, male, come tutte le cose), se sei bravo a coinvolgere il lettore poi lo stesso fa tutto da sé. Costruisce la sua estetica nella sua fantasia. Con video e fumetti rischi. Sei tu che dai una connotazione visiva. Non è detto che questa piaccia a chi la vede. Le similitudini sono molteplici, ma il tedio parlandone è dietro l’angolo. I cinecomics. Mamma che argomento vasto. Alcuni li amo altri li odio. Sicuramente, come sempre capita, l’eccesso produttivo non aiuta. Si è passati dal vuoto totale ai 8474747 film all’anno sui supereroi. Non tutti i supereroi ed i fumetti credo fossero adatti ad una trasposizione cinematografica. In alcuni casi è mancata coerenza e coraggio rispetto agli originali. In altri, semplicemente, c’è un’unica trama ripetuta per fare sfoggio di effetti speciali. (cheduep….!!!). È un po’ quel che sta succedendo anche nel mondo dei fumetti. Soprattutto in alcuni molto noti. Schemi spacciati per “alternativi” riproposti alla nausea. Però resta il dato di fatto che vedere Spiderman, Batman e Watchmen degnamente riportati sullo schermo è stata una gioia. D: il tuo corto “Una donna col cervello” ci offre la scusa per parlare di scrittura cinematografica: se non erro tutto nasce da un tuo racconto breve che solo successivamente si trasforma nel corto che ha vinto il festival … Nasce prima il racconto. Poi (udite!udite!) una versione a fumetti che ebbe anche un certo gradimento online ed in ultimo il corto. Che ha avuto una gestazione lunghissima!! Sinceramente io scrivo “per immagini”. Cioè in testa mi faccio già un film. Stavolta quindi è stato facile trasporlo. L’idea e la volontà sarebbe quella di farlo anche con altri racconti. Se ci riesco. D: ma i “piccoli” festival come il FI PI LI possono essere un aiuto concreto per un aspirante regista? Raccontaci la tua esperienza! Non so cosa succeda dopo aver vinto un festival. Sicuramente in soli due giorni ho avuto un sacco di visibilità. Ma tanta. Anche perché, diciamoci la verità, il Fi.Pi.Li. sarà un festival con un budget non enorme, ma a livello qualitativo è fenomenale. (lo dicevo anche prima di vincere. 18
Credo si possa verificare con pazienza su Facebook con post dell’anno scorso. Ahahahah). Sai di essere giudicato da gente che nel settore ne capisce. Non trovi giurati che sono convinti che mettere ‘na musichetta classica sotto immagini stile National Geographic sia intellettuale. Hanno una base di conoscenza e di visioni forte. Il festival in sé propone cose interessanti al di là del concorso. Quindi solo esserne stati partecipanti era favoloso. Vincerlo era impensabile per me. Per ora mi godo la gioia. Il resto si vedrà. D: chiudiamo con una domandona: come vedi l’horror cinematografico di questi anni? E l’horror made in italy? Pensi che abbia un futuro? Qui parlo principalmente da spettatore. L’horror è vivo. Estremamente. Le idee migliori vengono da produzioni lontane da Hollywood e dai soldi, in linea di massima. Ma ci sono. Ci sono cose estreme e meno estreme. Ma idee ce ne sono. È davvero, forse, l’unico genere che può vivere in eterno. Perché si può inventare sempre un nuovo modo di colpire la “paura” delle persone. Il problema delle maxi produzioni è sempre l’incapacità di osare, unita alla ripetizione del clichè, che cerca di vivere, magari, sull’effetto speciale. In Italia di tanto in tanto mi capita di beccare piccole perle (mi viene in mente Ubaldo Terzani Horror Show). Di molte ne sento parlare proprio perché magari vengono premiati in festival di genere. O per il passaparola fra i patiti. Quindi siamo sempre lontani dalle case di produzioni che ci propinano inutili drammoni o commedie sentimentali di poco spessore. La speranza è che film come “Lo chiamavano Jeeg Robot” e “Veloce come il vento” cambino davvero la situazione. Abbiamo bisogno di film di genere (chiamiamoli così, ma è riduttivo). Di film che osano tecnicamente, fatti bene visivamente, senza essere stucchevoli, che però mantengano uno stile italiano, personalità. Come è successo, per esempio, in ambito autoriale (Sorrentino ovviamente, ma molto di più Daniele Vicari). Abbiamo bisogno di film coraggiosi, fatti bene, estremi anche. Non modaioli. Soprattutto ci sarebbe bisogno di economie per farli bene questi film. Grazie per averci concesso un po’ del tuo tempo, Mauro, e ci becchiamo su Mokapop!
19
20
21
22
23
L’omino dalla faccia triste di Stefano “BZI” Bonazzi L’omino dalla faccia triste arrivò un pomeriggio di Ottobre con il locale delle 15.47. Tutti quelli che nel paese di Roccapepe, 15 km da Ovada, si trovavano in quel momento per strada lo notarono subito: un omino vestito con un completo elegante nero, con una cravattina altrettanto nera, che trascinando un trolley da viaggio avanzava fradicio sotto il diluvio. Non passava inosservato. Quando, nei giorni successivi, si seppe che l’omino aveva preso una camera nell’unica pensione di Roccapepe, famosa per essere presa d’assalto da decrepite vecchine in cerca di refrigerio dalla calura della metropoli durante l’estate, ma desolatamente vuota nel resto dell’anno, in molti si chiesero cosa fosse venuto a fare in quel paesino d’Appennino a cavallo tra il Piemonte e la Liguria. L’omino, incurante dei pruriti degli abitanti, si accomodò a Roccapepe. Nella settimana successiva al suo arrivo in paese, quella che in seguito venne ricordata come la settimana più piovosa del dopoguerra, l’omino si mise a passeggiare per le strade, chiacchierando del più e del meno con chi incontrava , sempre cordiale, sempre con modi estremamente garbati. Il Fiorenzo Ottonello, padrone dell’edicola dei giornali, ci entrò un poco più in confidenza e racconta ancora oggi che l’omino, presentatosi come ragionier Giordani, parlava in maniera tranquilla, senza mai scomporsi, chiedendo dei cittadini del paese e mostrandosi felice, ma solo per un secondo, quando gli venivano raccontati aneddoti sulle loro abitudini. L’Ottonello ricorda che gli occhi dell’omino, persi in quel volto perennemente solcato da un espressione di velata tristezza, si accesero solo una volta, quando gli parlo dell’esistenza dell’Ospite. L’Ospite era Giuseppe Granbassi, corpulento sessantenne venuto a vivere in paese circa due anni prima e che, in virtu’ dell’accento non propriamente piemontese, tradiva profonde ascendenze meridionali. Il ragioniere Giordani, l’omino, si incuriosì, chiese maggiori informazioni e seppe che il Granbassi tutte le sere alle 19,45, minuto più minuto meno, andava a prendersi un caffè al bar Torino nella piazza principale di Roccapepe. 24
Cosa accadde poi in seguito lo si può leggere sulle pagine di cronaca dei quotidiani usciti in quei giorni. L’omino la sera stessa si fece trovare al bar, attese che il Granbassi si gustasse il proprio espresso e poi, una volta uscito, lo segui nella pioggia. Sempre con il suo completo elegante e la sua cravattina. Fatti pochi passi sotto il diluvio l’omino urlò un nome: “Salvo…” Quello conosciuto come Granbassi, raccontano i pochi testimoni presenti nella piazza, si girò con sul volto un espressione che pareva dire “ma che minchia…..” L’omino estrasse una pistola, anch’essa piccolina, la puntò con calma e sparò, dritto al cuore, come se non avesse fatto altro tutta la vita che ammazzare cristiani. Le cronache ci raccontano che, in realtà, il morto si chiamava Salvo Accoppacavallo, boss della famiglia Accoppacavallo, e che, dopo una vita di delitti e ammazzatine. era diventato collaboratore di giustizia e, sotto copertura ed in incognito, era stato trasferito a nord, nella fattispecie a Roccapepe. Dell’omino dalla faccia triste invece si perse ogni traccia. Nel tg delle 20.00 quella sera dissero che probabilmente era un killer professionista ingaggiato dagli ex sodali di Salvo, qualcun altro in paese disse che doveva essere il padre di un ragazzo ammazzato anni prima dall’Accoppacavallo ed in cerca della giusta vendetta. La versione più strampalata la diede però il Franchi, uno dei testimoni dell’omicidio, il quale raccontò che, una volta sparato, l’omino scomparve nella pioggia, come se non ci fosse mai stato, come se si fosse dissolto nel nulla. Al bar del paese tutti cominciarono a disquisire di angeli della morte, vendicatori ultraterreni e altre corbellerie di questo tipo. Ma cosa volete, e’ il problema dei paesi dove accade poco, la gente e’ impressionabile e la grappa e’ buona. L’unico dato certo però è che quella sera smise di piovere e finalmente terminò la settimana che tutti ricordano come la più piovosa del dopoguerra.
ALIENI Bruno Farinelli 25
di Claudio Cosentino
26
27
28
Il lungo inverno di Riccardo Sciarra Nevica. Nevica da tre giorni e a Lucia non importa. Non importa se sia neve o coriandoli, panna o zucchero. Le piace. E lo sa, senza capirne il perché. Riesce a vederlo senza sforzo, senza difficoltà alcuna: il bianco del nevischio come base per i colori del fantastico. Distende l’infantile immaginazione che il tempo ancora le concede sul foglio vergine che la terra ha creato per lei. Giravolte di rosso, capriole di verde e saette di giallo, niente le sfugge e nessuno la ostacola in quella che sembra la genesi del capolavoro dei capolavori. Chissà se anche Lui, in una mattina di Dicembre, si è trovato di fronte uno spettacolo simile e, nell’impeto e nella gioia, mescolando e spostando, altro risultato non ebbe che un minuscolo soffio di Vita. Lei, ignara del risultato, smonta e aggiusta, affianca e ribalta, sensazioni e immagini in una giravolta di meravigliose impressioni e mirabolanti esperienze. Forse anche Lui, capace di tutto il possibile, stupito, straniato, non seppe spiegarsi il perché. Lei intanto, con la sicurezza dell’alba che succede il tramonto, si sbriga ad assemblare il tutto come in un regalo, un dono per sé. E come in uno strano romanzo, l’autore è l’ultimo a capire, il primo a non capacitarsi del finale, a non rendersi conto di come abbia fatto. Lucia accoglie il presente così come se l’è creato, lo svela e assapora. Non sa il perché, ma le piace. Magari è capitato anche a Lui di perdersi in una lunga distesa ghiacciata e accogliente, brulla e affascinate. Forse anche Lui ha gustato il lungo inverno della fantasia.
29
30
Foreste dannate di Alberto Cotevino Quando pianti un seme Esso germoglia Te ne prendi cura E quello cresce dritto Diventa pianta Ed infine, Come nulla fosse, Ti dona dolci frutti Ricambiando l’amore Regalando piacere Donando un sorriso… Così un tempo Vivevano uomini Saldi come piante Flessibili come bambù Cosa potevano desiderar di più? Forse l’acqua Forse il nutrimento Od un nuovo seme Che alle foreste dava incremento… E ora? Ora si taglian i tronchi a vicenda Gli han datto un nome
CALLIOPE Francesco Segala
L’han chiamata guerra.
31
32
ok, Bravo Zebra 4, pasSare a modulo da combatTimento,
pronto ad esSere lanciato su ultima rilevazione obietTivo.
33
? 34
35
36
LOW DISTRICT POWER PLANT illustrazione e poesia di IVAN PADUANO
Mi sfugge la notte da quando ci sei esclusiva non è
nelle sue piene stanze
nei suoi colori e profumi segreti eppure dividerla
è un sogno antico grande tanto
quanto la mia voglia di te.
37
38
39
40
41
42
43
44
continua...
45
46
47
48
49
50
DESTINAZIONE PARADISO di Francesco Elisei Il bambino è a sedere, sospeso nel cielo. Ha gli occhi chiusi, quindi sta dormendo. Qualcuno lo chiama, una voce sottile, forse una voce di donna o forse no: -svetto mu? Ancora: -sveglio tu? Il bambino apre gli occhi con grande fatica. -parlare tu Nikla, se no Nikla preoccupare, sì? Il bambino è a sedere, sospeso nel cielo, dinanzi a lui un essere molto alto, indossa una tunica bianca, lunghi boccoli biondi gli incorniciano il volto. -sveglio tu? Il bambino inizia a prendere coscienza, si guarda intorno, dinanzi a sé l’essere biondo, tutt’intorno solo il blu del cielo e candide nuvolette a pecorella, e sotto? Sotto ancora cielo, però lui poggia sul duro, non è esattamente sospeso… E il tizio alto ha forse due enormi ali attaccate sulla schiena? Due ali piumate bianche? Forse è meglio dire qualcosa, pensa il bambino, magari il suono della mia voce rimetterà le cose al loro posto:-o sto sognando o sono morto! -Nikla, tu? -sono in cielo tra le nuvole! -conoscere piacere tanto! Nikla sì? -i’m walking in the sky! Posso c.. AHIO! THUD! Il bambino, prim’ancora del dolore, sente il suono vuoto della sua testa che
rimbalza contro un ostacolo, forse una parete? Una parete trasparente? -no aperto, chiuso! Sì? -AUHHHHHH!! Ma porca puzzona schifosa! Che male! E mentre si regge la rintronata capoccia, finalmente fissa quell’essere per bene in faccia, una faccia dimenticabile, non fosse per quei boccoli biondissimi. -s-sei un angelo! Ho appena imprecato davanti un angelo! Finalmente l’emotività gli si risveglia:ODDĩO! SONO MORTO! SONO MORTO! L’angelo afferra delicatamente il bambino, calmandolo immediatamente, e lo guida nei movimenti, mettendolo infine a sedere su… un oggetto, una sedia? -calmo ora fai, sedere Nikla con comodo! Prima la sua testa, poi il suo sedere: tutti i sensi gli dicono che si trova dentro una stanza, accomodato su una sedia, una non troppo imbottita, con lo schienale rigido. È tutto concretamente vero, semplicemente è invisibile; quindi il bambino inizia a visualizzare una stanza sospesa in cielo, completamente trasparente. Dopo aver visualizzato la stanza, il bambino visualizza la sua situazione: è prigioniero. E l’angelo? È un carceriere o è prigioniero come lui? I due ora sono entrambi a sedere, uno di fronte all’altro e si confrontano. 51
Inizia il bambino:-siamo dentro una stanza di vetro sospesa nel cielo. -Nikla e tu e cielo! -il tuo nome è Nikla? Io sono Johnatan, siamo in paradiso? -tornare vuoi casa? Casa manca Nikla! -ti manca casa? Ti sei perso anche te in questa stanza? Forse è tutto un sogno… Il bambino cerca di ricordare casa, cerca di ricordare la sua vita, l’angelo è davanti a lui, sembrerebbe attendere, senza fretta. Il bambino non sa cos’è la confessione cattolica, non essendo cattolico, quindi s’immagina di essere in un commissariato di polizia, precisamente nella stessa stanza dove Batman e Joker si confrontano, quella col tavolino bianco. -mi sono comportato male: la scuola non mi piaceva, mi sembrava che mi scoperchiassero la testa e me la riempissero delle loro cose barbose, mentre le cose che volevo leggere io per loro erano stupide. I miei compagni di classe sono insopportabili, cioè, sono proprio puzzosi! I miei genitori invece mi odiano, si divertono a torturami; papà era arrabbiato per la pagella e mi ha spaccato il cannocchiale, dice che invece di guardare sempre in cielo dovrei pensare a fare i compiti, allora sono scappato di casa e mi sono messo a correre per la strada e… e… a me casa non manca! Ecco, gli era uscito così. Finito lo sfogo, il bambino guarda in faccia l’angelo, una faccia dimenticabile, come quelle che si vedono negli spot pubblicitari, però sta sorridendo con gli occhi, chissà perché al bambino fa questa impressione. 52
-con me vieni Johnatan. Il bambino cerca di capire se ha azzeccato la risposta, e soprattutto qual è stato il suo ruolo: se quello di Joker o quello di Batman. Ma non c’è tempo per pensare: l’impressione è che la realtà vibri, il volto dell’angelo sembra distorcersi come un segnale televisivo disturbato e anche il cielo blu con le nuvole a pecorella sembrerebbe deformarsi e ricomporsi in continuazione. Poi l’angelo gli mette una mano sulla spalla, il bambino sente uno scatto dentro la testa e all’improvviso si vede dall’esterno, è come se vedesse un film con lui protagonista: nel film vede sé stesso e l’angelo a sedere, sospesi nel cielo, poi intorno a loro s’inizia a intravedere una forma grigia, un oggetto simile ad un piatto rovesciato che li contiene, loro si trovano all’interno. L’oggetto si solidifica sempre di più, come se un pittore lo stesse colorando, fino a che i due all’interno spariscono dalla vista. L’oggetto inizia a ruotare su sé stesso, prima lentamente, poi freneticamente, nel mentre la cinepresa dell’ipotetico film si allontana e il bambino vede il disco volante (è un disco volante, un UFO!) spararsi verso l’alto, fino a sparire, lasciando solo, per pochi secondi, un intenso puntino giallo. Il bambino non sarebbe mai più tornato a terra.
la pietra di
53
54
Queste tre tavole rapPresentano il prologo di "La pietra di Wolo", una storia in lavorazione che vedrĂ la luce nei prosSimi mesi. Continuate a seguire Mokapop e Ronin per saperne di piĂš!
55
Una notte come tutte le altre
parte 3
di francesca piantanida Picchio si stringe nelle spalle, non crede mai quando gli dico che un maschio alto, tonico ma snello, pallido ma corvino, attirerebbe donne a frotte anche senza gli extra, dove per extra intendo una soprannaturale proprietà magnetica nello sguardo e nell’odore che cattura gli ormoni a livello inconscio paralizzando gli astanti… e che serve a uccidere. Non so perché ma sul suo aspetto è dannatamente timido e schivo, anche se so per certo che non disdegna la compagnia femminile (e temo che questo sia costato parecchio a più di una ragazza mortale). Personalmente trovo questa sua ritrosia comica ed in genere tendo a prenderlo in giro sull’argomento; stasera non va diversamente e, complice anche il sangue alcolizzato dei ragazzi che mi scalda, finiamo a ridere e scherzare come due persone qualunque, in questa serata qualunque, normale, semplice, quasi rilassante, senza niente che turbi la nostra routine fatta di ammiccamenti ad un mondo di gente che ci crede parte di loro, mentre in realtà viviamo tra di noi e li osserviamo pronti a colpire, come lupi mascherati da cani pastori, che si ostinano a vivere in mezzo al gregge, e per abitudine finiscono per riportare ogni sera le pecore sane e salve all’ovile. Una serata normale, insomma, una tranquilla serata normale, come milioni di altre in decine di altri locali per la città in cui nessuno degli 56
avventori abbia un solo motivo per temere per la propria incolumità. E’ per questo che resto ancora più turbata quando lo sento. Ormai il pub ha chiuso, e ci stiamo già riavviando verso casa, è inverno, abbiamo ancora molte ore di buio davanti, stiamo chiacchierando su cosa fare una volta tornati, guardare un dvd, dedicarci ognuno ai fatti propri… Picchio guida come al solito oltre le regole ed in pochi minuti siamo già alle porte del cancello di casa, immersi nel surreale silenzio che c’è in quest’area verde incastonata tra gli scempi edilizi che la sovrappopolazione ha prodotto un po’ ovunque qua in città; stiamo ancora ridendo a proposito delle due bionde, una delle quali, decisamente alticcia a fine serata, si è proposta di lasciare una lauta mancia a Picchio pur di venir soddisfatta in natura…tra le occhiate roventi di Barbara, le mie malcelate risate ed il suo assurdo, incomprensibile stupore. “Barbara è pazza di te, le avrebbe uccise quelle due” “Ah, piantala di dire idiozie… lo sai che Barbie è solo un… o cazzo, è umana quindi esattamente amica non è che posso definirla però.. beh sì dai, Barbie è il mio coniglio… non la berrei mai ma per il resto… in fondo sono solo il suo capo” “Mi rendo conto di uscire dal mio campo di competenza, ma non mi risulti che questo sia un deterrente per alcuna femmina umana,
anzi, che abbia sentito in giro per alcune è addirittura un incentivo…” “Smettila dai, e anche se fosse che ha una cotta per me, cosa c’è di comico?” “E me lo chiedi? Mi piacerebbe vedere la scena” “Sei veramente impossibile, che ci faccio, la invito a cena?” La sola prospettiva, e tutti i possibili doppi sensi legati all’argomento, ci fanno scoppiare a ridere entrambi, ancora in auto davanti al cancello chiuso, al buio, in un’auto senza tettuccio ridiamo senz’ alcun freno, senza timore che qualcuno possa udirci, non perché calcoliamo che il rombo della nostre gole sia coperto dal costante sottofondo della città (auto-ambulanze-stereo-allarmi-liti), che come un fiume in piena ormai è entrato nel cervello di tutti gli abitanti, i quali ormai lo notano soltanto nei viaggi in campagna, quando d’improvviso ne vengono privati… Non è per questo, ridiamo senza freni semplicemente perché in una serata così tranquilla e comune nulla farebbe mai venire in mente di comportarsi in un modo che sia qualcos’altro che non spontaneo… Istantaneamente mi blocco, qualcosa mi blocca, anche se sulle prime non capisco cosa, ma di colpo sono sobria, non ho più voglia di ridere e, inspiegabilmente, sono vigile, all’erta come se fossi assetata da mesi… E’ un odore, ed è freddo. Sudore freddo mi scende lungo il collo, in piccoli rivoli cremisi, striature di sangue altrui che l’improvvisa concentrazione sta facendo trasudare dal mio essere anziché circolare nelle vene. Chiudo gli occhi e cerco di concentrarmi. Tocco il sudore con un dito: non va bene, non dovrei sentirmi così, non stasera, stasera sono talmente ebbra che non ho neppure percepito una gomitata nelle costole, quindi delle due una: o è qualcosa di veramente molto grosso,
oppure è qualcosa che esplicitamente sta facendo in modo di farsi sentire da me. Nessuna delle due opzioni è piacevole, qualsiasi cosa sia mi sta scuotendo nel profondo, sento le vene ai polsi vibrare, insieme alla base della colonna vertebrale, il corpo scuotersi mentre inalo l’aria a pieni polmoni per sentirlo ancora, per capire di che diamine si tratti. Odore, freddo, difficile da descrivere, l’unico odore freddo che potrei usare a paragone sarebbe la menta, ma non vi si avvicina neppure lontanamente. Picchio continua nel suo scroscio di risate, poi si accorge che qualcosa stona, manca la mia eco al coro, e lentamente, scemando a poco a poco di volume, smette di ridere , si volta e mi guarda; sulle prime non capisce perché sia così rigida, ad occhi chiusi, fa un gesto noncurante e si piega verso il cassetto portaoggetti per prendere il telecomando del cancello, poi vede la mia mano serrata sul sedile ed i suoi occhi si sgranano verso di me, in cerca del tassello andato fuori posto che mi abbia messo così in allarme. E’ come se mi avessero infilato il ghiaccio nel naso: non ha una fragranza precisa, è distante e non riesco a riconoscerlo, è al contempo pungente e vago. Non ci riesco, non so cosa sia, pare fatto in modo da confondere, come se fosse troppo riconoscibile come odore pure, e fosse stato camuffato con litri e litri di aromi artificiali. Un lievissimo spostamento nella pressione dell’aria intorno al mio corpo mi fa capire che Picchio sta cercando di sfiorarmi un braccio. Spalanco gli occhi a guardarlo, col fiato corto… ”Direi che ti è passata la sbronza Madda, ho sì e no spostato una falange stavol..” “L’hai sentito?” “…ta. Sentito cosa?” “L’odore” sibilo con rabbia… lui scuote la testa molto lentamente, improvvisamente 57
preoccupato dal mio scatto, non riesco a dargli torto, non riesco neppure io a spiegare perché tutto ciò mi dia così fastidio. Non fastidio, siamo onesti, la realtà è che, d’un tratto, ho paura. La sento come una mano che mi avvolge e mi stringe, sento il calore abbandonare il mio corpo insieme ai rivoli gelidi che ormai dal collo stanno diffondendosi ovunque sul torace, sul seno, in una morsa umida e fredda, percepibile come dannosa anche da chi, come me, essendo già morto, non ha proprio nulla da temere da uno sbalzo di temperatura. Debole ma preciso, lontano ma costante, gelido e penetrante: sono stordita, è come aver aspirato un pezzo di rafano, ormai non riesco quasi a percepire altro. Un lungo e profondo sospiro, mentre Picchio parcheggia sempre più perplesso nel box, il fatto che lui non senta nulla chissà perché non mi rassicura affatto… Apro gli occhi un pochino più calma, all’interno la scia non riesce a seguirmi,
abbasso lo sguardo e noto che sotto il lupetto di acrilico nero è incrostato di piccole macchie umide, devo avere l’intero corpo insanguinato, spalanco la porta di casa con tutta l’intenzione di farmi un bagno caldo. Il pianterreno è un unico ampio salone con camino: non abbiamo bisogno di cucina né di bagni per i bisogni fisiologici, quindi ho fatto abbattere ogni muro di quel livello e vi ho disposto un grande tappeto peloso marrone scuro, che si intona con le assi in legno del pavimento, grandi e comodi divani, fatti per passare il tempo a parlare nelle lunghe ore di buio delle serate invernali, ed un tavolino basso al centro, per poggiarvi i piedi. Una parete è completamente vetrata, da’ su un patio e sul giardino, le altre tre sono ricoperte da scaffali ricolmi di libri, cd, dvd, schermo lcd e quant’altro ci si aspetta da chi ha come unico scopo dell’esistenza far passare il tempo che scorre all’infinito; un angolo in fondo è occupato da una scala a chiocciola che contemporaneamente sale in soffitta e scende in cantina.
continua... 58
59
60
61
62
63
64
65
66
67
68
Gli ultimi di MATTEO GATTo Abbiamo chiuso Rose nell’altra stanza. Mia moglie aspetta di sapere chi tra me, Søren e David andrà ad aprirle la porta, e con quali intenzioni lo farà. Non so perché abbiamo pensato che sei centimetri scarsi di legno tarlato potessero tenerla al sicuro da qualunque esito avrà la nostra piccola riunione, ma del resto non ho nemmeno idea di cosa potremmo fare con lei una volta stabilito chi tra noi tre è organico. Nemmeno l’estinzione concede a un uomo la tranquillità di potersi rassegnare. Il panico ci ha davvero reso così ingenui da credere che potremo ripopolare? Sarebbe bello poter scrollare le spalle, sederci assieme ai sintetici e accettare la sconfitta. Dire semplicemente: “avete vinto. Il pianeta è vostro, chiudeteci in una riserva e lasciateci morire in pace.” Prima, parlando, siamo quasi riusciti a raccontarci che vogliamo solo provare a sopravvivere come specie. In realtà sappiamo benissimo che stiamo cercando di guadagnare tempo per noi stessi. Persino chiudere mia moglie nell’altra stanza e cercare di capire chi tra noi tre sia l’ultimo uomo rimasto sulla faccia della terra ci è sembrato più dignitoso che sederci in un angolo e iniziare a piangere. Søren è nervoso. Lo capisco dal canne mozze che tiene appoggiato alla coscia. Il tallone del mio amico batte un ritmo scomposto contro il pavimento grezzo, facendo oscillare il fucile. È un male che Søren non riesca a tener fede al suo soprannome, “il gigante dei ghiacci”, perché in questo momento è l’unico ad avere in mano un’arma da fuoco. David, invece, è silenzioso e siede composto all’interno del cerchio di sedie. Sembra quasi che non sia qui con noi. “Ci sono due ebrei e un mezzo finlandese chiusi in una stanza in Minnesota...” dico, per spezzare la tensione. David mi guarda di sottecchi, con quel suo sguardo che non lascia mai capire se sia divertito o annoiato o un po’ entrambe le cose. Søren scuote la testa con violenza. “Non cominciare” replica, senza guardarmi negli occhi. “Poteva andarci peggio” fa David, indicandolo senza smettere di guardarmi. “Poteva essere tedesco.” Ridacchio. “Vaffanculo!” sbotta Søren. Si alza in piedi e brandisce il canne mozze, senza veramente puntarlo su qualcuno. Io metto avanti le mani avanti a me e premo il corpo contro lo schienale della sedia fino a sentire il legno gemere. David non fa una piega e Søren lo nota.
“Guardalo” mi dice. “Guardalo, Adam!” “Non vuol dire niente” rispondo io. David fa spallucce. “Guardalo!” insiste Søren. “Gli punto in faccia un fucile e non fa una piega.” Già quando siamo in piedi, Søren ci passa di tutta la testa; a vederlo da seduti sembra sul serio un gigante. Un gigante armato. “Semplicemente sa che non sparerai” gli dico, ma non ne sono troppo convinto. Mi alzo anche io, lentamente. Le gambe della sedia strisciano contro il pavimento. Søren si gira e punta l’arma contro di me. “Sta’ buono lì” dice, alzando la voce. Il dubbio la rende stridula. “Per quanto ne so, sei un pezzo di plastica pure tu.” Tengo le mani alzate all’altezza delle spalle e deglutisco. “Per quanto ne sai, per quanto ne sanno anche loro prima di accorgersi di essere diversi, il sintetico tra noi tre potresti essere tu.” Søren si morde il labbro e anche David si alza in piedi. “Come vogliamo fare?” chiede. Non ne ho la più pallida idea, e lo dico. “Li costruivi tu” fa David. “Ci lavoravi sopra.” “Sì, e mi ricordo ancora come mettere in piedi un endoscheletro” replico. “Ma sai bene che non ho messo le mani sulla loro I.A., mai. Un test di Turing va al di là della mia portata.” “Prima che scoppiasse il casino io studiavo legge e Søren era in catena di montaggio” replica David. “Quindi chi si avvicina di più al tipo di genio che ci potrebbe tornare utile, tra di noi, sei tu.” “So ancora distinguere un osso umano da uno sintetico, ma da qui a dire che la soluzione al nostro problema sia spolparci un avambraccio per capire chi è cosa...” “Basta guardarli negli occhi” mi interrompe Søren. “Come facevamo quando c’era la guerra. Li guardi negli occhi e lo capisci subito che sono di plastica.” Alza il fucile verso David. “Come questo qua. Non ha paura, non sa cosa vuol dire avere paura.” David contrae la mascella. “Si è visto dove ci hanno portato menti brillanti come la tua, mentre eravamo in guerra” dice. “Non sai cosa vuol dire vedere la tua casa fatta a pezzi” continua Søren. “No? Tutti abbiamo perso qualcosa” gli risponde David. La mano di Søren comincia a tremare e lui stringe la canna con più vigore. “Non sai cosa vuol dire trovare tra le macerie i pezzi dei tuoi bambini e contare braccia e gambe per vedere se manca qualcuno” incalza Søren. “All’improvviso ti sembra così importante che non manchi niente.” 69
“Stiamo calmi” dico. Ora anche la mia voce è stridula. Tocco una spalla di Søren ma lui si scosta. Il suo sguardo è fisso addosso a David. “Hai gli occhi vuoti. Non te ne frega niente perché non sai cosa vuol dire provare dolore.” “Søren, abbassa il fucile” mormoro. David è immobile al suo posto, i pugni lungo i fianchi. “Te lo leggo negli occhi” continua Søren, “non te ne frega niente.” Preme il grilletto e David esplode. Urlo ma l’eco dello sparo continua a martellarmi in testa, coprendo tutto. Il corpo di David fa in tempo a cadere in terra, al posto della testa un giardino fiorito di rosso. “Mio figlio!” urlo. Rose, di là, picchia contro la porta. “Mio figlio!” urlo di nuovo. Mi giro verso Søren e allora capisco. Il mio amico di una vita, il gigante dei ghiacci, se ne sta in piedi tranquillo con in mano il fucile e i suoi occhi sono vuoti. Non gliene frega niente. “Mio figlio” grido ancora. Mi lancio contro Søren. Non fa in tempo a girarsi: forse è distratto, impassibile nei lineamenti ma troppo impegnato a scendere a patti con ciò che ha appena scoperto di sé per far caso a quello che gli succede intorno. Perché è così che molti di loro si accorgono di essere sintetici: riflettono sulla pace che li pervade dopo aver compiuto atti di insensata violenza. Non c’è test di Touring che tenga. Lo colpisco al volto con un pugno. Il gigante barcolla, incespica sulla sedia alle sue spalle e perde la presa sul fucile. Lo raccolgo per la canna e picchio il calcio contro la fronte di Søren. La sua testa rimbalza contro il pavimento, il collo che frusta l’aria con un angolo strano. “Mio figlio!” urlo dopo ogni colpo. Non sento niente al di là della mia voce e dei tonfi dell’arma contro il cranio del mio amico e dei pugni di Rose contro il legno della porta. Dal fucile parte un colpo che mi manca di poco: lo scaglio lontano e finisco il lavoro a mani nude. Non sento dolore, non mi fermo nemmeno quando la testa di Søren non ha più una forma riconoscibile. A ogni colpo sento che mi importa sempre meno di lui, di David, della guerra, di tutto quanto. Quando mi alzo in piedi, mi accorgo di star respirando solo perché lo voglio io. Mi giro verso il corpo di David. Il suo volto non esiste più, ma le ossa della colonna sporgono oltre la pelle e la carne. Faccio un passo indietro e il mondo inizia a girare. Le vertebre di David sono dello stesso colore di quelle finte ossa maledette: quell’azzurro asettico macchiato di polpa rossa che a suo tempo avevo inventato, assemblato, riprodotto, venduto e infine combattuto. Mio figlio era uno di loro. Cerco un punto fermo all’interno della stanza, ma incontro il cadavere di Søren. Le fratture esposte del cranio mostrano quello che già sapevo: azzurro asettico macchiato di rosso. Non sento niente. Non riesco a sentire niente, non so se prendere a calci il corpo di Søren, abbracciare quel che resta di David o correre da Rose ma nulla di tutto 70
ciò mi appare come una reazione naturale e così me ne rimango fermo. Mi guardo le mani. Non provo niente. Neppure quando tra le macchie della pelle lacera scorgo le mie nocche esposte, anch’esse azzurre e macchiate di rosso. Rose ha smesso di picchiare contro la porta. La sento singhiozzare. Forse aspetta ancora di sapere chi di noi avrebbe dovuto essere l’ultimo uomo rimasto vivo sulla terra. L’ultimo residuo del programma Adam, in me, riesce ancora a provare un briciolo di dispiacere per la delusione che non potrò risparmiarle. Mi muovo verso la porta e ogni passo è più leggero del precedente: ora so qual è il mio compito. Guardo intorno a me: ogni oggetto in questa stanza è niente più che una variabile fisica che esprime una possibilità che a livello atomico si è realizzata per uno degli infiniti versi possibili in questa dimensione. La potenza, l’ordine e l’atto logaritmico che compongono la realtà prendono forma nella mia mente fino a quando riesco a concepire come parte di una bellissima formula matematica anche i cadaveri in terra. Ora so, ho uno scopo, vedo l’umanità per quello che è: un caotico insieme di diesis e bemolle che turbano l’ordine di una scala in Do maggiore, la goccia di colore che cola da una netta pennellata di acquarello turbandone la perfezione e la linea. Un errore di calcolo del quale, per l’ultimo istante in cui sono in grado di farlo, mi vergogno di aver fatto parte. Apro la porta quel tanto che basta per scivolare nella stanza, la richiudo e mi ci appoggio contro. Rose è seduta sul letto e piange, nascondendosi il volto tra le mani. Quando alza la testa e mi vede, lascia andare un sospiro di sollievo. “Sei tu” mormora. Annuisco e nascondo la mano ferita dietro la schiena. Lei non aggiunge altro, non chiede nemmeno di David. Si alza dal letto e mi viene incontro, allungando le braccia. Si aggrappa, mi stringe a sé così forte che per qualche secondo neppure mi accorgo del coltello. Quando Rose si stacca da me, vedo il manico sporgere dal centro esatto del mio sterno. La lama è penetrata sotto la cassa toracica, ha bucato il diaframma ed è salita fin dentro alla trachea, tra i polmoni, tagliandola a metà. Lo so, lo sento, lo calcolo. In un certo qual senso, penso mentre le mie ginocchia si abbattono sul terreno, anche questa è matematica. Bellissima. Quando guardo in alto, verso mia moglie, la trovo in piedi, impassibile e a braccia conserte. Aspetta semplicemente che io muoia. Glielo leggo negli occhi: non gliene frega niente. La mia testa batte in terra mentre penso a come non abbia mai sentito Rose così affine, così cosa sola con me come adesso. Non sento dolore. Non sto morendo: mi sto spegnendo. L’ultimo uomo sulla faccia della terra era un androide e così l’ultima donna, finché morte non li separi. Me ne rallegro. Ultimo pensiero registrato: vent’anni fa creai io il primo sintetico. Faccio ancora in tempo a chiedermi chi abbia assemblato me.
TEMPO INCOMPLETO Michele Cavalieri D’Oro 71
72