Capitolo campione 25 - Arte. Una storia naturale e civile (Umanistica SS2)

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Salvatore Settis Tomaso Montanari

ARTE. UNA STORIA NATURALE

E CIVILE

3. Dal Neoclassicismo al Contemporaneo

EDIZIONE COMPATTA

Postimpressionismo, Simbolismo e Art Nouveau

1 A partire dall’ultima mostra impressionista, nel 1886, alcuni artisti – in particolare Seurat, Cézanne, Gauguin e van Gogh – superano lo sguardo oggettivo sulla natura per esprimere la propria visione. Le loro ricerche sarebbero state riunite nel Postimpressionismo. Parigi è anche il centro del Simbolismo.

Oceano Atlantico

5 Fra i due secoli si afferma l’Art Nouveau, un nuovo stile decorativo e architettonico che unisce forme vitali all’uso di materiali innovativi come ferro e vetro. Dalle prime prove a Bruxelles lo stile si diffonde in Francia e quindi in tutta Europa, sebbene con nomi diversi.

Mare del Nord

6 A Barcellona il protagonista dell’Art Nouveau è l’architetto Antoni Gaudí, maggiore esponente del Modernismo catalano.

Guerra francoprussiana

1870-1871

Triplice alleanza

Nietzsche, Così parlò Zarathustra

Modernismo catalano

Parigi

Art Nouveau

Bruxelles Oslo Vienna Barcellona Art Nouveau

Milano

Liberty

Secessione viennese

4 In Italia il Divisionismo riprende gli studi postimpressionisti sulla luce per opere dai significati simbolici e sociali.

2 In Europa del Nord, Munch ed Ensor interpretano il Simbolismo con una pittura espressiva destinata a influenzare le successive generazioni.

Huysmans, Controcorrente

Van Gogh, I mangiatori di patate

Primo veicolo con motore a scoppio

• Seurat, Una domenica alla Grande Jatte

• Manifesto del Simbolismo

Mar Mediterraneo

Gauguin, Visione dopo il sermone

3 La Secessione viennese interpreta l’Art Nouveau semplificando lo stile attraverso linee geometriche e una decorazione ridotta.

Nasce la Seconda Internazionale a Parigi

Wilde, Il ritratto di Dorian Gray

Secessione di Monaco

Munch, L’urlo

I due volti della Belle époque • Ascesa della borghesia, fiducia positivista nella scienza e benessere economico dominarono la cosidetta Belle époque, segnata però, al contempo, da una situazione politica che finì per sfociare nella Grande guerra.

Modernità e progresso • L’ultimo scorcio del XIX secolo in Europa è conosciuto con il nome di Belle époque. E davvero si trattò di una stagione felice, anzi euforica, segnata da una ancora sconosciuta stabilità politica (l’ultimo conflitto era stato quello franco-prussiano del 1870) e da un progresso scientifico-tecnologico che, di fatto, aveva generato una seconda Rivoluzione industriale. Nei decenni compresi tra il 1880 e lo scoppio della Grande Guerra (1914) la società europea, o almeno il suo ceto borghese, visse nel benessere, guidata da una fiducia apparentemente incrollabile nel pensiero positivista.

A quali incredibili esiti fossero giunte le conquiste umane divenne chiaro a chiunque nell’anno fatale 1900. L’occasione venne offerta dalla grande Esposizione Universale di Parigi. Nuovi monumenti, ponti, architetture, stazioni ferroviarie, la metropolitana e molto altro ancora: milioni di visitatori provenienti da ogni parte del globo poterono incontrare il volto di una capitale moderna, che grazie a quell’evento ratificava una volta di più il suo indiscusso ruolo nel mondo.

Solo in apparenza, però, la Belle époque fu una stagione di pace: sotto, in realtà, covavano tensioni e risentimenti destinati a esplodere con la guerra di inizio secolo. I rapporti tra le nazioni erano quanto mai instabili. Tendenze aggressive, spinte nazionalistiche, corsa al riarmo: ecco l’altra faccia, quella meno brillante ma più veritiera, del periodo. In politica avanzavano governi autoritari, specie in Germania,

dove il cancelliere del Secondo Reich, Otto von Bismarck, aveva trasformato lo Stato in un’eccellenza burocratica al prezzo di un rigido controllo sociale.

L’estetismo e il suo profeta: il dandy • È in risposta a questo stato di cose, e prima ancora in opposizione all’eccesso di fede nel Positivismo e nella scienza diffusosi nella seconda metà dell’Ottocento, che nel mondo della cultura cominciarono a palesarsi sensibilità sempre più attratte dalla dimensione irrazionale. Si insinuò infatti il desiderio di conoscere il mondo attraverso una via alternativa a quella eccessivamente ottimista della scienza. Furono il misterioso, il non espresso, l’intuibile a esercitare fascino e attrazione più di ciò che si presentava concretamente agli occhi. Tale temperie trovò la sua espressione nel Simbolismo, corrente artistica e letteraria il cui atto di battesimo ufficiale fu il manifesto pubblicato da Jean Moréas su «Le Figaro» (1886). Nei più aggiornati ambienti culturali si diffuse un clima nuovo, raro e iper-raffinato: l’estetismo, un vero culto per la bellezza, un’arte per l’arte lontana da quei fini morali esaltati dal Realismo. L’esteta della fine del XIX secolo si proponeva di raggiungere un tutt’uno tra lavoro ed esistenza. Arte e vita, dunque: l’una sfuma nell’altra, e divengono così un’unica cosa.

Il comportamento che ne derivava si riassumeva nella figura del dandy: un esteta, abbigliato secondo i dettami dell’eleganza più mondana, attorniato da oggetti rari e preziosi, come gli scrittori Joris-Karl Huysmans, Oscar Wilde, Gabriele d’Annunzio, Charles Baudelaire.

In architettura, questo gusto raffinato ebbe la sua migliore espressione nell’Art Nouveau, stile che si diffuse in tutto il continente con caratteristiche diverse.

D’Annunzio, Laudi

Secessione viennese

Secessione di Berlino

da Volpedo, Il Quarto Stato

appartamenti in rue Franklin

il contesto

Video d’autore

T. Montanari, Un’arte moderna

Presentazioni

• Il Postimpressionismo

• L’Art Nouveau

Itinerari Google EarthTM

• I viaggi di Gauguin, Cézanne e van Gogh

• I Simbolismi in Europa

• L’Art Nouveau in Europa

gli artisti

Presentazioni

• V. van Gogh

• E. Munch

• G. Klimt

le opere

HUB Art

Tutte le opere da scoprire, ingrandire, geolocalizzare, e molto altro

Video “Da vicino”

V. van Gogh, La notte stellata

Letture guidate

• P. Cézanne, La Montagna

Sainte-Victoire

• P. Gauguin, Visione dopo il sermone

• V. van Gogh, La camera da letto

• E. Munch, L’urlo

• G. Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato

• A. Rodin, Porta dell’Inferno

fonti e critica

• M. Merleau-Ponty, Paul Cézanne

C. L. Ragghianti, Cézanne e l’opera d’arte come «totalità organica»

• V. van Gogh, «Nel mio lavoro ci rischio la vita»

• G. Segantini, «Per la purezza viva e ardente della forma»

percorso

interdisciplinare

T. Montanari, La pelle nera

studio e ripasso

HUB Test

Glossario

Linea del tempo

Video Tecniche

La litografia

Assassinio del re d’Italia Umberto I
Scoppio della Grande Guerra
Prima proiezione cinematografica a opera dei fratelli Lumière

Il Postimpressionismo 1•

L’autonomia della pittura dalla mimesi • L’ottava e ultima mostra impressionista sancì la fine di un’esperienza comune. I percorsi, da allora, diventarono autonomi, in alcuni casi ispirati a principi sensibilmente diversi dal passato recente: Monet, per esempio, si rivolse alla pittura seriale mentre Renoir virò verso uno stile classico. Ma fu soprattutto una nuova generazione – della quale faceva parte anche Paul Cézanne, sebbene fosse nato nel 1839 e fosse presente da tempo sulla scena – che negli anni Ottanta si impegnò a superare i principi di un’arte fondata sullo sguardo oggettivamente fedele alla natura. Erano gli artisti che oltre venti anni dopo, in occasione di una mostra londinese nel 1910, il critico Roger Fry avrebbe battezzato “postimpressionisti”. Oggi come allora la definizione suona generica, e d’altra parte le strade battute dai nuovi protagonisti seguivano direzioni diverse: il colore prismatico e la forma geometrica (Seurat) 1; il consolidamento dell’immagine e la messa in crisi delle consuete forme rappresentative dello spazio (Cézanne) 2; la resa sintetica dell’immagine e le sue implicazioni

simboliche (Gauguin) 3; l’uso della pennellata in termini espressivi ed emotivi (van Gogh) 4

Per ciascuno, comunque, si trattava di sviluppare l’eredità impressionista portando l’attenzione sui valori della pittura in sé. Dipingere en plein air, ritrarre fedelmente quanto si squadernava davanti agli occhi non costituiva più un requisito. L’attenzione cadeva soprattutto sui valori della forma, sullo specifico linguaggio della pittura: la linea, il colore, la pennellata, il volume erano i problemi che adesso venivano avvertiti in termini nuovi. Nel 1890 un giovane artista dalla vocazione anche teorica, l’appena ventenne Maurice Denis, pubblicò sulla rivista «Art et Critique» un testo destinato a illuminare molti contemporanei. Eccone il passaggio più ammirato: «Si ricordi che un quadro – prima di essere un cavallo da battaglia, una donna nuda, o qualsiasi aneddoto – è essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori disposti in un certo ordine». Denis invitava i colleghi a pensare alla pittura in termini di autonomia, senza il pressante obbligo di riprodurre mimeticamente la realtà.

1 Georges Seurat, La parata deL circo, 1887-1888, olio su tela, cm 99,7×149,9. New York, Metropolitan Museum of Art.

2 Paul Cézanne, La montagna Sainte-Victoire, 1902-1904, olio su tela, cm 72×91,9. Philadelphia (Pennsylvania), Museum of Art.

3 Paul Gauguin, arLéSienneS (donne di arLeS), 1888, olio su yuta, cm 73×92. Chicago (Illinois), Art Institute.

4 Vincent van Gogh, Le piante di iriS, 1889, olio su tela, cm 74,3×94,3. Los Angeles (California), J. Paul Getty Museum.

Georges Seurat e il Pointillisme

Un nuovo modo di osservare la realtà • Quando Georges Seurat (1859-1891) debuttò sulla scena artistica parigina aveva appena ventiquattro anni e una robusta formazione alle spalle presso l’École des Beaux-Arts. Amava i pittori del proprio tempo – specie gli impressionisti e il simbolista Pierre Puvis de Chavannes [→ p. 139] – ma nel contempo era attratto dalla grande tradizione rinascimentale italiana. Tanti riferimenti sono ancora oggi intuibili in Bagno ad Asnières 5, la grande tela presentata nel maggio 1884 al Salon des Indépendants dopo che il Salon ufficiale si era rifiutato di esporla. Di impressionista, in prima istanza, c’è il soggetto: una rilassata scena estiva sulle rive della Senna, in un paesaggio dominato in lontananza dal ponte e dalle officine del quartiere di Clichy. Ma i debiti con Monet e Renoir si scorgono anche nella luce tersa e nelle scelte cromatiche. Di Puvis de Chavannes riconosciamo la resa sintetica di figure sigillate entro un profilo che le sbalza con forza sullo sfondo. Di Masaccio e Piero della Francesca troviamo invece la compostezza di un insieme che osserva una limpida costruzione geometrica, ritmicamente animata da verticali, diagonali e orizzontali. Come in una tavola

quattrocentesca, i volumi non si sfaldano nella luce, ma rimangono compatti ostentando un’evidenza scultorea. Emerge una novità: la pennellata sottilissima, precisa, quasi ossessiva, che ha abbandonato ogni svirgolatura impressionista per concentrarsi su una resa attenta del colore locale [→ Tecniche, p. 95], reso più luminoso dall’accostamento sistematico ai suoi complementari. Così, il manto aranciato del cagnolino ha delle piccole pennellate blu e nel verde dell’erba si scorgono, quasi impercettibili, dei tratti rossi. È un approccio scientifico al colore che rivela una pittura meditata e riflessiva.

Bagno ad Asnières è la prova di un artista alla ricerca di una via alternativa e originale rispetto a quella ormai molto sperimentata dell’Impressionismo. Già le sue imponenti dimensioni, d’altra parte, bastavano per distinguerla: impossibile dipingere en plein air una superficie di ben sei metri quadri. Una simile tela poteva invece essere affrontata nel chiuso dello studio dopo un congruo numero di disegni preparatori. Per Seurat, infatti, il lavoro artistico doveva tendere alla razionalità e al rigore; se la vita moderna rimaneva al centro degli interessi, ora cambiava il modo di osservarla.

5 Georges Seurat,
Bagno ad aSnièreS, 1884, olio su tela, cm 201×300. Londra, National Gallery.

Una domenica pomeriggio alla Grande Jatte

Un complesso capolavoro • Solo un paio di anni dopo, Seurat espose l’esito definitivo della propria ricerca. L’occasione venne offerta dall’ottava e ultima mostra degli impressionisti nel maggio 1886. Una domenica pomeriggio alla Grande Jatte 6 fu il suo capolavoro. Ancora una volta assistiamo a una scena tratta dalla vita quotidiana: quella dei parigini sulle rive della Senna, stavolta in un pomeriggio festivo sull’isola della Grande Jatte. Le dimensioni rimangono notevoli (ben due metri di altezza per tre di larghezza); la tela è stata preceduta da una fitta serie di studi e bozzetti 7. I personaggi – la cui estrazione borghese è riconoscibile dagli abiti alla moda – qui risultano isolati e bloccati in modo innaturale. Li vediamo di profilo, frontali oppure da dietro. È un’umanità stranamente ghiacciata nei gesti, e proprio questo non mancò di colpire i primi interpreti: alcuni vi avvertirono l’influenza degli arcaismi egizi; altri, delle stilizzazioni gotiche. A dispetto di tanta rigidità, la profondità del paesaggio è assicurata dalla disposizione a scalare delle figure, così come dall’ampia ombra sul primo piano opposta alla luminosità dell’orizzonte. Tutto ci parla di una composizione calibratissima, esatta come

un teorema . La tela appare divisa al centro dalla figura con l’ombrellino, a sua volta perfettamente simmetrica. L’insieme, inoltre, è regolato da precisi rapporti aurei, che scandiscono le posizioni delle figure, in primis quella della coppia sulla destra con una scimmietta al guinzaglio 8

Una nuova tecnica • Più ancora della composizione austera e monumentale, fu però la stesura pittorica a stupire i contemporanei. Le pennellate si erano trasformate in puntini regolarmente distribuiti sulla superficie, così da suggerire l’effetto di una luminosità pulsante. La tavolozza privilegiava colori primari e secondari, impiegati puri, non mescolati, ma accostati tra loro in modo tale che la fusione

6 Georges Seurat, Una domenica pomeriggio

aLLa grande Jatte, 1883-1886, olio su tela, cm 207,5×308,1. Chicago (Illinois), Art Institute.

7 Georges Seurat, paeSaggio con cane, studio per la Grande Jatte, 1884, matita su carta, cm 42,5×62,8. Londra, British Museum.

8 Schema compositivo di Una domenica pomeriggio

aLLa grande Jatte

avvenisse a livello percettivo nell’occhio dell’osservatore. Sviluppando le ricerche impressioniste e quelle già avviate in Bagno ad Asnières, all’interno di ogni colore locale – persino nella cornice – erano presenti tracce del complementare, ma anche del riflesso delle tinte circostanti. Ecco come si espresse il giovane critico Félix Fénéon ammirando la Grand Jatte: «Se si considera, per esempio, un decimetro di quadrato coperto di una certa tonalità uniforme, si troveranno su ogni centimetro di questa superficie, in una turbinante ressa di minute macule, tutti gli elementi costitutivi di quella tonalità. Quest’erba in ombra: dei tocchi, la maggioranza, rendono il valore cromatico, locale dell’erba; altri, aranciati, esprimono diradandosi la scarsa influenza del sole; altri di porpora, fanno intervenire il complementare del verde». In un articolo sulla rivista «L’Art Moderne » del settembre 1886 lo stesso Fénéon battezzò con il nome di Neoimpressionismo la tecnica di Seurat, altrimenti più nota ancora come Pointillisme (“Puntinismo”), per via delle pennellate. Il nuovo modo di dipingere imponeva metodo, lentezza, continuo calcolo. Ma soprattutto implicava la conoscenza delle teorie scientifiche maturate nel corso delle ultime decadi. Già nel 1839, con il libro La loi du contraste simultané des couleurs (“La legge del contrasto simultaneo dei colori”), il chimico Michel Eugène Chevreul [→ Tecniche, p. 95] aveva dimostrato che i valori cromatici non sono assoluti, ma dipendono dalla loro reciproca vicinanza. Chevreul non aveva solo affermato l’importanza dei complementari, ma la regola della simultaneità, per la quale ogni colore riflette su quello vicino il proprio complementare: il blu applicato sul bianco, per esempio, genera riflessi arancioni. A fine anni Sessanta, le convinzioni di Chevreul vennero rilanciate dallo storico e critico Charles Blanc. Per rispettare quelle norme, Seurat si era costruito un cerchio con tutti i colori, disposti in modo tale da poter individuare di volta in volta i complementari.

9 Paul Signac, La coLazione, 1886-1887, olio su tela, cm 89,5×116,5. Otterlo (Paesi Bassi), Kröller-Müller Museum.

10 Paul Signac, ritratto di FéLix Fénéon, 1890, olio su tela, cm 73,5×92,5. New York, Museum of Modern Art.

L’eredità di Seurat: Signac • Ammalatosi improvvisamente, Seurat morì ad appena trentadue anni nel marzo 1891. Spettò all’amico Paul Signac (1863-1935) raccoglierne e svilupparne l’eredità 9. Le sue opere rispettavano i procedimenti del collega, ma con gli anni la sua tecnica assunse varianti sensibili: le pennellate acquistarono l’aspetto di piccole tacche, piuttosto che di punti, e inoltre i colori introdussero tinte decisamente vivide. Anche i temi assunsero una dimensione allegorica e decorativa, come documenta bene il Ritratto di Félix Fénéon del 1890 10. Oltre ad avere ampliato la gamma espressiva di Seurat, il merito di Signac va riconosciuto soprattutto nell’avere fatto da tramite con le ricerche di inizio secolo: specialmente quelle di Matisse e dei Fauves [→ p. 189].

Paul Cézanne

Paul Cézanne (1839-1906) ha esposto in diverse occasioni con gli impressionisti. Era loro coetaneo, e ha vissuto e lavorato a Parigi condividendone le mostre. Eppure, egli ha sempre rivendicato la propria alterità, e non solo a causa di un’indole ostile alle logiche di gruppo. Comprendeva l’importanza di Monet e colleghi, ma al contempo ne rifiutava gli assunti. Aborriva l’idea di una pittura limitata alla registrazione dei fenomeni fugaci (luce e atmosfera), né era attratto dalla rappresentazione della vita moderna. La sua concezione era fondata sull’idea che l’arte, anche dinanzi al più spettacolare brano di natura, dovesse sempre fare i conti con i puri valori della forma, da elaborare razionalmente, sovvertendo le consolidate norme della visione prospettica.

Cézanne non puntava alla resa immediata; il quadro doveva nascere da un processo meditato.

“Il padre della modernità”: se ci si riferisce a lui con questo epiteto è perché veramente il suo lavoro lascia intravedere problemi, domande, questioni destinate a ricorrere nelle ricerche artistiche che seguiranno.

Tra Aix e Parigi: gli esordi • Nato nel 1839 ad Aix-enProvence, nel Sud della Francia, Cézanne fu avviato dal padre agli studi giuridici. A ventidue anni raggiunse a Parigi l’amico scrittore Émile Zola, che lo incoraggiò a seguire la via dell’arte e a iscriversi all’Académie Suisse, dove conobbe Camille Pissarro. Fu proprio grazie alla sua mediazione che, nella primavera del 1874, partecipò alla prima mostra degli impressionisti con tre dipinti, tra i quali figurava La casa dell’impiccato a Auvers-sur-Oise 11 L’opera era stata terminata l’anno prima, in corrispondenza del trasferimento con la famiglia a Auvers-sur-Oise, un piccolo centro nei pressi di Parigi, dove Cézanne poteva contare sull’appoggio di un giovane medico appassionato d’arte che incontreremo di nuovo parlando di van Gogh, Paul Gachet.

La casa dell’impiccato segna una svolta nella ricerca dell’artista e rivela la vicinanza con le scoperte impressioniste per il soggetto en plein air. La sintonia, a ben vedere, è solo apparente. Per quanto assolato, questo paesaggio privo di abitanti manca di ogni leggerezza. La tavolozza è arsa, incentrata su toni ocra e sabbiosi. Il pigmento risulta stratificato, pennellata dopo pennellata, tanto che l’intera superficie ha acquistato un’evidenza grumosa. L’impianto è fortemente geometrico: triangoli e trapezi – dati dai tetti spioventi – come incuneati uno nell’altro. La luce non dissolve le forme, ma le scolpisce. E poi manca ogni forma di piacevolezza: in più parti notiamo le distorsioni prospettiche destinate a diventare la cifra distintiva di molte tele cézanniane.

La prima maturità e l’isolamento • Sentendosi sempre più incompreso, Cézanne scelse di tornare nei luoghi nativi. Nel 1878 abbandonò definitivamente Parigi per Aix, lavorando anche a Marsiglia e nel vicino villaggio dell’Estaque. I contatti con i colleghi non cessarono del tutto, specie con Pissarro e Renoir; da allora, tuttavia, egli preferì non partecipare più alle mostre impressioniste. Proprio in quell’anno troncò i rapporti con Zola, che aveva scritto un libro (L’oeuvre, “L’opera”) incentrato su un pittore fallito perché incompreso da pubblico e amici: si trattava, in buona sostanza, di un ritratto neanche troppo trasfigurato dello stesso Cézanne.

11 Paul Cézanne, La caSa deLL’impiccato a aUVerS-SUr-oiSe, 1873, olio su tela, cm 55,5×66,3. Parigi, Musée d’Orsay.

12 Paul Cézanne, La montagna SainteVictoire, 1892-1895, olio su tela, cm 73×92. Philadelphia (Pennsylvania), Barnes Foundation.

13 Paul Cézanne, giocatori di carte, 1890-1895, olio su tela, cm 47×56,5. Parigi, Musée d’Orsay.

P.

Sainte-Victoire

Fonti e critica

• M. Merleau-Ponty, Paul Cézanne

• C. L. Ragghianti, Cézanne e l’opera d’arte come «totalità organica»

Nel Mezzogiorno francese l’artista accentuò il carattere geometrico della composizione così da raggiungere un’immagine che, sebbene ispirata dalla natura, superasse ogni evidenza fenomenica. Per il Cézanne della maturità la pittura doveva concentrarsi sul suo stesso linguaggio, vale a dire sul sistema di rapporti, equilibri tra parti e colori, volume e disegno. Lo si osserva nella serie di vedute della montagna Sainte-Victoire 12, iniziate proprio negli anni Ottanta, e in cui alberi, cielo, case e terreno diventano tutti parte di una medesima meditata costruzione, in cui la pennellata si fa ampia e solida.

I giocatori di carte • Nei primi anni Novanta la situazione economica di Cézanne diventò finalmente più confortante. La morte del padre gli garantì una cospicua eredità e dal 1894 poté contare sull’appoggio dell’abile gallerista Ambroise Vollard. Fu allora che l’artista iniziò la serie dei giocatori di carte. L’iconografia non era certamente ori-

ginale, specie per un pittore francese che conosceva alla perfezione le prove di scuola caravaggesca. Cézanne tuttavia affrontava il tema in chiave nuova. L’opera esposta al Musée d’Orsay 13 è un capolavoro di essenzialità: due uomini baffuti ritratti di profilo con lo sguardo abbassato sulle carte. Sono silenziosamente concentrati, tra loro manca ogni forma di comunicazione: non parole, tanto meno gesti. La tavolozza è autunnale, limitata ai toni degli ocra, dei gialli, dei rossi. Nessun brusco passaggio, solo qualche tocco di bianco. A colpire maggiormente è però la composizione simmetrica, organizzata in due metà quasi speculari. Gli avambracci sul tavolo e le teste reclinate degli anonimi personaggi cadono sulle diagonali della tela; le loro mani sul centro; la bottiglia esattamente sulla verticale. Se poi, nonostante una costruzione tanto studiata, l’effetto finale non appare innaturalmente rigido, ciò si deve alla genialità di Cézanne che ha impresso alla scena evidenti sbilanciamenti e distorsioni prospettiche.

LettUra gUidata
Cézanne, La Montagna

Le nature morte della maturità • Ma è soprattutto nelle nature morte che si comprende quanto rivoluzionaria sia stata la pittura di Cézanne. Dagli anni Novanta l’artista riprese con sempre più costanza quel genere frequentato agli esordi, accentuandone la ricchezza della composizione e l’intensità delle cromie. Frutti dalle tonalità calde, caraffe decorate con motivi floreali, piatti di ceramica, panneggi bianchi e broccati: composizioni sontuose, la cui ricchezza le fa apparire legittime discendenti delle nature morte seicentesche. Eppure, le tele cézanniane non possiedono nulla di tradizionale, al contrario.

In Natura morta con tenda e brocca a fiori (che risale al 1895 circa) 14 il nucleo principale è decentrato sulla destra, ma controbilanciato nella parte opposta dal massiccio panneggio. Il piano del tavolo inclina, anzi precipita vistosamente verso sinistra, mentre i piatti colmi di frutta sembrano scivolare, trattenuti all’ultimo dai canovacci inamidati. In un secondo momento, per bilanciare la composizione, Cézanne ha aggiunto sulla destra un panneggio: solo che ne ha intenzionalmente lasciato incompleta l’esecuzione, cosicché lo spigolo del tavolo affiora in trasparenza.

In Mele e arance (1899) 15 tornano gli stessi frutti e oggetti con l’aggiunta di un’alzata. L’effetto è parimenti disorientante: il tavolo ha la prospettiva invertita, ci viene incontro scivolando, l’alzata risulta decisamente

asimmetrica. Ancora una volta, è come se l’artista avesse cambiato il punto di vista in corso d’opera sovvertendo di conseguenza i più elementari principi usati nella rappresentazione dal Rinascimento in avanti. Lontani dall’essere semplici copie dal vero, quadri del genere ambiscono a indagare il sistema della pittura: dunque i suoi rapporti, armonie e regole interne.

14 Paul Cézanne, natUra morta con tenda e Brocca a Fiori, 1895, olio su tela, cm 54,7×74. San Pietroburgo (Russia), Museo dell’Ermitage.

15 Paul Cézanne, meLe e arance, ca. 1899, olio su tela, cm 74×93. Parigi, Musée d’Orsay.

16 Paul Cézanne, Le grandi Bagnanti, 1900-1906, olio su tela, cm 210,5×250,8. Philadelphia (Pennsylvania), Museum of Art.

Le grandi bagnanti

Tra le prove più clamorose della tarda maturità cézanniana spicca Le grandi bagnanti 16. Rimasta sul cavalletto sino alla scomparsa dell’artista nel 1906, questa grande tela sconcerta per la capacità di sovvertire i termini di un genere iconografico accademico assai diffuso nella Parigi di fine Ottocento. Un folto gruppo di donne è radunato nei pressi di uno specchio d’acqua sovrastato da alberi imponenti. Non è però il senso di svago o di abbandono quanto qui ci si propone di affrontare; per Cézanne il problema diventa eminentemente plastico e pittorico: le sue donne rappresentano pura forma, solidi che abitano uno spazio. Mai nessuno ancora aveva osato introdurre aberrazioni tanto evidenti nel tema del nudo femminile. Le nuche sono rimpicciolite, i bacini allargati a dismisura, torso e cosce vertiginosamente allungati. Inoltre, tutte le fisionomie mancano di caratterizzazione: l’una vale l’altra.

Una composizione studiata e una sperimentazione formale • L’insieme appare studiatissimo: gli alti tronchi flettono verso l’interno creando una grande cuspide vegetale, che in proporzioni ridotte si riflette speculare nei gesti delle bagnanti in primo piano. Ciononostante l’intera superficie è disseminata di porzioni non toccate dal pennello, e dunque bianca specialmente sulla destra, dove volti, braccia e natiche appaiono poco più che abbozzati. Lontani dall’esprimere richiami sensuali, questi corpi petrosi e per nulla aggraziati – anzi decisamente goffi – non avrebbero tardato a fare scuola.

Approfondita la lezione di Cézanne grazie alla retrospettiva allestita presso il Salon d’Automne (1906), già l’anno successivo Pablo Picasso avrebbe dipinto Les demoiselles d’Avignon [→ p. 208]: l’opera che inaugura il Novecento artistico, portandosi negli occhi il grande maestro di Aix.

Paul Gauguin

L’esotico, l’incontaminato, il primitivo: con Paul Gauguin (1848-1903) questi temi entrano nell’arte in modo nuovo. Non si tratta più solo di un interesse estetico, com’era stato per le stampe giapponesi [→ p. 96]; ora le civiltà extraeuropee simboleggiano dei valori alternativi a quelli occidentali, ormai compromessi dal materialismo moderno. Alla ricerca di quella purezza Gauguin, parigino di nascita, insofferente alle convenzioni borghesi, arrivò fino in Polinesia, dove concluse la sua vita.

Trascorse l’infanzia in Perù e a diciassette anni si imbarcò su una nave mercantile, arruolandosi poi nella marina francese. Viaggiò in India, America del Sud, Polo Nord. Negli anni Settanta approcciò la pittura, da autodidatta. Nel 1874 incontrò Pissarro, che lo introdusse agli impressionisti: Gauguin espose insieme a loro nelle ultime cinque mostre e presto ne divenne un importante collezionista.

In Bretagna, lontano dalla città • L’equilibrio finalmente raggiunto si incrinò nei primi anni Ottanta. Il tracollo finanziario che nel 1882 investì la Francia ebbe ricadute pesantissime anche su Gauguin. Trascorse un lungo soggiorno in Bretagna, il cui paesaggio era stato preservato dai grandi mutamenti della contemporaneità. A Pont-Aven, piccolo centro già meta di altri artisti in fuga da Parigi, Gauguin realizzò dipinti en plein air: scene agresti dai colori chiari distribuiti con pennellate filamentose. Fu però necessario attendere ancora qualche tempo per vedere i primi esiti veramente originali, vale a dire il secondo soggiorno bretone, iniziato nel febbraio 1888 e preceduto da un viaggio in Martinica. La sua pittura mutò: le forme divennero sintetiche, i profili sinuosi, il colore tendente alla campitura senza sfumature. Crebbe, soprattutto, il carattere spirituale dei soggetti. Gauguin condivise i soggiorni a Pont-Aven con alcuni colleghi più giovani ma parimenti interessati a imprimere un nuovo corso alla pittura moderna.

La convivenza con van Gogh • Tra ottobre e dicembre 1888, Gauguin visse e lavorò ad Arles, nel Sud della Francia, invitato da Vincent van Gogh [→ p. 132], a sua volta mosso dal desiderio di fondare una comunità di artisti estranea alle logiche ufficiali. La realtà disattese le aspettative. Ben presto la convivenza tra i due si rivelò ingestibile: meno di due mesi, rocambolescamente conclusi con la fuga di Gauguin dopo che van Gogh lo aveva aggredito con un rasoio in mano. Nel dicembre 1888, poco prima che si consumasse il dramma, Gauguin scrisse a Bernard: «Vincent e io ci troviamo in generale ben poco d’accordo soprattutto in pittura. […] È un romantico, mentre io sono piuttosto portato a uno stato primitivo». Partito Gauguin, van Gogh

avrebbe dato sfogo a un gesto autolesionista mutilandosi un orecchio, poi donato a una prostituta del bordello cittadino. Nei rari momenti di sintonia, i due pittori lavorarono comunque insieme, influenzandosi a vicenda, con il cavalletto dinanzi allo stesso soggetto 1718

Il Cristo giallo • Chiusa la fallimentare convivenza con van Gogh, Gauguin trascorse il biennio 1889-1890 in Bretagna, tornando al tema della religiosità popolare. Tre donne sono sedute attorno a un grande crocifisso; pregano con le teste abbassate e le mani congiunte 19 in uno spazio recintato da un muro di pietre a secco che viene scavalcato da un uomo, a sua volta diretto verso due piccole figure femminili. Al di là di questo muro scorgiamo una stradina e alcune case ai piedi delle colline. Gauguin si è ispirato al crocifisso ligneo ancor oggi esposto nella chiesetta di Trémalo presso Pont-Aven 20, il cui linguaggio semplice e diretto ben si accorda con il tono antinaturalistico del dipinto: le carni di Gesù sono

17 Paul Gauguin, caFFè di notte ad arLeS (madame ginoUx), 1888, olio su tela, cm 73×92. Mosca, Museo Puškin.

18 Vincent van Gogh, iL caFFè di notte, 1888, olio su tela, cm 72,4×92,1. New Haven (Connecticut), Yale University Art Gallery.

19 Paul Gauguin, iL criSto giaLLo, 1889, olio su tela, cm 92×73,3. Buffalo (New York), New York, Albright-Knox Art Gallery.

20 crociFiSSo Ligneo poLicromo. Pont-Aven (Francia), Cappella di Trémalo.

21 Paul

marcatamente gialle, colore che si estende anche a tutto lo sfondo, ai prati, alle colline, a loro volta punteggiate da alberi dalla chioma rossastra.

Il periodo a Tahiti • Con il nuovo decennio Gauguin si trasferì a Tahiti, l’isola della Polinesia allora colonia francese. I quadri del periodo emanano uno stato di gioia e felicità che contraddice le effettive condizioni di salute dell’artista, almeno quelle descritte nelle lettere inviate ad amici e famigliari.

La orana Maria 21, che in lingua maori significa “Ave Maria”, è il capolavoro del primo periodo tahitiano. È la descrizione di un mondo felice, governato dall’armonia tra uomo e natura: un paradiso terrestre. La scena è ancora di ispirazione religiosa: la Vergine che sorregge il Bambino

avvicinata da due donne e un angelo. Introdotti da un tavolo carico di frutti, i protagonisti hanno fisionomie e abiti locali. L’ambientazione è all’aperto, un tripudio di alberi, palme, fiori e foglie. «Ho fatto una tela con un angelo dalle ali gialle che indica due donne tahitiane, vestite con un pareo tessuto a fiori che si allaccia come si vuole alla cintura. Sullo sfondo montagne in ombra e alberi fioriti. Un sentiero violetto e in primo piano del verde smeraldo; a sinistra delle banane. Ne sono abbastanza soddisfatto»: così lo descrive Gauguin stesso.

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? • A partire dal periodo tahitiano i quadri di Gauguin si accompagnarono con sempre più frequenza a scritte dai caratteri vistosi: erano i titoli che l’autore apponeva – in lingua francese o locale – per connotare con più precisione il senso dell’opera. Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? si legge in una tela del 1897, la più grande da lui mai eseguita 22. Questo grande fregio dai colori notturni e affollato di figure e idoli esotici è un’opera sulla condizione umana, un’opera filosofica sul ciclo della vita. Ecco come l’ha raccontata l’autore stesso: «A destra, in basso, un bambino addormentato e tre donne sedute. Due figure vestite di porpora si confidano i loro pensieri. Un’enorme figura accovacciata, che elude intenzionalmente le leggi della prospettiva, leva il braccio e guarda attonita le due donne che osano pensare al loro destino. Al centro una figura coglie i frutti. Due gatti accanto a un fanciullo. Una capra bianca. Un idolo, con le braccia misteriosamente e ritmicamente alzate, sembra additare l’aldilà. Una fanciulla seduta pare ascoltare l’idolo. Infine una vecchia prossima alla morte, che sembra placata e abbandonata ai propri pensieri, completa la storia. Ai suoi piedi, uno strano uccello bianco, che tiene una lucertola negli artigli, rappresenta la futilità della parola». Quasi una pittura di storia, insomma, una dimensione recuperata grazie al contesto esotico, ma dotata di un significato simbolico con un sottotesto narrativo misterioso.

22 Paul Gauguin, da doVe Veniamo? chi Siamo? doVe andiamo?, 1897, olio su tela, cm 139,1×374,6. Boston (Illinois), Museum of Fine Arts.

Gauguin, La orana maria, 1891, olio su tela, cm 113,7×87,6. New York, Metropolitan Museum of Art.

Visione dopo il sermone

Una scena immaginaria • «Ho appena finito un quadro religioso assai malfatto che mi ha molto interessato e che mi piace […]. Un gruppo di donne bretoni prega in costume nero intenso. Le cuffie a destra sembrano due mostruosi elmetti. Un melo attraversa la tela, viola scuro con il fogliame disegnato a masse simili a nuvole verde smeraldo [...]. Il suolo vermiglio puro. […] L’angelo è vestito di blu oltremare carico e Giacobbe di verde bottiglia. Credo di aver raggiunto in queste figure una grande semplicità rustica e superstiziosa. Il tutto è molto severo. Per me in questo quadro il paesaggio e la lotta esistono soltanto nell’immaginazione della gente che prega dopo il sermone: ecco perché c’è il contrasto tra la gente, che è reale, e la lotta nel paesaggio, che è innaturale e sproporzionato» 23 Così scriveva Gauguin a Vincent van Gogh nell’autunno 1888, pochi giorni dopo aver completato Visione dopo il sermone. L’artista era consapevole di aver creato un’opera controcorrente, dalla forte dimensione spirituale: in quel rosso sanguigno c’era tutta la suggestione delle donne bretoni che, uscite dalla messa, immaginano la storia di Giacobbe e l’angelo tratta dalla Genesi

23 Paul Gauguin, ViSione dopo iL Sermone, 1888, olio su tela, cm 72,2×91. Edimburgo, National Gallery of Scotland.

Dal naturalismo al simbolo • Visione dopo il sermone segna il passaggio dalla resa naturalistica a quella simbolica della realtà. Anche per questo Gauguin stimava l’opera degna di figurare in una chiesa: pensò di donarla alla parrocchia di Nizon, piccolo centro nei pressi di Pont-Aven, ma senza successo. L’insolito taglio di una scena scorciata dall’alto e senza orizzonte; il contrasto tra i primissimi piani e le figure in lontananza; la piattezza delle superfici sigillate entro un disegno nettissimo; la brusca inserzione del tronco capace di dividere nettamente la scena: il tutto generava un’immagine potente, al limite dell’aggressivo. Nel dipingerla Gauguin aveva fatto tesoro di Donne bretoni in un prato 24 dell’amico Émile Bernard (1868-1941), come pure di riferimenti geograficamente e temporalmente lontani. Il tema biblico derivava forse dalle grandi pitture murali nella chiesa parigina di Saint-Sulpice licenziate da Eugène Delacroix quasi un trentennio prima; le figure dei due lottatori sono palesemente ispirate a quelli di una stampa giapponese 25; mentre, più in generale, la perfetta quanto sinuosa definizione dei profili risente delle vetrate gotiche francesi.

itinerario

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I viaggi di Gauguin, Cézanne e van Gogh LettUra gUidata P. Gauguin, Visione dopo il sermone

24 Émile Bernard, donne Bretoni in Un prato, 1888, olio su tela, cm 74×92. Collezione privata.

25 Katsushika Hokusai, manga. VoLUme 3: Lottatori, 1834. Xilografia. Londra, Victoria and Albert Museum.

26 Paul Sérusier, paeSaggio deL BoiS d’amoUr a pont-aVen o iL taLiSmano, 1888, olio su tavola, cm 27×21,5. Parigi, Musée d’Orsay.

27 Felix Vallotton, donna con cameriera che Fa iL Bagno, 1896, olio su tela, cm 52×66. Collezione privata.

28 Maurice Denis, apriLe, 1892, olio su tela, cm 38×61,3. Otterlo (Paesi Bassi), Kröller- Müller Museum. 27

I Nabis

Nell’estate 1888 il giovane pittore Paul Sérusier (18641927) si trovava a Pont-Aven e qui, sotto gli insegnamenti di Gauguin, dipinse una piccola tavola: un paesaggio boschivo che ancora meraviglia per l’intensità del colore e la stesura a larghe macchie 26. Non è immediato distinguere la fila di faggi in alto a sinistra, il loro riflesso sul fiume in primo piano e il mulino in alto sulla destra. «Come vedete questi alberi? Sono gialli. Ebbene, metteteci del giallo; quest’ombra, decisamente blu, coloratela con una tonalità blu oltremare puro; queste foglie rosse? Dipingetele di vermiglio». Gauguin ne aveva seguito passo passo la gestazione, suggerendogli di dipingere assegnando massimo

risalto al colore puro. Tornato a Parigi, Sérusier mostrò l’opera agli amici raccontando anche gli insegnamenti del maestro. Costoro ne rimasero così entusiasti da volerla ribattezzare: non più Paesaggio del Bois d’Amour a Pont-Aven, ma Il talismano. In quel quadro identificavano un vero insegnamento, un inno alla libertà espressiva. Circa un anno dopo, nel 1889, il Café Volpini di Parigi ospitò un’esposizione di quadri di Gauguin e dei suoi colleghi attivi a Pont-Aven. Per l’ultima generazione di artisti fu un’altra rivelazione. Ammiravano il disegno sintetico, i colori puri stesi per larghe campiture, i soggetti di ispirazione sacra o comunque ricchi di allusioni simboliche.

L’arte dei Nabis • Fu grazie a tante suggestioni che nella Parigi di fine anni Ottanta prese vita una nuova compagine capace di declinare il Simbolismo [→ p. 139] in termini propri e originali. Erano i Nabis: letteralmente i “profeti”, in lingua ebraica. I loro modelli erano Gauguin, van Gogh e Cézanne. Oltre a Sérusier, ne facevano parte una dozzina di giovani formatisi all’Académie Julian; tra questi Maurice Denis (1870-1943) – presto divenutone guida teorica –Paul Ranson (1861-1909), Édouard Vuillard (1868-1940) e Félix Vallotton (1865-1925) 27. I Nabis erano una sorta di confraternita volta a perseguire un’idea di arte non limitata alla pittura ma estesa ai vari ambiti della quotidianità: illustrazioni editoriali, disegni per le vetrate delle chiese, scenografie e costumi teatrali. Dal punto di vista formale le opere erano riconoscibili tanto per l’eleganza del segno quanto per la bidimensionalità delle superfici. Le atmosfere erano irreali, profondamente antinaturalistiche. Incitava Denis: «Basta con la verosimiglianza, basta con le proporzioni, basta con le impressioni. Passiamo ai colori forti, non mescolati, alle superfici piatte, annulliamo la prospettiva e le superfici contornate di segno scuro, come nella tradizione medievale delle vetrate» 28

Vincent van Gogh

I mangiatori di patate • Un interno povero ma decoroso, unicamente illuminato dalla fioca luce di una lampada a olio pendente dal soffitto 29. Attorno al tavolo, una famiglia contadina si appresta a cenare. La donna più giovane spartisce un grande piatto di patate fumanti, quelle da loro stessi coltivate nei campi; la più anziana, sulla destra, scodella il caffè d’orzo. Ingobbite dal duro lavoro, le figure hanno mani nodose e volti segnati da rughe profonde. L’atmosfera è di silenzioso raccoglimento. Vincent van Gogh (1853-1890) dipinse I mangiatori di patate nell’aprile-maggio 1885 a Nuenen, villaggio olandese nella regione del Brabante. Aveva trentadue anni ma, privo di un’effettiva educazione artistica, poteva ancora dirsi in pieno tirocinio pittorico. Quest’opera è il suo primo esito notevole: un quadro ambizioso al quale era giunto dopo svariati studi e bozzetti preparatori. Mai come in questo caso l’imperizia tecnica si concilia con il tema: più che definire i dettagli, le pennellate sbozzano con forza oggetti e personaggi, offrendone una resa solenne, quasi monumentale, ma sincera. I mangiatori di patate è il manifesto del primo van Gogh: un artista convinto che la

pittura debba assolvere un ruolo sociale, e che per questo fa proprio l’aspro linguaggio del realismo.

I primi anni • Nato a Zundert nel 1853, van Gogh era figlio di un pastore della comunità riformata olandese. Dopo gli studi tecnici, aveva lavorato per una società di mercanti d’arte a Londra, L’Aia e Parigi. Nel 1877, una volta tornato in Olanda, si era dedicato per circa un anno alla teologia, diventando predicatore laico nella regione mineraria del Borinage, in Belgio. Fu proprio a contatto con gli operai che scoprì la vocazione artistica. Da autodidatta, iniziò ritraendo a carboncino il brullo paesaggio locale e copiando Millet. Al pari de I mangiatori di patate, i suoi primi lavori prediligevano colori cupi, racchiusi entro profili rigidi quanto il filo di ferro: erano le prove di chi voleva rendere senza attenuanti i disagi di una vita di stenti.

Quella prima fase di ricerca, come del resto la sua intera carriera, fu resa possibile dal sostegno, emotivo e finanziario, del fratello Theo, mercante d’arte più giovane di quattro anni. Era lui a confortarlo durante le crisi nervose

29 Vincent van Gogh, i mangiatori di patate, 1885, olio su tela, cm 82×114. Amsterdam, Van Gogh Museum.

Video d’aUtore

T. Montanari, Un’arte moderna preSentazione

V. van Gogh

Fonti e critica

V. van Gogh, «Nel mio lavoro ci rischio la vita»

30 Vincent van Gogh, orti a montmartre:

La BUtte montmartre, 1887, olio su tela, cm 113,5×146. Amsterdam, Stedelijk Museum.

31 Vincent van Gogh, La caSa giaLLa, 1888, olio su tela, cm 72×91,5. Amsterdam, Van Gogh Museum.

32 Vincent van Gogh, aUtoritratto con orecchio Bendato e pipa, 1889, olio su tela, cm 51×45. Collezione privata.

che lo minavano sin dalla prima gioventù, a incoraggiarlo sulla via della pittura, ad acquistare tele, pennelli e colori. E a confrontarsi costantemente con l’artista: dal 1872 sino alla morte di van Gogh nel 1890 i due intrattennero un fittissimo scambio epistolare, in cui il pittore racconta con puntualità al fratello le proprie crisi interiori e gli entusiasmi per i prodigiosi avanzamenti nel mestiere.

Parigi, oltre l’Impressionismo • Nel febbraio 1886 van Gogh giunse a Parigi. Era l’anno dell’ultima mostra impressionista e dell’affermazione del Pointillisme di Seurat. Van Gogh rimase profondamente suggestionato da quel nuovo uso del colore; approfondì, inoltre, lo studio delle stampe giapponesi, già incontrate ad Anversa. Lo stile cambiò

decisamente: abbandonati i caratteri del tenebroso pittore di scene rurali, la tavolozza si illuminò, i colori si fecero più accesi, distribuiti per via di pennellate più scandite e disciplinate. Orti a Montmartre: La Butte Montmartre 30 è uno dei primi esempi dell’artista rinnovato. Guardarlo è un piacere per l’occhio, anche perché nel frattempo van Gogh si era impadronito delle leggi prospettiche, e quasi ci si sente risucchiati nel paesaggio arso dal sole. Campi, orti, baracche, mulini a vento: siamo a Parigi, ma l’artista non si concentra sugli affollati boulevards; a questi preferisce la prima periferia cittadina, quella di Montmartre, ancora in piena campagna.

Tra arte e follia • A Parigi van Gogh strinse rapporti con Gauguin e Toulouse-Lautrec: per la sua indole scontrosa o per l’ostilità dei colleghi, tuttavia, non riuscì a integrarsi veramente nell’ambiente artistico. E, sebbene nell’arco di due anni avesse licenziato oltre duecento dipinti, pochi sembrarono effettivamente accorgersi della sua presenza. Tale ragione, unita alla sempre più forte attrazione per la luce del Sud, lo spinse a trasferirsi in Provenza, ad Arles. Giuntovi nel febbraio del 1888, sin dal primo momento iniziò a pensare di vincere l’isolamento locale promuovendo una comunità di artisti che avrebbe contribuito a far fronte ai non pochi problemi economici. Affittò una casa in Place Lamartine, la «casa gialla» 31 e, dopo un lungo scambio di lettere, l’amico Gauguin vi arrivò in ottobre. Questi rimase ad Arles appena due mesi: le ripetute crisi di Vincent rendevano infatti impossibile la convivenza. La fine del sodalizio fu sancita da van Gogh stesso nel momento in cui aggredì l’amico con un rasoio. Fuggito Gauguin, in un gesto di autolesionismo si asportò il lobo di un orecchio consegnandolo poi a una prostituta di Arles 32.

La camera da letto • Nello stesso anno, van Gogh ritrasse in un quadro la stanza in cui viveva 33. Gli scuri della finestra sono socchiusi e lasciano entrare una luce uniforme che illumina delicatamente gli oggetti: il letto, due sedie impagliate, un tavolino con l’occorrente per la toilette, un asciugamano, un appendiabiti; alle pareti, intonacate d’azzurro, uno specchio, tre quadretti e due incisioni. Le scelte formali di van Gogh sono totalmente contrarie ai principi della pittura accademica e, nello stesso tempo, superano, forzandolo, il linguaggio degli impressionisti: alcune linee verdi, a tratti incerte, solcano il pavimento; altre linee nere bordano le sedie, il letto e il comodino marcandone i profili; riusciamo a cogliere lo spazio effettivo dell’ambiente, ma la resa prospettica è volutamente approssimativa (basta guardare i quadretti appesi sulla parete di destra).

La notte stellata • In una lettera datata 16 giugno 1889 van Gogh raccontava al fratello di aver appena ultimato La notte stellata 34, dipinto durante uno dei continui ricoveri presso la casa di salute di Saint-Rémy-de-Provence, dove era entrato un mese prima e dove sarebbe rimasto per quasi due anni. Il paesaggio con le montagne e il paese provenzale erano ciò che l’artista poteva scorgere dalla propria stanza. Ma quanto più colpisce dell’opera è il

cielo: un cielo che occupa due terzi del quadro, punteggiato dalle stelle, dalla falce lunare e da una vorticosa scia spiraliforme. Era una proiezione del proprio tormentato stato interiore, rafforzata dallo slanciato cipresso in primo piano, il cui ruolo sembra quello di stabilire un ponte tra la terra e il cielo. Eppure, nell’animata resa della volta celeste van Gogh sembrava fare tesoro di nozioni astronomiche popolarizzate di recente. Nel suo cielo, la Luna è accompagnata da Venere al suo massimo splendore, da una galassia in forma di spirale, da una costellazione. Dilatati oltre misura, gli astri incombono sul villaggio addormentato con ineguagliata densità simbolica. Resa naturalistica e intensità visionaria sono diventate indistinguibili.

Le ultime opere • Van Gogh spese gli ultimi mesi di vita ad Auvers-sur-Oise, località a pochi chilometri da Parigi 35. Qui divenne amico del medico e collezionista Paul Gachet, del quale fece un ritratto seduto, con il braccio sul tavolo e la mano portata al volto: una moderna personificazione della malinconia 36. Ciò che maggiormente colpisce del dipinto è la vitalità del colore puro, steso per larghe pennellate. «Ciò che mi appassiona di più, molto di più di tutto il resto, nel mio mestiere, è il ritratto, il ritratto moderno. Io lo perseguo mediante il

33 Vincent van Gogh, La camera da Letto, 1888, olio su tela, cm 72,4×91,3. Amsterdam, Van Gogh Museum.

LettUra gUidata

V. van Gogh, La camera da letto da Vicino V. van Gogh, La notte stellata

34 Vincent van Gogh, La notte SteLLata, 1889, olio su tela, cm 73,7×92,1. New York, Museum of Modern Art.

35 Vincent van Gogh, La chieSa di aUVerS, 1890, olio su tela, cm 93×74,5. Parigi, Musée d’Orsay.

36 Vincent van Gogh, ritratto di paUL gachet, 1890, olio su tela, cm 68,2×57. Parigi, Musée d’Orsay.

37 Vincent van Gogh, campo di grano con VoLo di corVi, 1890, olio su tela, cm 50,5×103. Amsterdam, Van Gogh Museum.

37

colore […]. Vorrei fare dei ritratti che di qui a un secolo, alle genti future, possano sembrare come delle apparizioni» scrisse nel 1890 al fratello.

In poco più di due mesi l’artista dipinse ottanta tele, specie paesaggi segnati da un marcato taglio orizzontale. Campo di grano con volo di corvi è il capolavoro estremo 37: un mare di granoturco maturo, attraversato da tre tortuosi sentieri e minacciato da uno stormo di uccelli neri. Mai come in questo caso la pennellata appare convulsa, una

scarica di tensione che trasmette all’intera superficie l’identica intensità emotiva. Pochi giorni dopo aver licenziato il quadro, van Gogh si sparò un colpo di rivoltella al petto che lo avrebbe portato alla morte. Aveva trentasette anni e nella tasca della giacca fu trovata questa frase di suo pugno: «Per il mio lavoro, io rischio la vita, e la mia ragione vi è quasi naufragata...». Nel marzo 1891 il Salon des Indépendants avrebbe presentato per la prima volta una sua piccola retrospettiva.

Henri de Toulouse-Lautrec

Nato nel 1864 ad Albi da una nobile famiglia francese, Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec-Monfa (1864-1901), prima di essere pittore, fu uno dei massimi interpreti dell’affiche, del manifesto pubblicitario [→ Tecniche, p. 137]. Nonostante le origini agiate, la sua esistenza fu piuttosto tormentata. Fisicamente segnato da una dolorosa malformazione alle gambe, abbandonò la soffocante famiglia per calarsi nei bassifondi parigini, nei locali di Montmartre. Al Moulin Rouge, il cabaret aperto nel 1889 da Charles Ziedler, Toulouse-Lautrec dedicò uno dei suoi primi e celeberrimi manifesti 38. Lo realizzò nel 1891 aggiudicandosi un concorso indetto da Ziedler stesso. Semplificando al massimo linee e colori così da agevolarne la riproduzione, Toulouse-Lautrec fissò un passo della quadrille naturaliste, danza alla moda derivata dal can-can. A esibirsi tra la folla di spettatori profilati come ombre cinesi, vi sono due ballerini noti proprio per l’interpretazione sfrenata ed erotica che offrivano della quadrille: Louise Weber, detta «la Goulue » (“la golosa”), riconoscibile dalla pettinatura, e Valentin-le-Désossé (“il disossato”), del quale l’artista accentuò la silhouette quasi disarticolata. Stampato a quattro colori (giallo, rosso, blu, nero) grazie a tre differenti matrici, l’esemplare che stiamo osservando è al

secondo stadio, con scritte pubblicitarie sovraimpresse.

L’anno successivo Toulouse-Lautrec affinò ulteriormente la tecnica in una affiche dedicata all’amico Aristide Bruant, cabarettista divenuto celebre grazie a canzoni e pungenti battute rivolte agli spettatori 39. La sagoma nettissima del protagonista, identificabile dai tratti fisionomici e dalla sciarpa rossa che lo accompagnava sul palco, l’uso circoscritto ai quattro colori tipografici, l’impaginazione asimmetrica tipica delle stampe giapponesi: è in questi elementi che va cercata la formidabile modernità di Toulouse-Lautrec.

Al Moulin Rouge • Toulouse-Lautrec fu anche un eccellente pittore, dal 1886 al 1888 sodale di van Gogh e in stretto rapporto con la belga Société des Vingts [→ p. 148]. In una delle sue opere più note, egli ritrasse se stesso con il cugino Tapié de Céleyran mentre attraversano la sala da ballo del Moulin Rouge 40. Davanti a loro, seduti a un tavolo, si riconoscono il critico d’arte Edouard Dujardin, la ballerina spagnola Macarona, il fotografo Paul Sescau, il pittore Maurice Guibert e una donna dai capelli rossi da molti identificata con la ballerina Jane Avril. Allo specchio, «la Goulue» si sistema lo chignon forse in compagnia della sorella Jeanne Weber.

38 Henri de ToulouseLautrec, moULin roUge: La goULUe, 1891, litografia a pennello e spruzzo, cm 170×130. Albi (Francia), Musée Toulouse-Lautrec.

39 Henri de ToulouseLautrec, amBaSSadeUrS: ariStide BrUant, 1892, litografia a pennello e spruzzo, cm 150×100. Albi (Francia), Musée Toulouse-Lautrec.

tecniche

La litografia

L’affiche

Il nuovo stile di vita della Belle époque richiese nuove tecniche di comunicazione come il manifesto pubblicitario o, in francese, affiche. Nel 1837 l’invenzione della cromolitografia aveva permesso di affiancare al bianco e nero il rosso e il blu, cui si aggiunsero in seguito altri colori; il

È quasi un ritratto di gruppo: Toulouse-Lautrec vi incluse tutti gli amici che frequentavano abitualmente il cabaret di Ziedler. Sebbene essi si trovino in un locale tra i più spensierati della capitale, è l’apatia a regnare. La sensazione di inquietudine emanata dalla reciproca indifferenza dei personaggi è accentuata dalla figura in primo piano a destra, secondo il ricordo dell’amico pittore Maurice Doyant aggiunta solo nel 1895: illuminata da luci artificiali, i cui riflessi tanto affascinavano il pittore, il volto della ballerina May Milton assume un pallore allucinato e una espressione da mostruoso fantoccio. Se sui manifesti Toulouse-Lautrec dava un’immagine affascinante della vita febbrile della Parigi notturna, sulla tela ne svelava le molte contraddizioni.

procedimento era sempre quello litografico: una matrice in pietra era lavorata con una matita oleosa, poi con una soluzione acida che le permetteva di essere inchiostrata. A fine secolo, l’affinarsi delle tecniche di stampa e l’abbattimento dei costi di produzione fecero raggiungere alla

41 Henri de Toulouse-Lautrec, Jane aVriL aL Jardin de pariS, 1893, litografia a colori, cm 129,1×93,5. New York, Metropolitan Museum of Art.

42 Jules Chéret, La Loïe FULLer, 1893, litografia a colori, cm 123,2×87,6. New York, Museum of Modern Art.

43 Théophile Alexandre Steinlen, toUrnée dU chat noir, 1896, litografia a colori, cm 62×40.

tiratura delle affiches numeri impressionanti: eseguiti da artisti come Toulouse-Lautrec 41, Jules Chéret 42, Théophile Alexandre Steinlen 43 e Alphonse Mucha, oltre a reclamizzare prodotti alla moda essi promuovevano i nuovi divertimenti notturni.

40 Henri de Toulouse-Lautrec, aL moULin roUge, 1892-1895, olio su tela, cm 123×141. Chicago (Illinois), Art Institute.
L e tecniche

Il primitivismo di Henri Rousseau

Henri Rousseau (1844-1910) era un autodidatta e fino al 1893, quando decise di dedicarsi alla pittura, lavorò come impiegato del dazio: da qui il soprannome “il Doganiere”. Le figure immerse in un’atmosfera incantata, il disegno preciso, la stilizzazione delle forme, il nitore dei colori smaltati: questi i tratti che ne distinguono lo stile.

Io, ritratto-paesaggio • Nell’autoritratto del 1889 impugna tavolozza e pennelli: si mostra dunque nei panni di pittore, non certo in quelli del suo ordinario lavoro d’ufficio 44 Eppure non è al cavalletto nel chiuso della propria casastudio, ma all’aperto. Si raffigura in posa sulla riva della Senna e alle sue spalle, dietro l’albero di un veliero, spunta l’appena eretta Tour Eiffel (è la primissima opera d’arte che la ritrae); il quadro, alla fine, è anche un manifesto della modernità che avanza. Colpiscono i colori piatti, l’assenza di ombre. Più di tutto intriga l’inverosimile scarto proporzionale tra ambiente e figura, di cui non capiamo le ragioni: il gigantismo dell’artista nasce da un moto di autoesaltazione, oppure – cosa più plausibile – è frutto della sua maldestra conoscenza prospettica?

L’esotismo dietro casa • Tra i molti temi delle sue tele ci sono le scene esotiche a spiccare. Nelle foreste dal verde intenso, fra foglie lanceolate, emergono frutti giganteschi, fiori carnosi, uccelli variopinti. Come in un’apparizione, irrompono incantatrici di serpenti o sensuali Veneri stese sul sofà 45. L’atmosfera è ovattata, priva di dramma, come senza suoni. Stando alla leggenda diffusa dal poeta Guillaume Apollinaire, all’epoca si credeva che Rousseau avesse visitato il Messico e dipinti

del genere nascessero proprio da quel viaggio. Non era così: la sua conoscenza di piante e animali tropicali veniva dai pomeriggi passati al Jardin des Plantes parigino e dalle immagini osservate sui libri illustrati. Anche in quel modo, Rousseau esprimeva un comune sentire del tempo: l’impulso ad abbandonare le città tetre e gli ambienti disumani della civiltà industriale. I suoi quadri comunicavano un desiderio di evasione. Ma mentre i contemporanei Gauguin e Rimbaud avevano lasciato l’Europa, lui si ritirava in un mondo tutto interiore. Solo, nel suo studio o nel suo ufficio, immaginava imprese di uomini in terre pericolose e ricche di mistero.

ripassa

44 Henri Rousseau, io, ritratto-paeSaggio, 1889-1890, olio su tela, cm 143×110. Praga, Národní Galerie.

45 Henri Rousseau, iL Sogno, 1910, olio su tela, cm 204,5×298,5. New York, Museum of Modern Art.

• Da quando si può parlare di Postimpressionismo e che cosa indica il nome dato a questa corrente artistica?

• Come si sviluppa il Puntinismo di Seurat e Signac e in che cosa consisteva questa tecnica? Quali opere sono più rappresentative di questa corrente?

• Quali sono le novità introdotte da Cézanne? Illustra le caratteristiche dei Giocatori di carte e delle Grandi bagnanti

• Quali esperienze furono determinanti per l’evoluzione artistica di Gauguin? Quali dipinti incarnano al meglio il suo spirito “primitivo”? Descrivile.

• Illustra il percorso artistico di van Gogh, dagli esordi alle opere prima del suicidio. Come si evolve il suo stile e che cosa esprime questa evoluzione?

• Che cos’è l’affiche? Chi ne fu il principale interprete e perché?

• Quali sono le caratteristiche della pittura di Rousseau? approfondisci

Scegli un pittore tra quelli studiati in queste pagine, approfondisci i suoi dati biografici e cerca altre opere della sua produzione. Poi organizza questi materiali in una presentazione multimediale esaustiva.

Il Simbolismo 2•

In Francia: Moreau, Puvis de Chavannes, Redon

46 Gustave Moreau, L’apparizione, ca. 1876, olio su tela, cm 142×103. Parigi, Musée National Gustave Moreau.

Gustave Moreau • Nella reggia di Erode, la testa appena decapitata e circonfusa di luce di Giovanni Battista fa la propria orrorifica apparizione 46. Si libra magicamente nell’aria sovrastando la principessa Salomè: è stata lei a chiederne il sacrificio come premio per aver danzato al cospetto del re, seduto sul trono nella penombra. Il Nuovo Testamento ha ispirato questa scena raccapricciante, ma già al primo sguardo si intende che il pittore non ha voluto dipingere un canonico quadro religioso. Colpisce

la dimensione sovrannaturale non meno della presenza femminile: una donna che ha deposto ogni ruolo passivo per diventare ammaliante, irresistibile, decisamente crudele. A meravigliare è anche l’esecuzione tecnicamente insolita e ricercata. Sopra una base di colore steso con ampie spatolate, una ragnatela di linee individua colonne, capitelli, statue, altari, medaglioni. Sembra una scenografia smaterializzata e priva di evidenza tridimensionale. I colori stesi a larghe campiture si contrappongono al minuto calligrafismo delle architetture e generano un contrasto straniante. Il pervasivo rosso cupo e l’andamento verticale delle spatolate sembrano amplificare su ampia scala il sangue grondante del Battista.

Gustave Moreau (1826-1898) realizzò la prima versione de L’apparizione nel 1875, ad acquarello, per riprendere in seguito l’iconografia in ben diciannove dipinti a olio. Erano gli anni dell’Impressionismo, che appare tuttavia molto distante da quest’opera, in cui la pittura respinge ogni forma di realtà oggettivamente verificabile per assumere un carattere potentemente visionario. Parigino, formatosi in ambito romantico e profondo conoscitore della pittura italiana del Rinascimento, Moreau è un perfetto esponente del Simbolismo: sensibilità emersa già a metà anni Settanta dell’Ottocento ma pienamente affermatasi nella decade a seguire.

L’arte come fuga dalla realtà • L’irrazionale, il fantastico, il visionario: il Simbolismo incarna i valori respinti dal Positivismo e per molti aspetti ne rappresenta l’antitesi. Esso rifiuta l’apparenza delle cose, ne indaga l’aspetto misterioso e sotterraneo; si appella alla mitologia, al sacro, all’esoterico. È, insomma, una via di fuga dalla realtà. Emerso in Francia e presto diffusosi in tutta Europa, il Simbolismo si manifestò inizialmente in ambito letterario. Oltre alle arti visive finì per coinvolgere il teatro, la musica, la filosofia. Diventò, di fatto, uno stile di vita e di pensiero, destinato a rimanere vitale sino al Novecento inoltrato. Nell’autunno 1886 il poeta Jean Moréas ne pubblicò il Manifesto sul supplemento letterario de «Le Figaro »: «La poesia simbolista si propone di conferire all’Idea una forma sensibile che, nondimeno, non vuole essere fine a se stessa, ma subordinata all’Idea che essa cerca di esprimere. L’idea, d’altra parte, non deve apparire privata degli ornamenti sontuosi e delle analogie esteriori, perché il carattere essenziale dell’arte simbolista consiste nell’evitare di cogliere l’Idea in sé...».

Pierre Puvis de Chavannes • Evadere dalla contemporaneità rifugiandosi in un mondo idilliaco fu esigenza di molti artisti di quest’epoca, tra cui Pierre Puvis de Chavannes (1824-1898). Dopo gli studi umanistici, egli frequentò diversi ateliers, tra cui quello di Delacroix, ma rimase più colpito dai cicli pittorici ammirati nei due viaggi in Italia, come la Cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova. Per l’intera carriera Puvis de Chavannes nutrì infatti un continuo interesse per le dimensioni monumentali e l’opacità cromatica tipica dell’affresco, impegnandosi anche in imprese pubbliche di vaste proporzioni. Il suo classicismo è sintetico, lontano dagli stereotipi accademici, essenziale. Fanciulle in riva al mare 47 è uno dei suoi dipinti più emblematici. Esposto al Salon del 1879, venne indicato come un «pannello decorativo» forse per via del soggetto apparentemente generico: tre donne di chiara ispirazione classicista sono ferme lungo un litorale deserto, in un ideale paesaggio mediterraneo. La figura in piedi, identificabile con una Afrodite Anadiomene (letteralmente, “che emerge”) che appena generata dalle acque si asciuga i capelli, indossa una veste modellata su quella della Venere di Milo (nelle raccolte del Louvre dal 1821). Per posa e fissità dello sguardo, la fanciulla stesa a sinistra sembra invece una mescolanza della statua antica dell’Arianna dormiente (Musei Vaticani) e dell’iconografia della Malinconia.

Nonostante il rimando alla scultura greco-romana, le tre fanciulle differiscono tanto dalle eroine pompier quanto dalle borghesi ritratte dagli impressionisti: rese con tratti sintetici e fisionomie anonime, esse sembrano anticipare, piuttosto, le donne di Gauguin e dei Nabis, sospese in un mondo arcadico, nel quale regna il silenzio.

Odilon Redon: leggere la propria anima • Estraneo alla profusione decorativa di Moreau e al classicismo allegorico di Puvis de Chavannes, Odilon Redon (1840-1916) è il terzo grande protagonista del Simbolismo francese. I suoi lavori si distinguono per uno spirito insieme onirico e contemplativo. Gli occhi chiusi 48, del 1890, è un’opera di snodo nella carriera di Redon. Illuminata dalla luce soffusa dell’alba, una testa emerge dall’acqua. Lo sguardo, il pensiero, la spiritualità: essa sembra racchiudere in pochi indefiniti tratti tutti i temi della ricerca redoniana. È il volto di una divinità, spesso presente nelle sue opere? E in che luogo è ambientata la scena: un lago, un mare, un fonte battesimale? Le palpebre abbassate alludono a un’indagine tutta introspettiva, mentale prima ancora che retinica. Il volto androgino rappresenta l’animo dell’artista, la conquista di una serenità interiore. La modella fu la moglie Camille, mentre la fonte fu il michelangiolesco Schiavo morente, ammirato al Louvre.

itinerario googLe earthtm I Simbolismi in Europa

47 Pierre Puvis de Chavannes, FanciULLe in riVa aL mare, 1879, olio su tela, cm 205,4×156. Parigi, Musée d’Orsay.

48 Odilon Redon, gLi occhi chiUSi, 1890, olio su tela fissata su cartone, cm 44×36. Parigi, Musée d’Orsay.

In area tedesca: Böcklin, Klinger e le Secessioni

Se in Francia prevalse l’accento onirico, in Germania fu la dimensione classica a dominare. Un’ulteriore influenza fu poi lo slancio esistenziale portato dalle ricerche nord europee.

Arnold Böcklin • Di origine svizzera, ma formatosi presso l’Accademia di Düsseldorf, Arnold Böcklin (1827-1901)

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49 Arnold Böcklin, L’iSoLa dei morti, 1880, olio su tela, cm 110,9×156,4. Basilea (Svizzera), Kunstmuseum.

50 Max Klinger, FiLoSoFo (da Vom tode ii), 1898-1910, acquaforte e acquatinta su carta, cm 49,5×33,8. New York, Metropolitan Museum of Art.

hUB art

Che cosa differenzia il Simbolismo francese da quello tedesco?

Per rispondere alla domanda la classe si divida in due gruppi, ciascuno dei quali approfondirà uno dei due temi, cercando su HUB Art tre opere significative per ciascuna corrente.

fu il principale interprete del Simbolismo in Germania. Influenzato dai paesaggi romantici di Friedrich, si recò per la prima volta a Roma nel 1850, rimanendo intimamente suggestionato dalle antichità classiche e rinascimentali. Da allora, Böcklin alternò i periodi in Germania a viaggi a Roma e Firenze, nei pressi della quale morì nel 1901. Nella sua opera convivono influssi nordici e mediterranei, che danno origine a composizioni dense di riferimenti letterari e autobiografici (l’indigenza, la malattia, la morte della prima compagna e di cinque figli). L’isola dei morti è la sua tela più rappresentativa. L’opera fu commissionata da Marie Berna e realizzata durante un soggiorno italiano nel 1880; in seguito, Böcklin ne dipinse ben quattro versioni entro il 1886. Nella prima, oggi conservata a Basilea, l’ambientazione notturna amplifica il carattere spettrale, silenzioso della scena 49. Caronte sta approdando all’isola destinata alle anime elette. Sulla prua dell’imbarcazione, una misteriosa figura ammantata di bianco – probabilmente l’anima del defunto – veglia sul feretro. Rappresentato nell’oscurità con sembianze leonine, Cerbero attende gli ospiti all’ingresso di una maestosa architettura incastonata nella roccia e in parte celata da imponenti cipressi. Come in Friedrich, il paesaggio assume una connotazione psicologica, marca la finitezza umana dinanzi alla vastità della natura, qui resa potenzialmente infinita dall’orizzonte bassissimo, eppure specificata in senso funerario dal denso bosco di cipressi prelevati dal paesaggio toscano. Per il suo carattere misterioso L’isola dei morti riflette l’indole melanconica di un artista che della caducità umana ha fatto il tema assiduo della propria ricerca, divenendo un punto di riferimento per le generazioni successive, specie Giorgio de Chirico e i surrealisti [→ p. 294].

Max Klinger • Originario di Lipsia, Max Klinger (1857-1920) fu scultore, incisore e pittore, con opere simboliste di grande intensità. L’attività grafica gli fece guadagnare visibilità oltre i confini dell’Impero germanico. Vom Tode II (Della Morte II), edito in versioni parziali nel 1898 e nel 1904, e nella sua veste completa nel 1910, era una serie ispirata dalla lettura di Arthur Schopenhauer, prova dell’interesse per il tema della morte. La terza tavola è un capolavoro di perizia tecnica (oltre che all’acquaforte, Klinger ricorse all’acquatinta per ottenere effetti più pittorici) e rappresenta la morte del Filosofo 5 0 Stagliandosi sopra una figura androgina e sullo scorcio di un paesaggio, un nudo eroico tende il braccio fino a toccare la propria immagine riflessa. A fronte della naturalezza della figura del Filosofo, il gigantismo del corpo dormiente rende la scena di ardua decifrazione, ermetica: forse si tratta della personificazione di Madre Natura, e dunque l’opera rappresenterebbe l’antagonismo tra la sensualità passiva e il raziocinio attivo.

Solamente superando tale soglia – come spiegavano le pagine di Schopenhauer – il protagonista può riconoscere la propria impotenza dinanzi all’enigma, riscattando così l’esistenza terrena.

La Secessione di Monaco • Nell’ultima decade dell’Ottocento, nelle principali città di area tedesca emerse una radicale forma di insofferenza verso le istituzioni accademiche, che condusse diversi giovani artisti a separarsi dai raggruppamenti ufficiali fondando autonome consorterie. Si parla, a questo proposito, di fenomeno delle Secessioni, dal nome assunto dai separatisti di Monaco, Vienna e Berlino. Fondata nel 1892 dal pittore Franz von Stuck (1863-1928), la Secessione di Monaco fu la prima in ordine cronologico e stabilì alcuni caratteri comuni anche alle successive esperienze: rifiuto del Realismo e aggiornamento della lezione simbolista di Böcklin sulle novità parigine. La rapida assimilazione stilistica delle Secessioni, insieme alla costante richiesta di finanziamenti pubblici dimostra come gli “innovatori” ambissero a ottenere un riconoscimento istituzionale. Nelle tre città coinvolte dalla Secessione, inoltre, la visibilità fu favorita da un’intensa attività promozionale basata sulla pubblicazione di riviste di gruppo, dall’apertura di sedi autonome e talvolta appositamente costruite e dal sostegno di critici influenti.

Franz von Stuck, Il peccato • Franz von Stuck condivise con Böcklin la fascinazione verso soggetti mitologici e religiosi, esaltandone però il carattere sensuale. Il peccato non va considerato solo la traduzione in pittura delle colpe di Eva, ma la personificazione della femme fatale, della donna ammaliante e tentatrice. Il tema fu sviluppato dall’artista in undici varianti; a partire da Sensualità, prima

un’incisione e poi un dipinto; per l’ultima variante 51, von Stuck disegnò anche la sontuosa cornice dorata che trasforma l’opera in un piccolo altare. Il serpente avvolge il corpo della donna generando un’impressionante continuità anatomica e cromatica, interrotta solo dal torso nudo e inondato di luce. I due sembrano invitare l’osservatore a unirsi alla loro conturbante complicità, ma la carnagione cerulea della donna, come l’oscurità nella quale sono calati, svela il carattere macabro del gioco.

Il Simbolismo nordico e la Secessione di Berlino • Dopo le manifestazioni monacensi, anche a Berlino gli artisti dell’ultima generazione si impegnarono a rompere i ponti con i polverosi ambienti accademici. Ufficialmente promossa nel 1898 da Max Liebermann (1847-1935), la Secessione berlinese affondava le proprie radici in un evento di sei anni prima: la mostra personale del pittore norvegese Edvard Munch (1863-1944), allestita presso il Verein Berliner Künstler, “Associazione degli artisti berlinesi”. Le opere in apparenza non finite, le stesure pittoriche veloci e risentite, il disegno essenziale: tutto ciò aveva spinto i commentatori del tempo a esprimere giudizi severissimi. Un «insulto all’arte», sostennero alcuni con una tale veemenza da provocare la chiusura anticipata della mostra appena una settimana dopo l’inaugurazione. Emblematica è Sera sul viale Karl Johann 52, in cui il tema cittadino, tipicamente impressionista, è sottoposto a una radicale reinterpretazione, nella quale dominano il pallore dei volti, gli occhi sbarrati, l’ambientazione notturna. La città moderna è ora teatro di alienazione. Gli artisti della Secessione di Berlino identificarono in Munch un vero modello, e dieci anni dopo lo omaggiarono con un’ulteriore mostra presso la Berlin Secession.

51 Franz von Stuck, iL peccato, 1908, olio su tela, cm 91×59. Palermo, Galleria d’Arte Moderna.

52 Edvard Munch, Sera SUL ViaLe KarL Johan, 1892, olio su tela, cm 84,5×121. Bergen (Norvegia), Kunstmuseum.

preSentazione

E. Munch

La poetica dell’angoscia:

Edvard Munch

Figlio di un medico dell’esercito reale norvegese, Edvard Munch (1863-1944) nacque a Løten. L’anno seguente la famiglia si trasferì a Christiania (l’attuale Oslo), dove Edvard ricevette un’educazione rigidamente moralista e puritana, tipica dell’alta borghesia norvegese. Su incoraggiamento del padre, nel 1879 Edvard si iscrisse ai corsi di ingegneria, abbandonandoli per intraprendere la carriera di pittore. Dal 1880 frequentò così la Scuola Reale del disegno.

I suoi primi dipinti erano ancora naturalisti; poi, a metà anni Ottanta, l’artista si legò alla cerchia bohémienne di Christiania, rimanendo fortemente suggestionato dalle riflessioni del filosofo Søren Kierkegaard: qualunque fosse il mezzo espressivo impiegato – sosteneva il pensatore esistenzialista – l’arte doveva offrire un’immagine alle esperienze e alle intime inquietudini dell’autore.

cloisonnisme

Tecnica artistica che consiste nello stendere i colori per campiture piatte delimitate da contorni spessi, tipica di Gauguin e dei pittori di Pont-Aven.

All’insegna della morte • Sin dalla gioventù, l’esistenza di Munch venne scandita da un’impressionante catena di lutti familiari. Colpita da tubercolosi, la madre morì quando egli aveva appena cinque anni. Minata dalla stessa malattia, la sorella maggiore Sophie scomparve nel 1877, mentre il fratello Andreas morì nel 1895, debilitato dalla polmonite. Laura, l’altra sorella, trascorse lunghi periodi in manico -

mio. Infine il padre, con il quale Edvard ebbe un rapporto segnato da continue tensioni, morì improvvisamente nel 1889. Tante tragedie ne influenzarono a fondo la personalità: inevitabile che la morte diventasse una presenza assidua nei suoi quadri. Raccontò Munch, riferendosi a Bambina malata 53, uno dei suoi primi capolavori: «Non ero solo su quella sedia mentre dipingevo, erano seduti con me tutti i miei cari, che su quella sedia, a cominciare da mia madre, inverno dopo inverno, si struggevano nel desiderio del sole, finché la morte venne a prenderli». L’artista licenziò il quadro nel 1885, dopo un soggiorno a Parigi. La conoscenza diretta dell’Impressionismo, del Simbolismo e del Cloisonnisme avevano impresso un sensibile cambio di rotta al suo lavoro. Nelle sfilacciate pennellate verticali si può leggere l’influenza di Monet e, più ancora, di Toulouse-Lautrec. Nello strazio della madre, nello sguardo sfuggente della fanciulla – riferimento alla sorella Sophie –, nella fusione delle loro mani va invece colta la dimensione simbolica della scena.

L’influenza francese si nota anche in altre tele come Notte a Saint-Cloud 54, dipinto dopo il soggiorno parigino del 1889. Qui sono impressioniste la composizione e l’attenzione all’atmosfera, ma non la tavolozza, già virata su toni cupi.

53 Edvard Munch, BamBina maLata, 1885-1886, olio su tela, cm 120×118,5. Oslo, Nasjonalgalleriet.
54 Edvard Munch, notte a Saint-cLoUd, 1890, olio su tela, cm 64,5×54. Oslo, Nasjonalgalleriet.

«Una pozza di carne liquida»: l’amore secondo Munch • Munch respinse sempre l’idea del matrimonio: lo ossessionava l’idea di trasmettere a eventuali figli salute cagionevole e disturbi mentali. I suoi rapporti con le donne, inoltre, furono decisamente tormentati. Eseguito in più versioni dal 1892, Il bacio testimonia bene una condizione tanto drammatica. Guardiamo la redazione del 1897 55: l’ambiente – una stanza della residenza parigina a Saint-Cloud – è appena accennato e, nonostante la grande finestra, domina l’oscurità. Colta in un potente effetto di controluce, la coppia si abbandona a un bacio di addio. Corpi e volti si avvinghiano fondendosi l’uno nell’altro. «Una pozza di carne liquida»: così Stanislaw Przybyszewski, primo biografo di Munch, avrebbe icasticamente definito quell’incontro. In effetti, l’effusione non suscita tenerezza ma tensione. Nell’abbraccio della donna si percepisce la volontà di trattenere a sé il compagno nella parte della scena più buia e misteriosa.

Il Fregio della vita e gli ultimi anni • Alla già nominata mostra presso la Berliner Secession del 1902 Munch, ormai un punto di riferimento per gli artisti accademici del Nord Europa, scelse di presentare il Fregio della vita: ventidue tele dipinte nell’ultima decade, allestite una accanto all’altra e sigillate da una cornice bianca da lui stesso ideata. Vi figuravano non pochi capolavori – tra cui Sera sul viale

55 Edvard Munch, iL Bacio, 1897, olio su tela, cm 100×81,5. Oslo, Munchmuseet.

in para LL e L o

Il bacio di Gustav Klimt

Il bacio di Munch appare ancora più perturbante al cospetto dall’analogo soggetto licenziato giusto un decennio dopo da Gustav Klimt [→ p. 152]. Su un prato, completamente circondati dall’oro, anche questi due amanti sono in simbiosi, ma il completo abbandono dei corpi, la luce dorata, le teste coronate da fiori traducono il sentimento amoroso in una celebrazione della rinascita primaverile 56

confronta

Nonostante la diversa atmosfera, le consonanze stilistiche fra le due opere sono molte. Riesci a individuarle?

56 Gustav Klimt, iL Bacio, 1907-1908, olio e foglia d’oro su tela, cm 180×180. Vienna, Österreichische Galerie Belvedere.

57 Edvard Munch, angoScia, 1894, olio su tela, cm 93,5×73. Oslo, Munchmuseet.

58 Edvard Munch, aUtoritratto tra L’oroLogio e iL Letto, 1940-1943, olio su tela, cm 149,5×120,5. Oslo, Munchmuseet.

Karl Johan [→ p. 142] e L’urlo [→ p. 146] – secondo un ordine volto a esaltare l’aspetto sentimentale dei temi e la musicalità delle linee.

Ispirato al pensiero del compositore Richard Wagner, un tale allestimento mirava all’opera d’arte totale. Articolato su quattro pareti contigue, il Fregio della vita sviluppava i temi portanti della poetica munchiana: “Il risveglio dell’amore”, “Sviluppo e dissoluzione dell’amore”, “Angoscia di vivere”, “Morte”. Il tutto diventava una sorta di confessione privata pubblicamente esibita: la rivelazione dei propri e più reconditi turbamenti interiori.

In Angoscia 57, a percorrere il ponte sul fiordo è la stessa folla attonita che abbiamo già incontrato in Sera sul viale Karl Johan: l’alienazione torna come dramma collettivo, sconfinante nell’individualismo esasperato e nella incomunicabilità reciproca. Ma ad accomunare le due opere non sono solo il contesto ambientale e l’accusa nei confronti della società contemporanea: esse dimostrano anche il ricordo delle sperimentazioni postimpressioniste di Gauguin e van Gogh nell’uso del colore quanto il legame con il linearismo tipico, come vedremo, delle Secessioni. Com’è consueto in Munch, inoltre, il soggetto venne affrontato, oltre che in pittura, nella grafica.

Dopo una acuta crisi nervosa, nel 1908 Munch si ritirò a vivere in Norvegia. Nella tenuta di Ekely, presso Oslo,

continuò a dipingere in completa autonomia, riservando gli incontri solamente a modelle e amici intellettuali. In oltre trent’anni di isolamento volontario, Munch rimase costantemente aggiornato sugli sviluppi delle coeve vicende artistiche, specie quelle di area germanica. Per la libertà delle pennellate, il ricorso a colori complementari e la resa sintetica delle forme, il suo linguaggio rivelava esplicite tendenze verso l’Espressionismo [→ p. 188], al quale tuttavia egli non volle mai aderire formalmente. La rappresentazione del sé, al centro di tutte le stagioni della ricerca munchiana, negli ultimi anni norvegesi divenne un tema ossessivamente frequentato. Dipinto tra 1940 e 1944, Autoritratto tra l’orologio e il letto è una delle prove più importanti del periodo 58. Munch appare in piedi, impietosamente descritto nella propria decadenza fisica, tra un orologio e il letto: ovvero, metaforicamente, tra l’inesorabile scorrere del tempo e l’allusione al sonno eterno. Non sta facendo nulla: semplicemente attende l’ora fatale, destinata a raggiungerlo nel 1944. All’indomani della morte, nel suo studio furono trovati oltre mille dipinti, numerosissimi disegni, acquerelli, opere grafiche, quaderni di appunti e matrici in legno. Era il prezioso patrimonio lasciato in eredità alla città di Oslo, che nel 1963, in occasione del centenario della nascita del pittore, inaugurò il Munchmuseet.

L’urlo

Sfruttato all’inverosimile dall’industria editoriale e pubblicitaria, L’urlo è diventato un’icona dell’arte contemporanea 60. Si tratta del dipinto più celebre di Munch, quello che meglio ne riassume l’identità di artista. Sebbene ambientato nella località di Nordstrand, presso Oslo, il dipinto venne realizzato a Berlino nel 1893, dove il pittore si era trasferito a seguito della mostra al Verein Berliner Künstler rimanendovi per oltre un decennio, salvo il biennio trascorso a Parigi nel 1895-1896 e i successivi viaggi in Norvegia e in Italia. Fu lui stesso a ricordarne la genesi nei propri diari: «Camminavo lungo la strada in compagnia di due amici, il sole calava, il cielo divenne improvvisamente rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai contro un parapetto, stanco da morire, sulla città e sul fiordo di un blu scuro, c’erano sangue e lingue di fuoco, i miei amici si allontanavano, io tremavo di angoscia, e sentii un urlo infinito attraversare la natura».

Un simbolo del dolore del genere umano • Sulla tela gli elementi del racconto di Munch assumono l’evidenza di un incubo. I due amici diventano presenze minute e distanti, mentre il protagonista in primo piano si protegge dall’urlo cosmico che travolge cielo e paesaggio; i colori sono fiammanti e tra loro complementari. La visione di

in para LL e L o

L’urlo del Laocoonte

L’urlo di Edvard Munch è una delle immagini più iconiche del nostro tempo: un cielo minaccioso percorso da pennellate di accesi colori, il fiordo che scorre livido fra rive evanescenti, un uomo sul ponte in preda a solitaria disperazione. La bocca aperta in un urlo che ci echeggia dentro. La composizione pittorica si spiega con l’esperienza personale descritta dallo stesso artista. Eppure, secondo Gösta Svenaeus, L’urlo ha un’altra componente: è la risposta a un’opera di 1900 anni prima, il Laocoonte (circa 40-20 a.C.) 59, possente figura di un padre doloroso che incombe sui figli inermi, avvolti, come lui stesso, dalle spire mortali di serpenti. Il Laocoonte fu, nel Rinascimento e nel Barocco, il supremo exemplum doloris, spesso usato a modello per la Passione di Cristo. La fama del Laocoonte era tanta

Munch appare distorta, sovverte le convenzioni rappresentative: l’immagine della realtà interiore sostituisce infatti quella esteriore.

Nonostante l’origine autobiografica del dipinto, la figura che ci guarda terrorizzata non corrisponde al ritratto dell’artista ma piuttosto all’essenza del genere umano. Ciascuno può riconoscersi in quella figura talmente semplificata e priva di attributi che non sapremmo veramente dire se si tratti di un uomo o di una donna. Come ha ipotizzato lo storico Robert Rosenblum, per dipingerla Munch si ispirò a reperti delle civiltà precolombiane conservate nel parigino Musée de l’Homme, e in particolar modo a una mummia peruviana raccolta in posizione fetale e con le mani all’altezza del capo, in tutto simile al gesto del personaggio dipinto 61. Come nei drammi del compatriota Henrik Ibsen (1828-1906) e dello svedese Johan August Strindberg (1849-1912), l’angoscia personale diventa emblema del dolore universale: L’urlo si tramuta così nel manifesto del Simbolismo nordico.

Oltre all’esemplare conservato alla Galleria Nazionale di Oslo, dell’Urlo esistono altre tre versioni. Munch lavorava infatti per cicli, affrontando l’identico soggetto in pittura e nella grafica, ripetendolo in maniera fedele oppure apportando lievi varianti.

che autori come Lessing, Winckelmann, Goethe, Schopenhauer discussero animatamente intorno a una questione insolubile: Laocoonte sta gridando di dolore, o no? Per Winckelmann quello del Laocoonte può essere solo un urlo trattenuto (urlare sarebbe al di sotto della sua dignità), per Lessing rappresentare un urlo andrebbe oltre l’ambito delle arti visive.

confronta

La manifestazione del dolore nell’arte – e nella comunicazione per immagini – dev’essere l’esplosione dell’io in un grido incontenibile o invece la forza spirituale che domina ogni manifestazione esteriore? Discutine in classe.

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LettUra gUidata E. Munch, L’urlo

59 Agesandro, Atenodoro e Polidoro, Laocoonte, particolare, ca 40.-20 a.C., marmo. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
60 Edvard Munch, L’UrLo, 1893, olio, tempera e pastello su cartone, cm 91×73,5. Oslo, Nasjonalmuseet.
61 mUmmia chachapoya, XV secolo. Parigi, Musée de l’Homme.

James Ensor

Come Munch, il pittore belga James Ensor (1860-1949) ricorse al grottesco e al dissacrante per ritrarre la borghesia del tempo. Nato nel 1860 nella cittadina portuale di Ostenda da un ingegnere inglese, Ensor trascorse l’adolescenza nella bottega di souvenir gestita dalla madre, a contatto con maschere e cineserie. Fin dagli anni del liceo frequentò corsi di disegno, finché nel 1877 si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Bruxelles. Strinse amicizia con l’ambiente artistico e con il fisico Ernest Rousseau, che lo introdusse negli ambienti anarchici della capitale. Poco avvezzo alla vita mondana, tre anni dopo Ensor lasciò l’Accademia per tornare a Ostenda dove, salvo episodici soggiorni a Parigi e a Londra, trascorse il resto della propria esistenza in fiera solitudine.

Le maschere scandalizzate • L’ambiente familiare ne influenzò le prime opere: vedute portuali, bevitori, nature morte stipate di conchiglie, ventagli e porcellane. Per i toni ombrosi e i soggetti dimessi, gli studiosi definiscono tale stagione “periodo scuro”. Le maschere scandalizzate (1883) 62 è significativo perché introduce soluzioni poi divenute consuete. Una donna si affaccia a un umile interno domestico e trova nella penombra un uomo in compagnia della propria bottiglia. Potrebbe sembrare una tradizionale scena di genere, eppure le maschere e lo strumento minaccioso fanno presagire un ulteriore significato. Il dipinto inaugurò una nuova fase di ricerca: da allora, Ensor rappresentò

un’umanità travestita nei modi più stravaganti, una società composta di pagliacci, scheletri e demoni 6364, ricollegandosi alla pittura di costumi popolari fiamminga, in primis quella cinquecentesca di Pieter Brueghel. Rispetto alla cultura dominante, Ensor riabilitò riti folkloristici e carnevaleschi al fine di descrivere le pulsioni più recondite dell’essere umano. Le fisionomie inquietanti e grottesche gli permisero, inoltre, di schernire la natura ipocrita della nuova classe dominante, la borghesia.

La Société des Vingts • Nel 1883 il Salon annuale dell’Accademia di Belle Arti di Bruxelles rifiutò i dipinti di Ensor e di altri diciannove colleghi. La schiera di giovani artisti non si abbatté: su esempio di Parigi, essi fondarono la Société

62 James Ensor, Le maSchere ScandaLizzate, 1883, olio su tela, cm 135×112. Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique.

63 James Ensor, L’intrigo, 1890, olio su tela, cm 90×149. Anversa (Belgio), Koninklijk Museum voor Schone Kunsten.

64 James Ensor, LeS maSqUeS SingULierS, 1892, olio su tela, cm 100×80. Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique.

6566676869

James Ensor, L’entrata di criSto a BrUxeLLeS

neL 1889, 1888, olio su tela, cm 252,6×431. Los Angeles (California), J. Paul Getty Museum. Intero e particolari.

des Vingts, inaugurando il proprio Salon l’anno successivo.

L’associazione – che oltre a Ensor comprendeva tra gli altri il fondatore Octave Maus e Fernand Khnopff – si contraddistinse per il puntuale aggiornamento sulle ultime tendenze francesi, favorendo la diffusione dell’Impressionismo e del Postimpressionismo in Belgio.

L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889 • Al V Salon des Vingts

Ensor inviò il capolavoro da lui appena concluso: L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889 65. Considerato irrispettoso della morale comune, esso venne rifiutato dalla stessa Société di cui l’artista era parte. Il proposito di Ensor non era però dipingere un’opera blasfema, e fin dal titolo egli si premurò di accentuare i legami con l’attualità. La vasta tela va letta come una premonizione del successivo martedì grasso e come ideale celebrazione del centenario della Rivoluzione francese. Ensor sacrificò volutamente visione prospettica e precisione del disegno a favore di una composizione disorientante e cromaticamente rutilante, così da accrescere il portato emozionale del dipinto. L’ambiente è sovraccarico: palazzi e strade vengono com-

pletamente celati dai manifestanti, mentre il vescovo in primo piano guida una processione reboante di personaggi mascherati 6667, in molti dei quali si riconoscono notabili dell’epoca. Il disordine sembra placarsi solo al centro della composizione, dove si incontra la figura di Cristo 68 circondata da una aureola troppo grande per la sua minuta persona. Praticamente ignorato dalla folla acclamante, il protagonista è collocato sotto un immenso striscione con la scritta “Vive la sociale” e, tra tanti stendardi 69, alla sua sinistra spicca la bandiera francese. Così facendo l’artista marcò la corrispondenza tra Messia e Rivoluzione: con la sua venuta, egli avrebbe finalmente riparato alle secolari disuguaglianze sociali. La scena possiede però anche un altro significato: nel volto di Cristo – il solo a non indossare una maschera – gli storici hanno infatti riconosciuto un autoritratto di Ensor. L’isolamento della figura sacra alluderebbe allora all’emarginazione dell’artista dalla collettività, all’incomprensione generata dalle sue opere. In ogni caso, la presenza di Cristo a contrasto con la folla dei mascherati prende l’aspetto di una critica radicale di una società secolarizzata che si nutre di apparenze e finzioni.

La Secessione viennese

Vienna, aprile 1897: con una lettera del pittore Gustav Klimt (1862-1918) nasceva la Secessione, un gruppo di artisti che si separavano dalla Künstlerhaus, l’associazione ufficiale degli artisti viennesi, per «portare la vita artistica viennese in un rapporto vitale con l’evoluzione dell’arte estera e proporre delle esposizioni dal puro carattere artistico libere dalle esigenze del mercato». Per quanto in conflitto con i cultori della tradizione accademica, i secessionisti stimolarono l’interesse degli ambienti ufficiali. Fu così che nel marzo 1898, alla presenza dell’imperatore Francesco Giuseppe, si inaugurò la prima mostra della Secessione. L’evento riscosse un successo clamoroso: la strada della modernità poteva dirsi tracciata.

Klimt, Pallade Atena • Una donna schermata da elmo e corazza dorati, dallo sguardo magnetico e lunghi capelli rossi sciolti ai lati del gorgoneion (il pendente che raffigura la testa della Gorgone) è identificata dalla scritta sulla cornice metallica, Pallade Atena (1898) 70. Esposta da Klimt alla seconda mostra secessionista, l’opera era emblematica della nuova tendenza. Un precedente si riconosce nella Pallade Atena di von Stuck 71, sia per l’iconografia sia per le simbologie nascoste: la più evidente si scorge sullo sfondo, nello scontro tra Eracle e il Tritone quale allusione del conflitto tra l’uomo e la natura selvaggia. Per le figure di Eracle, Tritone e della Gorgone sul petto di Atena, Klimt si rifà all’arte greca arcaica, mentre la donna sorretta con la destra dalla dea è un minuscolo nudo femminile con pube e capelli fulvi. Si tratta della Nuda Veritas, che l’anno seguente Klimt avrebbe tradotto in un dipinto a olio di grande formato 72. L’inserzione

conferisce una nota sensuale e carnale: Pallade Atena è sì l’emblema di ragione e verità, ma rappresenta anche la donna sensuale, un tema destinato a diventare centrale nella pittura klimtiana.

I riferimenti all’arte greca, la perentorietà della figura sbalzata sul primo piano, la profusione di metalli dorati, l’inusuale formato quadrato del dipinto, la concezione di un’opera unitaria, garantita da una cornice creata dal fratello Georg su disegno di Klimt stesso: i caratteri innovativi di Pallade Atena contraddistingueranno molti dei futuri lavori secessionisti. Similmente a quanto accadeva a Monaco, pittori, scultori, architetti possedevano linguaggi autonomi, ma erano accomunati dalla volontà di modernizzare la scena culturale viennese, avviando scambi frequenti con altri Paesi, specie con i simbolisti francesi e nordici.

Caratteri comuni ai secessionisti viennesi • Nominato presidente nel 1897 e rimasto in carica sino al 1905, Klimt fu la personalità dominante della Secessione, determinandone lo stile, i cui caratteri risultano per molti versi assimilabili all’Art Nouveau [→ p. 164].

Attentissimi alla propria immagine pubblica, tra 1898 e 1903 i secessionisti pubblicarono la rivista «Ver Sacrum» (cioè “Primavera sacra”). Il titolo latino alludeva alla cerimonia romana volta ad allontanare le calamità naturali grazie all’offerta del raccolto primaverile e al sacrificio del bestiame. Per ben novantasei numeri, i contributi di critici e artisti intrecciati a un ricco apparato grafico difendevano ideali e ambizioni del movimento. Il formato quadrato, i caratteri tipografici, il rapporto nuovo e

70 Gustav Klimt, paLLade atena, 1898, olio su tela, cm 75×75. Vienna, Historisches Museum der Stadt.

71 Franz von Stuck, paLLade atena, 1898, olio su tela, cm 30,5×27,3. Schweinfurt (Germania), Museum Georg Schäfer.

72 Gustav Klimt, nUda VeritaS, 1899, olio su tela, cm 244×56,5. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Theatermuseum.

sperimentale tra testo e immagine, le decorazioni lineari ispirate a motivi floreali e alle ornamentazioni classiche: ogni fascicolo di «Ver Sacrum» appariva come un’opera d’arte autonoma 7374

Un tempio moderno per l’arte • Tra 1897 e 1905 la Secessione ordinò oltre venti esposizioni per diffondere la moderna pittura viennese e la conoscenza delle novità straniere: von Stuck, Böcklin, Munch, Toulouse-Lautrec, Rodin [→ p. 160], Segantini [→ p. 156], ma anche l’Impressionismo e la grafica giapponese.

Sin da principio, però, Klimt e colleghi considerarono le strutture tradizionali inadeguate al compito e decisero di fondare un proprio edificio, estraneo allo stile eclettico

che distingueva l’assetto urbanistico della città. Inaugurato nel novembre 1898 dopo solo un anno di lavoro, il Palazzo della Secessione 76 di Joseph Maria Olbrich (1867-1908) rispondeva a entrambi i propositi.

Allievo di Otto Wagner [→ p. 175] e scrupoloso conoscitore dell’architettura greco-romana, il suo ideatore puntò sulla rigorosa pulizia formale e sulla sobrietà dell’apparato decorativo. Lo stabile si presenta come un innesto di volumi regolari, tali da formare un blocco compatto con una pianta prossima alla croce greca 75 Mentre le pareti laterali sono scandite da finestre rettangolari, la linearità della facciata è interrotta dall’ingresso arretrato, sormontato da una sorta di frontone rettangolare che racchiude, tra quattro prismi quadrangolari, una cupola in fil di ferro e rivestita da un intreccio di foglie metalliche dorate. Anche Klimt collaborò al progetto iniziale, forse prevedendo la decorazione pittorica della facciata, poi ornata solo con un fregio floreale. Sempre a lui si devono le tre Gorgoni che sovrastano l’entrata e le civette, simbolo della dea Atena, disseminate lungo le pareti laterali. Ma l’aspetto più originale del Palazzo riguarda l’ambiente interno: unico e liberamente trasformabile grazie alle pareti mobili che consentivano di allestire lo spazio in base alla mostra in agenda. Olbrich riuscì a fondere il magistero classico con le esigenze della museografia moderna che la Secessione stessa stava per la prima volta individuando. Il risultato fu la creazione di un tempio moderno per l’arte.

75 pianta deL paLazzo deLLa SeceSSione.

76 Joseph Maria Olbrich, paLazzo deLLa SeceSSione, 1897-1898. Vienna.

7374 Le copertine dei primi dUe nUmeri deLLa riViSta «Ver Sacrum», gennaio e FeBBraio 1898.

Gustav Klimt

Quando, nel 1897, fondò la Secessione viennese, Gustav Klimt era un artista trentacinquenne stimato nell’ambiente accademico. Nato in un sobborgo di Vienna da una famiglia di orafi, a quindici anni si era iscritto alla Scuola d’Arti applicate del Museo dell’Arte e dell’Industria. Ultimati gli studi nel 1883, aveva fondato con il fratello Ernst e il collega Franz Matsch una piccola società impegnata nella decorazione di palazzi pubblici secondo lo stile storicista. Nel 1886 i tre ottennero la prima commissione importante: la decorazione del nuovo Burgtheater. Klimt dipinse le due volte d’ingresso e tre ampi scomparti del soffitto centrale. Apollo e Dioniso, il Teatro di Taormina, il Carro di Tespi 77, lo shakespeariano Globe Theatre: già i titoli indicano il carattere letterario delle composizioni, tutte basate sul prodigioso effetto illusionistico.

Dalla Secessione alla stagione aurea • Con la morte del fratello Ernst nel 1892, Klimt precipitò in una profonda crisi: ne sarebbe uscito solo tre anni dopo, orientando la propria ricerca verso temi e linguaggi marcatamente simbolisti. La Pallade Atena del 1898 fu uno dei primi esempi del nuovo corso. Nel 1901, affrontando il tema biblico di Giuditta e Oloferne 78, l’artista riprese il motivo simbolista della donna seduttrice e crudele, trasformando tuttavia la sua eroina in un inno alla sensualità femminile. La vedova di Betulia ha da poco liberato il popolo di Israele, ma invece di esibire la testa mozzata del generale assiro – appena visibile nell’angolo inferiore destro della tela –ostenta tutta la propria conturbante bellezza. Indossa un collare d’oro e gemme che, separando il viso dal resto del corpo, sembra alludere al gesto tragico appena compiuto. Lo sguardo languido, le labbra dischiuse, la nudità solo parzialmente celata sono indice di un atteggiamento provocante accentuato dalla visione dal basso. La naturalezza del ritratto e il gioco di velature, grazie al quale Klimt ottenne la trasparenza delle vesti, risultano tanto più impressionanti a fronte del paesaggio stilizzato sullo sfondo, tratto da un rilievo assiro di Ninive. Nell’opera,

infine, l’autore approfondì scelte espressive già adottate nella Pallade Atena: disegnò la cornice in legno ornandola con motivi a spirali e ricorse abbondantemente all’oro, applicato a foglia nello sfondo vegetale, nelle decorazioni dell’abito, nei gioielli. L’interesse di Klimt per il metallo prezioso aumentò dopo il soggiorno a Ravenna del 1903. Incantato dalla tecnica del mosaico e dall’uso dell’oro come mezzo per trasfigurare la realtà, egli ne sperimentò le texture così da conferirgli un valore decorativo e al contempo strutturale, dando vita a capolavori come Il bacio [→ p. 144]. Si parla, dal 1901 circa, di stagione aurea. La sua conclusione si può collocare attorno al 1909 circa, quando Klimt dipinse la seconda versione di Giuditta 79 Di profilo e seminuda, l’eroina è costretta in un formato vertiginosamente allungato in cui l’oro è pressoché soppiantato da toni neri e aranciati. Lo sguardo assente e la nervosa presa delle mani ne tradiscono lo stato di tensione erotica trasformandola nella libidinosa Salomè, titolo con il quale lo stesso Klimt indicò l’opera in svariati cataloghi.

77 Gustav Klimt, carro di teSpi, 1884-1887, affresco. Vienna, Burgtheater.

78 Gustav Klimt, giUditta i, 1901, olio su tela, cm 84×42. Vienna, Österreichische Galerie Belvedere.

preSentazione

G. Klimt

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Art il quadro Nuda

Veritas di Klimt e prova ad analizzarlo cogliendo gli aspetti caratterizzanti lo stile dell’artista.

79 Gustav Klimt, giUditta ii (SaLomè), 1909, olio su tela, cm 176×46. Venezia, Galleria d’Arte Moderna Ca’ Pesaro.

80 Gustav Klimt, ritratto di Fritza riedLer, 1906, olio su tela, cm 153×133. Vienna, Österreichische Galerie Belvedere.

81 Gustav Klimt, ritratto di adeLe BLoch-BaUer i, 1907, olio, argento e oro su tela, cm 140×140. New York, Neue Galerie New York.

79 81 80

Esposta con altri ventuno dipinti nella sala dedicatagli dalla Biennale di Venezia del 1910, Giuditta II venne acquistata dal Comune ed è oggi conservata al Museo di Ca’ Pesaro.

I ritratti • Klimt fu un ritrattista conteso, che riservava il proprio interesse al genere femminile. Fritza Riedler, moglie di un facoltoso ingegnere meccanico, appare in un dipinto del 1906 8 0 . Siede con un vaporoso abito bianco su una poltrona decorata a motivi astratti, tradendo l’imbarazzo per la lunga sessione di posa. Come negli altri ritratti della stagione, volto e mani della donna, del tutto realistici, contrastano con lo sfondo astratto nel quale la scena è ambientata. Dietro al volto della protagonista,

una forma semiovoidale composta di tasselli geometrici assolve il duplice scopo di esaltarne sobrietà e intelligenza, e di richiamare la tradizione dei mosaici medievali studiati dall’artista durante i soggiorni italiani. Le piastrelle quadrate galleggianti sulla parete e quella di maggiori dimensioni incastonata nello zoccolo nero, infine, contribuiscono all’armonia della composizione godendo al contempo di autonomia. La ripetizione insistita del medesimo elemento decorativo e il formato pressoché quadrato della tela rivelano il carattere modulare della forma geometrica tipico dello stile secessionista. Tale schema fu ripreso in uno dei dipinti più noti della stagione aurea, il Ritratto di Adele Bloch-Bauer 81

La mostra di Beethoven • Allestita dall’architetto Josef Hoffmann nell’aprile 1902, la quattordicesima mostra della Secessione venne dedicata a Ludwig van Beethoven. Al centro del salone troneggiava una scultura in avorio, marmo, bronzo e pietra raffigurante l’apoteosi del compositore 82. Max Klinger vi lavorò tra 1897 e 1902, dopo aver conosciuto a Berlino l’archeologo tedesco George Treu che aveva compiuto studi sulla scultura policroma di epoca classica e lo fece appassionare al tema. E proprio all’antica statua crisoelefantina di Zeus, opera di Fidia, già a Olimpia, sembra essersi ispirato l’artista per l’impiego di materiali diversi e per la posa di Beethoven, seduto su un alto podio con dinanzi un’aquila reale. Insieme alla citazione dal colosso di Fidia, Klinger riprese anche l’immagine del Prometeo liberato da lui realizzata nel 1894 e basata sulla teoria nietzschiana del superuomo: come il titano, Beethoven impersonava il genio capace di riscattarsi dalla tragica esistenza terrena attraverso l’arte. Tale lettura pervadeva l’intero assetto espositivo curato da Hoffmann sin nei dettagli: dagli arredi alle decorazioni fino alle opere dei ventuno espositori. Diretta dal compositore Gustav Mahler, l’esecuzione dell’Inno alla gioia il giorno dell’apertura contribuì a fondere esperienze figurative e musicali: l’opera d’arte totale era l’obiettivo dei secessionisti.

Oltre al Beethoven di Klinger, nella mostra spiccava il fregio dipinto da Klimt sulle tre pareti della sala laterale a sinistra dell’entrata. Si trattava di una interpretazione in chiave allegorica della Nona sinfonia, presentata sinteticamente in catalogo e basata sugli scritti di Richard Wagner relativi al compositore tedesco. Klimt avrebbe infatti riferito all’ultimo pannello del fregio la citazione

82 Max Klinger, StatUa di BeethoVen, 1902, marmo, bronzo, ambra, avorio e mosaico, altezza complessiva cm 310. Lipsia (Germania), Museo di Belle Arti.

83 Gustav Klimt, L’aneLito aLLa

FeLicità: iL caVaLiere in partenza protetto daLLe mUSe, particolare dal Fregio di BeethoVen, 1902, colori alla caseina e tecnica mista su intonaco, cm 220×2400. Vienna, Palazzo della Secessione.

84 Gustav Klimt, L’oStiLità deLLe Forze

aVVerSe, particolare dal Fregio di BeethoVen

85 Gustav Klimt, La FeLicità raggiUnta:

L’inno aLLa gioia

e gLi amanti, particolare

dal Fregio di BeethoVen

evangelica «Il mio regno non è di questo mondo», che proprio Wagner aveva precedentemente impiegato per Beethoven.

Il presidente della Secessione riprese la lettura superomista con enfasi ancora maggiore rispetto a Klinger, rappresentando la redenzione dell’anima dalla corruzione umana, e dunque il potere salvifico della musica, alla stregua del rapporto uomo-donna. Bardato di un’armatura aurea e affiancato da due figure inginocchiate, il Cavaliere 83 si accinge a superare le difficoltà psichiche e carnali che lo separano dalla Poesia, la sinuosa suonatrice di lira con la quale alla fine si abbandonerà in un amoroso abbraccio. Nel pannello centrale, il mostruoso gigante Tifeo allude all’ottusità mentale contro la quale deve battersi l’artista durante la sua intera esistenza 84. Le tre Gorgoni, simbolo di malattia, follia e morte alla sua destra; le personificazioni di incontinenza, voluttà

e lussuria, a sinistra, e la solitaria figura dell’angoscia identificano invece un malvagio universo femminile. Il riscatto avviene nei tre episodi finali: L’anelito alla felicità si placa nella poesia, Coro dell’inno alla gioia e Gli amanti 85 conducono Cavaliere e spettatore verso il ricongiungimento tra sfera terrena e spirituale.

Sebbene collocato a un’altezza elevata, il Fregio di Beethoven dovette sorprendere quanti nell’aprile 1902 si recarono al Palazzo della Secessione per la preziosità dei materiali e l’estremo decorativismo, aspetti che rendono l’opera emblematica della stagione aurea di Klimt. La raffigurazione della duplice natura femminile, l’elegante alternarsi lungo ventiquattro metri di porzioni lasciate pressoché intonse e campiture dorate, i fitti motivi ornamentali, le fisionomie stilizzate dei protagonisti ne fanno un esempio dello stile diffusosi a livello internazionale con il nome di Art Nouveau [→ p. 164]. 84

Il Divisionismo

Nell’aprile 1891 si inaugurò presso l’Accademia di Brera la prima Triennale d’Arte di Milano, sollevando un clamore irrituale: pur mancando di programmi ufficiali, un gruppo di artisti poco più che trentenni manifestava una sensibilità nuova, estranea sia al Naturalismo di stampo sociale sia all’illustrazione storicista.

Previati, Maternità • Dipinta tra 1890 e 1891, Maternità di Gaetano Previati (1852-1920) fu l’opera più discussa 86 «Un ricamo di lana svanito nei colori» la definì un cronista, alludendo agli effetti luministici in cui i suoi protagonisti sembrano dissolversi. La scena è ambientata all’alba su un prato incontaminato: la Vergine allatta il Bambino circondata da un coro di angeli adoranti. Simboli di fecondità e purezza, i frutti appesi all’albero e i gigli sul prato non alludono solo alla Vergine ma, più in generale, alla donna. Il dipinto – come riconobbe l’unico difensore di Previati, il pittore, critico e mercante Vittore Grubicy de Dragon – è «una specie di visione complessiva, fluttuante, sintetica, di forme e di colori, che lasciano appena intravedere il simbolismo o ideismo musicale e quasi sopraterreno». E proprio Grubicy, in continuo scambio con gli ambienti europei, divenne il principale teorico e promotore del Divisionismo, che si distingueva per la “divisione cromatica”: lunghe e sinuose pennellate di colore puro nettamente separate le une dalle altre. L’effetto complessivo era quello di una superficie modulata dalla luce, rifrangente e in continua pulsazione. Ma non mancavano i rimandi al linearismo e alle soluzioni decorative delle secessioni mitteleuropee, diffuse in Italia specie grazie alla Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, la cui prima edizione data al 1895.

Segantini, Le due madri • Una madre assopita su uno sgabello regge il bimbo in grembo. Al suo fianco, una giovenca china sopra la mangiatoia e un vitellino che riposa a terra 87. Ambientata in una stalla di notte, la scena è illuminata dalla luce soffusa di una lampada che esalta i tratti gentili, quasi correggeschi, della donna. Anche Le due madri del trentino Giovanni Segantini (1858-1899) fu esposto alla Triennale del 1891 e dipinto con tocchi rapidi, sovrapposti direttamente sulla tela, così da suggerire la consistenza grezza degli abiti, la secchezza del fieno, il manto ispido degli animali. Come lui, inoltre, Segantini volle restituire il valore assoluto della maternità, con l’equivalenza tra donna e mucca sottolineata dall’armonia cromatica e compositiva dell’insieme. A differenza della tela di Previati, Le due madri venne però lodata dalla critica per il suo naturalismo. Il legame con la realtà, d’altra parte, rimase centrale in Segantini: paesaggi colti dal vero diventavano “pittura di idee”, allegorie della caducità della vita e dei misteri amorosi.

Uomo e natura • Originario di Arco di Trento (allora sotto il dominio austriaco) e presto rimasto orfano, Giovanni Segantini crebbe nel riformatorio Marchiondi di Milano, città dove successivamente frequentò i corsi di pittura all’Accademia di Brera. Anche nel suo caso fu decisivo l’incontro con i fratelli Grubicy: Vittore lo indirizzò allo studio di Millet e del Postimpressionismo. La ricerca imperniata sul rapporto tra uomo e natura lo allontanò dalla vita cittadina: al principio degli anni Ottanta Segantini si trasferì con la famiglia prima in Brianza, poi in Engadina – una valle svizzera a nord della Lombardia – dedicandosi alla resa atmosferica del paesaggio alpestre.

86 Gaetano Previati, maternità, 1890-1891, olio su tela, cm 174×411. Novara, Banca Popolare di Novara (in comodato alla Galleria d’Arte Moderna di Milano).

87 Giovanni Segantini, Le dUe madri, 1889, olio su tela, cm 162,5×301. Milano, Galleria d’Arte Moderna.

88 Giovanni Segantini, Le cattiVe madri, 1894, olio su tela, cm 105×200. Vienna, Österreichische Galerie Belvedere.

Fonti e critica

G. Segantini,

Segantini, Le cattive madri • Nel 1889 lo scrittore Luigi Illica pubblicò Nirvana, poema di sua invenzione ma presentato come traduzione di un brano tratto da una saga buddista. Pur consapevole della finzione letteraria, tra 1891 e 1897 Segantini si ispirò al testo per realizzare quattro dipinti e due disegni oggi denominati nell’insieme “ciclo del Nirvana”. Tra questi, Le cattive madri 88 inscena la redenzione delle donne lussuriose: di quante, ovvero, si abbandonarono all’atto sessuale per puro piacere, interrompendo la gravidanza e quindi sottraendosi al naturale istinto materno. Il panorama innevato del passo Maloja diviene in uno straziante purgatorio. La peccatrice appesa all’albero è infatti colta nel momento in cui avverte il richiamo del bambino rifiutato in vita

e si ricongiunge a lui. All’orizzonte, il sorgere del sole prefigura la salvezza imminente.

La maternità è nuovamente il soggetto dell’opera, ma in un esempio di segno opposto, che restituisce il castigo per la donna che tradisce la propria missione terrena, la cura domestica e filiale, secondo un pensiero allora molto diffuso anche nei circoli simbolisti. Ma Le cattive madri documenta anche la maturazione stilistica dell’autore, avvertibile sia nella sapiente regia luministica – accentuata dalla polvere dorata mescolata ai pigmenti – sia nel linearismo tipico dell’Art Nouveau. Esposta a Milano nel 1894, l’opera ricevette giudizi negativi; quattro anni dopo venne acquistata dal governo austriaco nel corso della prima mostra della Secessione viennese.

«Per la purezza viva e ardente della forma»

Il Divisionismo sociale • Rispetto ai Simbolismi mitteleuropei, il Divisionismo italiano percorse anche una linea di carattere sociale, che mirava a illustrare le condizioni di vita e lavoro delle classi popolari. Nato a Volpedo in provincia di Alessandria, Giuseppe Pellizza (1868-1907) fu il principale rappresentante di tale corrente. Brillante studente all’Accademia di Brera, viaggiò nelle città italiane alla scoperta delle opere rinascimentali. A Firenze conobbe i macchiaioli. A Genova conobbe il pittore livornese Plinio Nomellini (1866-1943), il quale lo spinse al Divisionismo.

Il Quarto Stato • Nel 1898, tornato a Milano, Pellizza assistette alle ondate di scioperi brutalmente repressi dal generale Bava Beccaris (80 morti e centinaia di feriti), che lo indussero a confrontarsi pittoricamente con le tensioni sociali di quel tempo. Negli anni Novanta l’artista elaborò svariati studi e dipinti che avevano per soggetto

un’imponente marcia popolare: dagli Ambasciatori della fame del 1892 8 9 e Fiumana del 1895-1896 9 0 , fino al bozzetto Il cammino dei lavoratori, la cui versione finale, intitolata Il Quarto Stato 91 del 1901, venne acquistata nel 1920 dal Comune di Milano grazie a una sottoscrizione e successivamente donata alla cittadinanza. L’opera riassume gli ideali socialisti di Pellizza, e dunque l’auspicio di un’autoconsapevolezza dei lavoratori che sapesse tradurre la lotta di classe in movimento di massa. Il carattere impetuoso delle versioni precedenti lascia il posto a un atteggiamento pacato ma deciso: ambientato nel borgo natio dell’autore, i volpedesi avanzano lentamente, quasi fossero consapevoli di poter finalmente raggiungere la tanto agognata giustizia sociale. Procedendo dall’ombra alla luce, il cammino verso il “sole dell’avvenire” è suggerito anche dalle scelte cromatiche. Le tre figure alla testa del corteo simboleggiano tanto l’unione delle forze lavoratrici

LettUra gUidata
G. Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato

89 Giuseppe Pellizza da Volpedo, amBaSciatori deLLa Fame, 1892, olio su tela, cm 51,5×73. Collezione privata.

90 Giuseppe Pellizza da Volpedo, FiUmana, 1895-1896, olio su tela, cm 255×438. Milano, Pinacoteca di Brera.

91 Giuseppe Pellizza da Volpedo, iL qUarto Stato, 1898-1901, olio su tela, cm 283×550. Milano, Museo del Novecento.

92 Emilio Longoni, oratore deLLo Sciopero, 1890-1891, olio su tela, cm 193×134. Barlassina (Monza Brianza), Banca di Credito Cooperativo.

93 Angelo Morbelli, iL nataLe dei rimaSti, 1903, olio su tela, cm 61,7×110,8. Venezia, Galleria d’Arte Moderna Ca’ Pesaro.

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quanto di ciascuna età dell’uomo: rinascita (la donna con il bambino), maturità (il giovane al centro), esperienza (l’anziano). Pensata sull’esempio della raffaellesca Scuola d’Atene, la composizione si contraddistingue per l’omogeneità stilistica e cromatica, ravvivata solo alla fine da pennellate rapide e sinuose. E il gesto quasi oratorio che la madre proletaria fa con la sinistra dà al quadro il senso e le ambizioni di un manifesto politico.

Emilio Longoni • Come Pellizza, anche il lombardo

Emilio Longoni (1859-1932) puntò a conciliare resa del vero, tecnica divisionista e celebrazione degli ideali socialisti. Esposto insieme alle opere di Previati e Se -

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gantini alla Triennale di Milano del 1891, Oratore dello sciopero (1890-1891) 92 è un dipinto emblematico della sua ricerca ed evoca la consapevolezza conquistata dalla classe operaia. Aggrappato a un palo della luce, un operaio incita i compagni a reclamare più umane condizioni di lavoro. Il contrasto tra gli abiti logori del protagonista e la ricchezza della città più moderna d’Italia – Milano – è lampante: tra i grandi palazzi sullo sfondo, i tram continuano la corsa mentre la borghesia rimane indifferente agli scioperanti. Per stile e capacità di presentare le contraddizioni della società contemporanea, l’Oratore di Longoni divenne un riferimento importante per il giovane Boccioni [→ p. 224].

Angelo Morbelli • Alessandrino di nascita e formatosi presso l’Accademia di Brera, dove ebbe modo di conoscere Segantini, Previati e Longoni, anche Angelo Morbelli (1853-1919) fece dell’umanità umile il perno del proprio lavoro. Morbelli si confrontò soprattutto con le mondine delle aziende risicole lombarde e con gli anziani ricoverati presso il Pio Albergo Trivulzio di Milano: soggetti già affrontati dagli esponenti del Verismo, ma ora reinterpretati secondo le ultime ricerche ottiche. Il Natale dei rimasti (1903) 93 insiste sul desolante abbandono patito dagli ospiti del ricovero milanese: al freddo, senza affetti e reciprocamente indifferenti. Per questa e simili scene Morbelli ricorse anche a riproduzioni fotografiche, delle quali accentuava gli effetti luminosi grazie a una fitta teoria di tocchi di colore puro accostati sulla tela.

ripassa

• Quali sono i principali esponenti del Simbolismo francese e tedesco? Per che cosa si differenziano le due poetiche pittoriche?

• Quali vicende personali influenzarono la pittura di Edvard Munch? Perché per questo artista si parla di poetica dell’angoscia? Fai riferimento alle opere studiate.

• Descrivi lo stile e il soggetto dell’Urlo di Munch: a che cosa si ispirò il pittore per l’iconografia dell’opera?

• Qual è il tratto caratterizzante della pittura di Ensor?

• Che cosa sono le Secessioni? Quando cominciò quella viennese e per opera di chi?

• Quali sono le caratteristiche comuni ai secessionisti viennesi?

• Descrivi le opere studiate della stagione aurea di Klimt.

• Che cosa rappresenta e qual è il significato il Fregio di Beethoven? Dove fu eseguito?

• Illustra i caratteri stilistici e ideologici del Divisionismo.

La scultura tra i due secoli

Auguste Rodin

Il percorso di Auguste Rodin (1840-1917) matura in parallelo all’Impressionismo, in una stagione – seguita alla disfatta contro la Prussia nel 1870 – in cui lo Stato francese incrementò la committenza di monumenti pubblici per celebrare le glorie nazionali. Grazie a numerosi collaboratori, fu proprio lui ad assicurarsi molte di quelle commissioni pubbliche.

A Firenze, l’incontro con Michelangelo • Nato a Parigi nel 1840, già durante la formazione alla Petite École Rodin sviluppò un’ammirazione profondissima per Michelangelo e, nell’inverno 1875 – dopo averne studiato le opere conservate al Louvre – intraprese un lungo viaggio in Italia. Furono soprattutto le tombe medicee presso la fiorentina chiesa di San Lorenzo a impressionarlo. Lì comprese come la potenza delle sculture michelangiolesche dipendesse dalle continue tensioni provocate dalle singole parti: la torsione dei busti, il contrapposto tra testa e arti inferiori, gli angoli acuti generati da braccia e gambe flesse. Fu questo insegnamento a potenziare la sua naturale propensione per l’espressività del corpo umano.

L’età del bronzo • Tornato dal soggiorno italiano nel 1876, Rodin lavorò a un nudo maschile probabilmente iniziato prima della partenza 94. Si trattava di un’opera ambiziosa, concepita senza una commissione, nella quale la figura umana veniva ritratta a grandezza naturale. L’età del bronzo – questo il titolo assegnatogli in seguito – è un atletico personaggio maschile nudo colto in un gesto che non sapremmo dire se di muta disperazione o di risveglio dal torpore. L’artista si servì di un soldato ventiduenne come modello e non di un professionista, poiché questi gli avrebbe offerto pose convenzionali. Nelle palpebre calate come nel braccio alzato dietro la nuca forse va scorto un riflesso dallo Schiavo morente di Michelangelo conservato al Louvre, ma la scultura di Rodin non sembra alludere a nulla se non a un corpo che si esibisce in tutta la sua fisicità. Presentato nel gennaio 1877 al Salon di Parigi, il gesso de L’età del bronzo suscitò scandalo per il significato indecifrabile e per la verosimiglianza anatomica. Rodin venne accusato di plagio, ovvero di essersi servito di un calco in gesso direttamente eseguito sul corpo del modello. Dopo molte discussioni un’équipe di scultori comprovò la buona fede dell’artista e la scultura finalmente lo accreditò sulla scena parigina.

La Porta dell’Inferno • Nel 1880 L’età del bronzo, finalmente tradotta dal gesso in bronzo, venne acquistata dallo Stato per le proprie collezioni. La fama di Rodin crebbe notevolmente, e gli fu commissionata una porta monumentale per il nascituro Museo di Arti Decorative. Il Museo, in realtà, non sarebbe mai stato costruito (al suo posto venne edificata la stazione ferroviaria d’Orsay, oggi trasformata in museo) e l’iniziale tempo di esecuzione della porta monumentale, stimato in tre anni, si sarebbe dilatato a dismisura: sino alla morte nel 1917, Rodin lavorò incessantemente alla Porta dell’Inferno 95. L’artista non riuscì a vedere la fusione in bronzo che venne realizzata proprio in quell’anno, mentre in seguito ne furono ricavate ben cinque versioni.

Inizialmente il progetto prevedeva una partizione ordinata secondo il modello delle porte del Battistero di Firenze di Lorenzo Ghiberti. Presto tuttavia lo scultore decise di imprimere una maggiore complessità all’insieme: alla fine esso appare come una cascata di corpi intrecciati tra loro, gruppi di figure che spesso escono a tutto tondo dal piano, creando una superficie dall’incredibile dinamicità. In questo modo Rodin conciliava

94 Auguste Rodin, L’età deL Bronzo, 1877, fusione 1906 circa, bronzo, altezza cm 182,9. New York, Metropolitan Museum of Art.

95 Auguste Rodin, porta deLL’inFerno, 1880-1917, bronzo, altezza cm 635, larghezza cm 400, profondità cm 85. Parigi, Musée Rodin.

96 Auguste Rodin, Le tre omBre, prima del 1886, bronzo, cm 97×91,3×54,3. Parigi, Musée Rodin.

97 Auguste Rodin, iL penSatore, 1880-1881, bronzo, cm 182,9×98,4×142,2. Cleveland (Ohio), Museum of Art.

la forza e l’intensità delle anatomie michelangiolesche con l’epica propria della prima cantica dantesca e si proponeva di fondere il titanismo di Michelangelo con quello di Dante.

La pratica della replica • Colpisce, nella Porta dell’Inferno, l’idea di riproporre più volte le stesse figure. L’esempio più lampante si apprezza al culmine della porta, sopra l’architrave. Le tre ombre 9 6 sono la ripetizione di una stessa figura maschile nuda e muscolosa, con la gamba genuflessa e il busto proteso in avanti. Per lo scultore era abituale “reimpiegare” più volte le proprie idee in

contesti diversi. Non solo, egli era solito moltiplicare le proprie opere in più versioni che considerava originali a tutti gli effetti, come nel caso del celebre Pensatore 97; per queste operazioni Rodin si avvaleva sia di decine di collaboratori sia di apposite strumentazioni meccaniche. Si trattava di una pratica insolita per un’artista della modernità, tanto più interessante perché anticipatrice: destinata a diventare tipica, cioè, di tante esperienze artistiche del Novecento. Nel suo testamento, Rodin non solo lasciò la propria collezione e il suo studio allo Stato, ma concesse il diritto di riprodurre le sue opere anche dopo la morte.

LettUra gUidata
A. Rodin, Porta dell’Inferno

Medardo Rosso

Torinese di nascita ma trasferitosi a Milano con la famiglia ancora dodicenne, Medardo Rosso (1858-1928) intraprese l’attività di scultore a inizio anni Ottanta, mentre svolgeva il servizio militare. Congedato nel 1881, iniziò a esporre in mostre locali e nazionali. Parallelamente si iscrisse ai corsi di Nudo e Plastica dell’Accademia di Brera, dalla quale venne subito espulso per indisciplina. Frequentando i circoli scapigliati della città, Rosso aveva infatti maturato piena sintonia con gli ideali socialisti dei quali le sue prime prove conservano il riflesso. Giovani scapestrati, anziani, scaccini, prostitute: i personaggi ritratti davvero dichiaravano la sua adesione umana verso i più umili.

Tra gli esemplari riferibili a questa stagione figura La portinaia (1883-1884) 98. L’anziana signora, che realmente svolgeva tale mansione presso l’abitazione milanese di Rosso, è rappresentata con il mento reclinato sul petto, completamente avvolta in sé stessa. Non si trattava solo di una indagine psicologica: certo, l’artista desiderava cogliere lo stato d’animo della modella, ma anche fissare un istante, registrare le variazioni di luce e ombra sul suo volto. Attraverso la modellazione spezzata del gesso, Rosso ottenne un effetto atmosferico avvicinabile alla pittura impressionista.

Gli anni parigini • L’interesse verso il pittoricismo in scultura, almeno quanto la consapevolezza che Parigi fosse la capitale delle arti, spinsero Rosso a trasferirvisi nel giugno 1889. Qui il suo linguaggio raggiunse esiti estremi. In breve tempo, le sculture di Rosso iniziarono a essere considerate la declinazione plastica dell’Impressionismo. Lo si nota in Bambino alle cucine economiche 99:

il tema è ancora sociale (il titolo originale era Impressione di bambino in cerca di un boccone di pane) ma l’incompiutezza della scultura è accentuata in senso atmosferico.

L’Homme des courses • Risale al 1894 la piccola scultura di cera dal titolo L’Homme des courses 100: ritratto a figura intera dell’ingegnere civile Eugène Marin, proprietario della fonderia cui Rosso si rivolgeva per tradurre i gessi in bronzo. Con bastone, binocolo e bombetta, Marin assiste alle corse di cavalli presso l’ippodromo di Auteuil, dove spesso si recava in compagnia di Degas e dello stesso Rosso. Rispetto ai temi sociali caratteristici degli anni milanesi, lo scultore predilesse quindi un brano di vita quotidiana, lo svago di un borghese; non ci sono dunque accezioni negative, che invece gli vengono imputate a

98 Medardo Rosso, La portinaia, 1883 -1884, cera, cm 36,8×32. New York, Museum of Modern Art.

99 Medardo Rosso, BamBino aLLe cUcine economiche, ca. 1892-1893, cera gialla su supporto interno in gesso, cm 46×49×37. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.

100 Medardo Rosso, L’homme deS coUrSeS, 1894, cera, cm 44,3×33×35,5. New York, Museum of Modern Art.

Monumento a Honoré de Balzac di Auguste Rodin

Durante una delle numerose visite allo studio di Rosso, Rodin dovette ammirare L’Homme des courses traendone spunto per la soluzione finale del suo Monumento a Honoré de Balzac 101, inclinato all’indietro e irrigidito entro un lungo saio. L’episodio diede avvio a una querelle tra i due artisti destinata a proseguire negli studi degli storici dell’arte.

confronta

Confronta le due opere: in cosa è evidente il debito rodiniano? →

causa della scorretta traduzione del titolo in Bookmaker (“allibratore”) dovuta al critico Camille de Sainte-Croix (1901). Si trattava, in altre parole, di un soggetto in linea con quanto alle stesse date andavano dipingendo Manet, Degas, Toulouse-Lautrec e De Nittis. In questa scultura, tuttavia, oltre alla modernità della scena colpisce la modernità della resa. Il ricorso alla cera come rivestimento del gesso accentua infatti gli effetti luministici e le qualità pulviscolari dell’opera, quasi fosse stata direttamente realizzata en plein air; in definitiva, la cera era il mezzo per suggerire un perpetuo, pittorico non-finito.

La forte inclinazione del protagonista ne suggerisce invece il dinamismo: la fusione tra uomo e ambiente è tale che l’ingegnere sembra sul punto di sprofondare nel terreno. Infine, il punto di vista rigidamente frontale rende ancora più marcata l’ambizione pittorica dell’autore.

Rosso e la fotografia • Dopo aver modellato le proprie sculture, Rosso amava fotografarle, raggiungendo soluzioni davvero sperimentali anche attraverso la camera ottica 102. Sovraesposte o nella penombra, a luce radente o collocate in un preciso contesto ambientale: in ogni caso fissare l’immagine di un’opera significava verificare le sue qualità organiche e materiali, sprigionandone al contempo tutta l’energia interiore. Le fotografie scattate da Rosso non sono utili solamente per conoscere il suo punto di vista prediletto: esse consentono anche di vagliare l’indagine luministica perennemente condotta dallo scultore.

ripassa

• Quali sono i riferimenti artistici di Rodin? Che cosa rappresenta la Porta dell’Inferno?

• Perché per Medardo Rosso si può parlare di Impressionismo in pittura? Fai riferimento alle opere studiate.

102 Medardo Rosso, aUtoritratto neLLo StUdio di parigi, 1889. Collezione privata.
101 Auguste Rodin, monUmento a honoré de BaLzac, 1891-1898, fusione del 1954, bronzo, altezza cm 282. New York, Museum of Modern Art.

L’Art Nouveau

Insieme allo sviluppo scientifico-tecnologico e alla messa a punto di nuovi materiali costruttivi (ferro, cemento armato, vetro), la seconda Rivoluzione industriale ebbe anche delle ricadute negative, dal punto di vista sia sociale sia produttivo. Costretti a svolgere la stessa mansione per un numero esorbitante di ore giornaliere, gli operai iniziarono a vivere in modo alienato la propria attività lavorativa, mentre l’incremento degli oggetti prodotti in modo industriale e immessi nel mercato a prezzi modesti comportò la loro completa spersonalizzazione. Il primo ad accorgersi di tutto ciò fu l’inglese William Morris (18341896). Attraverso il movimento delle Arts and Crafts, egli provò a reagire alla situazione fabbricando manufatti di uso

103 William Morris, arazzo deL picchio, 1885. Londra, William Morris Gallery.

104 William Morris, green dining room, 1867. Londra, Victoria and Albert Museum.

105 Frank William Brangwyn, L’art noUVeaU, 1899, manifesto litografico, cm 79,8×53,2. Essen (Germania), Deutsches Plakat Museum –Museum Folkwang.

106 Otto Wagner, Stazione deLLa metropoLitana di KarLSpLatz, ca. 1900. Vienna.

107 Pietro Fenoglio, caSa FenogLio-LaFLeUr, 1902. Torino.

comune estremamente raffinati 103104, sottratti a una produzione seriale anonima ed esteticamente scadente.

L’Art Nouveau • Contro l’imperversare degli “stili” storici in architettura, nell’ultimo decennio dell’Ottocento si diffuse uno stile internazionale capace di conciliare il magistero di Morris con l’impiego di materiali moderni e con la produzione in serie. Definito Art Nouveau dal nome di un negozio parigino che vendeva arte giapponese e complementi d’arredo all’ultima moda 105, esso si distinse proprio per la raffinatezza della qualità artigianale e per il coinvolgimento di ogni genere di espressione figurativa: architetture pubbliche 1 0 6 e private 1 07 ,

preSentazione

L’Art Nouveau

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L’Art Nouveau in Europa

arredi 108, suppellettili 109, riviste, manifesti pubblicitari, abiti 110, insegne stradali, e naturalmente dipinti e sculture, superando la tradizionale distinzione tra arti “maggiori” e “minori”.

Dal punto di vista stilistico, oggetti ed edifici riconducibili a questa tendenza presentavano caratteri comuni ancora oggi facilmente identificabili: forme e ornamentazioni ispirate al mondo naturale, sia vegetale sia animale; ricorso alla linea flessuosa come simbolo di eleganza, energia e sensualità; profusione di elementi decorativi geometrici o biomorfici; stilizzazione e asimmetria delle composizioni. Ma proprio la ricercatezza espressiva e l’impiego di materiali metallici e vetro resero i prodotti dell’Art Nouveau estremamente costosi, e quindi destinati a una ristrettissima fascia di popolazione, tradendo l’obiettivo sociale del movimento di Morris.

La diffusione dell’Art Nouveau • Originari delle Fiandre, gli architetti e arredatori Victor Horta ed Henry van de Velde furono i primi a elaborare nei propri lavori i caratteri tipici dell’Art Nouveau, diventandone anche i principali teorici. Dal Belgio lo stile dilagò in tutta Europa. Art Nouveau in Francia, Jugendstil in Germania, Modern Style in Gran Bretagna, Modernismo in Catalogna: tanti appellativi corrispondono alle variazioni più o meno significative apportate in ciascun Paese.

Sebbene in ritardo, la tendenza si diffuse anche in Italia, dove venne definita Stile floreale o, più di frequente, Liberty, dal nome dei grandi magazzini londinesi aperti nel 1875 e specializzati in beni di lusso. In architettura i suoi principali rappresentanti furono il friulano Raimondo d’Aronco (1857-1932), che nel 1902 progettò il padiglione per l’Esposizione Universale d’arte decorativa di Torino 111, e il lombardo Giuseppe Sommaruga (1867-1917), il quale negli stessi anni, tra 1901 e 1903, fu incaricato dall’imprenditore Ermenegildo Castiglioni di costruire un imponente palazzo di famiglia nel cuore di Milano 1 1 2 , in cui l’ornamento si sposa a uno stile storicista ancora ottocentesco.

Grazie alla sua diffusione internazionale, il nuovo gusto della borghesia ebbe il merito di soverchiare l’eclettismo e i regionalismi architettonici allora ancora dominanti, manifestando invece delle tangenze con il linguaggio figurativo simbolista. Esso, inoltre, ebbe un’influenza sugli stili emersi negli anni Dieci: la stilizzazione delle decorazioni anticipò l’Astrattismo [→ p. 234], mentre l’accento sugli aspetti funzionali della progettazione venne ripreso dal razionalismo del Bauhaus [→ p. 254].

111

112

108 Alfons Mucha, BoUtiqUe FoUqUet, 1901. Parigi, Musée Carnavalet.
Raimondo d’Aronco, padigLione centraLe della Prima Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna di Torino, 1902. Opera distrutta.
Giuseppe Sommaruga, paLazzo caStigLioni, 1904. Milano.
109 Louis Comfort Tiffany, Lampada da taVoLo “WiSteria”, ca. 1901, vetro al piombo, bronzo patinato, altezza cm 68,6. Collezione privata.
110 Mariano Fortuny, aBito da Sera in raSo di Seta, 1910. Parigi, Les Arts Décoratifs.

L’Art Nouveau in Belgio

Victor Horta • Nato a Gand, Victor Horta (1861-1947) si formò presso la locale Accademia di Belle Arti, frequentando l’École des Beaux Arts a Bruxelles, città della quale contribuì a rinnovare il profilo urbano. Dopo una serie di modesti progetti abitativi, nel 1892-1893 egli realizzò il suo primo capolavoro: una casa su tre piani per lo scienziato Émile Tassel 113. Animata solo dal volume centrale aggettante e dalla convivenza tra il rivestimento in pietra e le strutture metalliche lasciate a vista, la facciata sobria dell’Hôtel Tassel viene contraddetta dall’interno esuberante. Horta rinnovò il modello tradizionale inserendo un vestibolo ottagonale all’ingresso, un elegante scalone e un’illuminazione naturale garantita dalla struttura in ferro e vetro che copre la parte centrale dell’edificio 114 L’impatto visivo è stupefacente: i pilastri portanti in ferro presentano capitelli a forma di corolla 115; il corrimano e la ringhiera, motivi a racemi ripetuti nella carta da parati, nei mosaici pavimentali e nelle vetrate 116

La Maison du Peuple • Per il connubio tra decorazioni dai lineamenti vegetali e impiego di materiali moderni, Horta trasse forse ispirazione dagli Entretiens sur l’architecture di Eugène Viollet-le-Duc, autore di riferimento per quanti provarono a sviluppare un linguaggio stilistico nuovo, basato sulla stretta corrispondenza tra funzione strutturale e piacevolezza decorativa. Più ancora che nell’Hôtel Tassel, Horta raggiunse tale obiettivo realizzando tra 1896 e 1899 la Maison du Peuple, sede del Partito socialista belga oggi demolita. Innalzato all’incrocio tra due strade radiali, l’edificio a quattro piani possedeva una facciata a curvature concave e convesse tali da modulare l’alternanza tra ferro, vetro e muratura 117. All’interno, gli ultimi

due piani erano invece riservati a un auditorium retto da un telaio in ferro che rendeva organico l’ambiente 118 In questo caso, l’importanza assegnata alla sinuosità della linea e alle soluzioni tecnico-formali d’avanguardia possedeva un significato ideale oltre che ornamentale: Horta alludeva alle aspirazioni di rinnovamento proprie della classe popolare accanto alla quale egli militava.

Henry van de Velde • Una fotografia pubblicata sulla rivista tedesca «Dekorative Kunst» nei primi anni del Novecento ritrae una donna di spalle appoggiata allo schienale di una sedia 119. La ricercatezza dell’inquadratura, il rimando tra la posizione della protagonista e il quadro sullo sfondo, gli spartiti di Wagner sul pianoforte: tutto lascia intuire la massima attenzione. Ci troviamo a Casa Bloemenwerf, abitazione di Henry van de Velde (1863-1957) da lui stesso progettata a Uccle, nei pressi di Bruxelles, tra 1894 e 1895 120. Oltre all’edificio, egli concepì l’arredo sino all’ultimo dettaglio e proprio quella fotografia rappresenta un ideale manifesto della sua poetica: ogni elemento, dalle sedie all’acconciatura, riflette le calibratissime scelte di van de Velde.

114 Sezione deLL’hôteL taSSeL

115116 Victor Horta, hôteL taSSeL, particolari della scala interna e di una vetrata.

113 Victor Horta, hôteL taSSeL, 1893. Bruxelles.

117 Victor Horta, maiSon dU peUpLe, 1896-1899. Bruxelles. Demolita nel 1965. Fotografia d’epoca conservata all’Horta Museum di Bruxelles.

118 Victor Horta, maiSon dU peUpLe, auditorium.

119 Henry van de Velde, FotograFia deLLa mogLie a caSa BLoemenWerF, ca. 1894-1895. Uccle (Bruxelles).

120 Henry van de Velde, caSa BLoemenWerF, 1895-1896. Uccle (Bruxelles).

121 Henry van de Velde, ScriVania, 1898-1899, legno di quercia, cuoio e ottone, cm 128×268×122. Parigi, Musée d’Orsay.

Un simile perfezionismo aspirava alla creazione di un insieme organico, dove architettura, arte, musica, design e moda interagissero nei termini più armonici, “un’opera d’arte totale”. Figlio di un chimico di Anversa, van de Velde, inizialmente pittore, dal 1890 circa si dedicò alle arti applicate, frequentando le Arts and Crafts di William Morris.

La lezione di Morris gli trasmise l’amore assoluto per un artigianato di altissima qualità etica ed estetica, incoraggiandolo anche a fondare una propria ditta di mobili. Da fine secolo, l’attitudine di van de Velde acquistò

un orientamento sempre più teorico e incentrato sulla creazione di oggetti dall’«ornamento strutturalmente lineare»: la cui forma, cioè, fosse piacevole, funzionale e coerente con le caratteristiche del materiale impiegato. Tale principio è evidente nello scrittoio in quercia e ottone progettato nel 1896 per il critico d’arte Julius Meier-Graefe ed esposto tre anni dopo alla mostra della Secessione di Monaco 121. Il suo profilo a fagiolo consente, con l’appoggio degli avambracci, una posizione ergonomicamente più comoda e corretta, che favorisce una maggior concentrazione. La curvatura anteriore e il lieve innalzamento del piano di lavoro servono infatti ad accogliere gli oggetti, mentre i candelabri diventano parte integrante della corniciatura. Il vano centrale consente la collocazione della sedia; i cassetti possiedono maniglie rivolte all’interno così da facilitare l’impugnatura; gli scaffali alle estremità permettono di riporre libri bilanciando al contempo il carattere massiccio della serie di cassetti. Fondendo utilità e bellezza, insomma, van de Velde anticipò i principi del moderno design.

La diffusione del nuovo stile in Francia

L’École de Nancy • Stipulato nel 1871 al termine della guerra franco-prussiana, il Trattato di Francoforte sancì l’annessione dell’Alsazia e di gran parte della Lorena al neonato Impero tedesco. Tale condizione spronò il governo di Parigi a potenziare economicamente e politicamente i territori della Lorena ancora in suo possesso. Posizionata ad appena venti chilometri dal confine, la cittadina di Nancy divenne un punto strategico per controllare la regione e un polo di attrazione per la ricca borghesia contraria a cambiare tanto repentinamente cittadinanza. Tra 1871 e 1900 Nancy riuscì quindi a richiamare un impressionante capitale umano e finanziario specializzandosi nell’industria manifatturiera. Fiorirono botteghe artigiane per la produzione di oggetti in vetro, legno, ceramica e tessuti: erano gli esiti raffinatissimi di quella che sarebbe stata presto definita École de Nancy

Un vaso con farfalle posate su steli di orchidea realizzato con la tecnica del vetro cammeo (cioè con vetro a più strati di colori differenti) 122; un tavolino con intarsi

L e tecniche

Le tecniche di Gallé

Oltre alla produzione di lampade e vasi in vetro cammeo a motivi floreali, Gallé sperimentò l’applicazione di smalti che simulassero la presenza di gemme (émaux-bijoux), e l’inserimento durante la cottura di lamelle in vetro colorato

floreali 123: autore di entrambi i capolavori fu Émile Gallé (1846-1904), il maggiore rappresentante dell’Art Nouveau a Nancy. Introdotto fin da ragazzo alla lavorazione del vetro e della ceramica, negli anni Settanta ereditò l’azienda di famiglia Veuve Reinemer et Gallé, portandola al massimo splendore. Gallé infatti recuperò tecniche antiche e poco note grazie allo studio degli smalti arabi e persiani conservati al Louvre, delle cineserie, del cosiddetto Vaso Portland esposto al British Museum, un vaso in vetro cammeo di età romana. Ciò che più lo distinse dagli altri artigiani della cittadina fu però la grande inventiva.

Per la loro bellezza e gradevolezza, i lavori di Gallé godettero di ampia fortuna, ben presto imitati in esemplari di minore qualità tecnica ma accessibili al mercato medio. Altrettanto ricercate erano le creazioni di Louis Comfort Tiffany, gioielliere e vetraio statunitense attivo anche in ambito parigino, dove ebbe modo di collaborare con alcuni degli artisti più prestigiosi dell’epoca. Cofondatore della società Tiffany&Co., nel 1893 egli brevettò la

così da generare rilievi e particolari effetti variopinti (marqueterie) 125

Émile

122 Émile Gallé, VaSo in Vetro cammeo con decoro interno a marqueterie, ca. 1900, cm 29,5×16,5. Collezione privata.

123 Émile Gallé, taVoLino con LiBeLLULa e decoro FLoreaLe a marqueterie, ca. 1900, cm 69×84×49,5. Collezione privata.

124 Louis Comfort Tiffany, VaSo con piUme di paVone, 1893-1896, vetro favrile, cm 35,9×29,2. New York, Metropolitan Museum of Art.

125

125
Gallé, ortenSia, vaso, ca. 1910, vetro acidato, altezza cm 28,9. Collezione privata.

126 Jules Lavirotte, paLazzo LaVirotte, 1901. Parigi.

127128 Hector Guimard, Stazioni deLLa metropoLitana di BoiSSière e porte daUphine, 1900. Parigi.

tecnica favrile per realizzare mosaici, lampade da scrivania e vasi in vetro stagno attraverso la soffiatura a mano, con la quale si ottenevano superfici colorate iridescenti 124

Hector Guimard e lo Style Métro • Mentre in Lorena la diffusione dell’Art Nouveau riguardò soprattutto le arti applicate, a Parigi fu l’assetto urbano a venirne maggiormente coinvolto. Palazzine residenziali 1 2 6 insegne

stradali e stazioni metropolitane realizzate sull’esempio belga di Victor Horta: con il loro strenuo decorativismo, tante opere pubbliche dovevano comunicare l’eleganza e il dinamismo propri della città moderna.

Nato a Lione nel 1867 e formatosi sui testi di Violletle-Duc all’École des Arts Decoratifs e poi all’École des Beaux-Arts di Parigi, Hector Guimard (1867-1942) fu il miglior interprete del cosiddetto Style Métro. Lo osserviamo ancora oggi negli ingressi della metropolitana parigina da lui progettati attorno al 1900. Giganteschi steli in ghisa terminanti in boccioli oppure in ampie corolle di vetro che ospitano lampade ambrate: le edicole di Guimard sembrano fiorire direttamente dal terreno 127. Ma, nonostante l’apparenza fitomorfa e la ricercatezza formale, il loro compito rimane soprattutto funzionale: indicare chiaramente ai passanti l’accesso alla metropolitana proteggendoli eventualmente dalla pioggia 128 Queste strutture di Guimard sono notevoli anche dal punto di vista tecnico: il materiale è una lega metallica facilmente malleabile in fase di lavorazione (tramite stampi, che consentivano la produzione in serie), resistente agli agenti atmosferici; gli elementi – piedritti, balaustre, tettoie, lampade – sono prefabbricati e tra loro componibili. Seguendo l’esempio di Horta, conosciuto personalmente a Bruxelles durante un viaggio di studio nell’ultimo decennio del secolo, Guimard seppe quindi sposare grazia e razionalità, attenzione verso il valore sociale dei manufatti e corretto impiego dei materiali moderni.

La Barcellona di Antoni Gaudí

Antoni Gaudí (1852-1926) è la personalità principale nella Barcellona a cavallo fra i due secoli. Nato a Reus, località in provincia di Tarragona, tra 1869 e 1878 studiò architettura nella città catalana, partecipando all’entusiasmo per l’architettura e l’arte medievale di Eugène Violletle-Duc [→ p. 67] e di John Ruskin. Alla conoscenza delle principali teorie estetiche circolanti in Europa Gaudí unì un profondo interesse per la tradizione locale, specie per i principi costruttivi del gotico catalano e per il cromatismo della cultura moresca. Tante suggestioni diedero vita a uno stile unico, l’espressione più alta del cosiddetto

trencadís

Tecnica ornamentale che utilizza frammenti irregolari di ceramica.

129 Antoni Gaudí, Lampioni di pLaÇa reiaL, Barcellona.

130 Antoni Gaudí, paLazzo güeLL, 1886-1890. Barcellona. 131132133134

135 Antoni Gaudí, parco güeLL, 1900-1914, veduta dell’ingresso, particolare della salamandra, veduta del corridoio, veduta dello scalone e del mercato coperto e veduta della terrazza panoramica. Barcellona.

“Modernismo catalano”. Si trattava di una declinazione dell’Art Nouveau presto assurta a simbolo delle aspirazioni autonomiste che a fine Ottocento animavano l’intera regione. Durante gli anni di formazione, Gaudí condivise in effetti gli ideali socialisti del movimento operaio, coltivando per il resto della propria carriera l’ambizione di creare un linguaggio architettonico “nazionale”, in controtendenza rispetto agli storicismi madrileni. Altro elemento caratteristico fu il profondo sentimento cattolico emanato dalle sue costruzioni: segno di una fede religiosa alla quale si avvicinò sempre più da quando, nel novembre 1883, gli venne affidata la costruzione della Sagrada Família, la grande chiesa alla quale attese sino alla morte improvvisa nel 1926.

Un artista e il suo mecenate • Nel 1878, appena conseguito il titolo di architetto, egli vinse il concorso per realizzare due lampioni nella centralissima Plaça Reial; qui, accostando materiali diversi – ghisa e pietra locale –, anticipò una soluzione tipica della sua maturità 1 2 9 Nello stesso anno partecipò all’Esposizione Universale di Parigi riscuotendo l’attenzione del ricco industriale tessile Eusebi Güell i Bacigalupi, che diventò il principale committente di Gaudí sino alla morte, nel 1918. Per lui, l’architetto realizzò la tenuta estiva di famiglia alle porte di Barcellona (Finca Güell, 1884-1887) e la residenza nel centralissimo Barri Gòtic (Palau Güell, 1886-1889) 130. Qui le suggestioni medievali vennero coniugate ad alcuni elementi tipici nell’architettura di

136137 Antoni Gaudí, BaSiLica deLLa Sagrada FamíLia, dal 1883, facciata e pianta. Barcellona. 136

Gaudí, come i comignoli colorati rivestiti a trencadís

Di natura strutturale è invece l’uso degli archi catenari, la cui forma è quella, ma appunto ribaltata, di una catena appesa a due estremità e lasciata pendere, che diverrà fondamentale nella Sagrada Família.

Parc Güell • L’opera più importante per Güell fu tuttavia l’intero sobborgo-giardino progettato a nord-ovest della città su esempio delle comunità residenziali sorte negli stessi anni in svariate capitali europee. Sebbene ne siano stati ultimati solo la portineria, lo scalone e il mercato coperto, il Parc Güell (1900-1914) va considerata una delle opere più importanti di Gaudí. Un ingresso fiancheggiato da due padiglioni simili a casette di marzapane 131; una scalinata a due rampe 133 sulla quale domina una enorme salamandra colorata da tessere irregolari in vetro e ceramica 132; una sala ipostila sostenuta da ottantasei imponenti colonne doriche in cemento; grotte sotterranee rette da contrafforti inclinati e rivestiti da conci in pietra 134; una terrazza con vista sul mare dal profilo ondulato e delimitata da sedili moreschi 1 3 5 : tante invenzioni rendono Parc Güell un luogo unico, in bilico tra l’atmosfera giocosa di un’attrazione turistica e l’energia tellurica sprigionata da un mondo di forme appena riscoperto.

La Sagrada Família • L’opera che forse meglio riassume la concezione architettonica di Gaudí è la Sagrada Família, la grande basilica sulla quale l’architetto lavorò fino alla morte 136. Nella pianta a croce latina con cappelle radiali 137 così come nelle alte guglie la chiesa riprende lo stile gotico. Tuttavia l’architetto forzò lo stile medievale per rendere evidente l’ispirazione naturale: il portale istoriato appare come una grotta e le colonne interne come alti fusti di una foresta millenaria. Anche nella progettazione Gaudí seguì il medesimo principio: per simulare i pesi, invece di usare il calcolo matematico, l’architetto realizzò un modello sperimentale in corda con appesi dei carichi in piccoli sacchi di juta, che avrebbero riprodotto le forze strutturali e determinato le forme degli archi catenari.

Casa Milà

Nel 1906 Gaudí ricevette l’ultima commissione civile nel cuore della città: la costruzione del complesso residenziale Casa Milà, all’incrocio tra calle de Provenza e Passeig de Gracia (1906-1910) 138. Adattandosi alla forma del quadrato con angoli smussati caratteristica degli isolati dell’Eixample – il quartiere progettato a metà Ottocento da Ildefons Cerdà come ampliamento del più antico centro urbano, l’architetto progettò un’unica facciata ondulata in pietra chiara, alla quale si deve il soprannome di Pedrera (“Pietraia”).

La facciata • Scelto e accostato accuratamente al successivo, ogni blocco del paramento esterno è rifinito con lievi colpi di martellina in modo da trattenere la luce solare, accentuando così l’effetto plastico, quasi scultoreo, dell’insieme. Proprio l’alternanza tra le superfici aggettanti, illuminate, e le cavità in ombra avvicina il prospetto di Casa Milà alle pareti rocciose della Catalogna, specie quelle del Montserrat. Per le loro forme ritorte, invece, i parapetti in ferro dei terrazzini vengono generalmente accostati ad alghe fluttuanti 139. La forma curva domina persino la planimetria 140, sia all’esterno sia nei cavedi interni, che

permettono di dare maggiore luminosità agli appartamenti 141. Gaudí volle fondere l’elemento terrestre e quello marino del paesaggio mediterraneo: proposito destinato ad apparire tanto più marcato se davvero, come era nelle intenzioni dell’autore, l’intera facciata fosse stata dipinta con i colori della flora acquatica e dei prati primaverili.

138139 Antoni

Gaudí, caSa miLà (detta La pedrera), 1906-1910, esterno e particolare dei balconi. Barcellona.

Gaudí, caSa miLà, veduta dei cavedi dall’alto, veduta di un particolare dei soffitti interni e veduta del tetto.

Un simile richiamo alla natura assumeva un significato anche religioso, poiché alludeva alla creazione divina dell’Universo: «La linea retta è degli uomini, la linea curva di Dio», sosteneva l’architetto. In questo modo si spiega la presenza di rilievi a guisa di boccioli di rosa e parole tratte dall’Ave Maria sulla superficie della facciata: Casa Milà avrebbe costituito un inno alla Vergine.

La struttura dell’edificio • Alle formidabili invenzioni plastiche e cromatiche ispirate tanto al mondo naturale quanto alla fede cattolica, facevano riscontro soluzioni strutturali d’avanguardia, spesso messe a punto dallo stesso Gaudí. Nonostante l’apparenza, l’intero edificio era infatti sostenuto da uno scheletro in acciaio coadiuvato da archi catenari e colonne in cemento verticali o inclinate. Si trattava di tecniche progettuali affinate nei grandi cantieri nei quali Gaudí era contemporaneamente impegnato; esse, nel dettaglio, permettevano di trasferire all’interno la fluente curvatura dell’esterno: soffitti, pareti, serramenti davano quindi l’impressione di trovarsi all’interno di una grotta montana oppure nel ventre di uno strano organismo 142. Una stravaganza perpetuata sino al tetto, praticabile e popolato da camini e volumi dalle sembianze biomorfe; si tratta di vere e proprie citazioni dei gargoyles, le figure mostruose che nelle cattedrali gotiche venivano poste, sui tetti, alla fine dei canali di gronda 143

La linea astratta, dalla Gran Bretagna a Vienna

L’Inghilterra di Beardsley • Nell’Inghilterra vittoriana, strettamente legata all’eredità morale di William Morris, l’interpretazione più convincente dell’Art Nouveau fu quella del ventunenne Aubrey Beardsley (1872-1898), autore delle sessanta tavole realizzate per la tragedia Salomè di Oscar Wilde. Beardsley traduce in immagine l’erotismo ironico e perverso della femme fatale descritta da Wilde: in The Climax Salomè, sospesa a mezz’aria al termine della sua danza, si accinge a baciare l’esangue profeta Jokanaan, cioè san Giovanni Battista (1893) 144. Le linee sinuose tipiche dell’Art Nouveau si coniugano a un’accentuata bidimensionalità e a un’asimmetria netta, derivante dalle stampe giapponesi. La carriera dell’artista fu interrotta bruscamente dalla morte per tubercolosi a nemmeno ventisei anni.

La Spook School di Glasgow • ll più importante centro dell’Art Nouveau – o meglio del Modern Style – britannico fu tuttavia Glasgow, grazie all’attività di Charles Rennie Mackintosh (1868-1928), di sua moglie Margaret Macdonald (1864-1933), e dei cognati Frances ed Herbert MacNair; i “Quattro di Glasgow” svilupparono uno stile unico, in cui i motivi naturali erano ridotti alle loro forme primarie e veniva reintrodotta la linea retta, come si nota negli arredamenti 145. L’estrema pulizia dei progetti e i numerosi riferimenti alla simbologia celtica, così sentita

in Scozia, conferirono al gruppo l’appellativo di Spook School (“Scuola degli spettri”).

L’opera capitale di Mackintosh, capofila del gruppo, è la nuova sede della Scuola d’arte di Glasgow, per la quale nel 1897 si aggiudicò un concorso pubblico. L’edificio doveva sorgere su un sito in forte pendenza verso sud e comprendere spazi funzionali come aule-studio, biblioteca, sala conferenze, appartamento del direttore, luoghi destinati all’esposizione e alla conservazione dei lavori. Tenuti presenti tali vincoli, la sapiente orchestrazione della luce naturale e un sistema di aerazione e riscaldamento all’avanguardia furono le basi dell’intero progetto di Mackintosh. Orientata verso nord, la facciata spicca per l’aspetto massiccio e totalmente libero da decorazioni 146. Come l’intera scuola, essa è rivestita da conci (cioè blocchi di pietra) in granito grigio e scandita da ampie vetrate su due piani che corrispondono alle aule per gli studenti. Solo il volume centrale presenta una accentuata asimmetria, data da due bow-windows e dalla torretta sulla sommità. Anche all’interno, tradizione locale e tecniche industriali si mescolano, come nella biblioteca, sviluppata in altezza e illuminata da tre bow-windows 147

Da Glasgow a Vienna • La sobrietà e il rigore geometrico della Spook School vennero apprezzati dagli architetti attivi nell’ambito della Secessione viennese, dove Mackintosh

144 Aubrey Beardsley, the cLimax, 1893, illustrazione per Salomè di Oscar Wilde.

145 Charles Rennie Mackintosh, Sedia e armadi per La hiLL hoUSe, 1903. Helensburgh (Scozia).

bow-window

Balcone chiuso che sporge dalla facciata di un edificio.

146 Charles Rennie

Mackintosh, Facciata deLLa ScUoLa d’arte, 1897-1909. Glasgow (Scozia).

147 Charles Rennie

Mackintosh, BiBLioteca deLLa ScUoLa d’arte, ca. 1908, Glasgow (Scozia).

148149 Otto Wagner, caSSa di riSparmio poStaLe, 1904-1906. Vienna. Esterno e interno.

espose nel 1900. I suoi rappresentanti – Otto Wagner (1841-1918) e i suoi allievi Joseph Maria Olbrich (18671908), autore del Palazzo della Secessione [→ p. 151], e Josef Hoffmann (1870-1956) – si dedicarono infatti al recupero dei principi fondamentali dell’architettura premiando l’avvicendarsi di volumi puri, privi di qualsiasi eccesso decorativo. I loro lavori, insieme a quelli ancora più rigorosi di Adolf Loos (1870-1933), avrebbero posto le basi delle future ricerche razionaliste.

Otto Wagner e l’estetica della macchina • Nel volume del 1895 Moderne Architektur (“Architettura moderna”), Otto Wagner auspicava la costruzione di edifici in linea con la «vita moderna», e dunque basati su principi di qualità, equilibrio e funzionalità. Egli prediligeva inoltre tecniche e materiali di recente sperimentazione, nei quali vedeva riflettersi aspirazioni di progresso e uguaglianza sociale. La Cassa di Risparmio Postale di Vienna (1904-1906) testimonia l’armonia tra modernità e classicismo. L’istituzione è pubblica e volutamente anti-monumentale, con una facciata in bugnato le cui lastre sono apparentemente fissate da borchie metalliche e una pensilina in vetro sorretta da esili colonne in acciaio 148. La simbiosi tra elementi decorativi e funzionali già percepibile all’esterno veniva accentuata nel salone centrale, un’ampia aula dove la luce naturale filtra dalla volta a botte in vetro opalino e alluminio e si riflette nel pavimento in vetrocemento 149 Qui, caloriferi addossati alle pareti e pilastri di sostegno con annesso impianto di illuminazione assumevano anche un compito ornamentale. Wagner generava una retorica delle macchine nella quale dadi, bulloni e tubi in acciaio diventavano protagonisti di una rivalutazione estetica.

Palazzo Stoclet

Allievo di Otto Wagner all’Accademia di Arte applicata di Vienna e membro della Secessione viennese, nel 1903 Josef Hoffmann fondò, con il pittore Koloman Moser (1868-1918), la Wiener Werkstätte, Scuola d’arte e mestieri che diresse fino al 1932. Pur basandosi sull’esempio delle Arts and Crafts britanniche, l’istituzione aperta da Hoffmann e Moser affiancava alla produzione di mobili e arredi quella di beni di lusso come gioielli, argenti o ceramiche di gusto secessionista.

Il capolavoro di Hoffmann è Palazzo Stoclet, lussuosa residenza alle porte di Bruxelles commissionatagli nel 1905 dall’omonimo finanziere belga Adolphe e dalla moglie Suzanne 1 5 0 . I coniugi Stoclet desideravano un’abitazione di gusto moderno, che fosse anche una villa suburbana dedicata agli svaghi culturali e alla raccolta della loro collezione d’arte.

Hoffmann progettò un palazzo privo di facciata di rappresentanza, basato sull’incastro di volumi netti e culminante in una torretta sormontata da una piccola cupola 151. Egli accentuò inoltre la corrispondenza tra organizzazione interna e perimetro esterno rendendo aggettanti lo scalone e gli ambienti principali come il salone, la sala da pranzo e la sala per la musica. Le modanature in bronzo che seguono i profili della muratura 152 possiedono una funzione eminentemente grafica: incorniciano le pareti in marmo grigio norvegese scandendo i piani che compongono l’edificio e negando dunque la sua percezione come blocco compatto. La loro presenza, inoltre, dispensò Hoffmann dall’inserire qualsiasi altro elemento decorativo, fossero modanature, lesene o colonne.

Linearità e disciplina governano anche gli ambienti interni, ognuno di essi elaborato dall’architetto fino al minimo dettaglio e distinto da un motivo dominante che accorda arredi, suppellettili, pavimentazione e decorazioni parietali. Su tutti spicca la sala da pranzo 153 in cui il legno d’ebano e i marmi dalle tonalità calde, la presenza del fregio in mosaico realizzato da Gustav Klimt e l’argenteria 154, disegnata appositamente per i committenti, creano un tutto organico, l’agognata fusione tra architettura e arte secessionista.

150151152

Josef Hoffmann, paLazzo StocLet, 1905-1911, esterno, particolare della torretta e particolare delle modanature. Bruxelles.

153 Josef Hoffmann, paLazzo StocLet, SaLa da pranzo. Alle pareti si riconoscono i fregi musivi di Gustav Klimt.

154 Josef Hoffmann, SerVizio da tè per i coniUgi StocLet, 1905.

155 156157 158

159 Gustav Klimt, cartone preparatorio del Fregio StocLet, 1908-1911, carta, pastello, oro, argento, bronzo su cartoncino, ciascun pannello ca. 200×120 cm. Intero, e particolari: L’atteSa, L’aLBero deLLa Vita, L’aBBraccio e iL caVaLiere Vienna, Museum für Angewandte Kunst.

Il Fregio Stoclet di Klimt

Il fregio che decora la sala da pranzo di Palazzo Stoclet fu commissionato a Klimt nel 1905, due anni dopo il viaggio a Ravenna. L’influenza bizantina è evidente sin dalla tecnica scelta – un mosaico composto da marmo, maioliche, oro, argento, corallo – oltre che dalla predominanza dell’oro, tipica del periodo aureo dell’artista 155

I cartoni • I cartoni dell’opera, realizzati nel 1909 e oggi conservati al Museum für Angewandte Kunst di Vienna, permettono di comprendere il progetto iconografico sviluppato su tre pannelli. Le due pareti lunghe sono dominate dall’Albero della vita 157, elemento al tempo stesso simbolico e ornamentale: presente in più culture e religioni, esso può rappresentare la conoscenza, il ciclo del tempo, il mondo – si pensi per esempio all’Albero della vita sul pavimento della Cattedrale medievale di Otranto; nel fregio esso diviene, con le sue spire dal quale emergono

fiori a forma di occhi egizi, un motivo decorativo unificante, che ingloba le figure. La prima è quella dell’Attesa 156, che assume le sembianze di una danzatrice egizia. Segue il pannello più piccolo, che presenta un motivo solo apparentemente astratto: è infatti una stilizzazione estrema della figura del Cavaliere 159, già incontrata nel Fregio di Beethoven. Nell’ultimo pannello, infine, i due amanti si ricongiungono e si abbracciano 158 secondo uno schema ricorrente nell’arte di Klimt [→ p. 152].

Bidimensionalità ed essenzialità • Anche per venire incontro ai limiti della tecnica musiva, la semplificazione operata da Klimt è estrema: essa non coinvolge le sole vesti dei personaggi, decorate da motivi geometrici bidimensionali, ma anche i volti, che abbandonano il consueto realismo per proporre uno stile radicalmente arcaizzante e anticlassico.

Ornamento come delitto: Adolf Loos • Il processo di semplificazione formale intrapreso da Wagner e Hoffmann raggiunse esiti radicali con Adolf Loos. Dopo aver frequentato la Technische Hochschule di Dresda, tra 1892 e 1895, egli completò la propria formazione con un soggiorno negli Stati Uniti, rimanendo suggestionato dalle imponenti opere ingegneristiche. Tornato a Vienna, Loos intraprese una severa campagna contro gli eccessi decorativi dell’Art Nouveau e dell’architettura secessionista. Nel suo pamphlet dal titolo Ornamento e delitto (1908) affermò che le forme funzionali e prive di qualsiasi accento personale costituivano gli unici esempi possibili di bellezza. «Soltanto una piccolissima parte dell’architettura appartiene all’arte: il sepolcro e il monumento. Il resto, tutto ciò che è al servizio di uno scopo, deve essere escluso dal regno dell’arte» sosteneva rifiutando l’appellativo di artista.

Casa Steiner • Loos applicò i principi di essenzialità e rigore stereometrico soprattutto in progetti abitativi di piccola scala, raggiungendo il primo esito maturo nel 1910 con la commissione di Casa Steiner. L’edificio doveva sorgere in un quartiere per il quale le leggi urbanistiche viennesi prevedevano la costruzione di edifici a un solo livello. Loos aggirò il vincolo grazie a un tetto a un quarto di cerchio che accordava la facciata sulla strada a un piano a quella sul giardino a tre piani 160161

E proprio l’esterno spoglio di Casa Steiner, dove finestre in cristallo di diversa grandezza e forma sembrano disporsi in maniera apparentemente casuale, riflette al meglio la visione artistica dell’autore. Rispetto alla fredda semplicità dell’involucro, gli ambienti interni possedevano invece un’atmosfera accogliente, tipica del gusto borghese dei committenti.

Looshaus • L’abolizione di qualsiasi ornamentazione e il ricorso a forme essenziali caratterizzano anche la Looshaus, in Michaelerplatz a Vienna 162. All’esterno, la doppia funzione dell’edificio, commerciale nella parte inferiore e residenziale in quella superiore, è sottolineata dal rivestimento di marmo cipollino, secondo un principio di elegante essenzialità. L’edificio fu oggetto di immediate e violente polemiche, acuite dalla presenza, dall’altra parte della piazza, del complesso del palazzo imperiale (Hofburg).

160161 Adolf Loos, caSa Steiner, 1910. Vienna. Facciata sulla strada e facciata sul giardino.

162 Adolf Loos, LooShaUS, 1909-1912. Vienna.

163 Disegno riprodotto sul logo della ditta Hennebique, in cui si mette in rilievo la continUità

StrUttUraLe tra traVe e piLaStro

164 Anatole de Baudot, chieSa di Saint Jean-demontmartre, 1894-1904. Parigi.

165166 Auguste

Perret, appartamenti aL

25 BiS di rUe FranKLin, 1902, sezione e veduta esterna. Parigi.

La nascita dell’architettura

moderna

Abbiamo osservato come, a fine Ottocento, ghisa, acciaio e vetro fossero protagonisti della cosiddetta architettura degli ingegneri; negli stessi anni tuttavia le sperimentazioni furono condotte anche su altri materiali, come il

calcestruzzo armato

Materiale usato per la costruzione, costituito da un conglomerato di cemento, sabbia, pietrisco supportato da un’armatura di barre in acciaio – dette tondini –annegata al suo interno.

calcestruzzo, un composto di calce e acqua già impiegato dagli antichi Romani. Negli anni Settanta, Ernest L. Ransome in America e François Hennebique in Francia osservarono come, annegando nel calcestruzzo un’armatura metallica, si ottenesse una struttura robustissima, resistente tanto agli sforzi di compressione (come il cemento) quanto di trazione (come il ferro); oltretutto si trattava di due materiali capaci di un’ottima convivenza, in quanto caratterizzati dello stesso coefficiente di dilatazione termica.

Brevettato ufficialmente nel 1882 da Hennebique, nacque così il calcestruzzo armato 163. Per quanto sin da principio se ne intuisse la versatilità, il materiale venne impiegato su larga scala e con ambizioni stilistiche solo a partire dall’ultimo decennio del secolo.

Il calcestruzzo armato nell’architettura • L’architetto francese Anatole de Baudot (1834-1915) vi ricorse per primo nella chiesa di Saint Jean-de-Montmartre tra 1894 e 1904 164 situata sull’omonima, celebre collina parigina. L’edificio richiama il gotico – de Baudot era un ammiratore di Viollet-Le-Duc –, con le grandi vetrate artistiche poste in facciata, e ancor più le tendenze Art Nouveau, grazie al rivestimento in mattoni e piastrelle di ceramica. Tuttavia, la struttura sfrutta la robustezza del calcestruzzo armato grazie a mattoni forati da cavi d’acciaio che costituiscono l’armatura del conglomerato cementizio. Questa scelta tecnica determinò l’economicità del progetto – il cemento era meno costoso – ma fu anche vista con grande sospetto, proprio per la sua innovatività.

In seguito, fu però Auguste Perret (1874-1954) a diventare il migliore interprete di questo materiale, grazie alla progettazione degli appartamenti parigini di rue Franklin 165166. Pur rispettando l’armonia dei palazzi vicini, nell’edificio di rue Franklin egli seppe sfruttare al meglio le caratteristiche dello scheletro in cemento armato: esso consentiva infatti una progettazione per moduli ortogonali e, nello stesso tempo, permetteva di esprimere anche all’esterno la struttura portante dell’edificio. Basato sull’intersezione tra elementi verticali (pilastri) e orizzontali (travi e solai), un siffatto telaio permetteva di creare stanze funzionali e rispondenti alle necessità della media borghesia. Ancora, di ampliare la dimensione delle finestre fino ai limiti consentiti dalle norme urbanistiche in vigore, così da ottimizzare la vista sulla Senna e sulla Tour Eiffel. Esso consentiva infine di arretrare la sommità dell’edificio e creare un tetto a terrazza. Il tutto assumeva una forma architettonica chiara: sebbene non direttamente visibile, la gabbia costruttiva veniva infatti enfatizzata dalla trama delle piastrelle in ceramica con motivi floreali.

La nascita del grattacielo • Se in Europa furono soprattutto gli ingegneri a promuovere le qualità strutturali dell’acciaio per le infrastrutture e gli edifici effimeri, negli Stati Uniti la loro collaborazione con architetti di formazione accademica comportò la nascita di una nuova tipologia abitativa: il grattacielo. Lo sviluppo in altezza dei palazzi rispondeva anche ad assunti di carattere sociale: la volontà di individuare uno stile originale, indipendente dalle mode del Vecchio continente; la particolare conformazione delle città americane, suddivise in lotti regolari; l’attitudine pragmatica della popolazione, disposta a rinunciare a cortili interni pur di sfruttare ogni metro quadrato di superficie edificabile. Costituiti da scheletri in acciaio e muratura di tamponamento, grazie anche alla diffusione degli ascensori Otis i grattacieli raggiunsero i trenta piani già entro la fine del secolo.

La Scuola di Chicago • Lo sviluppo del grattacielo avvenne a Chicago, importante snodo ferroviario e mercantile adiacente al lago Michigan, quasi completamente distrutta da un incendio nel 1871. Gli imprenditori locali sfruttarono la situazione concentrando le sedi della propria attività (uffici, negozi, magazzini) nel Loop, il centro cittadino ricostruito secondo un ferreo sistema ortogonale; lo sviluppo in altezza degli edifici permetteva di trarre il massimo profitto dagli appena nove isolati a disposizione. Nacque in questo contesto un nuovo stile architettonico specificatamente statunitense. A caratterizzarlo era un diverso rapporto tra struttura portante e forma architettonica: nel

primo grattacielo edificato, il Leiter I Building di William Le Baron Jenney 167, l’elemento murario cedette l’antica funzione strutturale per diventare riempimento. Più precisamente, le pareti esterne iniziarono ad assolvere solo una funzione ignifuga, isolante oppure meramente decorativa, mentre la funzione portante era svolta da strutture a telaio in acciaio.

Nota come Scuola di Chicago, la tendenza trovò i principali esponenti nell’architetto Louis Henry Sullivan (1856-1924) e nell’ingegnere Dankmar Adler (1844-1900).

Conciliando la sensibilità estetica del primo – formatosi alla École des Beaux Arts e al Massachusetts Institute of Technology – con la profonda conoscenza tecnica del secondo, il loro sodalizio professionale fu risolutivo per la nascita di un’architettura davvero moderna.

Sullivan e Adler, Auditorium Building • L’Auditorium Building di Chicago, costruito tra 1886 e 1889 su commissione di un ricco magnate, rappresenta uno dei primi e più caratteristici edifici di Sullivan e Adler 168. Si tratta di un complesso polifunzionale – inclusivo di un teatro lirico con una capienza di 4000 posti e di un albergo con uffici – al quale Sullivan conferì un aspetto civile. In antitesi con la struttura elaborata da Adler, egli progettò infatti un massiccio corpo di 11 piani affiancato da una torre culminante con una galleria vetrata. Ma se all’esterno l’edificio può ricordare un arengario medievale, all’interno esso conta su un rigido telaio in acciaio e un sistema di riscaldamento e ventilazione all’avanguardia.

167 William Le Baron

Jenney, Leiter i BUiLding, 1879. Chicago (Illinois). Demolito nel 1972.

168 Louis Henry

Sullivan, Dankmar Adler, aUditoriUm BUiLding, 1886-1889. Chicago (Illinois).

169170 Louis Henry

Sullivan, Dankmar Adler, gUaranty BUiLding, 1894-1896 , esterno e particolare della decorazione. Buffalo (New York).

otis elevator company

Compagnia fondata da Elisha Otis nel 1853 e tuttora la più grande casa costruttrice di ascensori al mondo. Nel 1852 Otis brevettò il safety elevator, un ascensore sicuro dotato di un meccanismo capace di bloccare la cabina in caso di rottura delle funi. arengario

Nome con cui si indicava il palazzo del Comune, chiamato anche Broletto.

Inoltre, formulando una copertura ad archi ellittici digradanti verso il boccascena, Adler realizzò un auditorium con eccellenti capacità acustiche. Collocando il reparto ristorazione sul tetto, infine, evitò il propagarsi di fumi e odori nel resto dell’albergo.

Il canone del grattacielo • A livello esterno, l’Auditorium

Building riprendeva uno stile eclettico; ciononostante, la distinzione tra base, blocco centrale e sommità dell’edificio evidente nell’uso e nel trattamento dei materiali, il risalto conferito agli elementi verticali, la ricca ornamentazione a motivi geometrici e vegetali dei locali interni anticiparono le soluzioni mature di Sullivan. Le incontriamo pienamente sviluppate nel Guaranty Building di Buffalo, grattacielo progettato sempre con Adler nei due anni precedenti 169 Qui lo scheletro in acciaio trova perfetta corrispondenza nella trama di pilastri ininterrotti e cornici marcapiano. Le facciate rivestite in terracotta, inoltre, danno enfasi alla tripartizione dell’edificio: la base riservata all’ingresso e ai negozi è scandita da vetrate e colonne biomorfe; il corpo centrale consta di una regolare successione di piani per uffici; la parte terminale ospita invece il vano di fine corsa dell’ascensore come l’impianto di areazione. Infine, lo sviluppo in altezza dell’edificio è marcato da decorazioni arboree e orientaleggianti, in linea con l’Art Nouveau 170.

ripassa

• Illustra i caratteri generali dell’Art Nouveau, poi specifica i vari modi con cui si declinò nei Paesi europei.

• Quali sono gli interpreti principali dello spirito Art Nouveau in architettura?

• Per cosa si caratterizza lo stile di Gaudí?

• Quale orientamento prese l’architettura a Vienna?

• Che cosa innesca la nascita dell’architettura moderna? Qual è l’edificio simbolo di questa nuova stagione?

approfondisci

Realizza una cartina dell’Europa, individua le città dove si sviluppò l’Art Nouveau e corredala con le immagini delle opere simbolo di questo stile.

realismo

• Da metà

Ottocento

• Francia

• Rappresentazione delle classi più povere Gustave Courbet → ritratti monumentali di uomini comuni, indipendenza dalle Accademie

Seconda metà dell’Ottocento

macchiaioli

• Dagli anni

Sessanta dell’Ottocento

• Italia

• Pittura di “macchia”, attenzione agli effetti atmosferici

Giovanni Fattori → rappresentazione antiretorica della guerra, luce tersa

opere simbolo

• Gustave Courbet, Funerale a Ornans

• Giovanni Fattori, In vedetta (Il muro bianco)

• Édouard Manet, La colazione sull’erba

postimpressionismo

• Dagli anni Ottanta dell’Ottocento

• Francia

• Superamento della lezione impressionista

Georges Seurat → pennellate come puntini (Puntinismo), uso della legge dei contrasti cromatici, recupero regole compositive auree

Paul Cézanne → sintesi geometrica degli oggetti, attenzione ai valori formali

Paul Gauguin → ripresa di linguaggi primitivisti, opere simboliche

Vincent van Gogh → colore espressivo, pennellata pastosa

opere simbolo

impressionismo

• Dagli anni Settanta dell’Ottocento

• Francia

• Uso del colore puro e dei contrasti cromatici, resa dell’atmosfera, temi moderni, influenza giapponese

Édouard Manet → precursore dell’Impressionismo, dipinti scandalosi

Claude Monet → pennellata spezzata, pittura en plein air

Edgar Degas → uso del disegno, alienazione della vita moderna

Pierre-Auguste Renoir → rappresentazione della vita moderna, leggerezza

• Claude Monet, serie della Cattedrale di Rouen

• Edgar Degas, L’assenzio

• Pierre-Auguste Renoir, Ballo al Moulin de la Galette

A cavallo fra i due secoli

simbolismo

• Dagli anni Ottanta dell’Ottocento

• Europa

• Pittura dai significati nascosti

Edvard Munch → sintesi della forma, resa dell’alienazione umana

James Ensor → mondo inquietante di maschere

Gustav Klimt → Secessione viennese, decorativismo, linea nervosa

Giuseppe Pellizza da Volpedo → scomposizione della luce, significati politici e sociali

• Georges Seurat, Una domenica pomeriggio alla Grande Jatte

• Paul Cézanne, Le grandi bagnanti

• Paul Gauguin, Visione dopo il sermone

• Vincent van Gogh, La notte stellata

architettura degli ingegneri

• Da metà dell’Ottocento

• Uso di ferro e vetro

• Elementi modulari

• In Italia, persistenza di uno stile eclettico Alessandro Antonelli → soluzioni ingegnose e sperimentali

• Gustave Eiffel, Tour Eiffel

• Alessandro Antonelli, Mole Antonelliana

art nouveau

• Movimento architettonico

• Europa

• Decorazione con linea sinuosa

Victor Horta → Art Nouveau belga, linea sinuosa che diventa strutturale

Hector Guimard → decorazioni vegetali

Antoni Gaudí → ispirazione gotica e naturalistica

Secessione viennese → decorazioni geometriche, funzionalità

• Edvard Munch, L’urlo

• James Ensor, L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889

• Gustav Klimt, Fregio di Beethoven

• Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato

• Hector Guimard, stazioni della metropolitana di Parigi

• Antoni Gaudí, Casa Milà

analisi di un tema

Il dibattito critico è molto vivo nell’Ottocento soprattutto tra gli artisti. Molti di loro, verso la fine del secolo, cominciano a mettere in dubbio la secolare “gerarchia dei generi” che era stata codificata nell’Italia del XVI secolo per poi esser disciplinata da varie Accademie, tra le quali la più influente fu l’Académie de peinture et de sculpture, fondata a Parigi nel 1648. Svolgi una ricerca sulla gerarchia delle arti figurative, ossia sulla differenza tra le cosiddette arti minori e maggiori.

Infine cerca documenti sulla gerarchia interna alla pittura, in base alla quale un dipinto di storia aveva maggiore importanza rispetto a un quadro avente come soggetto una natura morta.

confronto attivo

La classe si divide in tre gruppi, ciascuno dei quali analizza una delle seguenti correnti artistiche.

1. Macchiaioli

2. Impressionismo

3. Postimpressionismo

Gli stili in esame avevano la volontà di innovare le leggi della pittura, rompendo con la tradizione delle Accademie e proponendo una pittura più libera da rigidi schematismi, che guardasse alla realtà in modo differente.

Ciascun gruppo deve individuare gli elementi linguistici comuni e le differenze, tenendo conto delle seguenti caratteristiche:

• materiali

• temi

• composizione

• tratto pittorico

• iconografia

Ciascun gruppo sarà chiamato a illustrare i risultati della ricerca effettuata.

Osserva le seguenti opere.

1 Gustave Courbet, gLi Spaccapietre, 1849.

glossario

Spiega il significato dei seguenti termini. Inserisci i lemmi in un documento e alla fine dell’anno sistema tutto in ordine alfabetico.

• Dagherrotipo

• Pompiers

• Salon

2 Jean FrancoisMillet, L’angeLUS, 1857-1859. hUBteSt Esercitati

I due dipinti, realizzati a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, rappresentano un soggetto simile, in quanto raccontano la quotidianità del lavoro.

Individua e descrivi in una scheda apposita gli elementi pittorici in comune, sottolineandone però le differenze nella composizione e nella resa pittorica. Spiega perché uno dei due destò particolare scalpore nel pubblico nel momento della sua esposizione.

• Affiche

• Simbolismo

per lo studio interdisciplinare

Approfondisci il tema dell’inquietudine, del mistero e delle angosce dell’uomo nell’arte e nella letteratura del primo Novecento. Crea un rapporto tra arte e letteratura partendo dai seguenti spunti:

• Alfred Kubin, illustrazioni per Il pozzo e il pendolo, 1910

• Edward Munch, L’urlo, 1893

• Edgar Allan Poe, La vallata dell’inquietudine, 1831

• Franz Kafka, La metamorfosi, 1915

Il 18 settembre del 1886 su «Le Figaro» venne pubblicato un articolo del poeta Jean Moréas dal titolo Le Symbolisme, che da quel momento venne considerato il manifesto del nuovo stile. Il Simbolismo ebbe una forte eco in tutte le arti, dalla pittura alla poesia, passando per la musica e la filosofia; fondamentale per un’artista simbolista era indagare oltre la percezione dei sensi, esplorando realtà più profonde. Approfondisci il tema dell’indagine degli aspetti più misteriosi del reale creando un percorso interdisciplinare tra arti visive, filosofia, musica e poesia simboliste, a partire dai seguenti spunti:

• Arnold Böcklin, L’isola dei morti, 1880

• Hugo Simberg, L’angelo ferito, 1901

conoscere e riconoscere

• Richard Wagner, Parsifal, 1882

• Stéphane Mallarmé, L’apparizione, 1887

Partendo da questi dettagli, riconosci l’autore e il movimento a cui le opere appartengono.

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