Made in mokapop.com
RONIN mokapop.com N°4 AGO 2017
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Ciao a tutti! Continua la nostra avventura. Continua cercando sempre di dare spazio a tutti gli artisti che fanno parte della community-fucina di Mokapop Plaza e di Ronin Sviluppo. Continuano storie già iniziate e vengono proposte one shot ed esperimenti narrativi di varia natura e genere. Questo nostro quarto è un ulteriore importante passo verso il consolidamento della rivista e dell’approccio che propone. Contempporaneamente a questo numero di Ronin, abbiamo inaugurato il sito (www. roninmag.it), una nuova collana periodica di esperimenti narrativi a tema (il primo numero sarà sul classic horror della Universal e della Hammer) e l’esordio su app con i tipetti di ComiQuibe. Che dire, ci stiamo allargando. Come al solito sono a ricordarvi che potete contribuire anche voi proponendo le vostre opere qui: facebook.com/groups/RoninSviluppo/ Grazie per il supporto e per leggerci. E grazie agli autori perchè senza di loro sarebbe un bel problema... Se volete partecipare alle altre nostre iniziative noi, come al solito, siamo qui: facebook.com/groups/MokapopPlaza/ e anche qui: facebook.com/MokapopStorytellers/
INDICE ALLA RINFUSA EDEN UNDERGROUND Manzetti - Clerici DR. MARKMAN (Pt.2) Perrone - Martinuz UNA NOTTE COME TUTTE LE ALTRE (Pt.4) Francesca Piantanida ZAKK VOID (Pt.2) Orlando - Rotelli LO SCARAFAGGIO (Pt.3) Izzo - Manfredini - Daraghiati - Della Verde ZERO (Pt.3) Rotelli - Cansone ISOLA DEL MALE Paolo Motta COME WHAT MAY Aocso Mocsoa QUATTRO CHIACCHIERE CON SANDRO DOSSI Paolo Motta BZ Bruno Farinelli PAROLA Piegai - Avellis IL PALLONCINO Emiliano Barletta SOLO Baba McKenzie LO SCORRERE DELL’UOMO Cotevino - Zeta
Buona lettura. Pietro Rotelli
JORMUNGAND Andrea Giusto LETTERA ALLA PAURA Paolo Voto LA SOLUZIONE DEFINITIVA Marco Generoso
RONIN
Periodico gratuito online. Progetto editoriale, impaginazione e grafica: Pietro Rotelli Ogni diritto relativo alle storie qui contenute è dei singoli autori, ogni autore si assume la responsabilità dei contenuti della propria opera. www.roninmag.it
In copertina: KINDERGARTEN Fabio Lastrucci 2
RAVEN Aniello Caiazza SILENCE Chialvo - Dea - Asphodel IL GIOCO DELLE AQUILE Sciarra - Di Mauro - Rotelli
Damiano Perrone Stefano Martinuz
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continua...
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L’ISOLA DELLA MORTE by Paolo Motta Oltre che di mercanti venuti da tutte le contrade della regione, il mercato di Kunshà era solitamente affollato, anche da ciarlatani che vendevano pozioni miracolose, amuleti che difendevano dalla malasorte o, in alcuni casi, che predicavano nuovi culti. Sermon l’Inquisitore aveva immaginato che Errakis fosse un personaggio di tale risma e non si aspettava certo quello che vide: un grande palco di legno era stato montato al centro della piazza, sormontato da una figura stilizzata di ferro battuto che avrebbe potuto, con un po’ di fantasia, raffigurare un uomo molto alto e magro. Un gruppo di fanciulle, vestite di lunghe tuniche bianche, cantava inni in una lingua morta, proprio sotto il grande idolo. Sul bordo del palco era stato posto un pulpito con l’immagine di un fiore che spunta da sopra un teschio, segno della vita che rinasce dalla morte. In pratica tutti i consueti commerci che si svolgevano in quel luogo si erano fermati per lasciare il posto alla predica del santone. Fatto stupefacente se si pensa a quanto potere avesse a Kunshà la Gilda dei Mercanti. Un uomo stempiato, con una barbetta bianca che gli circondava la faccia e con addosso una tunica color porpora, chiusa da bottoni dorati, era appena salito sul pulpito. Squadrò la folla con sguardo solenne, quindi allargò le braccia, come se volesse abbracciare tutti i presenti, ed iniziò a parlare, scandendo ogni singola parola che diceva: “Io vi posso donare la vita eterna! Io, Errakis di Ramesh, posso donarvi l’immortalità se mi seguirete sulla mia isola. Là io vi prometto che rinascerete come creature nuove, liberate dalle sofferenze della carne. Per voi non ci saranno più né malattie, né vecchiaia, né povertà, né pene d’amore.” Una folla immensa si accalcava davanti al palco: donne urlavano in delirio, uomini si battevano il petto, anziani si genuflettevano ed insegnavano anche ai loro nipotini a fare altrettanto. Fino a qui, però, questa sembrava ancora a Sermon una delle tante scene cui aveva assistito ogni qual volta compariva un predicatore particolarmente carismatico. Si domandava, perché i suoi supe16
riori l’avessero inviato lì per così poco. Quello che turbò veramente l’Inquisitore del Tempio di Macon e gli fece comprendere la vera pericolosità di quell’uomo furono le successive parole di Errakis: “Ma io non vi prometto tutto questo dopo la morte! Già in questa vita terrena potrete gustare le gioie dell’immortalità!” “Bestemmia!” gridò Sermon. “E’ contro il volere degli dei che gli esseri umani possano scampare alla morte in questo mondo!” Tutti i volti dei presenti si voltarono verso l’Inquisitore. L’avrebbero linciato subito, se non avessero riconosciuto la casacca senza maniche e il mantello nero che contraddistingue i sacerdoti di Macon, il dio della legge. “Puoi anche non credermi,” disse Errakis. “Ma io ho ricevuto un’illuminazione che mi ha condotto a scoprire i segreti della vita e della morte. Ho dei poteri che nemmeno il tuo dio potrebbe eguagliare.” Di fronte a tanta presunzione, Sermon sfoderò la spada e si lanciò verso il palco. Che bisogno aveva di altri discorsi ora che aveva scoperto un eretico così manifesto? La folla si fece largo, temendo di venire travolta da quello straniero che sembrava una furia partorita dagli inferi. Con un balzo Sermon salì sul palco di legno, quindi si diresse decisamente verso il pulpito del santone, mentre la fanciulle biancovestite si allontanavano, vociando spaventate. Solo Errakis non si scompose, ma fece un gesto della mano e l’idolo di ferro battuto ebbe un sussulto. Sermon si voltò stupito. La creatura si mosse a scatti, quasi dentro l’involucro metallico ci fosse un uomo preso da convulsioni. Con una mossa rapida, l’idolo cercò d’investire col suo braccio destro l’Inquisitore che riuscì però a scansarsi prontamente e menò un affondo con la sua spada, causando solo un clangore di ferro che scontrava con altro ferro. Le mani del mostro metallico si serrano allora sulla gola dell’Inquisitore e lo sollevarono da terra. La morsa era fortissima. Sermon lasciò cadere la sua spada e cominciò a divincolarsi in preda agli spasmi del soffocamento. “Ti prego risparmialo, Maestro Errakis!” escla-
mò una voce. Il santone fece un nuovo gesto con la mano e l’idolo lasciò il collo dell’Inquisitore che cadde fragorosamente sul palco. Sermon si stava ancora tastando il collo, quando il santone gli disse: “Non ti avrei ucciso comunque, sacerdote di Macon. Io non sono qui per portare la morte ma la vita. Ringrazia comunque la mia adepta che avuto pietà di te.” Fu allora che Sermon guardò tra le discepole di Errakis che si trovavano ancora sul palco e riconobbe Klassh. Klassh, la ragazza umana cresciuta dai troll che aveva conosciuto anni prima e a cui aveva salvato la vita. Klassh che l’aveva seguito contro il suo volere in tante avventure. Klassh che, di tanto in tanto, gli strappava un sorriso con la sua ingenuità. Klassh, l’unica donna per cui anche un sacerdote votato alla castità come lui aveva provato un sentimento d’affetto… e forse anche qualcosa di più. “Per l’amor di Macon, cosa ci fai tu qui tra questi eretici?” domandò Sermon, sforzando la gola che ancora gli doleva. La ragazza gli si avvicinò e lo cinse tra le braccia. Non era sporca come suo solito e aveva i capelli ben composti. Aveva sostituito le poche strisce di pelle con cui si vestivano i troll con un bianco abito cerimoniale. “Sshgot, il troll che mi ha fatto da padre, è in fin di vita e solo Maestro Errakis con i suoi poteri potrebbe guarirlo.” spiegò la giovane. “Nessuno può andare contro le leggi della natura… E poi perché non hai chiesto aiuto al Tempio di Macon?” “I tuoi sacerdoti aiutano solo gli umani…” “Non potrebbero comunque fare nulla per lui, se è nelle condizioni che dici!” intervenne Errakis, ponendo una mano sulla spalla di Klassh. “Io sono a conoscenza di cose che nemmeno i sacerdoti conoscono!” quindi volse lo sguardo verso l’Inquisitore. “Comunque se il tuo amico vuole, potrà seguirci sulla mia isola, Ramesh, e vedere coi tuoi occhi di cosa sono capace.” Sermon guardò per un attimo Klassh con aria pensosa, poi annuì leggermente con la testa. L’isola di Ramesh era poco più di una scogliera bianca in mezzo al mare. La vegetazione era scarsa, ridotta a pochi bassi cespugli, e l’unica costruzione era un grande castello esagonale con torrette spigolose della stessa forma, sormontate ciascuna da statue metalliche di esseri umani in
varie posizioni. Il tutto era costruito con pietre calcaree lisce e bianche. Qui Errakis risiedeva con i suoi adepti. Al piano superiore aveva adibito diverse piccole celle in cui questi potevano risiedere, mentre nel grande cortile centrale c’era una spianata in terra battuta, senza nemmeno un albero per garantire un po’ d’ombra. Lì i fedeli si sedevano per terra, mentre il loro Maestro, stando in piedi al centro, teneva lunghi discorsi che potevano anche protrarsi per un’intera giornata. Tali prediche a Sermon non sembravano altro che un’accozzaglia di luoghi comuni, tenuta insieme da generiche promesse di felicità. L’unica cosa che poteva stupire quelle persone erano gli incantesimi che Errakis faceva: spesso compariva l’idolo semovente che l’Inquisitore aveva già incontrato, senza contare che altre volte il santone si esibiva in piccoli incantesimi: piegare col pensiero alcune chiavi che un uomo aveva in tasca oppure far lievitare per aria delle pentole di rame, portate appositamente dalle cucine. Sermon notò però che i poteri di Errakis si manifestavano solo con oggetti inanimati, preferibilmente fabbricati dall’uomo: mai una volta lo vide usare i suoi poteri su animali, piante o esseri umani, così come non lo vide mai fare prodigi nemmeno su rocce o pietre. Col passare del tempo l’Inquisitore si accorse anche che a Ramesh nessuno coltiva la terra o pescava. Le cene risultavano frugali come nelle comunità monastiche, ma a differenza dei monaci che Sermon avevo conosciuto, in genere autosufficienti, Errakis preferiva farsi portare il cibo dalla terraferma, come donazione dei suoi seguaci, oppure acquistandolo con le offerte che riceveva. In ogni caso la natura in tutte le sue forme sembrava essere bandita dall’isola di Ramesh. Sermon, dopo quasi tre giorni in mezzo a quelle stranezze, voleva parlarne con Klassh, ma ogni volta che cercava di avvicinarla, il santone si metteva in mezzo tra loro due, quasi temesse che la fanciulla potesse rivelare qualche segreto pericoloso. Persino durante i pasti fece in modo di tenere lontani i due, facendoli sedere in tavoli lontani l’uno dall’altro. Soltanto una sera Sermon vide Klassh che si tratteneva a parlare con il predicatore. “La natura ha imprigionato umani, troll, satiri e ogni altro essere senziente in una prigione di carne.” stava dicendo Errakis. “Tutti i viventi 17
sono incarcerati in corpi sofferenti e desiderano una liberazione.” Senza nessun preambolo, Sermon si avvicinò e chiese rivolto alla giovane: “La pensi davvero anche tu così, Klassh?Mi sembrava che i troll avessero un maggiore rispetto per il creato.” “Io voglio solo che mio padre guarisca.” spiegò lei. “E il Maestro Errakis mi ha assicurato che, quando sarò trasfigurata, lo porterà qui per curarlo.” “Cosa intendi per trasfigurata?” “E’ un rito simbolico di purificazione che compio privatamente con ogni seguace. Nessuno può assistere.” tagliò corto il santone che parve improvvisamente imbarazzato e trascinò praticamente via la ragazza. “Vieni, figliola, hai bisogno di stare sola per meditare e prepararti alla cerimonia.” Questo mise sul chi vive l’Inquisitore. Quella notte Sermon uscì dalla sua stanza di soppiatto. Il castello era buio, non c’era nemmeno una torcia a rischiararne i corridoi. L’Inquisitore dovette ricorrere ad un incantesimo che gli consentiva una visione notturna abbastanza nitida. Percorse quindi i corridoi dalle pareti di pietra fino a raggiungere quella che sapeva essere la stanza di Klassh. La porta era socchiusa e Sermon entrò per una veloce ispezione. Come immaginava, la stanza era vuota e non c’era altro che un letto ancora intonso e un tavolino di legno molto consunto, con una seggiola. Un piccolo ritratto di Errakis stava appeso sopra un piccolo inginocchiatoio imbottito. Klassh era già stata prelevata. Sermon uscì rapidamente e si avviò verso la grande scalinata che conduceva ai piani inferiori. Immaginò che la cerimonia si dovesse svolgere in un luogo particolare, tipo un tempio. In realtà per tutta la sua permanenza sull’isola non aveva visto nessuna cappella. L’unico luogo di ritrovo per i seguaci di Errakis sembrava essere il cortile. Diede così un’occhiata anche ad esso, ma era deserto. Meditò quindi se fare irruzione nella stanza di qualche adepto per estorcergli informazioni sul rito di trasfigurazione. Proprio in quel momento sentì un sordo rimbombo metallico: l’idolo che aveva affrontato qualche giorno prima stava attraversando l’atrio del castello, dirigendosi verso una porta ad arco. Sembrava non fare nemmeno caso a Sermon che 18
lo seguì prontamente. Dalla porta si accedeva ad una scaletta a chiocciola che scendeva verso i sotterranei del palazzo. Sermon si sforzò di non fare alcun rumore, mentre seguiva l’idolo che scendeva, barcollando. Di nuovo l’Inquisitore di domandò se l’essere fosse in realtà un umano racchiuso in una scomoda armatura. Eppure i suoi arti e il suo tronco erano troppo sottili per contenere quelli di una persona. Quando la discesa finì, Sermon si acquattò contro il muro e cominciò a sbirciare nella sala adiacente: più che in un tempio, l’idolo lo aveva condotto in quello che sembrava il laboratorio di un alchimista o di un cerusico. Uno scaffale era stipato da vasi di vetro in cui organi umani erano conservati a bagno in un liquido trasparente. Un altro scaffale sorreggeva pezzi di quelli che a Sermon sembravano braccia e gambe di armature delle più svariate dimensioni, come se un fabbro ne avesse prodotti parecchi per accogliere persone dalle corporature più svariate. Su un tavolino stavano alla rinfusa strumenti dagli usi sconosciuti, insieme a cavi rivestiti di plastica colorata, mentre su un tavolo più grande, posizionato al centro della sala, erano assicurate delle cinghie di pelle nera. L’Inquisitore ricordò di aver visto tavoli simili venire usati per la tortura. In quel momento una parete ruotò, rivelando un passaggio segreto. Da esso Errakis entrò nella stanza portando sulla schiena Klassh priva di sensi. Lo stregone aveva un rigagnolo di sangue che gli usciva da una narice e, dopo aver consegnato la ragazza all’idolo, si tamponò il naso con un fazzoletto. “Questa maledetta gatta selvatica!” esclamò Errakis. “Fino a poche ore fa sembrava felicissima di venire trasfigurata, poi all’ultimo momento ha cercato di fuggire. Mi ha persino dato un pungo. Per fortuna sono riuscito a sedarla.” L’idolo, nel frattempo, posizionò la ragazza sul tavolo grande e si mise a legarla con le cinghie, mentre Errakis, dopo essersi infilato un paio di guanti, prese un piccolo coltello dalla lama molto affilata e si avvicinò alla testa della fanciulla. Si chinò quindi come se volesse inciderle la fronte. Fu allora che Sermon uscì dal suo nascondiglio con la spada in pugno. Si scagliò verso il santone che, spaventato, indietreggiò fino a urtare con la schiena uno scaffale e far cadere alcuni vasi
che si ruppero. L’idolo, intanto,cercò di afferrare Sermon che però puntò la spada alla gola di Errakis. “Non fare un altro passo, se ci tieni al tuo Maestro!” gridò l’Inquisitore. Il mostro metallico si fermò. Dalla sua faccia immobile non traspariva alcuna emozione, ma Sermon era sicuro fosse indeciso sul da farsi. “Siccome il tuo servo non parla, mi spiegherai tu cosa succede qui?” disse rivolto al santone. “Da me non saprai nulla, Inquisitore!” esclamò Errakis, quindi si rivolse all’idolo: “Uccidimi!” “NO!” gridò Semron, ma prima ancora che potesse fare qualunque cosa, il mostro metallico afferrò la testa del santone e la stritolò quasi fosse una noce. L’Inquisitore, frastornato, lasciò cadere il corpo morto di Errakis e cominciò a fuggire per allontanarsi dalla creatura che ora lo inseguiva, allungando in avanti le sue mani come un granchio protende le chele. Sermon cercò nella sua mente una formula che potesse aiutarlo a contrastare un nemico molto più forte di lui. Alla fine ebbe un’idea. Si diresse verso la scala e cominciò a salire a grandi falcate. Il mostro lo seguì con la sua andatura sempre un po’ barcollante. Quando fu quasi alla sommità della scala, si voltò su sé stesso e dette all’idolo un calcio in pieno petto. Il mostro cadde indietro per tutta la scala e si ruppe in mille pezzi. Sermon lo osservò: al suo interno non c’era un uomo, bensì ingranaggi, pulegge, cavi e altre diavolerie meccaniche. In fondo quella sua strana andatura gli aveva fatto in fine sorgere il sospetto che il mostro, in realtà, fosse una specie di grosso giocattolo a molla. L’Inquisitore poté finalmente liberare Klassh, anche se continuava a pensare che quella missione era stata un fallimento: non sapeva quali fossero i veri scopi di Errakis, né cosa fosse il rito di trasfigurazione di cui parlava. Inoltre il fatto che l’eretico avesse preferito uccidersi al rivelare i suoi segreti, faceva supporre che fosse parte di una cospirazione più grande. “Forse ci sono altri nel mondo che stanno perseguendo gli stessi scopi di questo pazzo.” disse Sermon a mezza voce. “Purtroppo è così, la piaga dei cyborg è ricomparsa!” gli rispose una voce familiare. Sermon si voltò verso l’ingresso del passaggio segreto ancora aperto. C’era un giovane dagli occhi chiari e i lunghi capelli castani, vestito con
l’abito degli Inquisitori del Tempio di Macon. Riconobbe subito il suo confratello Antoni. I due Inquisitori lasciarono in fretta l’Isola di Ramesh sulla barca con cui era arrivato Antoni. Portarono con loro Klassh, ancora addormentata. Quando la giovane si svegliò, subito abbracciò Sermon che cercò di ritrarsi imbarazzato. “Mi dispiace tanto non averti potuto dire che stavo aiutando Antoni in una sua indagine.” spiegò Klassh. “Lui aveva bisogno di qualcuno che si infiltrasse in questa setta, qualcuno che non fosse collegabile al Tempio di Macon.” “Dunque tuo padre non era malato?” domandò Sermon rivolto alla ragazza. “Lo sai che Sshgot, capo dei troll, è forte come una roccia. Se solo gli capita di vedere un giro una malattia, le dà un pungo sul muso!” scherzò Klassh. Finalmente Sermon riconosceva il carattere allegro della giovane. Non poté fare a meno di rivolgerle un sorriso, ma subito dopo ritornò cupo. “Cos’era quell’idolo semovente? E cosa voleva fare Errakis?” domandò al confratello. “L’idolo era un cyborg, per quanto rudimentale.” spiegò Antoni. “Si tratta di un cervello umano innestato in un corpo meccanico. Una di quelle conoscenze precedenti al Grande Disastro che noi Inquisitori dobbiamo distruggere.” “A quanto pare Errakis voleva fare la stessa cosa a Klassh. Mi chiedo se abbia fatto lo stesso anche ad altri…” meditò Sermon ad alta voce. “Hai visto le statue che si trovano sulle torri del castello? Sono dei suoi precedenti esperimenti andati male. Forse non tutte le persone sono in grado di sopravvivere al trattamento.” “Che ne sarà degli altri discepoli di quel pazzo?” chiese Klassh. “Appena arrivati sulla terraferma, informeremo il Tempio che ci manderà rinforzi.” disse Antoni. “ Da soli non possiamo certo tenere a bada tanti fanatici tutti insieme.” Sermon guardò per un attimo l’isola. Il castello, con le sue forme squadrate, sembrava una costruzione aliena depositata in mezzo al mare e rabbrividì. Voltatosi nuovamente verso i due amici, sentenziò: “Una cosa è certa: una cospirazione vuole opporsi alla natura e alla vita. Per noi inizia una nuova battaglia.”
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Ricordando i fumetti umoristici di disegnatori monzesi
QUANDO BRACCIO DI FERRO PARLAVA BRIANZOLO Quattro chiacchiere con Sandro Dossi, il fumettista che ha disegnato Popeye, Geppo e Topolino.
by Paolo Motta E’ un uomo che non nega un sorriso a nessuno. Questo si può dire di Sandro Dossi, classe1944, nato a Monza e per anni residente a Villasanta. Una caratteristica in sintonia con il suo mestiere. Dossi, infatti, è un disegnatore di fumetti umoristici, tra i più longevi e prolifici del nostro paese. In particolare ha lavorato per la storica casa editrice Bianconi che dagli anni ’50 fin quasi ai ’90 ha prodotto i fumetti di Geppo il Diavolo Buono, Braccio di Ferro, Pinocchio e il gatto Felix. D: Come sono stati i tuoi inizi? Tu, Pier Luigi Sangalli e Alberico Motta eravate tutti nati a Monza. Si può parlare di una “scuola monzese del fumetto”? R: Parliamo di una vita fa… erano gli anni ’60 e avevo deciso che “da grande” avrei disegnato fumetti. Stavo frequentando la Scuola D’arte alla villa Reale di Monza e nel frattempo lavoravo part-time presso una piccola Agenzia pubblicitaria di Monza, ma non mi sentivo realizzato! Venni per caso a conoscenza che un ragazzo, Pier Luigi Sangalli, aveva da poco intrapreso la carriera di fumettista presso le Edizioni Bianconi e senza pensarci mi presentai a casa sua per conoscerlo. Trovai un ragazzo più grande di me disponibile e simpatico che mi propose di ripassare le sue tavole. Da subito incominciai a frequentare il suo studio per apprendere i segreti del ripasso e del disegno. In quel periodo tramite Sangalli conobbi anche Motta che aveva appena finito il servizio militare e lavorava già per le Edizioni Alpe. I due erano amici di vecchia data, si erano conosciuti all’oratorio e avevano in comune la passione del disegno. Motta aveva insegnato a Sangalli i primi rudimenti del mestiere e l’aveva consigliato di presentare i suoi primi lavori all’editore Bianconi che lo fece lavorare da subito. Dopo circa un anno fui presentato da Pier Luigi al “sciur” 20
Bianconi che chiamavamo affettuosamente “Capo” e mi prese subito sotto la sua protezione proponendomi un lavoro come titolista (realizzavo tutte le testate delle pubblicazioni e i titoli delle storie) e inchiostratore di tavole di altri autori, (Sangalli e Mario Sbattella). Nel frattempo anche Motta si era unito a noi come autore di Bianconi. “la scuola Monzese” era nata casualmente ed era formata dal trio già citato sopra. Tra di noi era nata una bella amicizia e ci si aiutava reciprocamente al bisogno nel lavoro. Come dicevano sopra, hai legato il tuo nome soprattutto all’editore Renato Bianconi e ai suoi albi umoristici. Com’era l’atmosfera in quella casa editrice? In redazione regnava un’atmosfera molto familiare e amichevole, si scherzava sempre tra noi autori. Il “Clan Bianconi” era composto in ordine alfabetico da Tiberio Colantuoni, Nicola Del Principe, Sandro Dossi, Alberico Motta, Mario Sbattella e Pierluigi Sangalli. In passato erano passati dalla Casa Editrice grandi autori del comico come Carpi, Chierchini, Gatto, Capitanio, Manfrin e Aloisi… e molti del serio che non
facevano parte del nostro gruppo. C’era una grande collaborazione e, quando serviva un nuovo personaggio, il Capo ci riuniva e si pensavano insieme le caratteristiche che doveva avere. Uno di noi, in genere chi era più libero in quel momento, lo schizzava e dopo l’approvazione, ognuno di noi lo interpretava, tenendo presente il model e lo personalizzava inevitabilmente con il suo stile. Bianconi aveva voluto italianizzare tutti i personaggi di copyright straniero dei quali acquisiva i diritti. Eravamo considerati politically uncorrect in quanto ci piaceva trasgredire nella stesura dei testi, l’editore faceva passare tutto, in genere le storie avevano sempre una doppia chiave di lettura… Le tavole erano disegnate in maniera semplice in modo da poterle leggere anche senza l’ausilio del testo… era nato lo stile Bianconi, un grande insegnamento da parte dell’editore che a me è servito anche per la realizzazione di lavori per altri editori. Come è stato il tuo incontro col personaggio di Geppo il Diavolo Buono? Le pubblicazioni che Bianconi aveva in edicola erano veramente tante. Io in quel periodo lavoravo sulla pubblicazione di Felix che era nata negli anni ’60 e avevo incominciato a realizzare autonomamente storie dal 1964, mi alternavo con gli altri autori su Braccio di Ferro (l’editore ne aveva acquisito i diritti) e inchiostravo tavole di Sbattella e Sangalli al bisogno. Il disegnatore principale di Braccio di Ferro era Sangalli, quindi non avendo più tempo per altro, Bianconi mi aveva affidato la pubblicazione di Geppo, anche se le copertine erano sempre realizzate da Pier Luigi. E’ comunque il personaggio al quale sono più legato, in quanto l’ho disegnato per più di 30 anni e si può dire che mi accompagna da “sempre”… ho iniziato la mia carriera ripassandolo e poi dopo anni disegnandolo. Inizialmente le sceneggiature erano di Motta, poi essendo lui passato ad altro. Realizzavo anche i testi ed erano nate storie che ancora i nostalgici ricordano. Una storia ricordata e apprezzata dalla critica è stato il team up con Braccio di Ferro. Anche il metafumetto (i fumetti che parlano di altri fumetti ndr) piaceva molto ai lettori e con Geppo mi ero sbizzarrito ed erano nate Una storia pazza, Diritti d’autore, Un aiuto insperato… Nel 1984 propongo all’editore Inferno 2000 una rivisitazione dell’inferno di Dante dove i protagonisti sono proprio Geppo e Dante che viene richiamato all’Inferno da Satana. Cito parte di una recensione fatta dall’autorevole Pier Luigi Gaspa in Arabeschi: “Geppo, che si reca nella Firenze del 1984, dove il
poeta, per sbarcare il lunario e mettere insieme il pranzo con la cena, è costretto a comporre canzonette («Sono toscano con la chitarra in mano» – lo si sente intonare, rammentando un celebre motivo del cantante Toto Cutugno). Convinto a seguirlo nell’impresa, dopo una serie di bizze e pretese contrattuali degne di miglior causa, Dante Alighieri accetta di scrivere questa ‘versione aggiornata’ della propria opera e, si fa per dire, comincia a lavorarci su. Intanto, poiché i tempi sono cambiati, meglio non parlare più di canti; verranno sostituiti da canzoni, ognuna delle quali darà il titolo a un capitolo del nuovo viaggio. La prima, quella di esordio nelle tenebre infernali (dove Dante arriva nell’auto messa a disposizione da Satana, con Geppo nei panni di Virgilio), è Il traghetto infernale le faranno seguito soltanto altre cinque canzoni prima che Dante venga cacciato perché i suoi ‘reportage’ infernali mettono alla luce problematiche sindacali da parte dei diavoli che è meglio sottacere!”. Finita la collaborazione con Bianconi ha disegnato un po’ tutti i personaggi umoristici internazionali, da quelli della Disney a quelli della Warner Bros. Com’è stato lavorare con brand così famosi? Inizialmente ho dovuto rivedere il mio modo veloce di lavoro, in quanto la qualità richiesta era alta e le vignette andavano più curate e riempite, le tavole erano remunerate in maniera diversa. E’ sempre emozionante incominciare un nuovo lavoro: l’incertezza, l’ansia, il metodo diverso di lavoro ti attanagliano…. poi dopo il primo impatto il disagio svanisce lasciando spazio alla fiducia. Per Disney tramite lo Staff di If di Gianni Bono ho realizzato più di 200 storie tra Topi e Paperi, ho disegnato nel 1985 la storia più lunga in assoluto della mia vita lavorativa Topolino e la terra senza tempo divisa in
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quattro puntate (106 tavole). Verso la fine della mia collaborazione avevo disegnato parecchie storie di Paperinik con testi di Massimo Marconi. Negli anni ’90 ero stato convocato al Corriere dei Piccoli dalla direttrice Maria Grazia Perini e avevo collaborato con tutti i personaggi della Warner che, secondo me, sono i più difficili da interpretare: le matite delle tavole venivano inviate in America per l’approvazione e il sentirsi dire “Terrific” che stava a significare il contrario “Meravigliose” era stupendo, ti creava sempre un’emozione… sempre con i personaggi Warner e Hanna & Barbera ho disegnato storie brevi, a volte autoconclusive per il G-Baby delle Edizioni San Paolo. Sotto la mia matita sono passati anche moltissimi personaggi da Calimero a Topo Gigio, da Tiramolla (ed. Vallardi) a Prezzemolo, dalla Pantera Rosa ai Flintstones… ho illustrato anche libri scolastici, fiabe classiche e album di figurine.
mente ai fumetti ho avuto da sempre la passione per l’enigmistica e mi è servita per continuare a lavorare sempre disegnando. Ho collaborato con diverse case editrici specializzate nel settore, su albi per bambini e per adulti, realizzando giochi, vignette, rebus, strisce, puzzle, racconti gialli illustrati… Capita anche di fare delle commissioni per gli appassionati con tutti i personaggi che ho realizzato, anche di grandi dimensioni colorate a tempera, con gli acquerelli, a mezzatinta, ecc. Cosa consigli ai giovani che si avvicinano al mestiere del fumettista?
Ogni volta che mi passano un’intervista mi si fa questa domanda. Sempre difficile rispondere in quanto questo è un periodo difficile per l’editoria, non ci sono più editori e lettori, le edicole e le librerie sono desolatamente vuote e chiudono… Ci sono giovani molto preparati grazie anche alle varie scuole di comics esiSei stato persino in Belgio allo Studio Peyo per im- stenti. Ai miei tempi si imparava lavorando e mi sono parare come si disegnano i Puffi. Ci puoi parlare sempre considerato un “artigiano del fumetto” La di questa esperienza? vita del “fumettaro” è dura, qualcuno di questi giovani troverà lavoro, altri dovranno avere pazienza ed Che dire… un’esperienza unica che mi porto ancora aspettare che la sorte sia dalla loro parte! dentro. Gianni Bono mi aveva chiesto se volevo fare delle tavole di prova per lo studio Peyo. Nonostante Questo articolo è disponibile anche sul sito Giornale gli errori fatti, le tavole di prova erano piaciute ed Pop. ero stato convocato per uno stage di una settimana in Belgio. Il loro metodo di lavoro era mostruoso, disegnavano con una precisione assoluta, contrariamente a me che, secondo loro, non ero preciso ed ero troppo veloce. Al rientro avevo realizzato su loro copyright delle illustrazioni per la Cucina dei Puffi pubblicate su un libro della Mondadori. È stata una breve collaborazione che mi ha insegnato tanto… Cosa fa Sandro Dossi oggi? Dal 2008 il mercato non passa lavoro… Contemporanea22
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Una notte come tutte le altre
parte 4
di francesca piantanida La soffitta è un piccolo locale mansardato con il tetto quasi completamente occupato da un lucernario, ed è il regno di Picchio: trova molto classico per un vampiro dormire in una bara, e particolarmente sfacciato averla posizionata sotto una fonte così diretta della luce solare. Un giorno si sveglierà troppo presto, aprirà il coperchio di scatto e farà una pessima fine, ma non c’è modo di distoglierlo da quest’idea; per il resto è uno spazio così incasinato da non riuscire a descriverlo… nel punto più alto, con l’aiuto di un costosissimo idraulico, è stata messa una doccia, con una finta parete di cartongesso a coprirla a mo’ di paravento: Picchio non ha voluto porte nel suo spazio, sostiene che dormire in una bara è più che sufficiente, da sveglio vuole aria intorno a sé. La cantina è il mio regno per il motivo esattamente opposto: penso che se non ci sei costretto una bara non sia esattamente il massimo per dormirci dentro. Di sotto non vi sono finestre o punti luce, e come ricorderete la mia stanza è chiusa da una porta stagna (con grande sgomento del fabbro). Dormo su un basso futon a due piazze, di ciliegio rossiccio, con un enorme materasso in lattice sotto lenzuola di flanella e un piumone bordeaux ornato di diversi cuscini in tinta, non tanto per una questione di temperatura quanto di comodità: amo svegliarmi con la sensazione di essere immersa in un involucro comodo, forse in questo influisce aver trascorso secoli prima in un sarcofago di pietra, e poi in un feretro di frassino; adesso se posso approfitto di ogni comodità, per il resto la stanza è piuttosto sobria, un comodino per il telefono e tutte quelle altre
cianfrusaglie che chiunque ci poggia, un armadio a sei ante in cui riporre tutti i miei vestiti, ed una specchiera. In fondo alla stanza si apre la porta del bagno, ovvero un enorme locale cieco, quadrato, con, quale unico sanitario di cui io abbia bisogno, una grande vasca angolare rivestita, come pareti e pavimento, di mattonelle a mosaico satinate grigio scuro. La vasca ha un grande bordo ricoperto di candele, unica luce del bagno che io in realtà usi, e di fronte vi è un armadio laccato bianco che ha la doppia funzione di contenere la biancheria e nascondere la lavatrice. Faccio scorrere l’acqua aprendo solo il rubinetto di quella calda, accendo le candele e verso dentro una generosa dose di bagnoschiuma profumato. Una volta che la schiuma ha raggiunto il bordo mi ci infilo dentro fino ad immergermi con la testa, nel liquido caldo a livelli da ustione, restando ferma immobile sul fondo, lontana da qualunque fonte di odore, lontana da brividi incomprensibili, cercando di chiudere questa serata così come è iniziata: in una banale e rassicurante routine. Uno sciabordio sulla superficie mi fa alzare a sedere di scatto spalancando gli occhi,, inondando così Picchio seduto a gambe intrecciate sul bordo e spengendo svariate candele. “Hai lasciato le porte aperte …” Mi riaccomodo meglio nell’acqua, emergendo soltanto dal mento in su, e comincio a strofinarmi via il sangue trasudato sul corpo, per un motivo che adesso, qui al riparo dentro casa, mi sembra così futile ed infantile, assolutamente inspiegabile. Picchio continua a fissarmi perplesso, da sotto in su mentre si finge impegnato a riaccendere 31
le candele bagnate, qualcosa nel mio silenzio deve avergli fatto capire che non attacca, perché si decide a guardarmi in faccia e ad affrontare il discorso: “Vogliamo parlarne?” Il sentore di sandalo e lavanda che impregna il bagno distende anche gli ultimi muscoli contratti, ed il calore dell’acqua scioglie definitivamente il gelo del panico da dentro le mie ossa, irradiando calma dal centro verso gli arti. La mente è sgombra, lucida, quindi direi che sì, possiamo parlarne, capire che è accaduto, analizzare l’evento, ed annuisco in risposta alla sua domanda. “Hai detto di aver sentito un odore, che io non riuscivo a percepire, e per qualche motivo quest’odore ti ha fatto andare fuori di testa…” “Mi ha spaventato” “E quando dici che ti ha spaventato intendi dire?” “Che ho avuto paura” Guardo le sue pupille dilatarsi per la sorpresa “Dovresti ricordare cos’è la paura, è quella che prova ogni tua vittima un istante prima di…” “Smettila di fare la stronza” taglia corto e mi fissa sempre più agitato “Io ricordo perfettamente cosa sia la paura, io ho paura tutte le notti, ho paura che qualcuno mi rubi l’auto, ho paura di perdere le staffe con i clienti e di fare una strage, ho paura di restare solo… sei tu il mostro secolare che non è più in grado di provare sensazioni umane, le deve ricordare, fammi finire!” interrompe con un gesto il mio tentativo di intervenire “Il problema è che questa non era paura, quello che ho visto nei tuoi occhi era qualcosa di assolutamente animale: era panico, era una reazione fisica che sgorgava dai tuoi muscoli, non certo dal tuo cervello, quindi adesso vorrei sapere cosa c’è in giro di così primordiale da farti sudare freddo al solo percepirlo” Aggrotto la fronte e sento le ipotesi che mi si accavallano in mente, grattando quasi la calotta cranica dal di dentro per il vorticoso susseguirsi una con l’altra, un lungo sospiro mi pervade la colonna vertebrale 32
mentre cerco di trovare il filo conduttore di questo caos psichico e dipanarlo in maniera sufficientemente coerente da poter fornire a Picchio una risposta. Lo trovo, e mentre apro bocca per parlare mi rendo esattamente conto di tutto, è come aver acceso una luce di fronte ad una statua di cui al buio percepisci vagamente la forma, tutto è chiaro, tutto è semplice. Forse. “Ho percepito un vampiro in caccia” Picchio resta talmente sgomento dalla semplicità di tali parole da lasciare cadere nell’acqua il fiammifero acceso con cui sta ancora giocherellando, spalanca la bocca per replicare, ma stavolta sono io che debbo interromperlo: “Non ho detto un vampiro che si nutre, ho detto un vampiro in caccia, un vampiro su una scia, quel tipo di caccia che non c’entra nulla con il sostentamento, è qualcosa di personale, è ossessione allo stato puro, ha assorbito tutte le sue facoltà razionali e non si fermerà per alcun motivo finché non avrà raggiunto il proprio scopo, e l’appagamento e l’estasi derivanti da quell’unico orgasmico morso”. “Non credo di aver mai provato qualcosa di simile…” “Lo so” annuisco “E’ perché non hai mai avuto un rancore personale, o almeno non contro qualcuno che avesse tempo e modo di sfuggirti, capitava molto più spesso in passato” “Perché?” “Banalmente perché gli umani sapevano con chi avevano a che fare, e si comportavano di conseguenza, scappavano di giorno e… e molto spesso ne puntavi uno in particolare per vendetta, non per nutrimento, per nutrirsi è sempre andato bene chiunque, e certo non aspetti di trovare il tuo nemico per bere e sopravvivere” “Vendetta?” “Te l’ho detto, sapevano con chi avevano a che fare, e non sempre erano disposti a fuggire… a volte reagivano.” “E…” “E se in un modo o nell’altro riuscivano a trovare il tuo rifugio demolivano i muri e scoperchiavano le bare, poi nel dubbio davano fuoco a tutti i resti, per maggior sicurezza…”
“E davvero un simile falò poteva distruggerci?” Istintivamente Picchio ritira la braccia contro il petto per allontanarle dalle flebili fiammelle delle candele, come se da un momento all’altro potessero iniziare a sprigionare il devastante calore solare. “Il fuoco da solo fa danni, ma non irreparabili. Il sole è un altro discorso…” Il mio sguardo, mentre parlo, si fissa sulle bolle placide e rosee che formano questa spuma profumata, mi concentro sui cangianti riflessi che oscillano ed ondeggiano lungo il sottile film di sapone liquido, mentre con la mente vedo una scala a chiocciola verso un piano superiore, intagliata nella roccia, e l’odore acre del fumo che scende lungo la scala, e che ha impregnato durante la notte la stoffa della mia veste mi sveglia di soprassalto. Un’angoscia che non avrei mai creduto possibile provare né da viva né tanto meno da morta. “Da come ne parli sembra quasi che tu ci sia passata” Due colpi di palpebre e rimetto a fuoco lo sguardo nel ventunesimo secolo, mattonelle design, rubinetteria cromata, e Picchio in maglietta di tessuto tecnico e blue-jeans che mi guarda come un bambino guarderebbe un’anziana nonna dedita ai racconti di gioventù… ed in effetti è proprio quello che sta succedendo. Sorrido a quel volto stupito cercando di infondere nello sguardo tutte le rassicurazioni di cui sono capace: “Se ci fossi passata non sarei qui a raccontarlo, ma un tempo capitava spesso, ed era raro incontrare uno di noi che non avesse perso un compagno, o un caro amico, in modo simile” Picchio chiude gli occhi e per qualche secondo addrizza la schiena, resta perfettamente immobile, come rapito da una speculazione interiore troppo grande per poter essere condivisa. “Non ci riesco” dichiara infine riaprendo gli occhi e rilassandosi di nuovo “Semplicemente non riesco ad immaginare un universo in cui tu non esista più. Posso pensare che ad un certo punto, per qualche motivo o per qualche anno, noi si vada ognuno per cazzi suoi, ma il cervello non riesce a concepire una tua totale sparizione.
Merda, credo sia innaturale anche solo ipotizzare la morte di un immortale” Il bordo della vasca mi colpisce le spalle mentre scivolo indietro improvvisamente colpita dalla piega che ha preso la discussione, indecisa se sentirmi lusingata o divertita, se sentirmi compagna, amica, amante o madre. Rimandando a dopo i dilemmi sugli equilibri interni del nostro piccolo clan gli faccio un gesto con la mano per confermargli che ha centrato in pieno l’argomento. “Esatto, infatti quando succede una cosa del genere colui che ha la peggio è l’eventuale sopravvissuto. Perde la ragione, letteralmente, e diventa un puro predatore, punta la sua preda finché il desiderio di vendetta che lo rode internamente, come petrolio caldo che scorra nelle vene e arda, egualmente doloroso e potente, non è stato placato. E per placarlo non basta l’uccisione, la vittima deve avere panico, deve soffrire, deve riuscire a patire abbastanza per ogni perdita che il cacciatore ha subito” Mi riabbasso nell’acqua che comincia a freddarsi, colta da un improvviso bisogno di tepore che non ha assolutamente nulla a che vedere con la temperatura che percepisce il mio corpo. “E credo proprio che sia questo che ho sentito, la scia d’odio di un cacciatore”. Picchio balza in piedi, stranamente soddisfatto, anche se non riesco a capire cosa ci possa essere che lo faccia sentire in pace con sé stesso, così d’un tratto, e mi apre l’accappatoio invitandomi con quel gesto ad uscire dal mio rifugio di acqua e schiuma, come per farmi capire che una volta enucleato il problema non c’è più bisogno di nascondersi nella vasca. Mi dò un’ultima frettolosa strofinata, tanto per essere sicura di aver scrostato tutto il sudore coagulato sul mio busto, ed esco grondando sul tappetino da bagno beige, infilando le braccia negli ettometri di spugna bianca che mi vengono offerti. “Tutto quello che mi hai detto Madda in effetti ha senso, il pensiero di incrociare in qualche modo la strada di una belva simile fa rabbrividire, ma non credo che sia il caso 33
di perderci la calma più di un tanto, a conti fatti la cosa non ci riguarda” “Cioè?” Per un istante temo di non aver capito bene, di essermi persa qualche parola del discorso nella concentrazione di chiudere con un nodo decente l’accappatoio, come se fosse possibile… ovviamente riuscirei a capire ogni parola detta da Picchio anche con tre piani di scale tra di noi, se lui volesse veramente farsi sentire, ma a volte è più semplice abituarsi agli automatismi che arrendersi al senso di frasi che credi solenni idiozie. “Beh, l’hai sentito, la sua incazzatura ti ha fatto paura, mi sembra corretto che sia successo, ma adesso basta” Adesso è il mio turno di fissarlo inebetita, come una mucca davanti ad un treno merci, non riesco proprio a capire dove va a parare il suo discorso. “Semplice, chiunque sia e dovunque sia diretto sono cazzi acidi per la creatura su cui si vuole vendicare, noi non c’entriamo.” Si china a darmi un bacio sulla fronte “Adesso passa una buona giornata nel tuo sotterraneo blindato, debbo ritirarmi nel mio sepolcro aereo prima che le prime luci dell’alba colpiscano la finestra…sicura che posso andare?” Mi guarda un pochino di traverso, evidentemente convinto che il mio sguardo attonito sia ancora uno strascico della paura provata in macchina anziché un’anticamera di rabbia nei suoi confronti dinnanzi alla sua totale incapacità di vedere a più di due centimetri dal proprio naso. “Ok, allora io vado, mi tiro la porta dietro, e bada di fare in fretta domani sera altrimenti giuro che è la volta che te la sfondo!” E con un balzo è sparito, lasciandomi muta e gocciolante nel mio accappatoio troppo grande. Con pochi gesti meccanici svuoto la vasca, spingo i resti di schiuma e di sangue giù per lo scarico, aiutata dal getto della doccia a telefono, mi spiccio i capelli e mi infilo sotto il piumone. Mi rannicchio su me stessa cercando di non pensare. Il problema è la capacità di creare sillogismi. Il problema è capire esattamente cos’è che ti 34
fa rabbrividire, con ondate di gelo continue, dalla nuca all’attaccatura dei capelli sulla fronte. Il problema non è che ho paura di trovarmi sulla strada del cacciatore. Ciò che mi spaventa non è che ci sia in giro un simile cacciatore, un vampiro ormai reso demente dal bisogno di vendetta, dal dolore e dall’odio, che si muove non più seguendo i propri occhi, i propri desideri ed i propri pensieri, ma solo seguendo il proprio olfatto, tarato sulla particolare fragranza di sangue del suo nemico. Che vive caricandosi di quell’odore ogni secondo di più, facendosi male col desiderio sempre più forte di sentire quel sapore scendergli giù in gola, mentre le orecchie si annebbiano dalle grida continue di una vittima consapevole, non ipnotizzata, che strilli al cielo invocazioni dettate dal panico e dal dolore. Ciò che mi spaventa non è l’esistenza di una simile belva in libertà… poiché anch’io lo sono in potenza e non vedo come potrebbe la cosa spaventarmi a tal punto. Ciò che mi raggela davvero è che se uno di noi è divenuto a tal punto ossessionato dal proprio nemico… allora da qualche parte esiste qualcuno, o qualcosa, capace di ucciderci. E da ciò che ho compreso in questa serata, per gran parte banale e comune, come tutte le altre, è che il cacciatore è arrivato al posto giusto, era sulla sua pista, ostinato e determinato. Ciò che ho appreso, e che mi fa guardare con apprensione la mia porta stagna e blindata, mentre le prime luci di un’alba che non vedrò mai mi fanno abbandonare tra i cuscini per ri-piombare nell’oblio della morte, ciò che temo, è che il nemico è qui, nella mia città, dove criminalità, incidenti e disgrazie sono così all’ordine del giorno che nessuno potrebbe mai trovare nulla di strano in una casa che brucia. Il sole fuori si sta alzando, e per la prima volta da secoli non è con calma, ma è con incertezza che penso a domani notte mentre, come ogni giorno, muoio di nuovo. Fine.
PAROLA di Alieno Storia:Daniela Piegai Disegni: Champa avellis 35
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Il Palloncino by EMILIANO BARLETTA Senza che lui se ne accorgesse, il palloncino blu iniziò a librarsi in volo. Il bambino rimase in silenzio ad osservare quella piccola sfera volare piano, piano, verso il cielo che si stava annuvolando, mentre il padre fissava incredulo il cordino di nylon rosso che gli passava davanti agli occhi, trascinato dal vento. Il pollice e l’indice, che fino a pochi secondi prima avevano trasportato fieramente il palloncino, mantenevano ancora la stessa posizione. Padre e figlio seguirono il pallone blu innalzarsi nel cielo fino a scomparire tra le nuvole grigie, senza dire una parola. Alla fine, senza più la minima speranza di recuperare il gioco del bimbo, la mano destra dell’uomo si abbassò con tutto il braccio ormai arresa per quella perdita. Per l’uomo era stata la giornata più difficile della sua vita. Aveva deciso di non portare suo figlio a scuola ma al parco poco distante dalla loro casa perché doveva parlargli di una cosa importante. Si era preparato il discorso per tutta la notte e anche prima di entrare nel parco si era ripetuto quelle parole nella sua testa in continuazione. Era arrivato il momento di dirgli tutta la verità. Doveva dare a quel figlio ancora piccolo un peso che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Avrebbe voluto difenderlo, proteggerlo, ma non poteva, non da quello. Si alzò un vento gelido e il padre chiuse la giacca con mano tremolante. Abbassò lo sguardo e proseguì a camminare mentre il bimbo, ancora incredulo, restava fermo e guardava in alto in cerca del suo palloncino. Le foglie iniziarono a staccarsi dai rami trascinate dal vento e quel che era sembrato al bimbo l’ultimo giorno d’estate divenne improvvisamente il primo dell’autunno. Fino a quel momento per lui era stata la giornata più bella che avesse mai passato insieme a suo padre. Una domenica senza essere domenica. C’erano stati il sole, i clown, le giostre, lo zucchero filato - il padre aveva riso nel sapere che in francese si chiama “barbe à papa” - gli alberi e anche un momento in cui le giacche erano state gettate a terra e usate come porte per giocare con una palla fatta con la carta del quaderno di scuola. Prima di uscire dal parco, a conclusione di quella bellissima e inattesa giornata, si erano fermati da un venditore ambulante e avevano comprato il palloncino blu legato a un filo di nylon rosso. Ora il palloncino e il cordino se n’erano andati ed erano rimasti solo lui e suo padre, che stava camminando da solo pochi passi più avanti.
Il figlio raggiunse il padre con un breve corsa, gli prese la mano e la strinse forte. Il padre guardò il bambino e subito dopo la mano che aveva lasciato andare via il palloncino, e iniziò a piangere. Aveva perso l’occasione di dire al figlio il motivo per cui quel giorno non era andato a scuola e tale consapevolezza era un rimorso peggiore delle parole non dette. Lo sguardo preoccupato del figlio per quella sua reazione era un’accusa dolorosa e involontaria verso di lui. «Non ti preoccupare Papà» disse il bambino accarezzando la spalla del padre «vedrai, troveremo i soldi per comprarne un altro». L’uomo cadde in ginocchio e il figlio lo strinse al collo.«Non fare così, non è un tragedia, sono cose che succedono.» disse il bambino con tono rassicurante. «Un palloncino si può sempre ricomprare.» Ma il padre sembrava non riuscire a smettere di piangere e continuava come se tutta la sua felicità fosse volata in cielo con il palloncino. «Dai Papà! Tirati su che è ora di tornare a casa» ripeté il figlio scuotendogli leggermente le spalle. Si alzò in piedi appoggiandosi al bambino, che meticolosamente lo aiutò a pulirsi di dosso le foglie dai pantaloni. Si guardarono in silenzio. Il padre si fece forza, c’erano delle cose che ancora doveva dire al suo ometto: che la vita poteva essere dura e che certe cose accadono senza che ci si possa opporre. Tante cose da dire, ma forse oramai era meglio parlarne a casa. «Che ne pensi se ci beviamo un latte caldo a casa?» disse il padre asciugandosi con l’indice le lacrime che ancora stagnavano sotto le borse degli occhi. Il bimbo sorrise pensando che, nonostante il palloncino, quella era stata di fatto la giornata più bella passata con il suo vecchio e rispose: «Penso che sia un ottima idea!» L’uomo si rasserenò nel vedere la gioia del figlio e capì che non poteva più tergiversare. A casa doveva dirglielo, era arrivato il momento. Il bambino avrebbe sofferto e probabilmente lo avrebbe anche odiato. Ma pensò che essere un genitore voleva dire anche fare delle scelte difficili. Il padre afferrò la mano del figlio che per reazione la strinse. Entrambi sorrisero felici e saltellando tornarono verso casa.
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by BABA MCKENZIE
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Lo scorrere dell’uomo di Alberto Cotevino Un secolo fa il mondo è crollato in un buio vuoto dell’apice sociale. Se vi è una testa libera da cui si ode voce diversa non vi è buona maniera migliore di farla tacere. Oggi invece si ergono statue s’innalzano uomini che parlan di morte, e nelle prigioni Si sente piangere Chi ad altri la propria gioia dona. Cento anni son passati E molto l’uomo ha costruito Ma nel suo animo Non rimane che polvere e ruderi.
LO SCORRERE DELL’UOMO Federico Zeta 54
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Jormungand by Andrea Giusto 1 Christian si avvicinò al tavolo del buffet. Osservò la piramide di tartine con occhio critico e infine decise che una in meno non avrebbe compromesso la stabilità della decorazione, né la sua dieta. «Chris!» Janet gli batté una mano sulla spalla, facendolo sobbalzare mentre addentava la pasta sfoglia. «Hai assaggiato quelle al caviale? Sono deliziose!» La donna indossava una giacca a vento scarlatta e sorrideva, le guance arrossate per il freddo e l’entusiasmo. La cerimonia d’inaugurazione era il suo capolavoro, e se la stava gustando. Christian invece no. Per lui simili occasioni erano solo il momento in cui doveva infilare la pistola nella fondina, l’auricolare nell’orecchio, e guadagnarsi lo stipendio. Da un anno a quella parte erano diventate qualcosa di peggio. «Saranno costate una fortuna,» rispose in tono colpevole. Afferrò un calice di succo di frutta, dandosi una rapida occhiata intorno. La sommità del grattacielo si stava riempiendo, mancavano dieci minuti all’inizio della conferenza stampa che avrebbe preceduto la cena dei vip. Alcuni tecnici si affannavano intorno a telecamere e attrezzature video. I giornalisti che vedevano il drago per la prima volta si fermavano negli ascensori all’apertura delle porte, prima di essere spinti dai colleghi veterani. In effetti Jormungand, con i suoi venti metri di lucide squame nere, artigli, corna, coda e per finire le immense ali (al momento misericordiosamente ripiegate), sortiva un certo effetto perfino sulle persone abituate alla sua presenza. Aumentava il senso di confusione il fatto che fosse disteso su dieci tappeti persiani, sulla piattaforma dedicata all’atterraggio degli elicotteri, e colloquiasse in una lingua sconosciuta con un ometto dagli occhiali spessi. Janet non prestò la minima attenzione a quello spettacolo. Invece disse: «Jor ha appena acquistato un grattacielo, e lascia perdere la storia della fondazione archeologica. Ogni tanto, mentre sorvola la città, gli piace fermarsi per osservare il panorama. Gli servono dei posatoi. Questo per i tuoi scrupoli sul buffet.» Christian fece una smorfia. «Ti sei mai chiesta che bisogno abbia di noi?» Lei dovette intuire qualcosa. Il suo sorriso divenne triste e disse: «Non tormentarti.» All’improvviso, il succo di pompelmo sembrò a Christian più amaro. Gli ospiti iniziavano a occupare i tavoli. Qualcuno scommetteva su cosa avrebbe mangiato il loro anfitrione per cena, e qualcun altro ricordò le foto pubblicate da una rivista scandalistica che lo ritraevano mentre banchettava in un allevamento di bovini. Altri ancora si limitavano a
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tenere le mani in tasca, al caldo. Faceva freddo in cima al grattacielo, nonostante i caloriferi, ma la vista su Manhattan toglieva il fiato. Gli edifici scintillavano come diamanti alla luce del tramonto autunnale, mentre allo zenith comparivano le prime stelle. Molto più in alto, l’elicottero di una emittente televisiva e le scie dei jet. Il professor Olaf Bergen non aveva tempo per il panorama. Avrebbe ucciso pur di appropriarsi della conoscenza che il drago aveva accumulato nei suoi millenni di vita, eppure quella creatura continuava a spostare il discorso verso l’ultimo film di Steven Spielberg. A peggiorare la situazione, la sua testimonianza sulla storia scandinava antica contraddiceva l’ultima monografia che aveva dato alle stampe. Quando glielo fece notare Jormungand sorrise, scoprendo le zanne, e con una voce innaturalmente bassa e profonda disse: «Un vero peccato, professore. Ha assaggiato una tartina al caviale? Mi hanno detto che sono deliziose.» Nel frattempo, Christian e Janet si erano avvicinati. Jormungand li salutò: «Professor Bergen, le presento il signor Christian Forster, capo della sicurezza, e la signorina Janet Lewis, che dirige le pubbliche relazioni. Signori, il professore è il nostro nuovo acquisto, direttamente dalla Norvegia. Ci assisterà nel progetto di archeologia sperimentale.» L’uomo li accolse con una debole stretta di mano. Christian e Jormungand si scambiarono un lungo sguardo. «Stavolta andrà tutto secondo copione, Chris,» disse il drago. «Stasera inaugureremo il grattacielo e annunceremo la prossima campagna di scavi, ma terremo i dettagli per noi,» confermò Janet. «C’è un nuovo tesoro da recuperare e non vogliamo interferenze.» «Sarebbe opportuno.» Tutti si voltarono. Roberta indossava un elegante completo scuro, e portava il braccio destro appeso al collo con un foulard di seta. Il sinistro stringeva una stampella. Sul suo volto c’erano profonde occhiaie. «Se faremo troppa pubblicità alla faccenda, le autorità norvegesi potrebbero decidere di alzare il prezzo.» «Non ho intenzione di cedere un’altra quota del mio oro!» affermò Jormungand, indignato. Una nuvola di gelosia solcò la fronte di Janet, ma si dileguò rapida come un temporale estivo. «Benvenuta, Roberta.» Bergen si guardò intorno, confuso. «La dottoressa Roberta Fielding è il legale della Fondazione Jormungand e il mio avvocato personale,» spiegò il drago, a beneficio del professore. «È lei a guidarmi nel labirinto del vostro sistema giuridico, così privo di mitologia.» «Il semestre inizia tra due mesi,» affermò Bergen, cercando di riprendere il filo della conversazione. «Considerata l’entità della nostra donazione al suo Istituto, potrebbe concedersi un anno sabbatico,» propose Roberta. «Nel frattempo,» aggiunse, fissando Cristian, «le consiglio di fare testamento.» Lui sussurrò, rivolto alla punta delle scarpe: «Maledizio-
ne.» Nessuno lo udì, perché in quel momento giunse il sindaco e la sua voce fu coperta dagli applausi. Il resto fu tutto un tagliare di nastri e un sollevare di calici. 2 Il funerale di Carl era stato un appuntamento al quale la squadra del drago si era presentata in formazione ridotta. Oltre a Christian, sotto il cielo nuvoloso c’era Janet: il suo volto, impeccabile per il pubblico, mostrava quel giorno un privato smarrimento. Anche Jormungand era presente, con grande sconcerto dell’anziano prete. La polizia e ciò che restava della sicurezza della fondazione avevano formato un cordone che teneva a distanza giornalisti e fotografi. Roberta era ancora in ospedale. Le prime gocce avevano iniziato a cadere tra la promessa di resurrezione e la Gerusalemme celeste, e per l’amen si erano trasformate in un violento acquazzone. La pioggia gelida inzuppava il soprabito nero di Christian, lavava via il trucco di Janet, formava mille rivoli sulle squame del drago, immobile tra loro come una statua d’ebano. Il suo sguardo era fisso sulla bara che lentamente scendeva nella fossa fangosa. «Perché?» chiese Jormungand. «È la nostra natura,» rispose Christian. «Non la capirò mai.» *** Christian si svegliò a mattina inoltrata, con un feroce mal di testa. La serata precedente si era conclusa in una sbronza solitaria, una volta tornato nel monolocale che abitava da quando sua moglie l’aveva lasciato. Il sogno del funerale persisteva ai margini della sua consapevolezza, come accadeva da un anno a quella parte. Stava facendo colazione a base di caffé amaro quando suonò il campanello. «È lei il signor Forster?» disse il corriere, appena aprì la porta. Nello stesso istante squillò il cellulare. «Pronto?» rispose Christian, afferrando la penna che l’altro gli offriva. Quando ebbe firmato, il corriere la riprese, lasciò il voluminoso pacco nell’ingresso e se ne andò. «Buongiorno!» esclamò la voce del drago. Christian gettò uno sguardo al pacco: c’erano parole straniere e simboli militari. «È il mio giorno libero, Jor. C’è Fred per le emergenze.» «Il professor Bergen e Roberta sono partiti per Oslo, dove negozieranno gli ultimi dettagli con le autorità norvegesi. Janet invece rimarrà alcuni giorni a New York, per tenere a bada i giornalisti. Questa storia durerà parecchio e non vogliamo bruciarci subito.» «Sarà un scherzo, rispetto a quando si era sparsa quella voce su Hollywood,» disse Janet, in vivavoce. Risate. «Scusate,» si intromise Christian. I suoi pensieri erano intorpiditi a causa dell’emicrania. «Cosa significa questo?» «Ricordi la conferenza stampa? Hai bisogno di svago, Chris, e io ho bisogno che tu tenga sotto controllo quegli scienziati pasticcioni. Partiamo per la Norvegia oggi stesso.» Tacque un istante. «Se accetti.»
Christian rivolse uno sguardo ai venti metri quadrati che lo stringevano da ogni parte, alle stoviglie sporche e alle due valige che gli facevano da arredamento. «Dovremo prenotare un volo,» disse, rendendosi conto dell’assurdità di quelle parole. «A che serve l’aereo quando hai un drago? Nel pacco c’è una tuta dell’aeronautica, respiratore incluso. Al tramonto faremo scalo su una nave norvegese, dov’è imbarcato il resto della spedizione.» «Hai idea di quanto costi assecondare i tuoi capricci?» esclamò Janet, tra l’esasperato e il divertito. «Farà freddo, ma la vista dell’oceano è spettacolare. Ti mando un taxi, hai mezz’ora per prepararti. A dopo, Chris.» Ci fu un click, alcuni secondi di statica, poi la voce di Janet tornò in linea: «Jor ha preso a cuore la faccenda tra te e Roberta. C’era un accenno di gelosia nella sua voce? «Vuole che torniate amici.» «Non credo sarà possibile.» Un sospiro, poi Janet continuò: «Cosa può saperne un drago, di come sono fatti gli esseri umani? Certe volte è così ingenuo da fare quasi tenerezza. Questa storia dell’isola, ad esempio, se l’è inventata dopo… beh, lo sai.» «Lo so.» «Ora la smetto, altrimenti divento noiosa. Ma ho uno strano presentimento, quindi fai attenzione. E goditi il viaggio.» 3 Trascorse un mese prima che l’insediamento fosse completato. I lavori di scavo portarono alla luce un centro abitato nel punto indicato dal drago: il villaggio antico e la sua ricostruzione convivevano fianco a fianco. Del tesoro che il drago aveva nascosto in quel punto, però, non fu trovata traccia. Jormungand ipotizzò che fosse stato saccheggiato nel corso dei secoli, e per tutta risposta il professor Bergen raddoppiò i turni agli studenti che costituivano la manodopera della spedizione. Nel frattempo, i militari norvegesi costruirono un accampamento all’estremità opposta dell’isola, dotato di infermeria, eliporto e di un molo. Jormungand si stabilì sull’altopiano, tra due pareti di roccia che formavano un anfiteatro naturale. Quando Christian gli chiese perché non si facesse mai vedere al villaggio, lui rispose con ironia: «Questa non è Manhattan. Cerchiamo di essere storici.» Anche Christian scartò l’offerta di abitare con gli archeologi: non lo entusiasmava l’atmosfera che si respirava tra le capanne di legno, a metà tra una gita scolastica e un reality show. Ogni giorno partiva a cavallo dalla base militare per un giro di controllo. Faceva anche visita al drago, ma spesso lo trovava assente: allora risaliva fino alla scogliera e lo scorgeva nuotare al largo, a caccia di foche. Secondo la versione fornita ai media, Jormungand aveva trascorso gli ultimi dieci secoli dormendo in una grotta sul fondo dell’oceano prima di essere svegliato dal sonar di un sottomarino. A quella rivelazione uno scienziato aveva ipotizzato l’origine acquatica dei draghi, ma lui si era rifiutato di commentare, come sempre quando si
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trattava dei propri simili. Una sera Christian lo scorse sugli scogli che i soldati avevano depositato per riparare il molo dalle ondate. Lasciò il cavallo libero di brucare e si sedette accanto a lui. Rimasero in silenzio per qualche minuto, godendosi il tramonto. Poi il drago esordì: «È stato bello tornare nel mondo. New York è splendida, più ricca di qualunque tesoro io abbia mai posseduto. Sorvolarla di notte… erano secoli che non provavo niente del genere.» «Allora perché l’hai abbandonata?» chiese Christian. Il drago ruotò un occhio per osservarlo meglio. «Se eravate riusciti a costruire una città tanto fantastica, forse valeva la pena di fare le cose a modo vostro, per una volta. Così ho creato la fondazione, ho investito in azioni e buoni del tesoro i miei tesori che avevo nascosto secoli fa, ho rilasciato interviste. È stato divertente finché Carl non è morto,» sospirò, un suono simile al rumore di un mantice industriale. «Era me che volevano uccidere… e io non sono riuscito a fermarli. Ho sbagliato tutto.» «Non c’è mai stato un tesoro su quest’isola,» affermò l’uomo, d’impulso. «Solo vecchi ricordi. Alle volte è il passato a suggerire la soluzione migliore per i problemi del presente,» concluse il drago. Roberta arrivò la sera di Natale, sotto un gelido cielo invernale. Scese dall’elicottero sulle proprie gambe, entrò in una baracca e ne uscì trasformata in una contadina del decimo secolo: gonna di lana marrone, camicia e scialle, una candida cuffia sul capo. Christian la aiutò a montare a cavallo, poi afferrò le briglie e insieme si diressero al villaggio: venti minuti di strada attraverso la steppa battuta dal vento. La luna si affacciava tra gli squarci delle nubi, il respiro si condensava in effimeri sbuffi di vapore. Roberta ruppe il silenzio. «Ti sei mai chiesto che bisogno avesse di te?» Lui non rispose. La donna si strinse nello scialle. «Come pensi ti abbia trovato?» La sua voce assunse un tono tagliente. «Ufficiale dei caschi blu in Bosnia, congedato con disonore. Vivi in un monolocale e sì, sappiamo dei tuoi problemi con la bottiglia. Non è un bel curriculum.» Christian continuò a camminare, lo sguardo fisso sul sentiero che si snodava tra l’erba congelata. Lontano, iniziavano a sentirsi le risate degli studenti e si intravedeva il bagliore dei falò. «Ricordi quando il mondo tratteneva il fiato davanti alla televisione? Un drago sopra New York, tutta quella gente con lo sguardo rivolto verso l’alto. Poi ricevetti la telefonata dal cliente più incredibile della mia vita. La prima cosa che ha fatto è stata mettere insieme la squadra, cominciando da te. Jor cercava una qualità particolare per il capo della sicurezza.» «Non è come pensi,» disse lui. «Non sono…» «Un maledetto eroe?» completò per lui Roberta, sarcastica. «Hai mandato a monte la missione per salvare venti profughi dai miliziani. Ti hanno quasi ucciso, e invece di premiarti sei stato sbattuto fuori. Sei un cavaliere senza macchia e senza paura, se mai ne è esistito uno: l’esempio giusto per un drago che vuole vivere con gli uomini. E io ti odio.»
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Janet sedeva su una rozza panca di legno, il volto illuminato dal fuoco, e sorrideva. Tra le mani stringeva una tazza di vino. I giornalisti, arrivati quella mattina in elicottero, avevano lasciato le telecamere sui cavalletti e si stavano gustando l’arrosto. La diretta per la notte di Natale era un regalo ai media, tenuti a lungo a digiuno e delusi dall’assenza del tesoro. Per l’occasione, il professor Bergen indossava una pelle di pecora. Era sicuramente ubriaco quando esclamò: «Propongo un brindisi! A Jormungand, che ha realizzato questa avventura scientifica!» «Al drago!» esclamò in coro la tavolata. Seguì il silenzio, mentre un centinaio di persone travestite da vichinghi beveva da coppe di legno e corno, sotto lo sguardo di migliaia di telespettatori. Poi un giornalista chiese: «L’archeologia sperimentale non sembra molto comoda. Cosa vi manca della civiltà?» Decine di voci si accavallarono. Il professore zittì tutti con un gesto della mano: «Nulla! Abbiamo un sito archeologico da studiare. Abbiamo le capanne, i cavalli, campi da seminare che in primavera germoglieranno. Belle fanciulle.» Risate. «E abbiamo il drago!» Forse fu per il gelido vento dell’oceano se tutti all’improvviso si strinsero nei mantelli. Migliaia di telespettatori ascoltarono altri secondi di silenzio prima che la domanda successiva venisse formulata: «Perché l’insediamento fu abbandonato?» Christian non sentì mai la risposta: dopo aver accompagnato Roberta, era tornato all’accampamento senza farsi notare. 4 Per il loro matrimonio, Roberta e Carl avevano scelto una cerimonia all’aperto. Christian, Martha e Janet avrebbero fatto da testimoni. Jormungand aveva messo a loro disposizione una villa fuori città. Ed eccoli intorno all’altare, in una bella giornata di sole: i consiglieri della Fondazione Jormungand, qualche maggiorente e per finire il drago, a cui qualcuno aveva appeso al collo una decorazione floreale. Mentre il prete officiava la cerimonia, Christian aveva ripensato alla sua vita dopo la Bosnia, e a come la situazione fosse migliorata dopo l’incontro con Jor e la sua squadra. Sospettava che valesse anche per gli altri. Jormungand suscitava emozioni forti, nel bene o nel male. Compresi quei fanatici religiosi, furiosi perché il drago aveva acquistato un edificio nel loro quartiere. Roberta aveva subito avviato le pratiche per uscire dal contratto, ma nel frattempo erano piovute minacce di morte per la “Bestia e i suoi servitori”. Non era la prima volta, naturalmente: c’era sempre qualche pazzo pronto a vedere in Jor l’immagine del diavolo. Nessuno li aveva presi troppo sul serio. Poi c’era stata l’esplosione. Christian aveva disposto la sicurezza della fondazione nei punti strategici, dentro e fuori il perimetro della villa, e la polizia aveva mandato qualche pattuglia. Ma quando il primo furgone aprì una
breccia nella difesa, una decina di uomini armati di fucili automatici aprì il fuoco all’impazzata. Persino Jormungand impiegò qualche minuto a ucciderli tutti. Carl morì in quell’attacco. Per colpa della negligenza di Christian, disse Roberta. *** Christian si svegliò con l’odore di bruciato nelle narici e il rumore di armi da fuoco nelle orecchie. In bocca persisteva il sapore dell’alcool. Per un istante pensò di essere ancora in Bosnia. Richiuse gli occhi, gemette, e infine si alzò. Fuori dalla finestra, l’orizzonte notturno era illuminato dal bagliore delle fiamme. Il villaggio stava bruciando. Istintivamente, capì subito cosa fosse successo. Quella consapevolezza fu come una scossa elettrica che gli percorse il corpo da capo a piedi, scacciando i residui di sonno. Si vestì in fretta e uscì dalla baracca. Impiegò meno di un minuto per ispezionare il campo militare, trovandolo deserto. Una visita nell’armeria aggravò i suoi sospetti. Afferrò uno dei fucili d’assalto rimasti, infilò in tasca alcuni caricatori e riempì le borse della sella di bombe a mano. Poi salì a cavallo e lo spronò al galoppo. Faremo tutto secondo copione, stavolta, aveva detto il drago. Tutto secondo copione. Continuava a pensare a quelle parole mentre attraversava ciò che restava dell’accampamento. Le capanne bruciavano come innaffiate dal napalm, un rogo sbagliato in quella gelida e umida notte di Natale. Il fuoristrada dell’esercito si era ribaltato sul ciglio della strada, i pneumatici sprigionavano un intossicante fumo nero. Sull’uscio delle abitazioni e negli stretti vicoli giacevano i corpi degli studenti e dei soldati, alcuni carbonizzati, altri fatti a pezzi dagli artigli del drago. Bergen, a faccia in giù nel fango, indossava ancora quella ridicola pelle di pecora, e Janet aveva la bocca spalancata in un’espressione di completo stupore. Christian scese da cavallo: guardò l’animale fuggire terrorizzato verso la brughiera, poi si voltò. Jormungand lo aspettava dall’altra parte della strada, immobile come un frammento di oscurità, talmente enorme da far sembrare giocattoli le capanne. Ai suoi piedi giaceva il corpo esanime di Roberta. I due si osservarono a lungo, tra il fumo e le fiamme. Poi, insieme, attaccarono. I proiettili andarono a segno, spargendo intorno frammenti di squame, carne e sangue. Il soffio di fuoco investì Christian sul lato destro: capelli e sopracciglia si incendiarono, la pelle sfrigolò. L’uomo lasciò l’arma arroventata e si gettò al suolo. Quando cercò di rialzarsi, il drago era comparso. Cercò di prendere una granata, ma il dolore risalì lungo il braccio così intenso da strappargli un urlo. In quel momento Jormungand piombò dal cielo. Spinse l’uomo nel fango con una zampa: il semplice peso gli spezzò le costole, svuotandogli i polmoni. Annaspando, le dita di Christian trovarono qualcosa, un’impugnatura e un grilletto. Con un ultimo spasmo afferrò l’arma e la puntò al cuore del drago. Premette il grilletto, e poi fu tutto scuro.
5 All’inizio ci fu soltanto il dolore, scandito dalle iniezioni di morfina. Poi arrivarono i volti delle infermiere. E le voci. Dal piano inferiore sentiva Roberta dare spiegazioni, formulare ipotesi, offrire suggerimenti. C’era un’inchiesta in corso. L’opinione pubblica voleva le teste dei consiglieri della Fondazione Jormungand su un piatto d’argento e la marina militare stava lanciando bombe di profondità per stanare il mostro, che sembrava sparito nel nulla. Anche loro due, comprese, erano fuggiaschi: testimoni da salvaguardare. Per il momento. Prima di darli in pasto alla stampa. Dopo un po’ Christian smise di ascoltare: nessuno attraversava la soglia della sua stanza, a parte Roberta e il personale medico, e comunque non gli importava granché di quel che accadeva nel resto del mondo. Osservava le montagne fuori dalla finestra e la foresta che si stendeva a perdita d’occhio, e dormiva un sonno senza sogni. E poi, una sera, furono soli. Intorno a loro, il legno del cottage scricchiolava pigramente agli ultimi, tiepidi raggi di sole primaverile. Si sdraiarono sulle poltrone della veranda e assaporarono la brezza profumata di corteccia di pino. «Sapevi che l’avrebbe fatto,» esordì Christian, pacato. «Ha provato ad adattarsi al mondo moderno, ma ha fallito. Essere un bersaglio è un’esperienza difficile da sopportare per un mostro abituato a spargere terrore e morte,» spiegò Roberta. «Così ha preparato un’uscita di scena alla vecchia maniera, tanto per ricordarsi cos’eravamo noi, e cos’era lui. Il villaggio sull’isola… è stato Jor a distruggerlo, la prima volta.» Lui giocherellò con l’impugnatura della stampella. «Speravi che mi uccidesse.» Roberta annuì. «Non avevo previsto che ti concedesse di redimerti. Forse si sentiva in debito con noi e ha deciso di saldarlo a modo suo. Credo che fossimo importanti per lui, in qualche modo… ma cosa possiamo saperne, di come ragiona un drago? Piuttosto, fai ancora quegli incubi?» «No.» rispose Christian. «E tu?» Lei tacque per un istante. «Nemmeno.» «A quanto pare, Janet aveva ragione.» «Riguardo a cosa?» Christian si abbandonò allo schienale della poltrona. Era una bella serata, e voleva godersela. «Niente d’importante.» Infine tacquero, imbarazzati. Molti erano morti e loro erano stati parte di tutto questo, forse addirittura complici, ma non riuscivano a sentirsi in colpa. Al contrario: per la prima volta da quella che sembrava un’eternità, erano in pace. Lontano, un falco spiccò il volo. Compì un largo cerchio, poi sparì all’orizzonte.
FINE
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Paolo Voto
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LA SOLUZIONE DEFINITIVA di Marco Generoso Il bambino abbracciò sua madre, felice come il paradiso vegetale in cui stava vivendo. “Mamma” cominciò il piccolo, guardandola coi suoi grandi occhi “com’è possibile tutto ciò? Come fa tutto a essere così perfetto?” La madre, grandi occhi azzurri e lunghi riccioli biondi, rispose sorridendo. “È molto semplice. È stato grazie alla soluzione definitiva.” “E cos’è la soluzione definitiva, mamma?” “È stata la decisione, presa da tutti gli uomini che muovono il mondo, di impedire ai bambini piccoli di giocare a calcio. Solo dai 15 anni in su si può giocare. Così i rancori sopiti dei bambini incapaci a calcio non si sarebbero trasformati in istinti omicidi o in desideri di dominazione mondiale. Così tutte le guerre sono finite e tutte le persone vivono in pace.” Il piccolo strinse ancora più forte la madre. “Meno male” mormorò “a me il calcio fa schifo.” Poi alzò in su lo sguardo e annegò in quel mare azzurro che erano gli occhi di sua mamma. Solo che non era più sua mamma e lui non era più un bambino, ma un ragazzo sulla ventina, senza vestiti e senza pudore. Anche la bellezza dagli occhi azzurri e dai riccioli biondi che gli stava davanti era nuda come il peccato. Stavano l’uno davanti all’altra a fissarsi pieni di desiderio, in piedi sulla Luna. 64
“Scopami maschio, scopami! Così scoprirai, finalmente, il risultato di radice quadrata fratto due moltiplicato per salamelecco.” “Bene!” disse lui “questo dilemma mi ha sempre perseguitato!” Ispirato dalle stelle e dal pianeta Terra in lontananza, il giovane si avvinghiò a lei in un impeto animale. Ogni volta che la baciava e la toccava, lei si moltiplicava in 5, poi 10, poi 20
ragazze, tutte bionde e tutte bellissime e tutte che lo desideravano con impazienza. Ognuna gli sussurrava conturbanti parole: “…oh siii…” “…sei così bello…” “…è così grosso…” “…radice quadrata…” “…salamelecco…” In quel groviglio orgiastico di corpi e sesso, il ragazzo perse se stesso. Sfortunatamente per lui, nel tanto agognato momento dell’orgasmo, la scena mutò e si ritrovò di fronte alla commissione d’esame di maturità, ancora completamente nudo. I professori scuotevano il capo impietosi. “La sua esposizione è stata deludente ed inferiore alle aspettative” fu l’ardua sentenza della presidente di commissione. “Nonostante la sua opinione e il suo disinteresse, D’Annunzio era, e rimane tuttora, uno dei più grandi poeti della letteratura italiana!” “NOOOOO! D’Annunzio no!”
Cazzo, che sogno assurdo. Non devo più mangiare così pesante a cena. Ieri è stata l’ultima volta che mi concedo pizza con peperoni, salsiccia e cipolle. Basta! Sennò poi mi tocca sorbirmi ancora la maturità onirica! E’ stata proprio una nottataccia. Adesso mi aspetta una bella lezione di letteratura austrolopiteca comparata medievalista, una roba di una leggerezza… Aspetta ma… cazzo no! Quella roba non me la sono sognata ieri notte, ma ora. Mi sono appisolato in autobus, dovevo scendere 5 fermate fa. E ora, chi ci arriva alla lezione in tempo? Ciliegina sulla torta, oggi piove. Ti odio legge di Murphy, funziona sempre. Dovevo fare lo scienziato, altro che il letterato! Armato di ombrello, dovrò farmi minimo un quarto d’ora a piedi. Se almeno non piovesse, mi prendevo la bici. Che poi, il prof di letteratura austrolopiteca è un tale stronzo. Pare che non dia diciotto nemmeno se lo implori in aramaico (lingua fondamentale per la letteratura austrolopiteca). A meno che non hai due tette grandi così, allora ti mette 30 senza pensarci e senza staccarti uno sguardo dal seno. Maledette femmine, come sanno sfruttare le debolezze di noi fottuti porci. Se mai sarò un professore di letteratura, spero di non essere così: stupido, brutto, pelato, segaiolo e dall’alito puzzolente. Maledetto prof. Per finire così doveva essere uno di quei bambini che da piccoli non sapevano giocare a calcio e allora erano emarginati da quegli autoproclamati pseudoatleti spocchiosetti di 5 anni. Uno sfigato scarso a calcio, come… come me. Minchia, temo che farò anch’io la sua fine.
Dev’essere per questo che è diventato così, un vero uomo di merda. Per tutti i maschietti nati al mondo, per una sorta di perversa giustizia divina, chi non è bravo a giocare a calcio o non gli piace, è destinato a crescere pieno di risentimento. Secondo me è questo il triste passato che si cela dietro dittatori, terroristi, stupratori, serial killer, mafiosi e ogni delinquente della peggior specie. Il male e l’odio nasce in noi nel momento in cui realizziamo che i nostri piedi a banana non ci faranno mai fare gol, che siamo costretti a subire l’umiliazione di essere scelti per ultimi, che se nel fare le squadre rimanevamo noi o il bambino paralitico, sceglievano sempre il bambino paralitico. E questa umiliazione te la porti dentro e cresce fino a diventare rancore, un rancore così profondo e tenebroso che oscura ogni pensiero, ogni gioia, ogni luce. Lo nascondi, non lo vuoi dare a vedere perché te ne vergogni, ma grondi di questo rancore, di questa infida materia nera. Vorresti sfogarti, ma non puoi, perché fondamentalmente sei un inetto. E ogni volta che quegli stronzi dei tuoi amichetti dicono “giochiamo a calcio?”, vorresti morire. Meno male che esistono i gelati, il cioccolato e i cartoni animati. Una bella puntata dei Power Rangers e ti dimentichi di tutto, felice come prima! Comunque, tornando al mio delirio, secondo me ogni bimbo che ha subito questo ingiusto calvario, potenzialmente da grande può diventare un criminale. Sì lo so che ci possono essere tanti altri fattori. Vittima di bullismo, colpevole di bullismo, genitori assenti, sfiga a scuola o al lavoro, due di picche dalle ragazze 65
o, semplicemente, naturale inclinazione alla stronzaggine, ma tutto questo porta lontano dalla mia, scientificamente provata, tesi. Far giocare i bambini a calcio è la causa di tutti i mali della società! Da adulto, o prima, un individuo del genere si darà ad attività dalla dubbia moralità: droga, gioco d’azzardo, alcool, prostituzione, studio di psicologia o partecipare a corsi di scrittura creativa. Tra l’altro io, non ero poi così male. Quando mi ci impegnavo, facevo la mia porca figura. È che… due palle! Correre dietro a una palla come un asino mi ha sempre fatto un’inesprimibile fatica e poi… poi mi distraggo. Mi perdo nei miei pensieri e vado sovrappensiero. A voi non capita mai? Quando uno è sovrappensiero, non lo schiodi, con la mente si cavalca le onde psichiche dei pensieri fluttuanti, viaggiando per le meravigliose dimensioni della affettuosa futilità e non ci si accorge più del mondo che lo circonda. In qualsiasi situazione, come una partita di calcio o un litigio con la fidanzata o andare all’università o… oh cazzo! Mi sono perso, nei pensieri e per strada. Lo sapevo. Sono proprio scemo. Ora, come minimo, ci metterò altri 10 minuti per andare a lezione. Quel prof di merda prende pure le presenze e io sono stato solo a tre lezioni su quindici. Dove cazzo sono finito? Guardiamo… si ok. Sono in piazzetta, ma… che ci fa tutta questa gente qui? E tutta quella polizia? Perché ci sono le transenne? Mah… chiederò a quella simpatica vecchietta laggiù. “Passa il presidente… quello lì, in 66
televisione… quello negro! Come si chiama? Ah si… Baldrack Osama!” “Osama? Intende il terrorista?” chiedo perplesso. Da come parla, dev’essere una vecchietta di altri tempi. Si capisce dai toni razzisti. “Massì, s’assomigliano tutti, ‘sti negri! Tutti terroristi!” Meglio ignorare queste opinioni e andare avanti: “Signora, guardi che Osama Bin Laden è morto.” “Macché Big Laben! Ho detto che passa il presidente negro, quello degli Stati Uniti, Baldrack Obama!” “Aaaah… lei intende BaRack OBama!” “Si e che ho detto? Hanno tutti i nomi uguali, ‘sti negri!” Contento dell’informazione, evito di far notare alla signora che baldracche e baracche son due cose differenti e che non è il caso di chiamare negro il presidente degli U.S.A. Però, questo mi fa nascere un’idea… un’idea molto malsana. Forse, quel sogno che ho fatto in autobus era un sogno premonitore. Magari, se espongo la mia idea a Barack Obama, uno degli uomini più potenti al mondo, il mio sogno diverrà realtà. Un mondo epurato da tutti i mali e soprattutto bambini che giocano a calcio. Sì, devo proprio parlarne a Obama! D’altronde è democratico, mi ascolterà. D’altronde, son tutti democratici ‘sti neg… ehm… neri! Tanto di letteratura austrolopiteca non me n’è mai fregato un cazzo.
RAVEN Aniello Caiazza
I due fumetti che state per leggere nelle 4 pagine seguenti sono frutto di un piccolo esperimento organizzato tra gli autori di Ronin. Abbiamo preso una sceneggiatura brevissima di Luigi Chialvo e l’abbiamo data a due disegnatrici, Francesca Dea ed Erika Asphodel, perché la realizzassero in modi opposti ma complementari, come il giorno e la notte. “Silence (Day + Night)” è il risultato di questo esperimento. Fateci sapere cosa ne pensate! 67
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continuo a seguire il segnale. PQO>KL
base, qui !O>SL WBQ> a rapporto:
F PBKPLQOF OFIBS>KL RK> CLOJ> AF SFQ> FKBOQB
PF QOLS> FK >WFJRQ PRI PBDK>IB MOFJ>OFL
MOLPBDRL FK IFKB> OBQQ> PR L?FBQQFSL
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il corylus.
egli è il titano. tu sei la chiave.
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base, qui Bravo zeta 4 a rapporto:
ancora nessun contatto. procedo.. ma che cosa..
come osi sconfinare nelle terre di silex?
preparati ad essere espulso. Silex non perdona.
la prepotenza non sara’ tolLerata.
base, qui Bravo zeta 4 abbiamo un problema.
81 continua
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COME WHAT MAY Aocso Mocsoa 87
prossimamente su www.roninmag.it
il primo speciale targato Ronin.
Monsters Milkshake. 88