Capitolo campione 25 - Artisti, città, paesaggi (Umanistica SS2)

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artisti città paesaggi

una nuova storia dell’arte

3. Dal Quattrocento alla Controriforma

ORIENTAMENTO INTELLIGENZA ARTIFICIALE EDUCAZIONE CIVICA

Il Quattrocento

Ancora oggi il panorama del monte Amiata che si ammira dal Palazzo Piccolomini di Pienza, nonostante il secolare lavoro dell’uomo e una bonifica novecentesca, mantiene i caratteri che aveva nel Quattrocento. Il Palazzo fu progettato per volere di papa Pio II Piccolomini nella seconda metà del XV secolo, nell’ambito della più generarle ricostruzione della città voluta dal pontefice.

Sul lato sud dell’edificio si trova un giardino pensile che si affaccia sulla circostante vallata. Questo spazio presenta già caratteristiche dei giardini rinascimentali, circondato com’è da una muratura in pietra ricoperta di edera. La ricerca di armonia tra spazio urbano e spazio naturale è tipica di quest’epoca. È proprio a partire dal Quattrocento, infatti, che il paesaggio inizia a essere apprezzato per i suoi valori estetici, come se fosse esso stesso un’opera d’arte.

Firenze e il primo Rinascimento

Nel 1401, a Firenze, si tiene un concorso per la Porta Nord del Battistero, sul tema del Sacrificio di Isacco Nel segno del Gotico internazionale vince Ghiberti e tra i partecipanti si distingue Brunelleschi.

Chiesa di Santa Maria Novella

Battistero di San Giovanni Cattedrale di Santa Maria del Fiore

La reinvenzione dell’Antico in architettura passa per il rigore e la razionalità dei progetti ideati da Brunelleschi per la cupola del Duomo, lo Spedale degli Innocenti, la Basilica di San Lorenzo e il Capitolo de’ Pazzi.

Spedale degli Innocenti

Basilica di Santa Maria del Carmine

In pittura è Masaccio a rompere definitivamente con la tradizione precedente. I suoi affreschi per la Cappella Brancacci e per la chiesa di Santa Maria Novella mostrano ormai tutte le novità del linguaggio rinascimentale.

Concorso per la Porta Nord del Battistero Ghiberti, Porta Nord

Firenze conquista Pisa

Fine dello scisma d’Occidente

ca. 1415-1417

Donatello, San Giorgio

Palazzo Vecchio

L’arte “guida” della fase iniziale del Rinascimento è la scultura, che ha in Donatello il suo massimo esponente. Il San Giorgio è un’opera profondamente innovativa non solo per il linguaggio, ma anche per l’uso della prospettiva nel basamento della statua.

Brunelleschi, Cupola di Santa Maria del Fiore

Brunelleschi, Loggia dello Spedale degli Innocenti

Masolino e Masaccio, Cappella Brancacci Ghiberti, Porta del Paradiso

Orsanmichele

L’Umanesimo civile • I nomi di Dante, Petrarca e Boccaccio ci ricordano che, fin dal Trecento, si era iniziato a riscoprire la letteratura antica: il fenomeno, chiamato Umanesimo, crebbe nel Quattrocento e assunse a Firenze una connotazione particolare, perché qui furono proprio letterati e umanisti a ricoprire incarichi pubblici. Si parla pertanto di Umanesimo civile, a indicare lo stretto rapporto tra impegno politico e recupero dei valori trasmessi dagli autori classici (soprattutto Platone, Aristotele e Cicerone). Nuovo modello del vivere civile fu l’antica Repubblica romana, di cui la Repubblica fiorentina si sentì erede, soprattutto perché ne aveva raccolto gli ideali fondanti: una forma antitirannica di governo e l’impegno di ogni cittadino per la difesa della patria e della libertà.

Arti maggiori e Arti minori • La Repubblica di Firenze era di fatto fondata sul lavoro. Per essere ammessi agli uffici pubblici si doveva essere iscritti a un’Arte, ovvero a una delle ventuno Corporazioni che riunivano i membri di una categoria professionale, per difenderne gli interessi. Le sette corporazioni “maggiori” riguardavano le professioni che richiedevano minore fatica fisica e permettevano più lucrosi guadagni, mentre le quattordici arti “minori” riunivano i mestieri più artigianali. Tra le Arti maggiori c’erano l’Arte di Calimala (che associava i mercanti internazionali di tessuti e che indisse nel 1401 il celebre concorso per la porta del Battistero), l’Arte del Cambio (cui appartennero banchieri come Palla Strozzi o Cosimo de’ Medici) e i Medici e Speziali (cui si aggregavano pure i pittori, avendo a che fare con il commercio dei pigmenti).

Gli scultori, invece, costituivano una delle Arti

minori, quella dei Maestri di Pietra e Legname. A memoria del ruolo determinante svolto dalle Arti resta nel centro di Firenze la loro antica chiesa, detta di Orsanmichele.

Le campagne militari di Firenze • Nel primo Quattrocento Firenze partecipò a una serie di campagne militari. Nel 1406 conquistò Pisa, garantendosi così l’accesso al mare, mentre negli anni Venti fu coinvolta nelle cosiddette “guerre di Lombardia”, combattute tra Milano e Venezia per l’egemonia nel Nord della Penisola. Nel 1440 Firenze sconfisse le truppe milanesi ad Anghiari, nell’alta Valle del Tevere, mettendo fine alla pressione viscontea su Firenze.

L’affermazione di Cosimo de’ Medici • Intanto, nel 1434 era rientrato a Firenze da un breve esilio a Venezia Cosimo de’ Medici (1389-1464), ricchissimo capo di una grande banca che aveva ramificazioni in tutta Europa. Nello stesso anno si era stabilito in città papa Eugenio IV. Nel 1439, il pontefice trasferì a Firenze il Concilio ecumenico che si era aperto l’anno prima a Ferrara per riunificare le Chiese d’Occidente e d’Oriente. La delegazione greca che vi partecipò ebbe il merito di dare ulteriore impulso agli studi delle lettere greche, che già erano di casa a Firenze.

Il Concilio fiorentino venne finanziato proprio da Cosimo de’ Medici, il quale, pur conservando e rispettando le istituzioni della Repubblica, divenne di fatto signore della città. Alla sua morte Cosimo fu insignito dell’appellativo di pater patriae (“padre della patria”), mentre i Medici avevano ormai ottenuto il predominio politico di Firenze.

Battaglia di San Romano tra Fiorentini e Senesi

ca. 1427

Masaccio, Trinità 1432

ca. 1435-1440

Donatello, David

Leon Battista Alberti, Sulla pittura (1435-1436) 1436

Concilio di Ferrara-Firenze

Battaglia di Anghiari tra Fiorentini e Milanesi

Paolo Uccello, Monumento equestre a Giovanni Acuto ca. 1440

Morte di Cosimo il Vecchio

Beato Angelico, Annunciazione 1438-1439

il contesto

Video d’autore

T. Montanari, Arti e scienza «non udite e mai vedute»

Presentazioni

• Firenze e il primo Rinascimento

• Il concorso del 1401

• La prospettiva

Itinerario

Google EarthTM

L’architettura rinascimentale in Italia

gli artisti

Presentazioni

• Brunelleschi

• Donatello

• Masaccio

Itinerario

Google EarthTM I viaggi di Donatello

le opere

HUB Art

Tutte le opere da scoprire, ingrandire, geolocalizzare, e molto altro

Video “Da vicino” Masaccio, Trinità

Letture guidate

• Brunelleschi, Sacrificio di Isacco

• Brunelleschi, La cupola di Santa Maria del Fiore

• Masaccio, Tributo

• Masaccio, Trinità

fonti e critica

• Leon Battista Alberti, La vitalità artistica di Firenze

• M. Baxandall, L’iconografia dell’Annunciazione

studio e ripasso

HUB Test

Glossario

Linea del tempo

Video Tecniche La terracotta invetriata

Le innovazioni del Rinascimento

La centralità dell’uomo • Nel primo Quattrocento Firenze ha conosciuto forse la più straordinaria tra le sue stagioni artistiche, cui oggi si dà il nome di “Rinascimento”, proprio per alludere alle dirompenti novità di questo periodo di rinnovamento.

Già un secolo prima, Giotto aveva tagliato i ponti con l’arte bizantina, volta a trasmettere la dimensione trascendente del divino, e aveva dato vita, invece, a una pittura che voleva rappresentare con maggiore immediatezza e aderenza alla realtà la natura delle cose. Adesso, una nuova generazione di maestri elaborava un linguaggio inedito: Filippo Brunelleschi (1377-1446), Donatello (1386-1466) e Masaccio (1401-1428) furono i promotori di questo rinnovamento artistico e culturale, che si rivelò poi una rivoluzione destinata a cambiare faccia al mondo occidentale 12

Proseguendo dunque sulla scia di Giotto, che si era già distaccato dal simbolismo medievale, si iniziò ora a concentrare l’attenzione sull’uomo e sulla sua sfera emotiva e psicologica. L’essere umano, infatti, cominciò a essere considerato il vero protagonista da mettere al centro non solo dell’opera d’arte, ma anche di una nuova visione del mondo. Questa propensione a dare centralità alla sfera dell’individuo, e non più a quella del trascendente, derivava dall’antichità classica, dalla sua letteratura e dalla sua arte, per le quali proprio la figura umana era il riferimento e il criterio ispiratore.

La nuova centralità dell’uomo, che lo pose al centro dell’universo e lo considerò misura di tutte le cose 3, condusse gli artisti rinascimentali a studiarne l’anatomia e le proporzioni anche dal vero 4, con l’impiego di modelli viventi, come già era avvenuto nel mondo antico. Occorre ricordare tuttavia che, per il momento, fu soltanto il corpo maschile a essere oggetto di tale indagine.

1 Pittore fiorentino, Cinque maestri del rinasCimento fiorentino, prima metà del XVI secolo, olio su legno, 65×213. Parigi, Musée du Louvre. Sono ritratti, da sinistra a destra: Giotto, Uccello, Donatello, Manetti, Brunelleschi.

2 Masaccio, san Pietro in Cattedra, particolare del presunto autoritratto (rivolto verso di noi) e del presunto ritratto di Brunelleschi (l’uomo col copricapo scuro), affresco, ca. 1424-1425. Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci.

3 Francesco di Giorgio Martini, ProPorzionamento della Pianta di un edifiCio saCro in base al CorPo umano, ca. 1489-1501 Firenze, Biblioteca Nazionale.

4 Benozzo Gozzoli, nudo Con Cavallo, ca. 1447-1449, disegno su carta, 35,9×24,6. Londra, British Museum.

La riscoperta dell’Antico • Con l’Umanesimo si riscoprirono la cultura e l’arte classiche. Un’esperienza fondamentale per la riscoperta dell’antico nelle arti fu un viaggio che Brunelleschi e Donatello, verso il 1410 o poco prima, fecero a Roma. Qui i due amici ebbero modo di conoscere le sculture e le architetture degli antichi Romani, delle quali studiarono le strutture e le tecniche esecutive, misurando e disegnando i monumenti. In quegli anni Roma non era ancora una capitale artistica, anche perché nell’Urbe l’autorità e la presenza stessa del papa erano a lungo mancate per il trasferimento della corte pontificia ad Avignone dal 1309 al 1377, e continuavano a mancare (per lo Scisma d’Occidente lacerava dal profondo la Chiesa), fattore che aveva allontanato committenti e maestri.

L’idea di andare a studiare le rovine romane, dunque, non era affatto scontata, come lo sarebbe stata qualche decennio dopo, quando il soggiorno a Roma divenne una tappa quasi obbligata nella formazione di un artista. C’è, anzi, da sospettare che dietro il viaggio a Roma di Brunelleschi e Donatello ci sia stata la convinzione che lo stato repubblicano fiorentino dovesse guardare al glorioso passato della Repubblica romana, per prenderne a modello i valori civili. Tale opinione era assai diffusa e trovò convinti assertori in letterati e umanisti

5 Apollonio di Giovanni, ritratto di ColuCCio salutati, ca. 1450-1455, miniatura. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Strozzi 174 (da Francesco Petrarca, I trionfi, manoscritto membranaceo, mm 225×150).

6 Donatello, Cristo morto tra due angeli, 1446-1450, bronzo, cm 58×56. Padova, Basilica di Sant’Antonio, Altare del Santo. L’opera, realizzata da Donatello negli anni in cui si trovava a Padova, mostra chiaramente l’influenza dell’arte romana, così come la ricerca di una nuova resa naturale.

come Coluccio Salutati 5 e Leonardo Bruni, ai quali Firenze affidò il ruolo di cancelliere. Senza questi ideali probabilmente non avrebbero mai avuto luogo le cruciali ricerche romane di Brunelleschi e Donatello 6, che aprirono le porte al recupero dell’antico nell’architettura e nella scultura.

Nell’architettura, gli esempi antichi furono fonte di ispirazione sia come modelli di edifici, sia per quanto riguarda l’impiego dei cosiddetti ordini architettonici classici: in particolare furono ripresi lo ionico, il corinzio e il composito (un’elaborazione degli antichi romani che unisce i primi due, ponendo in basso le foglie del corinzio e nella parte alta il canale e le volute dello ionico).

La natura • Il desiderio di recuperare i modelli e lo spirito del mondo antico, partito dall’ambito letterario e poi trasmessosi a quello artistico, si tradusse nella tensione verso l’imitazione della natura. In altre parole, ciò significa che quel che l’opera rappresentava doveva essere aderente alla visione umana della realtà. In effetti, la “natura” che il Rinascimento imitò non coincideva esattamente con quella tangibile, bensì ne costituiva una idealizzazione, epurata dalle imperfezioni e i cui elementi venivano disposti secondo criteri di ordine ed equilibrio, seguendo una precisa gerarchia.

Presentazione
Firenze e il primo
Rinascimento

La prospettiva • Abbiamo visto che, per gli artisti del tempo, lo scopo dell’arte era imitare la natura; tale principio si estese anche anche alla resa figurativa della profondità dello spazio. Per gli artisti rinascimentali questo significò sperimentare nuove tecniche espressive, nel tentativo di riprodurre scientificamente la tridimensionalità dello spazio reale sulla superficie bidimensionale di un dipinto, di un rilievo o di un affresco. Quello che era già stato tentato empiricamente da Giotto venne ora studiato a Firenze con rigorosi metodi geometrici e si approdò, grazie all’ingegno di Filippo Brunelleschi, alla invenzione della prospettiva [Le tecniche, → p. 38]: un metodo per rendere in modo rigoroso e coerente la progressiva riduzione delle dimensioni degli oggetti in relazione alla profondità della loro collocazione nello spazio 78.

Geometria e proporzioni • Per l’uomo del Rinascimento l’ordine che regge l’universo era di natura divina e si fondava su rapporti matematici. L’artista rinascimentale volle rifletterne, nella sua opera, l’intrinseca bellezza.

Molti architetti e artisti ricercarono anche le proporzioni ideali del corpo umano, come aveva già fatto Vitruvio, l’architetto e trattatista romano, nel III libro del suo trattato; anche Leonardo da Vinci le illustrò in un celeberrimo disegno, il cosiddetto Uomo vitruviano 9

Dunque, per l’artista rinascimentale, la chiave della bellezza era da ricercarsi nella proporzionalità fra gli elementi che compongono un’opera; e la proporzione si ottiene con

l’applicazione di criteri di natura geometrico-matematica, dunque razionali e oggettivi. La bellezza dell’opera, quindi, non fu più ricercata tramite la profusione degli ornamenti o la preziosità dei materiali (come accadeva nel Gotico), ma nella regolarità e nell’armonia dei rapporti interni, che gli artisti definirono “commensurabilità”.

7 Beato Angelico, annunCiazione, dall’Armadio degli Argenti, 1451-1453, tempera su tavola, cm 38,5×37. Firenze, Convento di San Marco.

8 Filippo Lippi, santo stefano è nato e sostituito Con un altro bambino, dalle Storie di Santo Stefano e San Giovanni Battista, 1460, affresco. Prato, Duomo.

9 Leonardo da Vinci, uomo vitruviano, ca. 1490, matita e inchiostro su carta, cm 34×24. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

10 Paolo Uccello, figura virile seduta di tergo soPra una PanChetta e davanti ad una maCChina forse Per filare la lana o tessere, ca. 1451-1475, penna, inchiostro e biacca su carta, mm 186×145. Firenze, Gallerie degli Uffizi - Gabinetto dei disegni e delle stampe.

11 Paolo Uccello (attr.), studio ProsPettiCo di CaliCe, stilo, penna e inchiostro su carta, mm 349×243. Firenze, Gallerie degli Uffizi - Gabinetto dei disegni e delle stampe.

12 Piero della Francesca, Proiezione di una testa umana. Dal De prospectiva pingendi, Ms. Parm. 1576, 1474-1477. Parma, Biblioteca Palatina.

Disegno • Tutta l’arte del Rinascimento venne progettata attraverso la tecnica del disegno. Esso venne considerato lo strumento privilegiato attraverso il quale l’idea si manifesta e prende forma, consentendo quindi una razionale progettazione dell’opera.

Il disegno rappresenta una sintesi della realtà e consentì all’artista di studiare e riprodurre ciò che osservava 10, di organizzare gli elementi dell’opera coerentemente con le regole della prospettiva e della geometria 11, di studiare il corpo umano, la sua anatomia e le proporzioni 12

Attraverso il disegno, inoltre, i pittori poterono organizzare l’opera disponendone gli elementi secondo precisi tracciati geometrici (i cosiddetti tracciati regolatori), gli architetti progettarono edifici in cui la regolarità delle misure modulari venne esaltata dalla visione prospettica e, tramite il disegno prospettico, essi poterono avere anche una certa previsione del risultato finale.

La trattatistica • L’opera che esercitò un’influenza profondissima e duratura nell’architettura rinascimentale fu il trattato di architettura di Vitruvio, De Architectura, in dieci libri, scritto nel I sec. a.C., la cui importanza si deve anche all’essere l’unico trattato sull’architettura pervenutoci dall’antichità. Il testo ne tratta in modo sistematico tutti gli aspetti: dai materiali da costruzione alle tecniche murarie, alle tipologie edilizie, fino alla struttura della città e alle sue infrastrutture (strade, ponti, acquedotti ecc). Il testo, tornato d’attualità dal 1414, conobbe un’enorme fortuna e fu preso a modello dagli autori di trattati rinascimentali sull’architettura.

Ciò accadde perché molti artisti rinascimentali, consapevoli del contenuto intellettuale della loro attività, redassero dei trattati per illustrare le proprie concezioni. Fra essi ricordiamo quelli di Leon Battista Alberti, Francesco di Giorgio Martini, Piero della Francesca.

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Firenze nel Quattrocento

La rivoluzione – nei linguaggi e nei contenuti – dell’arte rinascimentale nasce a Firenze nei primi anni del Quattrocento. Di fondazione romana, dopo il Mille Firenze aveva conosciuto un inarrestabile sviluppo economico e demografico, attirando anche molta popolazione dal contado, fino alla grave epidemia di peste nera del 1347-48, causa di una fortissima contrazione demografica (si calcola che la città abbia perso fino a due terzi della sua popolazione). Lo sviluppo economico era prevalentemente fondato sull’industria tessile, specializzata nella lavorazione di tessuti in lana e seta di altissimo pregio. Tale produzione alimentò un solido commercio internazionale per il quale i fiorentini idearono strumenti per il pagamento a distanza: ciò favorì lo sviluppo di attività finanziarie e diede vita ai “banchi” (le banche), che fecero crescere la ricchezza della città e la sua potenza nel panorama economico europeo. Si pensi che, ai tempi, la moneta coniata a Firenze, il fiorino d’oro, aveva un’importanza paragonabile a quella attuale del dollaro.

A inizio Quattrocento Firenze conservava la tipica fisionomia di una città medievale: la maggior parte delle strade erano lastricate, molti edifici presentavano un paramento in mattoni (erano rari quelli intonacati). Una norma cittadina del 1225 stabiliva per di più che, per una maggiore bellezza della città, le case dovessero avere un paramento in pietra fino all’altezza di quattro braccia (corrispondenti a poco meno di 2 metri e mezzo).

A inizio Quattrocento nella zona centrale di Firenze spiccavano il Duomo (dalla maestosa mole, ma ancora privo della grande cupola) e il romanico Battistero a, dal geometrico paramento in marmo bianco e verde.

Dalla prima cerchia muraria, di epoca romana, si susseguirono cinque successivi ampliamenti.

Nel Quattrocento la cinta conservava il tracciato medievale, abbracciando entrambe le rive dell’Arno e includendo varie porte di accesso alla città (dette porte e postierle).

Le due strade principali si intersecavano quasi perpendicolarmente, circa a metà del centro b, in prossimità del Mercato Vecchio, collocato nella zona dell’antico foro di epoca romana, in corrispondenza dell’attuale piazza della Repubblica.

Le acque dell’Arno erano necessarie a molte attività (per esempio per i conciatori di pelli e i lanaioli) e alla forza motrice generata dai mulini. Attraversavano il fiume quattro ponti, già costruiti nel Duecento: oltre al Ponte Vecchio c c’erano quelli alla Carraia, alle Grazie e di Santa Trinita.

L’austero Palazzo Vecchio d, di fondazione tardo duecentesca, era sede del governo dei priori; la sua torre alta 95 metri doveva essere la più alta della città.

I quartieri della città facevano riferimento alla chiesa di un ordine mendicante che si affacciava su una piazza: fra di esse, vi erano quella dei Francescani con la chiesa di Santa

La maestosa mole di Orsanmichele f, situata nella zona tra la Cattedrale e Piazza della Signoria, era l’antica loggia del mercato, trasformata poi in granaio e oratorio delle corporazioni delle Arti fiorentine, con le sue ricche e delicate decorazioni tardogotiche.

h

Fin dal Trecento, davanti a molti edifici privati, a ospedali e chiese si era diffuso l’uso della loggia. Ogni famiglia nobile ne possedeva una: si trattava di uno spazio coperto al piano terra (un portico) addossato alla facciata della casa e aperto sulla via, dove si trattavano gli affari. Un esempio è la Loggia del Bigallo (dal 1321) g

Le famiglie patrizie, gli imprenditori e i mercanti vivevano nel centro della città, entro palazzi nobiliari, che si allineavano con i loro prospetti sulle principali vie cittadine e spesso erano affiancati da case-torri. Le torri potevano essere anche originariamente legate a un monastero, come la Torre della Castagna, dell’XI secolo h

Croce e dei Domenicani con Santa Maria Novella e

Ghiberti e la persistenza del Gotico

Il concorso del 1401

Artisti in gara • Il Gotico internazionale [→ p. 4] fu indiscutibilmente il linguaggio artistico dominante anche nella Firenze degli inizi del Quattrocento, come testimonia la vicenda del famoso concorso per la porta del Battistero del 1401, che vide imporsi Lorenzo Ghiberti. Nel 1401, l’Arte di Calimala bandì un concorso tra i migliori artisti toscani: il vincitore avrebbe realizzato una grande porta bronzea per il Battistero di San Giovanni. La chiesa aveva tre ingressi, uno dei quali era già chiuso da due battenti bronzei, realizzati nel 1336 e decorati da Andrea Pisano con formelle a cornice mistilinea quadrilobata (già nell’accesso sud e ora nel Museo dell’Opera) 1314: la nuova porta (già nell’accesso nord e ora nel Museo dell’Opera) doveva attenersi a questo modello. Per il concorso ogni maestro doveva realizzare una formella con una storia tratta dal libro della Genesi: il Sacrificio di Isacco. È un episodio celeberrimo: per dimostrare a Dio la propria incrollabile fede, Abramo sta per sacrificare il suo unico figlio Isacco, ma un angelo ferma la mano del patriarca e gli indica invece di immolare un ariete, miracolosamente apparso sulla scena.

Al concorso parteciparono sette maestri, ma a noi sono arrivate soltanto le prove di due di costoro: quella di Lorenzo Ghiberti, il vincitore, e quella di Filippo Brunelleschi, che un paio di decenni dopo avrebbe progettato la cupola del Duomo di Firenze [→ p. 40], ma adesso svolgeva il mestiere di orafo.

Sono due formelle che si conservano nel Museo del Bargello e che, a partire dal formato mistilineo delle cornici, identico a quello delle storie trecentesche di Andrea Pisano, parlano sostanzialmente un lessico gotico, pur con qualche significativa novità.

cornice mistilinea quadrilobata Cornice composta da linee curve e linee rette, che si intersecano inscrivendosi in un quadrato.

Presentazione

Il concorso del 1401

13 Andrea Pisano, annunCio della nasCita di san giovanni battista a zaCCaria, particolare della formella della Porta sud del Battistero, ca. 1329-1336, bronzo. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

14 Pianta del battistero di firenze Con indiCazione delle Porte

1. Porta di Andrea Pisano
2. Porta Nord di Lorenzo Ghiberti
3. Porta del Paradiso di Lorenzo Ghiberti

Il Sacrificio di Isacco di Ghiberti • Figlio dell’orafo Bartoluccio di Michele, Ghiberti (1378-1455) aveva un’ottima dimestichezza con la lavorazione del bronzo e mise in scena un Sacrificio di Isacco raffinatamente gotico 15, che incontrò il favore dei committenti, vincendo il concorso. Nella formella, il paesaggio è contraddistinto dalle rocce raffigurate come sassi di grosse dimensioni, secondo la tradizione trecentesca. La composizione è racchiusa ordinatamente nella cornice (cioè nessun elemento ne

travalica i confini) ed è centrata sulla figura di Abramo. I gruppi di figure si bilanciano a livello spaziale: in basso a sinistra i servitori con la cavalcatura, in alto a destra Abramo con Isacco e l’angelo, che giunge a bloccare la mano del patriarca. Isolato, in alto a sinistra, l’ariete mandato da Dio, con le corna impigliate in un prezioso cespuglio, realizzato con la perizia calligrafica tipica di un orafo. Al gusto gotico rimanda certamente l’elegantissima posa arcuata di Abramo. Nella scena, inoltre, manca il coinvolgimento emotivo di un momento così drammatico, mentre prevale la serenità della fede nel volere divino. Eppure si può già riconoscere nella figura di Isacco qualcosa di non troppo medievale, specie nella torsione del busto, un nudo che sembra ispirato all’anatomia di un frammento di marmo antico 1617 che forse appartenne allo stesso Ghiberti e che oggi si trova nelle Gallerie degli Uffizi.

Il Sacrificio di Isacco di Brunelleschi • Alcuni caratteri della formella di Brunelleschi sono simili a quella di Ghiberti 18, perché, nonostante la disposizione centrale del protagonista, nella scena non c’è ancora alcun segno di un rigore spaziale prospettico. Tutto è giocato sulla finezza delle figure: Abramo, colto di profilo con le sue ricche vesti panneggiate, l’angelo in cielo e l’agnello che contorce la testa sono raffigurati con sottili ed eleganti dettagli.

La scena, però, è decisamente più drammatica, con i gesti concitati di Abramo e dell’angelo, che interviene all’ultimo momento per bloccare fisicamente la mano del patriarca, e l’espressione di sofferenza e terrore dipinta sul volto di Isacco. Il paesaggio è qui ridotto all’essenziale, mentre lo spazio della formella è tutto occupato dai personaggi, che escono addirittura dalla cornice. Il servitore in basso a sinistra piega un ginocchio a omaggiare la posa di una celebre scultura antica, lo Spinario 19, senza farne però rivivere l’energia “classica”.

15 Lorenzo Ghiberti, saCrifiCio di isaCCo, 1401-1402, bronzo dorato, cm 45×38. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

16 torso gaddi, I secolo a.C., marmo, altezza cm 84. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

17 Lorenzo Ghiberti, saCrifiCio di isaCCo, particolare con Isacco.

18 Filippo Brunelleschi, saCrifiCio di isaCCo, 1401-1402, bronzo dorato, cm 45×38. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

19 sPinario, I secolo a.C., bronzo, altezza cm 73. Roma, Musei Capitolini.

lettura guidata Brunelleschi, Sacrificio di Isacco

Le porte di Ghiberti per il Battistero

La Porta Nord • La Porta Nord 20 fu una lunga impresa: Ghiberti ne ottenne la commissione nel 1403, quando aveva solo venticinque anni, e la finì nel 1424, con l’assistenza di una bottega in cui si formarono diversi maestri di talento, come Donatello [→ p. 48], Paolo Uccello [→ p. 70] e Michelozzo [→ p. 46]. I due battenti presentano ventotto formelle con cornici mistilinee, dove sono raffigurate venti Storie di Cristo, i quattro Evangelisti e altrettanti Dottori della Chiesa. Rispetto alle figure giottesche di Andrea Pisano, Ghiberti adotta ormai uno stile ben diverso: la suprema eleganza di ogni dettaglio delle sue formelle corrisponde al linguaggio del Gotico internazionale.

La Flagellazione e l’Annunciazione • Questo gusto emerge osservando, per esempio, le formelle con la scena dalla Flagellazione 21 e dell’Annunciazione 22

Nella prima, all’interno di un porticato classicheggiante, la figura di Cristo e quelle dei suoi carnefici mostrano torsioni e ancheggiamenti tipicamente gotici. Allo stesso 20

modo, nell’Annunciazione, all’apparire della sottile figura dell’angelo di profilo la Vergine si ritrae, atteggiata in una posa tanto inarcata da essere innaturale. L’architettura dietro di lei, secondo la norma trecentesca, è un esile archetto che la inquadra simbolicamente, senza preoccuparsi delle proporzioni e della rappresentazione dello spazio. In alto a sinistra, sul fondo piatto, l’Eterno lancia la colomba dello Spirito Santo come una palla, così come nella formella di prova del 1401 l’angelo era comparso dal nulla per fermare la mano omicida di Abramo. Nell’uno e nell’altro caso, Ghiberti sviluppa un motivo assai più antico: l’apparizione del divino che, in quella posizione, assume la “regia” della sottostante scena sacra.

20 Lorenzo Ghiberti, Porta nord, 1403-1424, bronzo dorato, cm 506×387. Dal Battistero di San Giovanni. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

21 Lorenzo Ghiberti, flagellazione, formella della Porta Nord, 1403-1424, bronzo dorato. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

22 Lorenzo Ghiberti, annunCiazione, formella della Porta Nord, 1403-1424, bronzo dorato. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

stiacciato

Tecnica di scultura a rilievo molto basso, che contribuisce a dare il senso della profondità, con effetti simili al disegno.

La Porta del Paradiso • Compiuta la Porta Nord nel 1424, Lorenzo Ghiberti aveva ottenuto nel 1425, dall’Arte di Calimala, l’incarico di realizzare l’ultima porta del Battistero 23: quella che si sarebbe conquistata la posizione più prestigiosa, di fronte all’ingresso del Duomo, e che Michelangelo avrebbe poi giudicata non indegna del “Paradiso”, ricevendo così il nome con cui è nota ancora oggi. Ancora una volta fu un’impresa lunga e difficile: la porta sarebbe stata installata solo nel 1452, grazie al continuo coinvolgimento di numerosi aiuti. Rispetto a

quella Nord, nella Porta del Paradiso la struttura dei due battenti rinunciava a ogni riferimento gotico, perché furono abbandonate le formelle quadrilobate e furono adottate, invece, dieci grandi scene quadrate con storie dell’Antico Testamento 24. Nella cornice esterna trovano posto, inoltre, altri ventiquattro personaggi biblici (perlopiù inseriti in nicchie), le teste di profeti e sibille (altre ventiquattro), ghirlande vegetali (con all’interno vari animaletti) e animali in bronzo dorato. Modellati nel corso degli anni Trenta, i rilievi dovettero essere fusi almeno in parte nel 1443, quindi furono sottoposti al prolungato intervento di pulitura, doratura e montaggio. Nonostante a Firenze si stesse ormai affermando il nuovo linguaggio rinascimentale, Ghiberti rimase fedele alle proprie raffinatezze gotiche: qui le figure acquistano appena un po’ di volume rispetto alla Porta Nord, ma ancora Ghiberti non riesce a padroneggiare gli strumenti per una convincente resa prospettica. L’artista, infatti, ricorre all’uso dello stiacciato, una tecnica già impiegata da Donatello per dare l’idea dello spazio tridimensionale, solo per rifinire elegantissimi dettagli e non per suggerire il senso della profondità.

1. Storie di Adamo ed Eva

2. Storie di Caino e Abele

3. Storie di Noè

4. Storie di Abramo e Isacco

5. Storie di Esaù e Giacobbe

6. Storie di Giuseppe ebreo

7. Mosè e le Tavole della legge

8. Storie di Giosuè

9. Storie di David

10. Incontro tra Salomone e la regina Saba

23 Lorenzo Ghiberti, Porta del Paradiso, 1425-1452, bronzo dorato, cm 506×287. Dal Battistero di San Giovanni. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

24 sChema iConografiCo della Porta del Paradiso

Le Storie di Adamo ed Eva • Nella prima delle formelle della Porta del Paradiso, Ghiberti racconta la storia dei progenitori Adamo ed Eva, in un unico fondale che racchiude più episodi 25. Si inizia a sinistra con la creazione di Adamo, plasmato dal fango, e si prosegue al centro con quella di Eva, tratta da una costola di Adamo al cospetto di una schiera di angeli. La narrazione prosegue, poi, con il momento del Peccato originale, illustrato a bassissimo rilievo in secondo piano a sinistra. La trasgressione del divieto divino di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza ha come conseguenza la cacciata dal Paradiso terrestre, impaginata sulla destra: Adamo ed Eva sono spinti da un angelo fuori da un semplice portale, rappresentato di scorcio, mentre Dio Padre impartisce l’ordine dai cieli col suo coro angelico. Il modellato è estremamente curato, con la ricercatezza e la precisione di un maestro orafo; come già nel Gotico internazionale, gli atteggiamenti e le pose dei personaggi non esprimono lo stupore di fronte al miracolo della creazione o il dramma per la punizione subita, ma manifestano grazia ed eleganza; gli alberi sono lussureggianti e il paesaggio è descritto accuratamente. L’effetto è di strepitosa bellezza.

Ghiberti racconta quattro episodi del racconto biblico in una sola scena, senza però dare alla formella un “senso di lettura”, visto che i vari momenti sono intrecciati e combinati fra loro. La necessità di raggruppare più episodi in un unico spazio deriva anche dalla decisione di ridurre da venti a dieci il numero delle formelle previste in origine.

Le Storie di Giuseppe ebreo • Le difficoltà a padroneggiare la prospettiva emergono con chiarezza nella formella in cui Ghiberti narra le avvincenti Storie di Giuseppe ebreo 26. Figlio preferito del patriarca Giacobbe, Giuseppe fu venduto dai fratelli invidiosi e, giunto in Egitto, fece fortuna interpretando i sogni del faraone, che perciò lo volle come suo ministro. Quando i fratelli, in un periodo di carestia, andarono in Egitto a cercare grano, Giuseppe si fece riconoscere e, perdonandoli, li accolse presso di sé

La romanzesca vicenda è doviziosamente illustrata attraverso sette episodi, che partendo dalla scena in alto a destra rappresentano: Giuseppe calato nella cisterna, Giuseppe venduto dai fratelli, Giuseppe che distribuisce il grano agli Egiziani, il ritrovamento della coppa nel sacco di Beniamino, Giuseppe si riconcilia con i fratelli.

I vari momenti della storia sono predisposti intorno a una grande loggia circolare, che Ghiberti non riesce a collocare correttamente nello spazio. Lo scultore si esalta piuttosto nella minuzia delle elegantissime figure arcuate, segnate dai panneggi ricurvi o dalla perfezione calligrafica delle acconciature, secondo un registro raffinatissimo.

25 Lorenzo Ghiberti, storie di adamo ed eva, formella della Porta del Paradiso, 1425-1452, bronzo dorato, cm 79×79. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.
26 Lorenzo Ghiberti, storie di giusePPe, formella della Porta del Paradiso, 1425-1452, bronzo dorato, cm 79×79. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

27 Donatello, CroCifisso, ca. 1408, legno intagliato e dipinto, cm 168×173. Firenze, Santa Croce.

28 Filippo Brunelleschi, CroCifisso, ca. 1410, legno intagliato e dipinto, cm 170×170. Firenze, Santa Maria Novella.

Brunelleschi e la nuova architettura

Sotto le ceneri della lunga stagione artistica ancora segnata dal Gotico, covava però il fuoco di una rivoluzione.

Come abbiamo accennato, protagonisti furono Filippo Brunelleschi (1377-1446) e Donato di Niccolò di Betto Bardi (1386-1466), conosciuto come Donatello, che svolse il suo apprendistato con Ghiberti.

simile a Gesù Cristo, il quale fu delicatissimo, et in tutte le parti il più perfetto uomo che nascesse già mai». Così Donatello lo sfidò a farne uno pure lui.

video d’autore

T. Montanari, Arti e scienza «non udite e mai vedute» Presentazione Brunelleschi

fonti e CritiCa

Leon Battista Alberti, La vitalità artistica di Firenze

Il Crocifisso di Donatello in Santa Croce • Le tracce della formazione di Donatello con Ghiberti si possono vedere nel Crocifisso della Basilica di Santa Croce a Firenze (circa 1408) 27, una delle sue opere di esordio, per esempio nel calligrafismo del panneggio. Ma Donatello se ne distacca, invece, nella resa del volto di Cristo, dove emerge un’attenzione al vero e un naturalismo quasi brutale, fin qui sconosciuto: è un’assoluta novità che apre al nuovo linguaggio rinascimentale. Donatello, infatti, caratterizza questo volto con l’intensa espressività che distinguerà la sua scultura. A tal proposito, Giorgio Vasari racconta che Donatello chiese un giudizio sulla sua opera all’amico Brunelleschi, il quale rispose «che gli pareva che egli avesse messo in croce un contadino e non un corpo

Il Crocifisso di Brunelleschi in Santa Maria Novella • Negli anni successivi, dunque, Brunelleschi si dedicò al Crocifisso che oggi si trova nella chiesa di Santa Maria Novella 28 Quando lo mostrò a Donatello, lo scultore ne rimase talmente meravigliato da dichiararsi vinto. Che cos’era successo in quest’opera straordinaria? Brunelleschi aveva compiuto un passo epocale, lasciandosi alle spalle la tradizione tardogotica: la compostezza della composizione e lo studio razionale delle anatomie, rese secondo perfette proporzioni, fanno infatti apparire questo Crocifisso come un’opera del Rinascimento maturo, anche se fu intagliato verso il 1410, a ridosso del suo viaggio a Roma con Donatello [→ p. 27]. L’antichità classica aveva ricominciato a parlare agli artisti con una forza e un’immediatezza sconosciute fino ad allora, tanto da concepire la figura di Cristo come lo studio di un nudo a tutto tondo. Stava iniziando il Rinascimento.

27
28

L’invenzione della prospettiva

Il metodo di Brunelleschi • La prospettiva lineare è il metodo tramite il quale si riproduce la visione umana, seguendo rigorose regole di natura geometrico-matematica. Fu ideata nel secondo decennio del Quattrocento da Filippo Brunelleschi; figlio di un notaio, egli aveva ricevuto un’educazione che comprendeva anche nozioni di matematica, geometria e ottica, discipline che venivano comunemente impartite ai rampolli delle famiglie più facoltose, in quanto necessarie all’esercizio delle attività mercantili, produttive e finanziarie. Egli fu poi apprendista presso una bottega di orafo e praticò in seguito l’attività di orafo e scultore, continuando, probabilmente anche grazie all’amicizia con il matematico Paolo Dal Pozzo Toscanelli, ad approfondire i suoi studi. Le nozioni così acquisite si rivelarono fondamentali nello svolgimento della propria attività di architetto.

Brunelleschi dimostrò empiricamente la validità del metodo prospettico in modo molto ingegnoso con due celeberrime tavolette che raffiguravano l’una il Battistero e l’altra Palazzo Vecchio (conservate per qualche tempo nelle collezioni dei Medici, poi disperse, ma note attraverso la descrizione che ne fece il suo biografo Antonio Manetti).

La prima tavoletta, con il Battistero di Firenze 29, aveva un foro al centro della porta della cattedrale. Lo spettatore doveva guardare dal retro della tavoletta nel foro tenendo in mano uno specchio; l’operazione avrebbe aumentato il potere illusivo del disegno, che sarebbe apparso nello specchio ancora più simile al Battistero reale 30

In seguito il metodo fu codificato, a uso dei pittori, da Leon Battista Alberti [→ p. 78] che, nel suo trattato De pictura 3 1 , ne fornì una formulazione di facile e veloce applicazione, favorendone la diffusione da Firenze prima in Italia centrale, poi nel resto della penisola e, nel corso del Cinquecento, anche Oltralpe.

Principi alla base del metodo • Il principio fondamentale su cui si fonda il metodo è che tutte le rette che nella realtà sono parallele fra

di loro, nella proiezione prospettica risultano invece convergenti in un unico punto, posto all’infinito. Si pensi, per esempio, alle strisce bianche che delimitano il tratto rettilineo di una strada, che sembrano progressivamente avvicinarsi fra di loro con l’aumentare della distanza dal punto da cui le stiamo osservando, fino a dare l’impressione di incontrarsi all’orizzonte 32. Il punto di convergenza di tutte le rette parallele è determinato individuando un’ulteriore linea a loro parallela che parta dal punto di vista e incontri il quadro cioè il piano interposto fra l’osservatore e l’oggetto da rappresentare: sarà quindi la posizione relativa del punto di vista (quindi dell’osservatore) a determinare le condizioni e il risultato della visione (esattamente come accade nella realtà) 33 Ancora una volta viene sottolineata, pur in virtù

dell’applicazione di un metodo rigorosamente geometrico-matematico, la straordinaria sintonia con i principi generali dell’Umanesimo: la centralità dell’uomo e quindi della sua visione.

Prospettiva e composizione • Gli effetti di profondità creati in pittura con l’impiego della prospettiva lineare vengono esaltati collocando opportunamente nello spazio della rappresentazione degli elementi modulari, la cui progressiva riduzione in relazione alla lontananza rende immediatamente commensurabile, cioè misurabile, le distanze in profondità. È per questa ragione che nell’arte del Quattrocento ricorre molto frequentemente l’ambientazione entro architetture, che per la loro natura geometrica esaltano la resa prospettica; anche l’attenzione posta al disegno geometrico, come ben ap-

29 riCostruzione della tavoletta ProsPettiCa del brunellesChi a cura di Filippo Camerota. Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza.

30 riProduzione grafiCa della tavoletta ProsPettiCa di brunellesChi e del suo funzionamento

31 sChema generale della Costruzione legittima, da Leon Battista Alberti, De pictura, XV secolo, mm 215×155. Lucca, Biblioteca Statale.

prezzabile, per esempio, nelle Nozze di Cana di Perugino 34. L’impiego della prospettiva determina quindi una composizione organizzata in un’appropriata griglia prospettica, alla quale ogni elemento rappresentato dovrà essere rigidamente subordinato.

Le differenze con la realtà • È opportuno comunque precisare che tra la visione umana e quella prospettica corre una differenza fondamentale:

• la visione umana è normalmente bioculare, quindi ogni osservatore ha ben due punti di vista contemporanei, le cui percezioni vengono sintetizzate a livello cerebrale in un’u-

nica visione e utilizzate per ricavare preziose informazioni sulla profondità dello spazio e la volumetria di ciò che vi è contenuto;

• nella prospettiva lineare, invece, il punto di vista è necessariamente unico, risultando pertanto un’approssimazione monoculare ma non completa del vero, per la quale (se si intende come soggetto l’approssimazione “completa” del vero) si dovrà attendere la creazione di apposite tecnologie stereoscopiche nell’Ottocento.

Prospettiva e prospettive • La prospettiva lineare in uso nel Quattrocento pone il punto di vista frontalmente – e soprattutto centralmente

– rispetto alla scena rappresentata: viene quindi definita “centrale”. Questo comporta che la composizione della scena risulti un po’ statica e gli esiti talvolta abbastanza simili tra di loro. Effetti di maggior dinamismo si trovano nella pittura del secolo successivo, con la cosiddetta prospettiva accidentale, nella quale si realizza una disposizione della scena su un piano obliquo rispetto all’osservatore. Poco dopo la sua invenzione, la prospettiva venne anche impiegata per creare inganni ottici, i cosiddetti trompe-l’oeil: tali effetti si ottengono facendo ampio uso di scorci e collocando il punto di vista della costruzione prospettica in modo tale da farlo coincidere con quello del futuro osservatore dell’opera.

32 Foto di una strada con le strisce bianche che convergono secondo la regola della prospettiva.

33 sChema grafiCo del funzionamento della griglia

ProsPettiCa.

Consideriamo due rette parallele (AD e BC). Immaginiamo poi di mettere tra noi e le rette il piano su cui si genera l’immagine prospettica (detto quadro prospettico).

Guardando ciò che si trova oltre il quadro è come se dal nostro occhio proiettassimo dei raggi verso ogni cosa visibile. Uno di questi raggi è parallelo alle rette e interseca perpendicolarmente il quadro in un punto preciso (il punto di fuga F, posto sulla linea dell’orizzonte). Per rappresentare prospetticamente le due rette sul quadro, dobbiamo tracciare dei segmenti che uniscono il punto di fuga ai punti in cui le rette incontrano il quadro (sul piano di appoggio): abbiamo così disegnato in prospettiva le due rette parallele. Gli elementi necessari per effettuare una proiezione prospettica sono i seguenti:

– Quadro prospettico: è il piano verticale sul quale si vuole rappresentare un oggetto, che possiamo immaginare come trasparente perché su di esso si proietta quel che sta al di là dello stesso.

– Piano di appoggio: è il piano orizzontale su cui staziona l’osservatore.

– Linea di terra (L.T.): è generata dall’intersezione tra il quadro prospettico e il piano di appoggio, che nel metodo della prospettiva viene definito piano geometrale.

– Linea dell’orizzonte (L.O.): è generata dall’intersezione tra il piano orizzontale passante per il punto di vista e il quadro prospettico. È parallela alla linea di terra.

– Punto di fuga (F): è il punto di convergenza di tutte le rette perpendicolari al quadro e pertanto parallele fra di loro.

– Punto di vista (P.V.): è il punto di vista, cioè l’occhio dell’osservatore.

34 Perugino, nozze di Cana, ca. 1502-1512, olio su tavola, cm 39,5×84,5. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

Presentazione
Figura in prospettiva
Piano di

La cupola di Santa Maria del Fiore

Il rapporto di Brunelleschi con l’Antico, maturato nel viaggio romano, emerge pienamente nel primo grande progetto pubblico dell’architetto: la cupola del Duomo di Firenze 35, prodigio strutturale di una modernità che guarda l’antichità da pari a pari. Quest’impresa straordinaria è, insieme alla scoperta della prospettiva, un altro grande simbolo della stagione rinascimentale. Il Duomo di Firenze era stato ricostruito agli inizi del Trecento per sostituire la vecchia Cattedrale di Santa Reparata, ritenuta di dimensioni non sufficienti: la struttura, progettata da Arnolfo di Cambio, era stata realizzata con un tamburo ottagonale, ma non si era riusciti a innalzare la cupola, per via delle sue notevoli dimensioni (era ampia, infatti, quanto la larghezza totale delle tre navate). Nel 1418 l’Opera del Duomo bandì un concorso per risolvere il problema, cui seguì la nomina di due capomastri, Brunelleschi e Ghiberti, anche se già nel 1420 Brunelleschi divenne l’unico direttore del cantiere. Quando la cupola fu finalmente ultimata, stagliandosi su Firenze, apparve a Leon Battista Alberti [→ p. 78] come una sorta di manifesto civile e politico di una comunità che non aveva paura di arrivare a scavalcare il cielo stesso.

Il progetto • Brunelleschi progettò una cupola ogivale, formata da otto costoloni rivestiti esternamente in marmo bianco e da otto vele ricoperte da tegole rosse 36. Mettendo a frutto quanto imparato a Roma sui monumenti antichi, Filippo pensò a una copertura a doppia calotta: quella interna, più piccola e robusta, ha funzione portante, mentre quella esterna, più leggera, protegge quella sottostante. L’intercapedine tra le due calotte è percorsa da corridoi e scale che servirono per il trasporto degli operai e dei materiali 37 (e che oggi sono percorse dai turisti che salgono sulla cupola). I costoloni si innalzano da ciascuno degli otto spigoli di base e ogni vela è inoltre rafforzata da una coppia di costole minori (in tutto 16); questi 24 elementi portanti verticali sono a loro volta collegati da nove anelli circolari concentrici, che rendono la cupola di Brunelleschi una struttura autoportante, cioè capace di reggersi da sola anche in fase di costruzione, senza il sostegno di armature in legno (centine). La cupola è poi sormontata da una lanterna, iniziata nel 1436 dallo stesso Brunelleschi, ma portata a termine in seguito da Michelozzo.

Le tecniche costruttive • Anche per la cupola, come già per la prospettiva, Brunelleschi adottò un approccio razionale, superando il procedere empirico che aveva animato i cantieri gotici. Oltre infatti a non aver usato centine in fase costruttiva, Brunelleschi non volle nemmeno servirsi di contrafforti o archi rampanti esterni. Per ovviare alla mancanza di questi supporti, l’architetto non solo fece realizzare per il cantiere specifici macchinari edili 38, ma impiegò anche antiche tecniche murarie studiate a Roma. In particolare, per sostenere l’enorme peso di questa struttura autoportante, Brunelleschi impiegò una muratura con mattoni a spina di pesce (opus spica-

lettura guidata
La cupola di Santa Maria del Fiore

Calotte

Costoloni intermedi

Costoloni

Vele

Intercapedine

Volta interna

Cerchiature orizzontali

35 Filippo Brunelleschi, CuPola della Cattedrale di santa maria del fiore, 1418-1436. Firenze.

36 disegno riCostruttivo della CuPola di santa maria del fiore

37 Filippo Brunelleschi, CuPola di santa maria del fiore, intercapedine interna.

38 disegni riCostruttivi di maCChinari ideati da brunellesChi

A. Carrucola bidimensionale: consentiva lo spostamento di pesi in orizzontale e in verticale.

B. Gancio con vite a manovella: consentiva maggior controllo nelle manovre di scarico dei pesi.

39 disPosizione

dei mattoni a sPina di PesCe

nella CuPola

40 struttura “a eliCa” determinata dalla

disPosizione dei mattoni

vertiCali nella CuPola

41 Filippo Brunelleschi, tribuna morta, Santa Maria del Fiore. Firenze.

tum, che consiste nell’intervallare conci verticali e conci orizzontali) 39. Questa particolare muratura determina una struttura “a elica” dei mattoni verticali che consente di scaricare meglio il peso della struttura 40

Una volta realizzata la cupola, Brunelleschi progettò le tribune “morte”, elementi architettonici con funzione strutturale in grado di contrastare le spinte orizzontali provenienti dalla cupola ed evitare il ribaltamento della struttura sottostante 41

Tra Gotico e Antico • Brunelleschi guardò dunque all’Antico per le tecniche, ma rimase ancorato al Gotico per la forma: ragioni strutturali imposero infatti il ricorso ai grandi costoloni ogivali e, di conseguenza, a una cupola a sesto acuto con il tipico verticalismo ancora di matrice gotica, assai diverso dal formato emisferico della cupola romana per eccellenza, quella del Pantheon.

In un paio di fabbriche degli stessi anni, però, Brunelleschi cominciò a esibire una nuova visione architettonica. Recuperò in modo stabile, infatti, gli elementi antichi dell’arco a tutto sesto e della colonna per definire spazi razionali e ben proporzionati, la cui modularità veniva esaltata dal rigoroso ordine della prospettiva. Sorsero così due edifici dove la rinuncia agli ornati gotici è definitiva e con i quali si fa iniziare il Rinascimento in architettura: la Loggia dello Spedale degli Innocenti e la Basilica di San Lorenzo.

Nuova vita all’Antico

La Loggia dello Spedale degli Innocenti • Nel 1419 Brunelleschi (membro dell’Arte della Seta, committente dell’opera) ricevette l’incarico di progettare lo Spedale degli Innocenti 42, una pubblica istituzione deputata ad accogliere e crescere i bambini abbandonati. Il complesso 43 fu edificato tra il 1421 e il 1424, su un fianco di Piazza Santissima Annunziata.

La struttura poggia su un piano rialzato a cui si accede da una rampa di nove gradini, che ricorda lo stilobate di un tempio antico. Qui si apre la splendida loggia, costituita dal regolare succedersi di nove campate disegnate dal susseguirsi di altrettante arcate a tutto sesto impostate su colonne, sormontate da capitelli corinzi. Al di sopra corre una trabeazione a fasce sovrapposte, sorretta dalle paraste scanalate che si trovano ai lati del prospetto frontale. Sulla trabeazione, infine, poggiano nove finestre rettangolari, sormontate da un piccolo timpano.

Gli elementi della facciata sono caratterizzati da proporzioni regolarissime, basate sul modulo compositivo di ciascuna campata, geometricamente costituita dall’unione fra un quadrato e un cerchio 44; essa funziona come una specie di unità di misura: l’altezza di ciascuna colonna (quasi 6 metri), infatti, corrisponde alla distanza tra due colonne consecutive e alla profondità del loggiato 45 Questa stessa misura, inoltre, è esattamente la metà della distanza tra il pavimento del porticato e il piano di imposta delle finestre, mentre è esattamente il doppio dell’altezza di ciascun arco. Per la prima volta, dopo il mondo antico, l’architettura torna a essere pensata in termini geometrici e aritmetici. È difficile esagerare l’importanza

Chiesa Porticato
Dormitorio per gli orfani Scalinata
Chiostro

42 Filippo Brunelleschi, loggia dello sPedale degli innoCenti, dal 1419. Firenze.

43 Pianta dello sPedale degli innoCenti

44 sChema dei raPPorti ProPorzionali nella loggia dello sPedale degli innoCenti. — L’altezza della colonna

è pari a nove volte il suo diametro.

45 sChema della CamPata

46 Filippo Brunelleschi, basiliCa di san lorenzo Firenze.

47 Filippo Brunelleschi, basiliCa di san lorenzo, post 1421, navata centrale. Firenze.

48 Pianta della basiliCa di san lorenzo

49 CaPitello a forma di “dado brunellesChiano”. Firenze, Basilica di San Lorenzo, transetto.

49

1. Basilica

2. Sagrestia Vecchia (Brunelleschi, 1419-1428)

3. Chiostro (post 1457)

4. Sagrestia Nuova (Michelangelo, 1520-1534)

5. Biblioteca Laurenziana (1523-1529)

6. Cappellone dei Prìncipi (1605-1737)

7. Campanile (1740-1741)

8. Biblioteca Dolciana (completata nel 1841)

del Portico degli Innocenti: non è improprio definirlo la prima architettura del Rinascimento, anzi, il primo spazio urbano rinascimentale. Qui, per la prima volta, il vocabolario classico (colonne, paraste, archi, capitelli, trabeazioni) esaltato dal contrasto tra materiali diversi, risorge a una vita nuova: si tratta infatti di un recupero consapevole, che serve a esprimere una nuova visione del mondo attraverso l’armonia e la razionalità degli elementi antichi. Per mettere in evidenza gli elementi architettonici provenienti dal mondo classico Brunelleschi utilizza materiali “poveri”: la pietra serena di colore grigio-azzurro in contrasto con il bianco dell’intonaco. Ed è denso di significato che tutto questo non avvenga in un palazzo destinato alla corte di un signore, ma in un centro di assistenza per l’infanzia abbandonata, cioè in un edificio pubblico – anzi popolare – per vocazione.

La Basilica di San Lorenzo • Fin dai primi anni Venti, Brunelleschi si occupò anche della ristrutturazione dell’antica Basilica di San Lorenzo 4 6 47 , consacrata da sant’Ambrogio nel 393. Il progetto prevedeva una pianta a croce latina suddivisa in tre navate 48, in cui la navata centrale presenta una copertura piana a cassettoni, a differenza di quelle laterali che hanno le volte. Anche a San Lorenzo Brunelleschi riprende il modulo proporzionale, corrispondente all’altezza delle colonne corinzie monolitiche, per generare tutte le misure dell’edifico, nelle tre dimensioni dello spazio. Tra il capitello e l’imposta dell’arco introduce qui un nuovo elemento architettonico, il “dado brunelleschiano”, che conferisce maggiore slancio alle strutture verticali 49

Affinché la rete dei rapporti armonici e proporzionali che caratterizzano le sue opere risulti chiara e nitida, anche qui, come aveva già sperimentato nella Loggia degli Innocenti (e come sarà ancora in seguito nei suoi edifici), l’architetto “disegna” la griglia proporzionale alla base del proprio metodo progettuale, evidenziando con il grigio della pietra serena sia gli elementi tratti dall’architettura classica (le colonne corinzie, le cornici degli archi, le trabeazioni) sia i profili delle altre forme architettoniche.

Anche se l’edificio ha una pianta in qualche suggestionata da quella delle grandi basiliche gotiche degli ordini mendicanti fiorentini (Santa Croce e Santa Maria Novella), qui si manifestano un vocabolario dell’architettura e un senso dello spazio radicalmente nuovi, ma contemporaneamente antichi, cioè ispirati ad alcune caratteristiche ed elementi dell’architettura romana e paleocristiana. Ne scaturisce un interno solenne, scandito da una misurata intelaiatura modulare che esalta l’effetto prospettico dell’insieme.

La Sagrestia Vecchia • Il progetto della ristrutturazione di San Lorenzo nacque intorno alla costruzione di una sagrestia (a cui si accede dal transetto sinistro della Basilica), pensata come mausoleo per la famiglia dei Medici, signori di Firenze, e ultimata già nel 1428. La Sagrestia Vecchia di San Lorenzo 50 (così chiamata per distinguerla da quella nuova, realizzata un secolo dopo da Michelangelo → p. 256) è costituita da un’aula a pianta quadrata che appare come un semplice spazio cubico, scandito da elementi architettonici classicheggianti in pietra serena che risaltano sul colore neutro delle pareti. Su ogni lato si sviluppano grandi lunette a tutto sesto, sopra le quali si innalza una cupola semisferica a ombrello, suddivisa in dodici vele da altrettante nervature 51. Dodici sono anche le finestre circolari (oculi) che si aprono sull’imposta. La cupola è sorretta da quattro grandi pennacchi, dove si riconosce lo stemma mediceo, con le palle rosse in campo d’oro. Al centro, sotto il grande tavolo marmoreo dove i sacerdoti depongono le vesti liturgiche, si trova la tomba di Giovanni de’ Medici, morto nel 1429. All’esterno, la cupola è sormontata da una lanterna costituita da sei colonne e un ulteriore cupolino conico. Questo grande vano si riflette proporzionalmente nella scarsella 52, lo spazio anch’esso a pianta quadrata opposto all’ingresso e che ospita l’altare. Il lato della scarsella è esattamente un terzo di quello del corpo centrale e genera un secondo spazio cubico, a sua volta coperto da una cupola semisferica, decorata con un cielo stellato. La composizione di esatti volumi cubici e sferici e la serrata proporzionalità tra il corpo centrale e la scarsella rendono la Sagrestia Vecchia un limpido esempio del rigore razionale e geometrico dell’architettura brunelleschiana. Ne risulta uno spazio quanto mai misurato,

Scarsella Cupola Corpo centrale
Scarsella

nel quale risaltano una serie di colorati rilievi eseguiti da Donatello per gli arconi, i pennacchi, i sovrapporta della sagrestia [→ p. 52] e una cornice decorata con cherubini rossi e blu, che corre in entrambi gli ambienti.

Il Capitolo de’ Pazzi in Santa Croce • Brunelleschi aveva ultimato da poco la Sagrestia di San Lorenzo, quando fu coinvolto in un nuovo progetto. Un ricco esponente di una nobile famiglia fiorentina, di nome Andrea Pazzi, aveva deciso di partecipare alla ricostruzione di alcuni ambienti del Convento di Santa Croce distrutti da un incendio. In particolare, nel 1429, scelse di costruire una propria cappella isolata in un’eminente zona del chiostro, che i frati francescani avrebbero potuto utilizzare per le periodiche riunioni del Capitolo, l’assemblea dei membri dell’ordine.

L’edificio doveva sorgere su un lotto nel quale vincoli preesistenti imponevano una forma rettangolare, a differenza di quanto era avvenuto nella Sagrestia Vecchia, che insiste su pianta quadrata.

Brunelleschi suddivide la pianta in tre parti 53: un quadrato centrale, coperto a cupola, e affiancato simmetricamente da due rettangoli, coperti con strette volte a botte. La cupola, che si eleva al di sopra di queste, copre l’ambiente centrale e ne segna l’asse verticale, creando così l’effetto percettivo di centralizzazione dello spazio. Le forme architettoniche di questo ambiente, generate dal cerchio e dal quadrato e da semplici rapporti numerici, citano quasi alla lettera quelle della Sagrestia Vecchia 54 Nella decorazione, però, il Capitolo si differenzia dalla Sagrestia Vecchia: ai colorati e vivaci rilievi donatelliani, che Brunelleschi non aveva assolutamente apprezzato, si preferirono le più sobrie terrecotte invetriate della bottega di Luca della Robbia [→ p. 74], che rappresentano i quattro evangelisti nei pennacchi e figure di santi nei tondi alle pareti.

Il prospetto della cappella si distingue per un elegante porticato all’antica 55, sorretto da due terzetti di colonne corinzie che sostengono una trabeazione, interrotta al centro da un arco a tutto sesto. Tuttavia, in assenza di sicure notizie e in considerazione dei tempi assai dilatati del cantiere, non siamo certi che questa facciata dipenda fedelmente da un originale progetto brunelleschiano.

50 Filippo Brunelleschi, sagrestia veCChia, dal 1419, interno. Firenze, Basilica di San Lorenzo.

51 Filippo Brunelleschi, sagrestia veCChia, intradosso della cupola. Firenze.

52 Pianta della sagrestia veCChia

53 Pianta del CaPitolo de’ Pazzi

54 Filippo Brunelleschi, CaPitolo de’ Pazzi, ca. 1429-1478, interno. Firenze, Santa Croce.

55 Filippo Brunelleschi (?), CaPitolo de’ Pazzi, facciata. Firenze.

Michelozzo di Bartolomeo, architetto di Cosimo

Alla morte di Brunelleschi, nel 1446, fu Michelozzo di Bartolomeo a subentrargli nell’incarico di capomastro del Duomo. La sua affermazione come architetto giunse dopo la formazione nel cantiere ghibertiano della Porta Nord e poi quale socio di Donatello, soprattutto come scultore, per quasi un decennio (1425-1433).

Già da tempo era diventato l’architetto di fiducia di Cosimo de’ Medici, il capostipite della famiglia, che gli aveva affidato la ristrutturazione del Convento di San Marco, realizzata dal 1437 al 1443 [→ p. 72]. Successivamente Cosimo gli commissionò il progetto della sua nuova dimora sulla via Larga, a pochi passi da San Lorenzo e dalla Cattedrale.

Palazzo Medici • Costruito tra il 1444 e il 1460, il palazzo mediceo rappresenta un vero e proprio prototipo di edificio gentilizio (cioè appartenente a famiglia nobile) rinascimentale 56. La sua sobria magnificenza risponde all’esigenza del signore di dimostrare la propria ricchezza e il proprio potere, evitando tuttavia un fasto eccessivo che avrebbe potuto urtare la sensibilità dei cittadini della Repubblica. Inizialmente il palazzo aveva una pianta quadrata 57, organizzata intorno al cortile 58, che si presenta con un porticato colonnato al piano terra, chiuso con bifore al primo piano e terminante con una loggia architravata al secondo piano. Il cortile, a cui si accede da un vestibolo, porta sia agli appartamenti sia al retrostante giardino. La facciata è stata alterata nel Seicento: le finestre al piano terra sono cinquecentesche e attribuite a Michelangelo, mentre il prolungamento sulla strada, rispetto alle dimensioni originali che prevedevano solo dieci aperture per piano, risale al tardo Seicento e alla volontà della famiglia Riccardi, cui i Medici avevano venduto l’edificio.

Per il resto, il prospetto esterno a tre piani, separati da una sottile cornice marcapiano, conserva le originali forme

1. Cortile 2. Vestibolo d’ingresso 3. Scale

. Giardino

. Loggia d’angolo

di Michelozzo. Al primo e al secondo piano si apre una serie di bifore con archi a tutto sesto. L’architetto, inoltre, sceglie di alleggerire il paramento esterno a seconda dell’altezza: i tre ordini, infatti, presentano, dal basso verso l’alto, un bugnato “rustico”, uno lavorato regolarmente e uno appena segnato sull’intonaco. Questa differenziazione dei bugnati, come pure l’organizzazione dei piani del cortile, diverranno poi caratteristiche ricorrenti nella tipologia del palazzo nobiliare tra XV e XVI secolo.

56 Palazzo mediCi (su progetto di Michelozzo di Bartolomeo, 1444-1460, con interventi successivi). Firenze.

57 Pianta del Piano terreno di Palazzo mediCi

58 Palazzo mediCi, cortile interno. Firenze.

bugnato Rivestimento murario costituito da blocchi di pietra squadrati e aggettanti.

Il palazzo fiorentino del Quattrocento

L’architettura civile del Quattrocento ha le sue più significative manifestazioni in Italia centrale, specialmente a Firenze, grazie alla stretta unità d’intenti tra artista e committente. Fu determinante il ruolo dei Medici che, con il loro palazzo di via Larga, crearono un modello che ebbe larghissimo seguito, non solo a Firenze.

Il modello trecentesco • Palazzo Medici si innesta, trasformandola, sulla tradizione fiorentina di palazzi nobiliari del tardo Medioevo, come per esempio Palazzo Davanzati, la tipica dimora fiorentina trecentesca 59

Con la sua facciata alta e stretta, il Palazzo Davanzati si inserisce nella cortina muraria continua delle strada, come accadeva nelle città medievali. Si sviluppa con una pianta irregolare su tre piani oltre al piano terra, dove si trovavano i magazzini (la loggia al quinto è un’aggiunta del Cinquecento) 60. Il piccolo cortile è sufficiente solo per la scala, coperta ma non chiusa 61. Il primo piano (detto piano nobile), oltre ad alcune stanze, ospita un grande salone di rappresentanza che occupa la facciata per tutta la sua larghezza. Le stanze per la dimensione più intima della famiglia erano

al secondo piano, mentre il terzo era adibito alla servitù e ospitava anche la cucina, in modo da allontanare gli odori e il rischio di incendi.

Palazzo Medici: il prototipo • Queste caratteristiche generali tendono a permanere nel palazzo nobiliare fiorentino, che però venne regolarizzato a partire dal prototipo di Palazzo Medici: l’edificio occupava un intero isolato, la pianta venne regolarizzata; all’interno il cortile era sempre di pianta quadrata e porticato su ogni lato. Al piano terra trovavano posto il negozio, il magazzino, i locali per le attività finanziarie; al primo piano il grande salone e gli altri locali di rappresentanza. La scala, accessibile dal cortile, veniva da ora ricavata internamente.

La distribuzione degli ambienti intorno al cortile prevedeva, in questo come nei palazzi successivi, che tutte le stanze risultassero inanellate, l’una a fianco all’altra in un’unica fila, accessibili dal portico per il piano terreno, e nei piani superiori accessibili da logge o da corridoi chiusi. Le stanze potevano essere collegate fra di loro, con le porte a creare un’infilata prospettica, ed essere accessibili dal corridoio, oppure, per una maggiore riservatezza, solo da un’altra stanza. Fra le moltissime dimore nobiliari rinascimentali fiorentine ricordiamo i palazzi Rucellai [→ p. 85], Strozzi 62, Gondi 63.

59 Palazzo davanzati, ca. 1350, facciata. Firenze.

60 Pianta di Palazzo davanzati

61 Palazzo davanzati, cortile.

62 Benedetto da Maiano, Palazzo strozzi, 1489-1538. Firenze.

63 Giuliano da Sangallo, Palazzo gondi, 1490-1498. Firenze.

Donatello e la scultura, guida delle arti

Ghiberti e Donatello a Orsanmichele

Come abbiamo visto [→ p. 34], Donatello iniziò il suo apprendistato nella bottega di Ghiberti. E proprio accanto a Ghiberti venne incaricato di scolpire alcune statue per i tabernacoli esterni della chiesa gotica di Orsanmichele 64. Tra queste, una figura di San Giorgio, che rappresenta un chiaro esempio di come a Firenze la scultura, ancora prima dell’architettura, si fosse indirizzata su binari inesorabilmente diversi rispetto al passato.

Lo strano nome di Orsanmichele, ancora oggi in uso, è la contrazione italiana del latino Hortus Sancti Michaelis, in riferimento all’orto del monastero di San Michele, che si trovava a metà strada tra il Duomo e il Palazzo della Signoria.

Al posto dell’orto e del monastero fu costruito un mercato del grano e poi la chiesa di una confraternita. Sulle pareti esterne di Orsanmichele, le Arti fiorentine posero le statue dei loro santi patroni, creando uno dei

più straordinari complessi di scultura pubblica di tutta Europa, costituito da quattordici nicchie con sculture eseguite perlopiù nei primi decenni del Quattrocento.

Il San Giovanni Battista di Ghiberti • La Corporazione di Calimala si rivolse ancora una volta a Ghiberti per un’immagine bronzea di San Giovanni Battista 65, realizzata tra il 1412 e il 1416 traducendo in grandi dimensioni il linguaggio delle formelle della Porta Nord. L’immagine che vediamo da via dei Calzaiuoli è una copia del bronzo originale, che si conserva nel Museo di Orsanmichele, allestito nel 1996 al piano superiore dell’edificio.

Il santo si staglia al centro di un tabernacolo gotico nell’architettura; la figura è impostata su un’inarcatura messa in risalto dalla lunga e affilata piega del panneggio, distinguendosi anche per il minuzioso calligrafismo della barba: caratteristiche tipiche del Gotico internazionale.

64 Chiesa di orsanmiChele Firenze. — In basso si vedono le nicchie delle Arti fiorentine con le figure dei vari patroni.

65 Lorenzo Ghiberti, san giovanni battista, 1412-1416, bronzo, altezza cm 268 (replica della statua ora conservata all’interno del museo). Firenze, Orsanmichele, Tabernacolo dell’Arte di Calimala.

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I viaggi di Donatello
Presentazione Donatello

Le sculture di Donatello per Orsanmichele

Il San Giorgio • Poco dopo il San Giovanni di Ghiberti, intorno al 1417, per il tabernacolo dell’Arte dei Corazzai Donatello realizza il San Giorgio, una delle statue rinascimentali più note e amate 66. Il santo guerriero, che aveva ucciso il drago e salvato la giovane principessa sacrificata al mostro [→ p. 16], rappresentava l’ideale cavalleresco del giovane eroe difensore della cristianità. La sua storia, infatti, simboleggia il prevalere della fede sui nemici della Chiesa (il drago) e la salvezza dell’anima (la principessa). Nella scultura di Donatello, il cavaliere è spogliato di ogni elemento dell’arte tardogotica, ancora ben presente nel San Giovanni ghibertiano. Saldo e severo, il giovane si staglia dritto a guardare l’orizzonte e ostenta davanti a sé il grande scudo crociato, su cui poggia il braccio sinistro. I piedi sono ben piantanti a terra, e la figura appare armonica e ben proporzionata, quasi fosse una statua romana antica. Il volto è imberbe, con lo sguardo concentrato a osservare la realtà contingente, animato da un «vivacità fieramente terribile» secondo le parole di Vasari 67 Siamo dunque ormai lontani dal preziosismo del San Giovanni ghibertiano, ma a dimostrare come in questa fase di transizione convivessero linguaggi diversi, Donatello inserì una scultura tanto moderna in un tabernacolo con un coronamento ancora gotico.

66 Donatello, san giorgio, ca. 1415-1417, marmo, altezza cm 209. Da Orsanmichele. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

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67 Donatello, san giorgio, particolare del volto.

La predella: una storia in prospettiva • Nel basamento della statua, Donatello scolpì un bassorilievo proprio con la storia in cui San Giorgio sconfigge il drago 68 È una scena raccontata con un realismo mai visto prima: si tratta infatti del più antico esperimento di prospettiva giunto fino a noi. Utilizzando la tecnica dello “stiacciato” [→ p. 35], lo scultore ha collocato il gruppo del cavaliere che uccide il diabolico animale al centro di una composizione tridimensionale, delimitata a sinistra dall’antro roccioso in cui il drago aveva la tana, e a destra da un palazzo segnato da un loggiato con archi a tutto sesto, di fronte al quale compare la principessa salvata dal santo.

Su entrambi i lati le quinte del paesaggio e delle architetture vanno a cercare un punto di fuga centrale, secondo le norme della prospettiva lineare 69.

Il San Ludovico • Per Orsanmichele, Donatello eseguì anche la sua prima grande prova in bronzo: una statua raffigurante San Ludovico di Tolosa per il Tabernacolo della Parte Guelfa, il partito dominante in città 70

Il San Ludovico fu accolto in una nicchia innalzata verso il 1423 e nella quale, per la prima volta a Orsanmichele, si preferiva, al tradizionale coronamento gotico, un arco a tutto sesto, ovvero uno degli elementi per eccellenza del nuovo linguaggio architettonico elaborato da Brunelleschi. Nel 1463, la nicchia fu poi ceduta all’Arte della Mercanzia e l’opera di Donatello fu spostata sulla facciata di Santa Croce.

Il San Ludovico è assemblato in più pezzi e, al contrario del San Giorgio, appare quasi privo di struttura, come se lo scultore si fosse concentrato solo sulla resa della ricca veste e sugli effetti di chiaroscuro prodotti dalla luce sull’incresparsi del panneggio.

È il segno di quanto Donatello sapesse far evolvere il proprio linguaggio e di quanto avesse compreso le caratteristiche del metallo rispetto al marmo; d’ora in poi molte delle sue sculture saranno eseguite in bronzo.

hub art Cerca su HUB Art le altre sculture presenti nelle nicchie esterne di Orsanmichele oltre a quelle realizzate da Donatello e realizza una playlist.

68 Donatello, san giorgio sConfigge il drago, basamento del San Giorgio, ca. 1415-1417, marmo, cm 39×120. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

69 sChema ProsPettiCo del basamento del san giorgio

70 Donatello, san ludoviCo, entro una replica del Tabernacolo di Parte Guelfa di Donatello, 1420-1425, bronzo dorato, cm 226×85. Firenze, Museo di Santa Croce.

Scultura e prospettiva

73

71 fonte battesimale, 1423-1427. Siena, Battistero.

72 Donatello, banChetto di erode, 1423-1427, bronzo dorato, cm 60×60. Siena, Battistero, Fonte battesimale.

73 sChema ProsPettiCo del banChetto di erode

Il Banchetto di Erode • La predella del San Giorgio, con la scena inquadrata da una modernissima quinta prospettica, non è un caso isolato nella produzione di Donatello, ma l’attenzione alla resa della profondità nel bassorilievo ritorna sia in una commissione del primo soggiorno senese sia, anni più tardi, nella produzione padovana [→ p. 54]. I numerosi spostamenti di Donatello, peraltro, non devono meravigliare: lo scultore è uno dei tanti “artisti in viaggio” che contribuiranno a diffondere il linguaggio rinascimentale in tutta Italia.

Tra il 1423 e il 1427, infatti, Donatello realizzò un rilievo in bronzo per il Fonte del Battistero di Siena 71. La decorazione del Fonte prevedeva un ciclo di Storie del Battista e vi collaborarono anche gli altri due maggiori scultori toscani del momento: Ghiberti e Jacopo della Quercia. I tre artisti non erano stati chiamati a sfidarsi in un concorso, ma il ciclo senese rappresentò comunque una sorta di competizione, dalla quale Donatello emerse come il più moderno scultore dell’epoca.

incestuosa tra Erode Antipa, che regnava sulla Giudea, e la cognata Erodiade. Per vendicarsi, la donna convinse la figlia Salomè a chiedere la testa del Battista al sovrano, che aveva promesso di esaudire qualsiasi desiderio della giovane, come ricompensa per la danza offerta al re in occasione del suo compleanno. La scena viene qui riallestita, grazie allo stiacciato e alla prospettiva, in uno spazio tridimensionale, che l’occhio dello spettatore è invitato a indagare 73. In primo piano la testa del Battista è presentata a un Erode che si ritrae inorridito, mentre, di fronte, Salomè danza accompagnata da una musica che proviene da suonatori colti di profilo in secondo piano, al di là di una loggia. Ancora oltre, si riconosce un momento precedente della storia, quando la testa del Battista è offerta a Erodiade; di fronte c’è un’apertura su delle scale che portano ai piani superiori del palazzo. La monumentale scenografia con gli archi a tutto sesto e il paramento murario a mattoni è palesemente ispirata all’antichità. Così la modernissima prospettiva viene piegata a raccontare, nella stessa scena, episodi che avvengono in momenti differenti: attraverso la diversità dei piani spaziali, cioè, sono rappresentati tempi diversi. P

Il soggetto donatelliano è il Banchetto di Erode 72, l’episodio che segna la sorte di Giovanni Battista. Il profeta precursore di Cristo, infatti, aveva condannato l’unione

I

di Donatello nei cantieri di Brunelleschi

Nei primi decenni del Quattrocento Firenze è un cantiere in cui vecchi e nuovi maestri si trovano a lavorare fianco a fianco. Donatello non lavorò solo con Ghiberti, ma fu attivo anche insieme all’amico Brunelleschi.

La cantoria del Duomo • La loro collaborazione era già in atto nel Duomo, per il quale Brunelleschi aveva progettato anche l’arredo della zona sottostante, intorno all’altare maggiore. Filippo aveva previsto la presenza di una coppia di cantorie, ovvero di due balconi deputati ad accogliere il nuovo organo e i coristi della cattedrale; le due strutture si affacciavano l’una di fronte all’altra, sopra le porte delle due sagrestie. Una fu commissionata nel 1433 a Donatello, l’altra a Luca della Robbia [→ p. 74]. Quando ottenne la commissione, Donatello era appena rientrato da un secondo soggiorno romano, durante il quale aveva approfondito i suoi interessi antiquari. Volendo richiamare il tema della musica, allestì sul prospetto del balcone una sfrenata e instancabile danza di putti alati 74, che volteggiano furiosamente nello spazio continuo di una galleria scandita da cinque coppie di colonnine binate e impreziosita sul fondo e nelle colonne da colorati inserti musivi. La struttura della composizione, non rigida ma fluida e continua, ricorda quella di alcuni sarcofagi antichi e sembra voler “contraddire” la misura e l’equilibrio geometrico dell’architettura brunelleschiana. L’andamento delle linee curve dei corpi e le linee diagonali rendono la scena dinamica 75, l’utilizzo delle tessere vitree colorate, inoltre, contribuisce a dotarla di un’irrefrenabile vitalità. Donatello sceglie appositamente di lasciare le figure poco più che abbozzate, in modo da conferire loro espressività e forza: la cantoria infatti è posta in alto e, come notava già Vasari, l’abbozzo è più espressivo rispetto alle lavorazioni finite, se visto in lontananza.

Le decorazioni della Sagrestia Vecchia • Un simile brulichio di figure in movimento si ritrova nei colorati rilievi eseguiti da Donatello per un’altra grande commissione affidata a Brunelleschi, la Sagrestia Vecchia di San Lorenzo [→ p. 44]. Gli arconi, i pennacchi e i sovrapporta della sagrestia, uno spazio architettonico alquanto misurato se non austero, sono decorate con agitate figure di evangelisti e di santi che si alternano alle storie di san Giovanni Evangelista, allestite con monumentali scenografie prospettiche. Lo si vede bene nell’episodio della Resurrezione di Drusiana, dove la donna in nero, miracolata, risorge dal letto funebre, provocando una febbrile esaltazione nelle candide forme dei presenti, che risaltano sul fondo color mattone di un’enorme sala con arcate a tutto sesto 76

74 Donatello, Cantoria, 1433-1439, marmo, bronzo e pasta vitrea e oro, cm 348×570×98. Dalla Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

75 Donatello, Cantoria, particolare.

76 Donatello, resurrezione di drusiana, ca. 1435-1440, stucco dipinto, diametro cm 215. Firenze, Basilica di San Lorenzo, Sagrestia Vecchia.

Il David

Il David • La composizione di linee curve e diagonali, vista nei putti della cantoria, ritorna anche in un eccezionale bronzo, la cui raffinata grazia, per una volta, permette un accostamento con lo stile tardogotico di Ghiberti. È il David del Museo del Bargello a Firenze 7778: un adolescente dai lunghi capelli, completamente nudo, se non per il cappello in testa e i calzari; nella destra ha la spada e nella sinistra il sasso con il quale ha abbattuto Golia

Il giovinetto trionfante, dalla muscolatura vagamente accennata, poggia un piede sul capo del gigante morto, come fosse un cacciatore che vuole farsi ritrarre con la sua preda. La postura del corpo accenna una sinuosa curvatura, su cui si innestano linee dritte e spezzate: la gamba destra è tesa e si contrappone agli altri arti, che formano altrettanti spigoli orientati in diverse direzioni.

Una novità che guarda all’antico • Nella posa ancheggiante tipica del linguaggio gotico, con la mano sinistra al fianco, il pagano nudo del David è di un’eleganza estrema, ma rispetto a quanto avrebbe saputo fare Ghiberti propone una novità decisiva. È infatti una vera e propria statua a tutto tondo, studiata affinché fosse possibile girarle attorno, come si poteva fare con quelle antiche. Donatello lo realizzò verso il 1435-1440 per una sala del vecchio palazzo di Cosimo de’ Medici in via Larga, dove si ergeva sopra una colonna proprio come i monumenti dell’antichità. Osservandolo dal sotto in su, si poteva così incrociarne lo sguardo, appositamente rivolto verso il basso e altrimenti quasi nascosto dalla tesa del cappello, che sulla cima doveva recare un pennacchio vero.

7778 Donatello, david (fronte e retro), ca. 1435-1440, bronzo dorato, altezza cm 158. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

david e golia

Il gigante Golia, campione dei Filistei, sfida a duello il migliore degli Ebrei, per decidere così le sorti del conflitto tra i due popoli. Un giovane pastore ebreo, David, riesce ad abbattere il nemico colpendolo con una fionda, confidando più nella fede in Dio che nella forza delle armi.

78

L’itinerario di Donatello da Firenze a Padova

Donatello è uno dei tanti artisti che nel corso del Quattrocento si spostarono da una città all’altra e da una corte all’altra, diventando fondamentali vettori per diffondere, contaminare e far evolvere le novità del nuovo linguaggio artistico.

Nel 1423 era stato chiamato a Siena, dove aveva lavorato ai rilievi per il Fonte del Battistero [→ p. 51]; era poi tornato a Firenze, dove aveva avviato una bottega con Michelozzo [→ p. 46]. Diverse commissioni ricevute provenivano da altre città: Arezzo e Prato, ma anche Montepulciano e Napoli. Nel 1432, sempre con Michelozzo, era partito per un lungo viaggio a Roma, dal quale tornò l’anno seguente. Il più importante soggiorno fuori da Firenze di Donatello, tuttavia, arrivò più di dieci anni dopo, quando lo scultore aveva quasi sessant’anni.

Il Gattamelata • Nel 1443 Donatello si trasferì a Padova per circa dieci anni. Qui lo scultore lasciò un segno indelebile nel cuore della città, sia lavorando nell’amatissima Basilica di Sant’Antonio [→ Da vicino, p. 56], sia innalzando un monumento equestre in bronzo accanto alla Basilica stessa.

La maestosa figura a cavallo ritrae Erasmo da Narni, detto il Gattamelata: era un uomo d’armi e capitano generale dell’esercito della Serenissima (la Repubblica di Venezia), che nel 1439 aveva saputo riprendere Verona a Filippo Maria Visconti e Gianfrancesco Gonzaga. I prestigiosi committenti della colossale statua, nella città in cui il Gattamelata morì, furono gli eredi del condottiero, con il consenso della Repubblica di Venezia. Donatello traslocò dunque a Padova, dove si approcciò in modo rivoluzionario alla tipologia del monumento equestre. Lo si capisce accostando il Gattamelata 79 al trecentesco monumento di Cangrande della Scala 80 realizzato a Verona. In questi modelli medievali, il cavaliere sorridente indossa una cotta di maglia che gli copre la testa e un elmo che ricade sulla schiena, mentre il cavallo è quasi completamente coperto da una lunga bardatura.

Donatello non conserva nessuna di queste caratteristiche, perché si ispira all’antichità e rilegge in modo personale il Monumento equestre di Marco Aurelio 81. Il destriero, sbardato e in movimento, incede possente con l’anteriore sinistro, il cui zoccolo è poggiato su una sfera per evitare problemi di statica. Il condottiero, con sguardo fiero, è protetto da una leggera armatura e alza la destra per mostrare il bastone del comando, come un imperatore a capo del suo esercito. La fierezza del Gattamelata è vivacemente espressa nel volto, in cui Donatello ritrasse con impressionante intensità le severe fattezze del militare.

79 Donatello, gattamelata, 1443-1453, bronzo, cm 340×390, senza il piedistallo. Padova, sagrato della Basilica di Sant’Antonio.

80 Maestro dell’arca di Mastino II, Cangrande della sCala, secondo quarto del XIV secolo, pietra tenera, altezza ca. cm 200. Verona, Museo di Castelvecchio.

Sovrani a cavallo

La rinascita di un modello • L’idea che la statua equestre sia specialmente adatta a celebrare un condottiero o un sovrano nasce nella Roma imperiale, dove monumenti di questo tipo sorgevano numerosi.

Il Marco Aurelio di bronzo dorato 81, sopravvissuto alle distruzioni medievali perché scambiato per il primo imperatore cristiano, Costantino, rimase per secoli il riferimento obbligato per questa tipologia, che rinasce in Europa nel Quattrocento. Solo per fare qualche esempio, fra le

tappe della sua evoluzione in Italia troviamo il Gattamelata di Donatello a Padova (1443-1453), il Colleoni del Verrocchio a Venezia (14801496) o il Cosimo I del Giambologna a Firenze (1587-1594). Ma non meno importanti e discussi, anche se incompiuti, furono altri progetti, come il Francesco Sforza di Leonardo (mai finito), o il Luigi XIV del Bernini, che arrivò a Versailles nel 1685, ma non piacque al re e per suo ordine fu trasformato da François Girardon in Marco Curzio che si getta nella voragine

Il Settecento e l’Ottocento • Nel Settecento le statue equestri dilagano in tutta Europa, da Lisbona a San Pietroburgo. A Lisbona il Giuseppe I di Joaquim Machado de Castro (1775) sorse nella Piazza del Commercio, centro della ricostruzione della città dopo il devastante terremoto di vent’anni prima. Negli stessi anni a San Pietroburgo il francese Étienne Maurice Falconet eresse la statua equestre del fondatore della città, lo Zar Pietro il Grande 82 Le statue equestri si moltiplicarono nell’Italia post-unitaria, dove furono riservate ai re sabaudi e a Garibaldi (quella di Vittorio Emanuele II sull’Altare della Patria a Roma è fra le più grandi statue di bronzo del mondo). Monumenti simili sorsero anche fuori Europa: la statua del re d’Inghilterra Giorgio III a New York fu abbattuta

nel 1776 durante la Rivoluzione americana e, nella stessa città, sorse più tardi (1856) il George Washington a cavallo.

Monumenti sempre più grandi • Via via che le statue equestri popolavano le piazze di tutto il mondo, per riaffermarne il valore e il significato non restava che ingrandirle a dismisura. Si arriva così in Uruguay alla statua del generale José Gervasio Artigas, alta 18 metri (1923), in Mongolia a quella di Gengis Khan 83, alta 30 metri (2008), e infine a quella del capo amerindiano Cavallo Pazzo, iniziata nel 1948 in South Dakota (Stati Uniti) e ancora incompiuta, che dovrebbe raggiungere 172 metri. S. S.

temi e modelli

Cerca in Rete i monumenti equestri citati nel testo e confrontali con il prototipo del Marco Aurelio, sottolineando affinità e differenze.

81 statua equestre di marCo aurelio, 161-180 d.C., bronzo dorato, altezza cm 424. Roma, Musei Capitolini, Esedra di Marco Aurelio.

82 Étienne Maurice Falconet, statua equestre di Pietro il grande, 1782. San Pietroburgo.

83 monumento a gengis Khan. Tsonjin Boldog (Mongolia). — L’opera è stata realizzata dallo scultore D. Erdenebileg e dall’architetto J. Enkhjargal nel 2008

L’Altare di Sant’Antonio

La struttura originaria e la ricostruzione • A seguito di una donazione del 1446, la fabbriceria della Basilica di Sant’Antonio progettò di realizzare un costoso altare scultoreo in bronzo; per l’opera fu coinvolto Donatello, che si mise immediatamente al lavoro mentre ancora era occupato con il Gattamelata. Grazie a un team di collaboratori, per la festa di sant’Antonio del 1448 (il 13 giugno) fu montato un allestimento di prova, con le sculture ancora da rinettare. L’altare fu poi inaugurato due anni dopo nella ricorrenza antoniana del 1450.

Purtroppo, nel corso dei secoli questo eccezionale complesso ha perso il suo aspetto originale. Nel montaggio attuale 84, che risale alla fine dell’Ottocento, le statue appaiono prive dell’imponente cornice architettonica che le inquadrava 85, originariamente costituita da un tempietto dotato di colonnine e marmi policromi. In tutto, l’apparato decorativo comprendeva ventinove elementi tra statue e bassorilievi, la maggior parte in bronzo ma anche in pietra. Adesso, inoltre, in alto si staglia un Crocifisso bronzeo che Donatello aveva eseguito per un altro luogo della Basilica.

Le sculture a tutto tondo • Attualmente, sull’altare e ai suoi lati si innalzano sette statue a tutto tondo. Nel gruppo centrale 86, seduta su un trono all’antica decorato lateralmente da sfingi, si trova la Madonna col Bambino. La affiancano in piedi tre santi francescani (Francesco, Antonio da Padova e Ludovico da Tolosa) e un terzetto di santi venerati a Padova (Prosdocimo, Daniele e Giustina). Sono figure monumentali e valorose, che si ergono con sicurezza nello spazio e nei volti mostrano i tratti di una decisa espressività. Donatello ha plasmato la materia in modo che la luce, colpendola, la animasse rifrangendosi nelle tante sfaccettature. In certi punti del panneggio, il bronzo tende inoltre ad aderire e a evidenziare gli arti e le anatomie sottostanti, come se il tessuto fosse bagnato: così Donatello, come scriveva Giorgio Vasari, voleva «cercare lo ignudo delle figure».

I bassorilievi dell’altare • Sul fronte e sul retro, l’alto zoccolo dell’altare ospita ben ventidue rilievi, suddivisi in due registri.

In quello inferiore ci sono i quattro simboli degli Evangelisti, una serie di dodici angioletti, una Pietà e una scena della Deposizione (unico scomparto scolpito in pietra) 87 Quattro Storie di sant’Antonio da Padova occupano invece

84 Donatello, altare di sant’antonio. Padova, Basilica di Sant’Antonio.

85 disegno riCostruttivo dell’originale altare di donatello

86 Donatello, madonna Col bambino e i santi franCesCo e antonio da Padova, 1446-1450, bronzo, altezza rispettivamente cm 145, 159, 147. Padova, Basilica di Sant’Antonio, altare maggiore.

87 Donatello, dePosizione nel sePolCro, 1446-1450, pietra calcarea con inserti policromi, cm 138×188. Padova, Basilica di Sant’Antonio, altare maggiore.

88 Donatello, miraColo della mula, 1446-1450, bronzo con dorature, ca. cm 57×123. Padova, Basilica di Sant’Antonio, altare maggiore.

il registro superiore: qui Donatello ritorna a impiegare con maestria la tecnica dello “stiacciato” e a rappresentare lo spazio attraverso la razionale tridimensionalità prospettica.

Esemplare in questo senso è il bassorilievo con il Miracolo della mula 88. Un eretico aveva sfidato Antonio a dimostrare la vera presenza di Cristo nell’ostia consacrata (Eucaristia); se il santo ci fosse riuscito l’uomo si sarebbe convertito alla retta dottrina. L’eretico avrebbe tenuto la sua mula per tre giorni senza mangiare; poi, di fronte alla gente, le avrebbe messo davanti della biada, mentre Antonio avrebbe dovuto mostrarle l’ostia. Se l’animale si fosse inginocchiato davanti all’Eucarestia, ignorando il cibo, l’uomo avrebbe riconosciuto di essere in errore. E così avviene. La complessa scena è ambientata nell’immensa scenografia architettonica di una sorta di basilica antica, tripartita in tre ampie volte a botte perfettamente inquadrate in una griglia prospettica. La folla che assiste al miracolo è agitata da una fervida animazione: uomini, donne, anziani e bambini si accalcano in una miriade di pose, alcuni si arrampicano addirittura sui basamenti delle paraste centrali per osservare meglio la scena. Nonostante il numero di personaggi, lo scultore ha minuziosamente rappresentato atteggiamenti ed espressioni: basta osservare, per esempio, l’uomo appoggiato alla parasta di destra, che si porta la mano alla bocca in un evidente gesto di stupore. Tutte le figure, del resto, pur muovendosi entro uno spazio enorme, risaltano di una voluminosa monumentalità: Donatello li ha ritratti dal sotto in su, tenendo conto dell’altezza cui i rilievi erano destinati.

A Padova il maestro fiorentino si imponeva così come punto di riferimento di un nuovo linguaggio, dove il rigore prospettico e l’interesse per l’Antico convivono con una narrazione frenetica e appassionata, che ricorda i rilievi della Sagrestia Vecchia nella Basilica di San Lorenzo a Firenze.

Gli ultimi anni di Donatello

La svolta in senso espressivo dell’arte di Donatello venne confermata al ritorno a Firenze, nel 1453: lo dimostra la scultura lignea della Maddalena penitente 89, che nega ogni bellezza ideale per mostrare, nel corpo e soprattutto nel volto, i segni della fatica e del dolore.

Superati i settant’anni, nel 1457, il maestro decise di trasferirsi a Siena, città che viveva un rinnovato fervore per l’elezione a papa di Pio II, originario di Corsignano, paese della Repubblica senese. Donatello avrebbe dovuto lavorare a un’ambiziosa impresa: le porte in bronzo della Cattedrale. Nonostante le promesse dell’Opera del Duomo, però, quel progetto fallì e Donatello nel 1461 se ne tornò in patria.

Il San Giovanni Battista • Prima del suo rientro a Firenze, tuttavia, a Siena lo scultore fiorentino lasciò un fiero San Giovanni Battista in bronzo che si conserva in Catte -

drale 90. Una statua di impressionante e crudo vigore, nella quale è esternata al meglio quell’accentuazione espressiva che infervora le opere dell’ultimo Donatello e di cui seppero fare tesoro in molti: dal giovane Francesco di Giorgio Martini (architetto, pittore e grandissimo scultore in bronzo) al più anziano Vecchietta. Da sempre patito della statuaria donatelliana, il Vecchietta avrebbe preso spunto dal Battista per un monumentale Cristo risorto in bronzo ultimato nel 1476 per la chiesa senese della Serenissima Annunziata 91. In questa scultura, che destinò alla sua cappella sepolcrale, il maestro dimostra una fedeltà donatelliana nelle anatomie tirate, nella brutale maschera del volto, nel perizoma aderente alle forme. È un’opera che segna un momento importante nella storia della statuaria in bronzo del Rinascimento, di cui Donatello aveva scritto un fondamentale capitolo a Padova.

89 Donatello, maddalena Penitente, 1455-1456, legno parzialmente dorato, altezza cm 188. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

90 Donatello, san giovanni battista, 1457, bronzo, altezza cm 185. Siena, Cattedrale.

91 Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, Cristo risorto, 1476, bronzo, altezza cm 183. Siena, Santissima Annunziata.

92 Donatello, giuditta Che deCaPita oloferne, 1457-1460, bronzo, altezza cm 236. Firenze, Palazzo Vecchio.

93 Donatello, giuditta Che deCaPita oloferne, particolare del volto di Oloferne.

La Giuditta • A un quarto di secolo dal David, Donatello, di nuovo a Firenze, avrebbe eseguito per Cosimo un altro bronzo monumentale di soggetto biblico: l’eroina Giuditta in atto di decapitare Oloferne 92. Cosimo aveva ordinato la Giuditta perché si innalzasse nel giardino della sua nuova dimora, poco lontano dal David, che nel frattempo dalla sala del vecchio Palazzo Medici aveva trovato collocazione nel cortile di quello nuovo, realizzato su progetto di Michelozzo di Bartolomeo.

Si tratta di un’opera compiuta nel 1464, poco prima della morte dell’anziano artista (1466). Il contrasto con il classicismo del David qui emerge con evidenza, e mostra come l’esperienza padovana sia stata decisiva per l’arte donatelliana.

Un gruppo scultoreo pensato di nuovo a tutto tondo, ma di una forza impressionante, nella drammaticità della figura che sta per essere decapitata 93, nel gesto dell’eroina che alza la spada, nel fremente panneggio della sua veste e nelle storie ai piedi del basamento. Qui corrono tre scene bacchiche, che alludono all’ebbrezza di Oloferne: Giuditta, infatti, lo uccise dopo averlo fatto ubriacare.

Un tempo il gruppo della Giuditta recava una scritta latina che nominava il committente ed esaltava la funzione civile dell’opera, ricordando come Piero, figlio di Cosimo, avesse dedicato la statua femminile all’unione di fortezza e libertà, affinché i cittadini si orientassero con animo risoluto alla difesa della Repubblica. L’eroina biblica Giuditta, infatti, aveva salvato la città di Betulia dall’assedio degli Assiri, seducendo il loro comandante Oloferne e poi decapitandolo di notte nel suo accampamento. Il gruppo donatelliano, come del resto anche il precedente David, rappresentava dunque un esempio di virtù civile e amore di patria, due impegni da perseguire anche a costo di mettere a rischio la propria vita.

93

Masaccio, le novità in pittura 5•

Masaccio e Masolino

Come abbiamo visto, le arti guida del primo Rinascimento furono l’architettura e, in particolare, la scultura: a raccogliere in pittura la lezione di Brunelleschi e Donatello fu Masaccio, un giovane pittore che proveniva dal contado fiorentino. La sua carriera fu brevissima, stroncata da una morte precoce (visse solo ventisette anni), eppure fu capace di sconvolgere come un terremoto l’ambiente artistico della Repubblica.

Il ritardo della pittura veniva così finalmente colmato: e in modo davvero strepitoso.

La Madonna col Bambino di Masolino • Per riuscire ad affermarsi in una Firenze ancora innamorata delle eleganze del Gotico internazionale, il ventenne Masaccio si mise in società con un pittore più anziano: Masolino da Panicale (1383/84-1436/40). Nello stesso 1423 in cui Gentile da Fabriano concludeva l’Adorazione dei Magi per Santa Trinita [→ p. 14], Masolino dipingeva la Madonna col Bambino oggi a Brema 94: un’immagine per la devozione privata, commissionata per festeggiare un matrimonio tra le famiglie Boni e Carnesecchi (come attestano gli stemmi posti in basso nella cornice, nel basamento sotto le doppie colonnine tortili).

Qui Masolino si concentra sui colori preziosi e il registro delicato tipico del Gotico internazionale, a cui rimanda palesemente anche l’elaborato ed elegante formato della carpenteria.

La Sant’Anna metterza di Masolino e Masaccio • Di lì a poco, per la chiesa fiorentina di Sant’Ambrogio, Masolino eseguiva la Sant’Anna metterza 95, oggi agli Uffizi. Il soggetto deve il suo nome al fatto che la nonna Anna, madre della Vergine e dunque nonna di Gesù, è “messa [per] terza” dietro al Bambino e Maria. In questa tavola Masolino, il maestro più anziano e capobottega, si fece aiutare dal pittore più giovane, Masaccio, che tuttavia non doveva essere suo allievo diretto.

A Masaccio spettano infatti le figure dell’angioletto in alto a destra e soprattutto quelle centrali del gruppo della Madonna col Bambino, che si distingue per una solida volumetria, fondata sugli ideali di Brunelleschi e Donatello. A dispetto del fondo oro e delle aureole piatte, ancora di stampo medievale, la Vergine e il Figlio manifestano infatti una concretezza tridimensionale 9697:

le ginocchia di Maria, per esempio, spingono in avanti il manto azzurro conferendo profondità scultorea alla figura, a differenza del panneggio rosso di Anna 9 8 , realizzato da Masolino, che invece appare piatto, senza volume, come pure il suo braccio destro sollevato sul capo di Gesù. Anche il Bambino, grazie al forte effetto di chiaroscuro, si contraddistingue per uno studio delle anatomie quanto mai moderno, che ricorda il Crocifisso di Brunelleschi di più di dieci anni prima [→ p. 37].

Non si poteva immaginare un contrasto più forte: un organismo vivo, in carne e ossa, stava tornando ad abitare i dipinti al posto di un’arte, quella tardogotica, “senza corpo”.

94 Masolino da Panicale, madonna Col bambino, 1423, tempera e oro su tavola, cm 96×52. Brema (Germania), Kunsthalle.
Presentazione Masaccio
95 Masaccio e Masolino, sant’anna metterza, 1424-1425, tempera e oro su tavola, cm 175×103. Firenze, Gallerie degli Uffizi.
96 Masaccio, sant’anna metterza, particolare con la Madonna.
97 Masaccio, sant’anna metterza, particolare con il Bambino.
98 Masaccio, sant’anna metterza, particolare con sant’Anna.

La Cappella Brancacci

Masolino e Masaccio rappresentavano, dunque, due mondi diversi e apparentemente inconciliabili, che per necessità dovettero incontrarsi nella loro impresa più grande: la decorazione di una cappella nella chiesa fiorentina del Carmine, che apparteneva al mercante di seta Felice Brancacci. Qui la personalità del maestro più giovane finì per dominare su quella del più anziano.

La storia della Cappella • Il lavoro fu avviato verso il 1424 e prevedeva di raccontare sulle pareti un ciclo di Storie di san Pietro, cui la cappella era dedicata 99. L’aspetto attuale della Cappella Brancacci è frutto di una serie di secolari stratificazioni.

Gli affreschi delle vele e delle lunette (i primi a essere eseguiti, dal momento che in cantieri come questo il lavoro iniziava sempre dall’alto) sono andati distrutti in seguito a una ristrutturazione del 1746-1748, cui si devono le pitture tardobarocche della parte alta.

La duecentesca tavola della Madonna del Popolo fu posta sull’altare soltanto dopo il 1458, quando la cappella ebbe un nuovo titolo a seguito dell’esilio da Firenze della famiglia Brancacci (che faceva parte del fronte della resistenza contro i Medici). In tale occasione fu rovinata la scena del Martirio di san Pietro, che occupava la parete di fondo (dove si possono riconoscere alcuni frammenti dell’affresco originale).

Nei primi anni Ottanta del Quattrocento, poi, Filippino Lippi, adottando uno stile “masaccesco”, completò il registro più basso. Masolino e Masaccio, infatti, non avevano portato a termine il loro impegno, abbandonando il cantiere rispettivamente nel 1425 e nel 1426 100

Il ciclo di affreschi • Il programma iconografico è concentrato sulla vita di san Pietro, ma nella Cappella Brancacci ci sono anche due scene tratte dalla Genesi. La centralità della figura di Pietro rimanda all’analoga importanza della Chiesa, unica intermediaria di salvezza tra gli uomini e Cristo, ma intende anche celebrare Pietro di Piuvichese, capostipite dei Brancacci. Nel ciclo san Pietro è sempre riconoscibile, pur nella diversità di mani, per l’abito contraddistinto dal mantello arancione e per la capigliatura corta e la barba.

Masolino

Masaccio

Filippino Lippi

1. Cacciata dal Paradiso terrestre

2. Tributo

3. Predicazione di san Pietro

4. Battesimo dei neofiti

5. Guarigione dell'infermo e resurrezione di Tabita

6. Tentazione di Adamo ed Eva

7. San Pietro in carcere visitato da san Paolo

8. Resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra

99 CaPPella branCaCCi, veduta d’insieme. Firenze, Santa Maria del Carmine.

100 sChema iConografiCo e attribuzione degli affresChi della CaPPella branCaCCi

9. San Pietro risana gli infermi con la sua ombra

10. Distribuzione dei beni e morte di Anania

11. Disputa con Simon Mago e crocifissione di san Pietro

12. San Pietro liberato dal carcere

101 Masolino da Panicale, tentazione di adamo ed eva, ca. 1424-1425, affresco, cm 260×88, Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci.

102 Masolino da Panicale, tentazione di adamo ed eva, particolare con la testa del serpente.

103 Masolino da Panicale, tentazione di adamo ed eva, particolare del volto di Eva.

104 Masaccio, CaCCiata dal Paradiso terrestre, ca. 1424-1425, affresco, cm 214×88. Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci.

105 Masaccio, CaCCiata dal Paradiso terrestre, particolare del volto di Eva.

Gli affreschi della Cappella

Adamo ed Eva: Masolino e Masaccio • L’uno di fronte all’altro, nel registro superiore della parete d’ingresso, sono rappresentati i due episodi della Genesi 101104: sono gli antefatti della storia della salvezza, che teologicamente giustificano la venuta di Cristo (l’origine del peccato e dunque la necessità della Redenzione), a cui fanno poi seguito le vicende che hanno come protagonista Pietro.

A Masolino spetta la Tentazione di Adamo ed Eva 101, dove i progenitori biblici sono ritratti nudi come imponeva il racconto dell’Antico Testamento, ma paradossalmente quasi senza corpo: tanto nobili quanto assolutamente bidimensionali, Adamo ed Eva galleggiano contro un fondale neutro, appena ravvivato dall’albero a cui è avviluppato il diabolico serpente dalla testa umana 102: una testa che non serba più neanche memoria della sanguigna violenza

dei diavoli giotteschi, ma pare quella di un tipico damerino delle corti frequentate da Gentile da Fabriano e dallo stesso Masolino. Adamo ed Eva sembrano non lasciar trasparire nessuna emozione, mancano di aderenza con la realtà e sembrano proiettati in una dimensione senza tempo 103

Masaccio racconta in tutt’altro modo la Cacciata dal Paradiso terrestre 104. Sotto lo sguardo truce di un angelo che piomba loro addosso come un falco, Adamo ed Eva escono da un elementare portale disposto in tralice e camminano in un paesaggio brullo e concretissimo, sul quale proiettano le ombre quanto mai reali dei loro corpi dalla forte fisicità: sono figure tormentate da un estremo dolore 105. Era come vedere di nuovo Giotto: ma con una violenza espressiva e una carnalità che Giotto non aveva conosciuto.

Il Tributo • La scena più celebre di tutto il ciclo è forse quella del Tributo: illustra il passo del Vangelo di Matteo in cui si narra il miracoloso pagamento della gabella, la tassa per il Tempio di Gerusalemme richiesta a Gesù e agli apostoli al loro ingresso nella città di Cafarnao 106 La storia è divisa in tre momenti, organizzati secondo le regole compositive della cosiddetta narrazione continua e allestiti quindi all’interno di una scenografia unica. È questo un primo elemento che distingue l’opera rispetto alla struttura narrativa tipicamente medievale, impostata invece in sequenze separate. Cristo è al centro, accerchiato dagli apostoli e bloccato dal gabelliere, e indica a Pietro di andare a prendere la moneta per il Tempio dalla bocca di un pesce appena pescato; Pietro, a sinistra, esegue l’ordine di Gesù e recupera la moneta 107, che utilizza poi, a destra, per pagare l’imposta.

Per la resa tridimensionale dello spazio, Masaccio applica anche in questo caso le novità prospettiche brunelleschiane. Il disadorno paesaggio collinare del fondo è

illuminato da un vero cielo atmosferico solcato da nubi; i tronchi degli alberi digradano proporzionalmente a seconda della distanza dall’occhio; l’edificio con il porticato sulla destra suggerisce una costruzione prospettica che indirizza verso il centro della composizione, dov’è la testa di Cristo 108. Quest’ultima, nella sua dolcezza, è la sola parte a cui ha messo mano Masolino. Gli apostoli, opera di Masaccio, sono statuari e ricordano le sculture di Donatello, sia per la solidità delle figure sia per la loro umanità: la loro naturalezza è accentuata dall’uso del chiaroscuro. Non sono più figure idealizzate come nella pittura medievale, ma appaiono uomini calati nella realtà. E proprio il senso di realtà è ottenuto anche grazie alla resa delle aureole non più piatte, ma raffigurate in scorcio, a rimarcare l’attenzione spaziale: anche l’immateriale deve ora avere un corpo, e un corpo visibile nello spazio. E, infine, non si può dimenticare la straordinaria invenzione delle ombre reali proiettate a terra da ogni personaggio.

Il Tributo

106 Masaccio (e Masolino per la testa di Cristo), tributo, ca. 1424-1425, affresco, cm 255×598. Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci.

107 Masaccio, tributo, particolare con Pietro che recupera il pesce.

108 sChema ProsPettiCo del tributo

lettura guidata

109 Masaccio, san Pietro risana

gli infermi Con la sua ombra, ca. 1424-1425, affresco, cm 230×162. Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci.

110 Masaccio, battesimo dei neofiti, ca. 1424-1425, affresco, cm 255×162. Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci.

Un’ombra miracolosa • Questi elementi ricorrono in altri brani masacceschi del ciclo. Le ombre diventano protagoniste nell’episodio in cui San Pietro risana gli infermi con la sua ombra, predisposto da Masaccio in uno spoglio paesaggio urbano, reso in prospettiva 109: una popolare via della Firenze di allora, in cui un bel palazzetto con il prospetto a bugnato è accostato a più povere abitazioni, nelle quali risaltano i tipici sporti aggettanti che si costruivano per aggiungere un po’ di superficie a dimore non troppo spaziose. Con notevole sconcerto i fiorentini dovevano riconoscere sulle pareti della cappella la stessa città che si erano appena lasciati alle spalle entrando in chiesa: la Firenze contemporanea era ora la scena in cui si dipanava la storia della salvezza.

Solo Michelangelo Merisi da Caravaggio, quasi duecento anni dopo, ebbe la stessa forza: una forza figurativa, ma anche una forza morale, perché era davvero inaudito che fosse un artista “meccanico”, cioè uno che parlava con le mani, a cambiare il modo di guardare ai fatti di Gesù e

della Chiesa, cioè al fondamento stesso della vita morale e sociale del tempo.

Un giovane infreddolito • Lo sconcertante verismo di questo brano si riflette anche nell’episodio del Battesimo dei neofiti 110. La studiata scenografia, come nel Tributo, contempla un arioso sfondo di monti ben disposti in prospettiva che sovrastano in lontananza le figure umane. Qui il soggetto permette di raffigurare i corpi nudi, attentamente indagati non solo nelle scrupolose anatomie (come nel caso del neofita devotamente inginocchiato di fronte all’apostolo), ma anche nelle più incontrollabili e istintive sensazioni. In secondo piano, a destra, Masaccio ha raffigurato un giovane che si è spogliato delle vesti e attende che Pietro lo battezzi: è palesemente impaziente, perché sta tremando di freddo.

Questo nudo maschile, dal naturalismo così intenso da apparire quasi violento, segna un punto di non ritorno nella storia dell’arte occidentale.

Il Polittico di Pisa

Nel corso del 1426 Masaccio si sposta dalla chiesa del Carmine di Firenze a quella di Pisa, per realizzare un polittico commissionato dal notaio ser Giuliano degli Scarsi per la sua cappella dedicata ai santi Giuliano e Nicola. Purtroppo, a causa dello smembramento e della dispersione dei suoi pezzi, il polittico ci è giunto in frammenti divisi tra differenti musei 111. Su richiesta del committente, Masaccio dipinse una pala di formato ancora gotico e con il fondo dorato, ma è verosimile che nel registro principale la composizione fosse unificata in un solo spazio.

La predella • Alla base del polittico c’era una predella, oggi conservata a Berlino, costituita da cinque scenette (due nelle tavole laterali e una in quella centrale). Nell’Adorazione dei Magi 112 che stava al centro si possono ritrovare elementi già visti nella Cappella Brancacci: lo spoglio paesaggio montano, il cielo atmosferico, l’accurato studio delle ombre, le aureole in scorcio, la ponderata disposizione delle figure nello spazio. Di fronte all’umile capanna, sorretta da una salda concezione spaziale, i Magi si presentano con una severa solennità; unica concessione al lusso è la sedia dorata della Vergine, che imita la forma di una sella curule, ovvero la seduta pieghevole da viaggio tipica delle più alte magistrature romane.

A dispetto dell’identico soggetto, la differenza con l’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano del 1423 [→ p. 14] è enorme: la stessa differenza che passa tra una lunga e dettagliata descrizione e un’istantanea.

La Madonna col Bambino e angeli • Nello scomparto principale del polittico Masaccio dipinge la Madonna col Bambino e angeli 113, dove porta a conseguenze estreme quanto già preannunciato nella Sant’Anna metterza di pochi anni prima nella ricerca della terza dimensione.

Nell’ipotizzare una ricostruzione dell’insieme, lo storico dell’arte John Shearman immaginava i perduti santi laterali come figure disposte accuratamente su piani diversi rispetto alla Madonna col Bambino centrale, secondo le regole prospettiche. Nonostante l’oro del fondale, Masaccio avrebbe così ordinato un palcoscenico a tutta evidenza tridimensionale.

Sul proscenio, due angioletti musicanti con la disposizione di scorcio dei loro strumenti guidano lo sguardo dell’osservatore verso il centro della composizione; la Vergine veste un mantello sapientemente panneggiato

111 riCostruzione del PolittiCo di Pisa, 1426, tempera e oro su tavola. — Al centro: Madonna col Bambino e angeli, cm 134,8×73,5. Londra, National Gallery. Sul coronamento: Crocifissione, cm 83×63. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. San Paolo, cm 51×30. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo. Sant’Andrea, cm 52,4×32,1. Los Angeles, Getty Museum. Nella predella: Crocifissione di san Pietro e Martirio di san Giovanni Battista, cm 20,8×60,5. Adorazione dei Magi, cm 21×61. San Giuliano uccide i genitori ed Elemosina di san Nicola, cm 22×62. Berlino, Gemäldegalerie. Nei pilastrini laterali: San Girolamo, Santo carmelitano, Sant’Agostino, Santo carmelitano, cm 38×12,5 (ciascun santo). Berlino, Gemäldegalerie.

112 Masaccio, adorazione dei magi, 1426, tempera e oro su tavola, cm 21×61. Dalla predella del Polittico di Pisa. Berlino, Gemäldegalerie.

che struttura la figura. Il Bambino è nudo e possente, come se fosse un piccolo Ercole antico. Corredato di un’aureola ben scorciata, che si protende verso lo spettatore, Gesù è colto nel gesto naturale e quotidiano di portarsi alla bocca degli acini d’uva (simbolo del sacrificio eucaristico), che la madre tiene nella destra.

Colpisce infine, rispetto anche alla Cappella Brancacci, l’utilizzo di una luce fortissima, cui si deve il netto contrasto tra le parti in ombra e quelle illuminate. Questo contrasto chiaroscurale emerge soprattutto nella consistenza del trono in pietra, dove non c’è più traccia di elementi architettonici gotici, ma compaiono invece evidenti rimandi antiquari , come, per esempio, la base decorata con il motivo strigilato (ovvero a scanalature ondulate), le colonnine corinzie organizzate in due ordini sovrapposti e il regolare cornicione aggettante.

113

La Madonna col Bambino e angeli di Gentile da Fabriano

Nella National Gallery di Londra si conserva, oltre a quella di Masaccio, la Madonna col Bambino e angeli di Gentile da Fabriano 114. Il soggetto dei due dipinti è lo stesso, ma il linguaggio è ben diverso.

confronta

Metti in luce le differenze tra le due opere analizzando:

– l’eleganza delle figure

– la resa dei due troni

– la ricerca della terza dimensione

– l’espressività dei volti.

113 Masaccio, madonna Col bambino e angeli, 1426, tempera e oro su tavola, cm 133,5×73,5. Dal Polittico di Pisa. Londra, National Gallery.
114 Gentile da Fabriano, madonna Col bambino e angeli, 1425, tempera e oro su tavola, cm 139,9×83. Dal Polittico Quaratesi. Londra, National Gallery.

La Crocifissione di Capodimonte • Un’identica luce rischiara la Crocifissione conservata al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli 115, che in origine costituiva il vertice del polittico pisano.

Sul fondo oro si stagliano quattro figure, le cui volumetrie sono ben definite e rese realistiche grazie al chiaroscuro, che simula l’ingresso della luce dalla sinistra della composizione. Tutta la scena è pervasa dal dramma, manifestato dalla postura contratta della Vergine, dallo sgomento del volto di Giovanni e dal tragico gesto a braccia protese di Maria Maddalena, in cui avvertiamo la sofferenza nonostante la postura di spalle.

Proprio la posa della Maddalena, che ricorda quella delle donne piangenti nel Compianto sul Cristo morto di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, contribuisce a rendere la terza dimensione, insieme alla studiata disposizione dei piedi di san Giovanni e alla scelta di raffigurare Cristo quasi senza collo, in un realistico scorcio dal basso verso l’alto della testa ormai senza vita.

115 Masaccio, CroCifissione, 1426, tempera e oro su tavola, cm 83×63.

Dal Polittico di Pisa. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

La Trinità di Santa Maria Novella

Lo studio sulla prospettiva e il recupero dell’Antico raggiungono il loro apice nell’affresco della Trinità 116, realizzato nella chiesa fiorentina di Santa Maria Novella, attorno al 1427, poco prima della morte del pittore.

La composizione • Sulla parete della navata laterale sinistra Masaccio dipinse una prodigiosa architettura illusionistica, che audacemente finge lo spazio di un’intera cappella, tanto che, come scrisse Vasari, «pare che sia bucato quel muro»

Questa sorta di arco trionfale all’antica 117, con le sue paraste corinzie scanalate, le colonne ioniche, la volta cassettonata e l’architrave ornato con un fregio a meandro, pare ricalcato su un’architettura romana ma rimanda anche, esplicitamente, alle scelte compositive di Brunelleschi nello Spedale degli Innocenti. All’interno di questa struttura, Masaccio raffigura le tre Persone della Trinità: un Padre eterno colossale, in piedi su quello che sembra un cornicione, sorregge e ostenta la croce da cui pende il Figlio, mentre la colomba dello Spirito Santo si getta in picchiata verso lo spettatore. Ai piedi della croce, la Vergine e san Giovanni saldano l’immagine della Trinità a quella della Crocifissione.

Sulla soglia di questo spazio – mistico e misurabile insieme – pregano, in adorazione eterna, Berto di Bartolomeo (un architetto che collaborò al cantiere della cupola brunelleschiana) e sua moglie Sandra. Le figure sono rappresentate con grande naturalismo e il gioco cromatico dell’alternanza tra rossi e blu contribuisce a rafforzare l’idea di simmetria. Immediatamente sotto i committenti, doveva trovarsi la mensa (fissa o mobile) di un altare.

Nel registro inferiore, e dunque sotto l’altare, giace uno scheletro, anch’esso inquadrato in un’architettura all’antica tra una coppia di colonnine corinzie binate: alludendo a quello di Adamo (che una tradizione voleva sepolto sotto il Calvario), esso proclama che la passione, la morte e la resurrezione di Cristo hanno sconfitto la morte di ogni uomo. Una morte fisica, che, tuttavia, rimane a dominare, cupamente, l’esperienza quotidiana: tanto che lo scheletro “dice” ai fedeli, attraverso un’iscrizione: «io fu’ già quel che voi siete, e quel ch’i’ son voi ancor sarete».

Prospettiva e simbolismo • Nell’arte medievale era consueto che committenti e devoti fossero raffigurati sottodimensionati rispetto alla divinità e ai santi. Masaccio scardina risolutamente questa tradizione: per lui le ragioni

della realtà contano molto più delle abituali gerarchie, nella consapevolezza che in uno spazio tridimensionale le figure, tanto umane quanto divine, devono rispettare i rapporti proporzionali imposti dalle norme della prospettiva. Per questa ragione, le figure hanno proporzionalmente le stesse dimensioni, ma a cambiare è la loro “distanza” dall’osservatore. Masaccio, infatti, dispone i personaggi non solo ad altezze diverse, ma anche su diversi piani di profondità 118, come aveva fatto Donatello nel Banchetto di Erode [→ p. 51]: prima i committenti, poi la Vergine e san Giovanni, il Crocifisso e, infine, il Padre. Ma non si tratta solo di un freddo artificio prospettico, perché tutto nella Trinità ha anche valore simbolico. La liberazione dalla morte (lo scheletro) si ottiene attraverso la fede (i committenti), il cui contenuto è presentato dalla Vergine con il suo gesto rivolto all’osservatore: è il sacrificio di Cristo che, insieme al Padre e allo Spirito, porta alla vera salvezza.

117 sChema grafiCo degli elementi

arChitettoniCi della trinitÀ

118 sChema grafiCo dei Piani

ProsPettiCi nella trinitÀ

Architrave

Paraste

Colonne

Arco a tutto sesto

Capitelli corinzi

Capitelli ionici

116 Masaccio, trinitÀ, 1427, affresco, cm 667×317. Firenze, Santa Maria Novella.

Artisti della prospettiva 6•

Paolo Uccello: condottieri e battaglie

Nonostante la prematura morte di Masaccio, alcuni maestri toscani erano già rimasti folgorati dalle sue epocali novità. È il caso di un altro protagonista del primo Rinascimento fiorentino in pittura, Paolo Doni (13971475), detto Paolo Uccello per le pitture di animali con cui aveva decorato la propria casa. Dopo un’esperienza nel cantiere ghibertiano della Porta Nord e un soggiorno a Venezia nella seconda metà degli anni Venti, egli si innamorò perdutamente della prospettiva. Racconta Giorgio Vasari che la moglie dell’artista «soleva dire che tutta la notte Paulo stava nello scrittoio per trovar i termini della prospettiva, e che quando ella lo chiamava a dormire, egli le diceva: “Oh che dolce cosa è questa prospettiva!”»

Il Monumento equestre a Giovanni Acuto • Al 1436 risale il suo Monumento equestre a Giovanni Acuto 119, affrescato su una parete del Duomo di Firenze per rendere onore a un condottiero inglese, John Hawkwood, che aveva servito la Repubblica fiorentina nel secolo precedente. Facendo tesoro dell’illusionismo della Trinità masaccesca di Santa Maria Novella, per simulare con il pennello un complesso scultoreo, «tirò Paulo in prospettiva una gran cassa da morti, fingendo che ’l corpo vi fusse dentro; e sopra vi pose l’immagine di lui armato da capitano, a cavallo» (Vasari)

Le due parti della composizione rispondono a un diverso trattamento della prospettiva: il gruppo equestre, infatti, è rappresentato come se lo spettatore si trovasse di fronte, mentre il basamento è visto dal basso verso l’alto 1 2 0 . Il risultato è impressionante, sia nella resa spaziale della cassa, sia nell’accentuato plasticismo del gruppo del cavallo e del condottiero, con il colore verde a evocare quello del bronzo.

Il ciclo della Battaglia di San Romano • Verso il 1438 Paolo Uccello dipinse per il fiorentino Leonardo Bartolini Salimbeni tre grandi tavole che raccontano le principali fasi della battaglia di San Romano, combattuta tra Fiorentini e Senesi nel 1432, durante la cosiddetta Guerra di Lucca, di cui il committente era stato un protagonista. I tre pannelli narrativi, che nel corso del Quattrocento sarebbero passati nelle mani dei Medici, sono oggi divisi tra differenti

musei e raffigurano rispettivamente Niccolò da Tolentino alla testa dei Fiorentini (Londra, National Gallery) 121, il Disarcionamento del condottiero senese Bernardino della Ciarda (Firenze, Gallerie degli Uffizi) 122 e Micheletto Attendolo guida i Fiorentini alla vittoria (Parigi, Louvre) 123

In questi dipinti si nota una vera e propria ossessione per gli scorci difficili e le geometriche volumetrie delle figure e degli ampi copricapo (in speciale modo quelli circolari, detti “mazzocchi”). Osservando la disposizione dei cavalli, dei soldati e delle loro lunghe lance è facile capire quanto Paolo Uccello si sia sforzato di studiare una composizione prospetticamente impeccabile, malgrado

119 Paolo Uccello, monumento equestre a giovanni aCuto, 1436, affresco, cm 820×515. Firenze, Santa Maria del Fiore.

120 sChema ProsPettiCo del monumento equestre a giovanni aCuto

121 Paolo Uccello, battaglia di san romano, episodio con Niccolò da Tolentino alla testa dei Fiorentini, ca. 1438, tecnica mista su tavola, cm 182×320. Londra, National Gallery.

122 Paolo Uccello, battaglia di san romano, episodio con Disarcionamento del condottiero senese Bernardino della Ciarda, ca. 1438, tecnica mista su tavola, cm 182×323. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

123 Paolo Uccello, battaglia di san romano, episodio con Micheletto Attendolo guida i Fiorentini alla vittoria, ca. 1438, tecnica mista su tavola, cm 182×317. Parigi, Musée du Louvre.

124 sChema ProsPettiCo del disarCionamento del Condottiero senese bernardino della

l’enorme difficoltà di calare la gabbia prospettica non su una scenografia di architetture, ma su un’affollatissima composizione di figure in uno spazio naturale.

A questo proposito, mentre le tavole londinese e fiorentina mostrano un solo punto di fuga 124, quella parigina ne suggerisce più di uno. Qui, inoltre, manca lo sfondo paesaggistico e l’attenzione è richiamata dal personaggio centrale. In questo modo si crea così una sorta di “pausa” nella concitazione dello scontro.

Netto è anche il contrasto tra l’impeto della battaglia in primo piano, con i cavalli impennati o riversi a terra e l’intreccio delle lance, e le scenette dei lontani paesaggi (come la battuta di caccia alla lepre nel Disarcionamento) o gli alberi di aranci carichi di frutti e i roseti in fiore che fanno da quinta allo scontro nel primo pannello, tutti elementi con cui il pittore evoca preziosità gotiche. In origine, del resto, l’attuale formato rettangolare delle tavole doveva essere completato da un coronamento e sulle armature dei guerrieri brillavano lamine d’argento oggi perdute o offuscate dal tempo. Retaggi di un mondo gotico duro a morire, con tutta la sua poesia.

Ciarda

Beato Angelico e il rigore del sacro

La lezione masaccesca della Trinità, col suo recupero delle architetture antiche e il rigore razionale della rappresentazione sacra, penetra anche nel Convento domenicano di San Marco a Firenze, la cui ristrutturazione era stata curata da Michelozzo di Bartolomeo [→ p. 46].

Al Convento di San Marco • Il rapporto intimo tra questo convento e il domenicano fra’ Giovanni da Fiesole (Beato Angelico; 1395/1400-1455) è all’origine di uno dei cicli figurativi più singolari della nostra storia dell’arte. Il priore Antonino Pierozzi stabilì, infatti, che Angelico pensasse non solo alle pale d’altare della chiesa, ma che affrescasse anche le pareti del complesso michelozziano, perfino nelle celle conventuali. Beato Angelico, con la sua bottega, realizzò oltre quaranta affreschi: composizioni semplici, con pochi personaggi inquadrati da una chiara prospettiva, e illuminate da una limpida luce spirituale. È il caso del Cristo deriso 125, che racconta l’umiliazione di Cristo evocando i gesti dei carnefici: lo sputo, gli schiaffi, le percosse; o della Trasfigurazione 126, con Cristo che si mostra nella sua gloria agli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni conversando con Mosè e il profeta e Elia. Presenti in entrambe le scene, la Vergine e san Domenico sono, nel primo caso, assorti in una dolente contemplazione, e nel secondo in preghiera.

L’Annunciazione • In cima alla scala che conduce al primo piano e ai corridoi dove si snodano le antiche celle dei frati, appare una serena immagine dell’Annunciazione 127. La

scena sacra si svolge al riparo di un elegante ed essenziale porticato, delimitato da leggere colonne con capitelli corinzi e disegnato secondo le norme prospettiche. Le solide figure dell’angelo e della Vergine sono le uniche protagoniste, e nessuno spazio è concesso a elementi decorativi. Maria siede umilmente su un povero sgabello fratesco; al di fuori dell’edificio si riconosce il prato fiorito di un hortus conclusus, cioè un giardino recintato (simbolo della verginità di Maria), diviso da una palizzata in legno dal bosco retrostante. In un simile dettaglio la pittura del Gotico internazionale avrebbe lasciato campo aperto all’esuberanza della natura, che qui appare invece limitata dal lavoro di uno scrupoloso giardiniere. Del gusto tardogotico rimane forse solo la preziosa resa delle iridescenti ali del messaggero divino. La povertà dei Domenicani, frati mendicanti, si sposava alla perfezione con la sobria essenzialità della nuova pittura scaturita da Masaccio.

Alla Cappella Niccolina • Nel 1445 papa Eugenio IV chiamò a Roma il Beato Angelico, di cui aveva potuto conoscere le qualità a Firenze durante il Concilio che si era tenuto in città. Il pittore domenicano sarebbe rimasto nell’Urbe almeno fino al 1449, con il breve intervallo di un soggiorno a Orvieto nell’estate del 1447, quando ormai era sul soglio pontificio il nuovo papa Niccolò V: l’umanista ligure Tommaso Parentucelli (1397-1455).

Proprio alla committenza di Niccolò V si deve l’unica opera superstite dell’attività dell’Angelico a Roma: le

125 Beato Angelico e collaboratori, Cristo deriso, ca. 1438-1448, affresco, cm 128×104. Firenze, Convento di San Marco, cella n. 7.

126 Beato Angelico e collaboratori, trasfigurazione, 1438-1447 ca, affresco, cm 189×159. Firenze, Convento di San Marco, cella n. 6.

fonti e CritiCa M. Baxandall, L’iconografia dell’Annunciazione

127 Beato Angelico, annunCiazione, ca. 1440, affresco, cm 230×321. Firenze, Convento di San Marco.

128 Beato Angelico, lorenzo è ConsaCrato diaCono da sisto ii, 1447-1448, affresco. Roma, Città del Vaticano, Palazzi Vaticani, Cappella Niccolina.

Storie dei santi Stefano e Lorenzo della Cappella detta per l’appunto Niccolina, nel Palazzo Apostolico (1447-1448), un ciclo compiuto anche grazie all’aiuto dell’allievo Benozzo Gozzoli (1420 - 1497). Nella narrazione delle vicende dei due diaconi e protomartiri (cioè primi martiri), l’Angelico seppe rendere solenne, e quindi degno di una cappella pontificia, lo stile austero che qualche anno prima aveva adottato nella decorazione del Convento di San Marco a Firenze.

Le Storie dei santi Stefano e Lorenzo • La scena in cui Lorenzo è consacrato diacono da Sisto II 128 raffigura un momento della cerimonia liturgica con cui il papa consacra al primo grado dell’Ordine sacro (il diaconato, appunto) il futuro martire. Circondato da sacerdoti, diaconi e chierici addetti alla liturgia, il pontefice sta consegnando a Lorenzo il calice e la patena che serviranno per il rito eucaristico. Il gruppo di figure si trova al centro di una navata, chiusa sul fondo da una nicchia absidata e delimitata da solide colonne, disposte in una rigorosa fuga prospettica a sostenere un possente architrave, secondo la più tipica tipologia delle basiliche paleocristiane. Spiccano, in questo spazio quasi disadorno, le vesti degli officianti, rese con dettagli preziosi e sorprendenti, come per esempio il velo trasparente tenuto sollevato dal sacerdote in piedi dietro il pontefice.

Dopo una breve attività fiorentina, intorno alla metà del secolo, l’Angelico morì a Roma nel 1455 e fu sepolto nella chiesa domenicana di Santa Maria sopra Minerva, dove resta ancora la sua lastra sepolcrale.

Luca della Robbia e la terracotta invetriata

Nella Firenze del primo Rinascimento il colore e la luce riuscirono a giocare un ruolo decisivo nella scultura grazie all’invenzione di una tecnica inedita: la terracotta invetriata [→ Le tecniche, p. 75], il cui merito spetta a Luca della Robbia (Firenze, ca. 1400-1482).

La cantoria per il Duomo • Prima di cimentarsi con la terracotta invetriata, Luca seppe dimostrare di essere un grande scultore anche col marmo, confrontandosi nel corso degli anni Trenta con Donatello nell’esecuzione delle cantorie per il Duomo di Firenze. A fronte della simpaticissima irrequietezza dei putti di Donatello [→ p. 52], il balcone di Luca della Robbia è popolato di fanciulli disciplinati 129 Lo spunto per la rappresentazione è il Salmo 150, che si legge nella doppia iscrizione latina della cornice e invita a lodare Dio al suono della tromba, con arpe e cetre, con tamburi e danze, con liuti e flauti, con cembali sonori e squillanti. Luca mette così a punto una serie di dieci rilievi quadrati, dove gruppi di cantori e danzatori ben in carne sono torniti e levigati nel candido marmo; talvolta le pose sono tratte dall’Antico, certe teste si muovono a cercare virtuosistici scorci dal sotto in su, ma sempre domina un’armoniosa serenità. L’ordine architettonico è rigorosissimo, scandito rispettivamente su due registri dalle mensole del balcone e da coppie di paraste.

La Resurrezione per il Duomo di Firenze • Nel 1442 Luca ebbe l’incarico di eseguire una lunetta con la Resurrezione per la porta della Sagrestia delle Messe, proprio sotto la sua cantoria. Terminata entro il 1444, l’opera fu interamente realizzata con l’“arte nuova” della terracotta invetriata, scegliendo di fare risaltare su un vivo fondo azzurro il bianco latte delle figure 130. Il perno della scena è nella serafica figura del Cristo risorto, adorato da quattro angeli devoti e ossequiosi. Il Signore, in piedi su una piccola nuvola, svetta vittorioso sul sepolcro scoperchiato; attorno a lui cinque soldati dormono un quieto e profondo riposo, due dei quali appoggiati a rigogliosi arbusti di ulivo (forse) e di palma.

La studiata misura della composizione è esaltata dal netto contrasto cromatico tra l’azzurro del fondo piatto e le candide figure ad altorilievo. Un espediente semplice, ma geniale, che nei decenni successivi avrebbe rappre -

sentato il “marchio di fabbrica” delle opere in terracotta invetriata prodotte nell’officina robbiana.

Il Tabernacolo di Sant’Egidio • Tra il 1441 e il 1442 Luca della Robbia aveva collaudato l’uso della terracotta invetriata in un tabernacolo eucaristico per la chiesa fiorentina di Sant’Egidio, che ora si conserva in Santa Maria a Peretola 131

129 Luca della Robbia, Cantoria, 1431-1438, marmo, ca. cm 328×560. Dalla Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

130 Luca della Robbia, resurrezione, 1442-1444, terracotta invetriata, ca. cm 200×260, Firenze, Santa Maria del Fiore.

131 Luca della Robbia, tabernaColo di sant’egidio, 1441-1442, marmo, terracotta invetriata e bronzo, cm 260×122. Firenze, Santa Maria a Peretola.

— La colomba in bronzo è stata attribuita ad Andrea del Verrocchio.

teCniChe La terracotta invetriata

Le edicole per la custodia del Sacramento, data la loro funzione, erano necessariamente diffuse in ogni chiesa e da lungo tempo adottavano formati gotici. In questo manufatto, per la prima volta, Luca proponeva invece una variante architettonica di gusto brunelleschiano e masaccesco, allestendo un tempietto all’antica, inquadrato da lesene corinzie scanalate e coronato da un timpano. È un’opera in cui lo scultore si cimenta con materiali diversi: la struttura è in marmo, così come le principali figure, dal Dio Padre benedicente del timpano al gruppo della Pietà nella lunetta e alla coppia di angeli che presenta il disco metallico della colomba dello Spirito santo. L’invetriatura compare tuttavia a impreziosire il fondo azzurro della lunetta, il motivo decorativo colorato del basamento, i festoni e le teste di cherubini e serafini che ornano l’architrave e gli ornati vegetali dei pennacchi.

Una produzione protoindustriale • Dopo la fase di sperimentazione degli anni Quaranta Luca scelse di dedicarsi esclusivamente alla terracotta invetriata: organizzò una bottega capace di avviare una produzione dal carattere “protoindustriale”, per la capacità di usare gli stampi e soddisfare in tempi rapidi le committenze più diverse e lontane.

Quando Luca morì, la sua bottega familiare continuò ad avere successo grazie al nipote Andrea (Firenze, 14351525) e ad altri eredi, che l’avrebbero tenuta in vita fino alla prima metà del Cinquecento, diffondendo le robbiane non solo in Italia, ma anche oltre i confini della Penisola.

le te C ni C he

La terracotta invetriata

La scultura in terracotta consiste nel plasmare con l’argilla sia rilievi che figure a tutto tondo, poi cotti in forno per renderli solidi. Abbandonata nel Medioevo, la scultura in terracotta fu riscoperta a Firenze, nei primi decenni del Quattrocento, nella cerchia di Brunelleschi, Donatello e Ghiberti.

Luca della Robbia procedette quindi a sperimentare un particolare tipo di terracotta colorata, realizzata attraverso uno speciale smalto superficiale, capace non solo di aumentare la resistenza del materiale (anche alle intemperie), ma anche di conferire una lucentezza vitrea ai rilievi e alle figure. La tecnica dell’invetriatura era già nota anticamente, ma Luca la perfezionò

ideando una miscela (tenuta segreta) a base di piombo, stagno, silice e ossidi coloranti. Nacque così la terracotta invetriata: una tecnica di enorme fortuna e talmente legata al suo inventore, e alla sua famiglia, che ancora oggi il vocabolo “robbiana” è sinonimo di un’opera eseguita in terracotta invetriata. Questo tipo di produzione, inoltre, permetteva non solo di replicare composizioni da una matrice, ma anche di realizzare grandi complessi 132 tramite l’assemblaggio di molteplici pezzi plasmati autonomamente.

132 Luca della Robbia, visitazione, 1445, terracotta invetriata. Pistoia, chiesa di San Giovanni Fuorcivitas.

132

Altre pagine di fine sezione

Città e paesaggio tra Quattrocento e Cinquecento

Panorami ancora visibili • Nel Quattrocento il paesaggio, in Italia, inizia a essere chiaramente apprezzato per i suoi valori estetici. Lo spiega molto bene Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II, quando descrive, nei suoi Commentari, la veduta del monte Amiata che poteva osservare dalla loggia del suo palazzo di Pienza, la nuova città edificata per suo volere intorno al 1460 al posto del suo villaggio natale. Il monte Amiata era molto caro a Pio II per le passeggiate che poteva fare in mezzo alla natura incontaminata. Ancora oggi, del resto, il panorama che si ammira da Pienza 1 [→ p. 104] mantiene i caratteri che lasciavano senza fiato il papa. Paesaggi come questo, praticamente identici a quelli quattrocenteschi, si possono trovare ancora in molte parti d’Italia: ne sono un esempio le colline del Montefeltro, che abbiamo visto dipinte alle spalle dei duchi di Urbino da Piero della Francesca [→ p. 97]. In corrispondenza delle città di dimensioni maggiori, invece, il paesaggio è stato profondamente alterato nei secoli più vicini a noi, soprattutto dall’inarrestabile crescita delle periferie ai danni delle campagne.

Metropoli in mezzo alla campagna • Nel Museo della Certosa di San Martino, a Napoli, si conserva una delle vedute urbane più celebri del Quattrocento, la cosiddetta Tavola Strozzi 2, che raffigura la città partenopea affacciata sul mare. Siamo di fronte a una veduta estremamente accurata e realistica della Napoli del secondo Quattrocento: una fotografia fatta con il pennello di una delle maggiori metropoli europee di allora. È una città chiusa dentro le sue mura e affollata di edifici, tra i quali risaltano soprattutto le chiese con i loro campanili e le fortezze: Castel dell’Ovo all’estrema sinistra, Castel Nuovo al molo e Castel Sant’Elmo in alto. Tra le molte differenze che risaltano tra la Napoli della Tavola Strozzi e quella di oggi 3, ce n’è una che colpisce più di ogni altra: la città non è più racchiusa dalle mura, ma si è espansa a macchia d’olio e senza regole sulle colline, che nel Quattrocento erano ancora verdeggian-

ti. Si tratta di un fenomeno che ha riguardato tutte le principali città d’Italia, a partire dalla fine dell’Ottocento e soprattutto nel secolo scorso. Se le metropoli di oggi tendono a non avere confini, dilatandosi di giorno in giorno sul circostante territorio, quelle di un tempo erano invece circondate dalla campagna subito al di fuori della cerchia delle mura.

Nuove mura e nuove città • Quando nel 1529-1530 Firenze fu assediata dalle truppe imperiali di Carlo V, erano in uso da tempo le armi da fuoco. Le troppo sottili mura medievali, fortificate attraverso il succedersi di torrioni a pianta quadrata, non erano più adatte a sostenere l’attacco dei proiettili delle bombarde. Così, già nella seconda metà del Quattrocento, architetti e ingegneri militari, come Francesco di Giorgio Martini e Giuliano da Sangallo, iniziarono a escogitare nuovi sistemi difensivi, caratterizzati dall’uso di murature molto spesse e da fortificazioni a piante geometriche. Queste ultime erano pensate sia per evitare di offrire ai colpi del nemico il maggiore numero possibile

di superfici piane, sia per difendere la posizione con tiri radenti e incrociati di artiglieria. Alle torri medievali si sostituirono possenti e tozzi bastioni a pianta circolare o poligonale, che divennero l’elemento cardine della nuova architettura militare 4. Proprio durante l’assedio di Firenze, ancora prima dell’arrivo delle truppe imperiali, lo stesso Michelangelo si impegnò nel progettare complessi bastioni a pianta geometrica che avrebbero dovuto migliorare le difese della sua città. Qui vediamo il disegno per un bastione a forma di stella, elaborato per fortificare la zona del Prato di Ognissanti e mai realizzato 5 Questo è un caso fra tanti: le esigenze delle guerre, molto ricorrenti nell’Italia e nell’Europa del Cinquecento, cambiarono infatti l’aspetto non solo delle vecchie fortificazioni, ma anche delle città e del paesaggio, come testimoniano alcuni esempi sopravvissuti fino a oggi.

Caduta la Repubblica, il duca di Firenze Cosimo I si impegnò nel migliorare le difese del proprio Stato e, tra l’altro, nel 1564 fondò al limite dei sui confini, vicino a Castrocaro in Romagna, una nuova città, chiamata Terra del

1 PIENZA (Siena), veduta aerea.

2 Pittore fiorentino, VEDUTA DI NAPOLI (Tavola Strozzi), ante 1487, olio su tavola, cm 82×245. Napoli, Museo Nazionale di San Martino.

3 VEDUTA DI NAPOLI

4 FORTE SPAGNOLO, XVI secolo, veduta aerea. L’Aquila.

5 Michelangelo, PROGETTO PER LA FORTIFICAZIONE DEL PRATO DI OGNISSANTI A FIRENZE, 1527, matita rossa, penna e inchiostro, inchiostro diluito steso a pennello, mm 410×568. Firenze, Casa Buonarroti.

pittura

La diffusione del Rinascimento in Italia

Andrea Mantegna → cultura antiquaria, monumentali architetture classiche, precisione prospettica con effetti illusionistici, minuziose vedute di paesaggi rocciosi o di scenari urbani

Antonello da Messina → connubio tra caratteri rinascimentali e pittura fiamminga a olio, specialista del ritratto, caratterizzato da fondo scuro, gioco chiaroscurale, espressività dei volti

Giovanni Bellini → naturalismo, uso del colore per definire volumi e spazio, impiego della pittura a olio pittura ferrarese → Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti

Vincenzo Foppa → novità rinascimentali e realismo fiammingo

opere simbolo

• Andrea Mantegna, Camera degli Sposi; Pala di San Zeno

• Antonello da Messina, Vergine Annunciata; San Girolamo nello studio

• Giovanni Bellini, Pala Pesaro; Pala dei Frari

• Salone dei Mesi a Ferrara

• Vincenzo Foppa, Cappella Portinari

Il pieno Rinascimento

architettura

a Venezia → modelli albertiani (Mauro Codussi e Pietro Lombardo) a Ferrara → razionale organizzazione degli spazi urbani (“addizione erculea”) a Milano → persistenza del gusto gotico amalgamato alla penetrazione delle forme rinascimentali

pittura

Benozzo Gozzoli → celebrazione dei Medici in stile cortese fratelli del Pollaiolo → approfondito studio anatomico, paesaggi alla fiamminga

Sandro Botticelli → predilezione per bidimensionalità e linearismo, opere “pagane” ispirate al Neoplatonismo, cariche di misticismo

Pietro Perugino → regista della decorazione della Cappella Sistina, luce nitida e colori chiari, figure solenni e aggraziate, paesaggio dolce e velato da toni azzurri

Leonardo da Vinci → centralità del disegno, indagine scientifica della realtà, uso di sfumato e prospettiva aerea, espressione dei “moti dell’animo”

• Donatello, Gattamelata; Altare del Santo

• Biagio Rossetti, Palazzo dei Diamanti

• Filarete, Ospedale Maggiore

opere simbolo

• Benozzo Gozzoli, Viaggio dei Magi

• Sandro Botticelli, Primavera; Nascita di Venere

• Pietro Perugino, Consegna delle chiavi

• Affreschi della Cappella Sistina

• Leonardo da Vinci, Annunciazione; Cenacolo ; Vergine delle rocce

scultura

Antonio del Pollaiolo → studio del nudo

Andrea del Verrocchio → vigoroso plasticismo e accentuato senso del movimento

Michelangelo Buonarroti → classicismo delle forme e ricerca di naturalismo, perfezione nella resa anatomica, accuratezza del modellato, culto per la bellezza ideale

• Antonio del Pollaiolo, Ercole e Anteo

• Andrea del Verrocchio, Bartolomeo Colleoni

• Michelangelo Buonarroti, Madonna della scala; Bacco; Pietà vaticana

glossario

Spiega il significato dei seguenti termini. Aggiungili poi al documento già preparato per il precedente laboratorio.

• Ancona

• Clipeo ....................................................................

• Allegoria .................................................................................

• Immacolata Concezione

• Bulino ....................................................................

• Prospettiva aerea

dizionario iconografico

Cerca in rete il significato dei temi iconografici proposti (ricordati di indicare le fonti utilizzate). Aggiungili poi al documento già preparato per il precedente laboratorio.

• Accidia • Vesperbild • Aquila • Flora

• Cigno • Edera

analisi di un tema

La classe si divide in tre gruppi, ciascuno dei quali analizza uno dei seguenti temi iconografici ricorrenti durante il Rinascimento:

• Sacra conversazione;

• Pietà o Compianto sul Cristo morto;

• Crocifissione.

Ciascun gruppo si occupa di creare una rassegna di immagini riguardanti il tema scelto e di descrivere le opere selezionate: indicate le caratteristiche distintive di ciascuna e come gli artisti abbiano variato il modo di rappresentare la scena, istituendo confronti tematici e stilistici. Ogni immagine deve essere corredata da una breve didascalia che riporti le seguenti informazioni:

• dimensioni

• materiali

• luogo di produzione e anno

• luogo di conservazione

per l’orientamento

Come abbiamo visto, alcuni signori rinascimentali allestirono nelle loro residenze degli spazi privati chiamati “studioli”, luoghi deputati a esprimere la loro passione per le arti. Prova a immaginare come potrebbe essere il tuo Studiolo e crea una presentazione multimediale che raccolga le opere di cui vorresti circondarti. Potresti per esempio voler raccogliere una galleria di uomini illustri (come filosofi, pittori, letterati, architetti, condottieri ecc.) oppure di soggetti allegorici (come raffigurazioni di Virtù e Vizi ecc.).

Leggi il seguente testo, che costituisce l’inizio della lettera di presentazione di Leonardo da Vinci a Ludovico il Moro: «Avendo, Signor mio Illustrissimo, visto e considerato oramai a sufficienzia le prove di tutti quelli che si reputano maestri e compositori de instrumenti bellici, e che le invenzione e operazione di dicti instrumenti non sono niente aliene dal comune uso, mi esforzerò, non derogando a nessuno altro, farmi intender da V. Eccellenzia, aprendo a quella li secreti mei, e appresso offerendoli ad ogni suo piacimento in tempi opportuni, operare con effecto circa tutte quelle cose che sub brevità in parte saranno disotto notate». Segue poi l’elenco degli ambiti in cui Leonardo può offrire i suoi servigi al signore di Milano: Leonardo, in realtà, si propone più come ingegnere che come artista, facendo emergere anche il suo interesse verso l’urbanistica, l’ingegneria militare e persino quella idraulica. Cerca in Rete il testo integrale della lettera e leggilo, poi scrivi un breve testo in cui provi a spiegare i motivi di tutti questi interessi da parte di Leonardo. Evidenzia i punti più importanti della lettera, e descrivi i vantaggi che una simile personalità potrebbe portare al signore di Milano e alla sua corte.

conoscere e riconoscere

Partendo da questi dettagli, riconosci l’opera a cui appartengono.

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