Capitolo campione 25 - Leggersi (Umanistica SS2)

Page 1


Giulio Guidorizzi

Angelo Roncoroni

Beatrice Galli

Pagine che parlano di noi Leggersi

NARRATIVA

INTELLIGENZA ARTIFICIALE ORIENTAMENTO

AFFETTIVITÀ

EDUCAZIONE CIVICA

GENERI

6 Specchio, specchio: la favola e la fiaba

7 Cercarsi, guardarsi, raccontarsi: l’autobiografia

8 Ricostruire il mondo: la narrativa realista e storica

9 Sentirsi detective: il giallo e il noir

10 Il bisogno di leggerezza: il comico e l’umoristico

11 Immaginare: fantastico, fantascienza e fantasy

12 Il sottile piacere della paura: l’horror

13 La difficoltà di crescere: la narrativa di formazione

14 Narrare per immagini: fumetto e graphic novel

15 Guardarsi dentro: la narrativa psicologica

Che cosa sono i generi letterari

Classificare e catalogare Fin dall’antichità le varie forme di scrittura sono state catalogate e raggruppate in base alle loro caratteristiche strutturali, formali e contenutistiche. Una prima distinzione generale, che in parte abbiamo già visto, riguarda forma e struttura dei testi letterari, che vengono suddivisi tra prosa, poesia e teatro (→ p. 13).

All’interno della prosa, sia di forma breve (novella, racconto) sia di forma lunga (romanzo), si possono inoltre individuare i cosiddetti “generi” letterari, cioè dei “contenitori” in cui poter collocare i vari testi in base a caratteristiche che riguardano soprattutto il loro contenuto e i loro temi, in altre parole, in base alla storia che raccontano al lettore. Questa classificazione, che potrebbe sembrare un’operazione semplice, in realtà è in continua evoluzione: basti pensare, per esempio, che i generi canonici (che vedremo tra poco) sono stati codificati nell’Ottocento, ma già nel Novecento le tendenze alla sperimentazione portarono gli scrittori a mescolare tra loro le caratteristiche dei vari generi, facendo cadere le distinzioni tradizionali.

Ancora oggi, di fianco a testi chiaramente etichettabili sotto un determinato genere, si trovano altre forme narrative che invece sfuggono a facili catalogazioni. Non solo: poiché anche le forme della narrativa sono soggette a continue sperimentazioni e trasformazioni, alcuni generi possono momentaneamente “scomparire”, mentre possono nascerne di nuovi.

Macrogeneri e generi Tradizionalmente, i generi letterari possono essere suddivisi in tre macrocategorie, all’interno delle quali, a loro volta, si possono individuare i generi veri e propri:

• testi in cui prevale il racconto di fatti immaginari, lontani dalla realtà, con personaggi e storie calati in un contesto “irreale”; all’interno di questa categoria rientrano: la fiaba e la favola, il fantastico, il fantasy, la fantascienza e l’horror;

• testi in cui invece l’oggetto della narrazione sono storie ambientate nella realtà, sia per documentare un contesto storico e sociale preciso (genere storico e realista), sia per narrare indagini o investigazioni (genere giallo e noir), sia per cercare di far sorridere il lettore con situazioni paradossali o ironiche (genere comico);

• testi, infine, che si concentrano sulle vicende di un particolare personaggio, sulla sua vita (genere autobiografico e di formazione) o sulla sua interiorità e sulla sua psiche (genere psicologico).

Al di fuori di queste categorie si colloca, poi, un genere del tutto contemporaneo, quello del fumetto (o graphic novel), caratterizzato dalla fusione tra immagini e testo. Il fumetto, infatti, distinguendosi dalle narrazioni solo scritte per la forma e non per il contenuto, può di volta in volta rientrare in uno dei generi appena elencati.

Specchio, specchio: la favola e la fiaba 6

CON I TUOI OCCHI Fuori dal coro

T 1 Hans Christian Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore

T 2 Esopo, Il topo di campagna e il topo di città

T 3 Esopo, La cicala e la formica

T 4 Charles Perrault, Barbablù

T 5 Gianni Rodari, Il semaforo blu

CON I TUOI OCCHI Oltre gli stereotipi

T 6 Margaret Atwood, C’era una volta

Testo di verifica

T 7 Jacob e Wilhelm Grimm, Cappuccetto Rosso

FLIPPED CLASSROOM

A CASA

Guarda i video Introduzione a… La favola e La fiaba e rispondi alle domande.

• Chi sono i protagonisti delle favole?

• Come si conclude in genere una favola?

• Chi sono i personaggi con ruoli fissi della fiaba?

• Indica alcuni celebri autori di fiabe.

IN CLASSE

VIDEO

Con l’aiuto dell’insegnante, cercate e leggete la favola Il lupo e l’agnello, prima nella versione di Esopo e poi in quella di Fedro. Perché, secondo voi, le due morali sono differenti? Discutetene in classe.

Gustave Doré, La lepre e la tartaruga, illustrazione tratta dalla raccolta delle Favole di Jean de La Fontaine, nell’edizione del 1867.

1. La favola

1.1 Le caratteristiche del genere

Che cos’è una favola La favola è un componimento generalmente molto breve, scritto in prosa o in versi, che ha per protagonisti animali (o anche esseri inanimati come il Sole, gli alberi, gli oggetti) parlanti e quasi umanizzati. Questi personaggi, infatti, incarnano vizi e virtù tipicamente umani e riproducono, con i loro atteggiamenti, quelli degli uomini. Il lupo, per esempio, rappresenta la voracità e la prepotenza, la volpe incarna l’astuzia, la cicala simboleggia la sconsideratezza, e così via. Spesso questi animali sono addirittura entrati nell’immaginario comune come metafora delle qualità stesse che incarnano nelle favole: si dice per esempio “è un leone” o “è una formica”, per indicare rispettivamente una persona coraggiosa e una parsimoniosa. La favola è dunque un componimento allegorico, cioè un componimento che contiene un significato nascosto, diverso da quello letterale: il suo scopo è far riflettere sul comportamento umano e ammonire i lettori ad agire in maniera corretta e virtuosa. La vicenda narrata nella favola si conclude infatti con una morale, a volte amara perché appresa a spese del protagonista, che racchiude insegnamenti validi per tutti.

1.2 La storia del genere

Le favole sono presenti pressoché in tutte le culture antiche e moderne; la loro origine risale alle tradizioni orali dei singoli popoli.

Le origini Proveniva dall’antica Grecia quello che è considerato il primo autore di favole del mondo occidentale, Esopo, uno schiavo vissuto tra il VII e il VI secolo a.C. (T2-T3, p. 149). Le notizie sulla sua vita sono scarse e a tratti leggendarie. La tradizione ce lo presenta come uno schiavo brutto, storpio e balbuziente: queste caratteristiche dipendono forse dal fatto che nell’antichità la favola era considerata un genere minore, degno delle classi più umili. A Esopo sono però attribuite anche una grande saggezza e un’arguzia brillante, che rispecchiano proprio le caratteristiche del genere, spesso ricco di battute pungenti e acute osservazioni sui vizi umani.

Al suo modello si ispirò successivamente Fedro, che è considerato il più grande favolista latino, vissuto nella prima metà del I secolo d.C. Tra i personaggi della favola, oltre agli animali, Fedro inserì anche lo stesso Esopo, in quanto maestro di saggezza e di arguzia.

L’Età medievale e moderna L’opera di Esopo e di Fedro ebbe grande fortuna nel Medioevo, epoca in cui si faceva grande uso dell’allegoria e la letteratura era spesso considerata uno strumento educativo. In particolare, le vicende della volpe, protagonista per eccellenza delle favole, furono elaborate in una vera e propria saga nota come Roman de Renart, ossia “Romanzo di Renart”. In origine, Renart era il nome proprio dell’animale, ma tanto fu il successo di questa narrazione favolistica che, in francese, renard passò poi a significare direttamente la “volpe”.

La favola acquisì poi un rinnovato prestigio nel Seicento in Francia, grazie al poeta Jean de La Fontaine. Nelle sue Favole, La Fontaine si ispirò alla tradizione greca, latina e medievale, ma allo stesso tempo la adattò ai gusti del suo pubblico, inserendo nei racconti temi di attualità politica e sociale, oltre che la critica ai vizi dei suoi contemporanei. L’epoca d’oro della favola è considerata comunque il Settecento, quando i filosofi illuministi francesi se ne servivano a scopi educativi. Durante l’Ottocento, invece, in piena età romantica, la favola lasciò il posto alla fiaba, che era considerata l’espressione più spontanea dell’anima popolare.

Nel Novecento e oltre In Italia, la favola visse una vera e propria rinascita con l’inizio del Novecento, quando il poeta Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri) cominciò a pubblicare le sue favole in versi, scritte in dialetto romanesco, di contenuto satirico e pungente, sulle condizioni delle classi più umili: Favole romanesche (1901), Ommini e bestie (1914) e Cento favole (1934).

Altri autori hanno scritto poi favole in prosa: da Italo Svevo (autore di Favole, 1930) ad Alberto Moravia (autore di Storie della preistoria, 1982). Nel Novecento, però, l’approccio più originale a questo genere l’ha avuto Gianni Rodari: le sue Favole al telefono (1960) mescolano elementi della favola e della fiaba e danno spazio maggiore agli uomini rispetto agli animali e agli esseri inanimati (T5, p. 157).

Esempi più recenti sono alcuni romanzi dello scrittore cileno Luis Sepúlveda, che hanno per protagonisti animali, tra i quali il più famoso è senz’altro Storia della gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (1996).

DIDATTICA ATTIVA

1. Quali sono le caratteristiche principali della favola?

2. In che senso la favola è un componimento allegorico?

3. Chi era Esopo?

4. Quale altro personaggio aggiunge Fedro ai consueti personaggi delle favole?

5. Che cos’è il Roman de Renart?

6. In che modo Jean de La Fontaine ha rinnovato la favola?

7. Grazie a chi la favola ha conosciuto una rinascita agli inizi del Novecento?

8. Quali autori italiani hanno scritto favole in Età contemporanea?

2. La fiaba

2.1 Le caratteristiche del genere

Che cos’è una fiaba La fiaba ha origini antichissime, che risalgono alla cultura orale e al folklore di ogni popolo (cioè l’insieme delle tradizioni riguardo a usi, costumi e credenze). La fiaba racconta vicende fantastiche e, di solito (a differenza della favola), i suoi personaggi sono esseri umani o esseri soprannaturali, dotati di poteri e oggetti magici. Si tratta, infatti, di un racconto in prosa ambientato in un tempo indeterminato (spesso indicato dal famoso incipit “C’era una volta”) e in luoghi fantastici: castelli, boschi incantati, foreste tenebrose, paesi lontani. Il protagonista della fiaba deve spesso affrontare una o più prove, che lo portano a incontrare personaggi fantastici (orchi, fate, streghe, gnomi e folletti, ma anche animali parlanti) o a scontrarsi con loro.

La fiaba, in modo simile alla favola, trasmette insegnamenti e valori ritenuti importanti, attraverso una narrazione piacevole e facilmente comprensibile, con un linguaggio semplice e un sistema dei personaggi nettamente diviso tra buoni e cattivi. A differenza della favola, però, la fiaba si conclude sempre con un lieto fine.

Le funzioni di Propp Nei primi decenni del Novecento, lo studioso russo Vladimir Propp analizzò le fiabe di diverse tradizioni culturali e fece una scoperta: le fiabe potevano essere scomposte in vari elementi, o “funzioni”, che ricorrevano nello sviluppo dell’intreccio seguendo sempre uno stesso ordine. In base all’analisi di Propp, quindi, la struttura della fiaba è sempre identica, mentre i personaggi hanno ruoli fissi: il protagonista o eroe, cui si contrappone l’antagonista, l’aiutante dell’eroe, il donatore (che fornisce all’eroe un oggetto magico per superare le prove che gli vengono imposte dal mandante) e, infine, un oggetto o un personaggio cercato dall’eroe (generalmente una principessa o comunque una fanciulla).

svolgono quasi sempre

è il nemico dell'eroe regala all'eroe un oggetto magico

è l'eroe della fiaba aiuta l'eroe nella sua missione commissiona una prova all'eroe

è il personaggio cercato dall'eroe

I PERSONAGGI DELLA FIABA
RUOLI FISSI

Per quanto riguarda le funzioni, Propp ne individuò trentuno. Le principali sono: divieto imposto all’eroe, infrazione del divieto, tranello architettato dall’antagonista, partenza dell’eroe, prova (o prove) imposta all’eroe, reazione dell’eroe che affronta la prova, dono di un oggetto magico all’eroe, eventuale travestimento dell’eroe, lotta tra eroe e antagonista, vittoria sull’antagonista, rimozione della sciagura o della mancanza iniziale, ritorno dell’eroe, smascheramento del falso eroe o dell’antagonista, trasformazione dell’eroe, punizione dell’antagonista, lieto fine e premio.

Il cattivo delle fiabe italiane: l’orco Nelle fiabe italiane, il tipico personaggio “cattivo” è l’orco: una creatura mostruosa e crudele, spesso di statura gigantesca, golosa di carne umana e soprattutto di quella dei bambini, che tuttavia alla fine si rivela estremamente stupida e può essere vinta con l’astuzia. Le sue origini risalgono alle fasi più antiche della mitologia romana, dove Orcus era il dio degli Inferi; con il tempo, si cominciò a credere che questo dio risalisse dall’aldilà per catturare e trascinare con sé i malcapitati destinati a morire. Da qui si è poi sviluppato il personaggio dell’orco come lo conosciamo dalle fiabe. La prima volta che un orco compare nelle fiabe come divoratore di bambini risale alla fine del XIII secolo; in seguito, orchi antropofagi (cioè “mangiatori di carne umana”) compaiono nei poemi cavallereschi (in particolare nell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo e nell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto). Già in questi testi, il mostro presenta un suo tratto caratteristico, è cioè dotato di finissimo odorato. L’orco viene definito nei suoi tratti canonici nella raccolta seicentesca Lo cunto de li cunti di Basile e non smette di essere protagonista delle fiabe anche nel Novecento: ancora nelle Fiabe italiane di Italo Calvino questa antica divinità romana ricorre in tantissime storie.

2.2 La storia del genere

Il Seicento Le prime raccolte di fiabe comparvero in Europa tra il XVI e il XVII secolo, quando si cominciò a trascrivere i testi tramandati oralmente da narratori popolari. In Italia, i primi a compiere questa operazione furono Giovanni Francesco Straparola nelle sue Piacevoli notti (1550-1553), dove compare la prima versione del Gatto con gli stivali, e soprattutto Giovan Battista Basile, con una raccolta di cinquanta fiabe in dialetto napoletano intitolata Lo cunto de li cunti, overo lo trattenemiento de peccerille (1634-1636); nell’opera di Basile è presente anche la fiaba Sole, Luna e Talia, che rappresenta la prima versione della Bella addormentata nel bosco. Cinquant’anni dopo, il francese Charles Perrault riprese questa e altre fiabe di Basile e le raccolse con altri testi derivati dalla tradizione popolare francese per adattarle al gusto dei suoi contemporanei: nacquero così i Racconti di Mamma Oca (1697), che comprendono undici fiabe tra cui le celeberrime Cappuccetto Rosso, Cenerentola, Barbablù (T4, p. 152), Pollicino, Il Gatto con gli stivali e, appunto, La bella addormentata.

L’Ottocento La fiaba raggiunse la sua maggiore diffusione nell’Ottocento. Gli intellettuali del Romanticismo, infatti, prestarono grande attenzione alla cultura popolare e al folklore dei diversi Paesi, perché li consideravano espressione delle identità nazionali dei vari popoli.

TESTI IN PIÙ

J. e W. Grimm, Il principe ranocchio; A.N. Afanas’ev, La principessa triste; I. Calvino, Fantaghirò

In Germania, i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm rielaborarono il patrimonio fiabesco della tradizione tedesca nelle Fiabe del focolare (1812-1822), che comprendono Cappuccetto Rosso (T7, p. 162), Hansel e Gretel, Pollicino, Biancaneve e Rosaspina (una terza versione della Bella addormentata). L’esempio dei Grimm venne seguito in Russia da Aleksandr Nikolaeviĉ Afanas’ev, che fin da giovane cominciò a raccogliere le fiabe e le leggende popolari della tradizione contadina russa, pubblicandole poi in otto volumetti (1855-1864). In Danimarca fu lo scrittore Hans Christian Andersen ad attingere dalla tradizione popolare per pubblicare diversi volumi di Fiabe (1835-1872), tra cui alcuni capolavori come I vestiti nuovi dell’imperatore (T1, p. 145), La principessa sul pisello, La sirenetta, Il brutto anatroccolo e La piccola fiammiferaia. Al genere della fiaba si può ricondurre anche Le avventure di Pinocchio (1883) di Carlo Collodi, la celebre storia del burattino che dopo una lunga serie di peripezie riesce a diventare un bambino vero.

BOOKTRAILER

• Scopri l’autore: Roald Dahl

• H.C. Andersen, Fiabe VIDEO

La fiaba contemporanea In Italia, un’operazione simile a quella compiuta dai Grimm o da Andersen fu realizzata solo alla metà del Novecento da Italo Calvino. Dopo avere setacciato le varie regioni del nostro Paese in cerca delle fiabe risalenti «agli ultimi cento anni» (così dichiara l’autore riguardo ai limiti cronologici della sua raccolta), Calvino le trascrisse dal dialetto in italiano, in modo che potessero essere comprese da tutti: nacquero così le Fiabe italiane (1956). Dal Novecento a oggi, però, ci sono stati anche numerosi esperimenti di riscrittura creativa, se non di vera e propria creazione di fiabe. Tra le riscritture rientrano, per esempio, gli straordinari racconti di Angela Carter, raccolti in La camera di sangue (1979), e anche i libri di Alex Flinn, autrice del romanzo Beastly (2007), riscrittura de La Bella e la Bestia. Anche la canadese Margaret Atwood (T6, p. 159) ha proposto riletture delle fiabe tradizionali, per esempio ne L’uovo di Barbablù (1983), in cui ha inserito temi politici e sociali di ampio respiro in particolare in ottica femminista. Anche in Italia ci sono stati alcuni brillanti casi di riscrittura creativa, a volte come parodie di vecchie fiabe (la parodia è un’imitazione che modifica alcuni tratti dell’originale a scopi comico-satirici). Tra questi si segnalano gli esperimenti di Stefano Benni, che ha riscritto la fiaba di Cenerentola in Bar Sport (1976).

DIDATTICA ATTIVA

1. Quali sono le caratteristiche della fiaba?

2. In che cosa si differenziano la fiaba e la favola?

3. In base ai ruoli fondamentali della fiaba individuati da Propp, chi è il donatore? Che differenza presenta rispetto all’aiutante?

4. Quali sono le principali funzioni della fiaba evidenziate da Propp?

5. Come è caratterizzato il personaggio dell’orco?

6. Chi sono i due grandi autori italiani di fiabe nel Seicento?

7. Perché nell’Ottocento la fiaba gode di molta popolarità?

8. Chi sono gli autori più celebri della produzione fiabesca di lingua tedesca?

9. Quale scrittore ha riscoperto la tradizione fiabesca italiana nel Novecento?

Riassumi con la mappa

Completa le mappe con le espressioni indicate: fantastico • vizi e virtù umani • orale • equilibrio • conclusione • luoghi • tempo • morale • popolare

LA FAVOLA

tradizione

origine

LA FIABA

animali parlanti ha ha ha ha che includono che includono che riproducono di in 4 fasi

caratteristiche fisse

elemento caratteristiche fisse

indeterminatezza

rottura dell' schema narrativo situazione iniziale peripezie ruoli fissi

LITTERAM

di Giulio Guidorizzi Mito e fiaba

L’origine della fiaba nel mito

Nell’antichità non esistevano raccolte di fiabe. Esistevano invece libri di favole, come quelle di Fedro ed Esopo; ma la favola, come sappiamo, è una cosa diversa dalla fiaba, perché è scritta da un autore, è popolata da personaggi tratti dal mondo animale, è elaborata letterariamente e contiene una morale. La fiaba, invece, ha un’origine anonima e si sviluppa oralmente, di racconto in racconto. Questo, però, non vuol dire che non si raccontassero fiabe anche in Grecia. Sappiamo, infatti, che le nonne e le balie le raccontavano ai bambini: ma nessun autore si preoccupò di metterle per iscritto.

I Greci avevano, invece, una gran quantità di miti, che hanno un rapporto molto stretto con le fiabe: per alcuni studiosi, anzi, le fiabe sono miti che hanno col tempo perso il loro significato originario e sono diventati semplici racconti trasmessi dalla cultura popolare. Le fiabe antiche perciò a volte “si nascondono” dentro i miti, che a loro volta condividono con le fiabe molti elementi narrativi comuni.

Il mito di Perseo

Una vera e propria fiaba è il mito dell’eroe Perseo. Dopo le circostanze straordinarie relative alla sua nascita, infatti, Perseo deve prima affrontare Medusa, un terribile mostro capace di pietrificare chiunque con lo sguardo, che viene sconfitta grazie all’aiuto di alcuni oggetti magici; riesce poi a salvare Andromeda, una fanciulla offerta in sacrificio a un’orrenda creatura marina; infine, fa ritorno in patria e si vendica del re Polidette, che gli aveva affidato l’impresa contro Medusa, diviene a sua volta re e sposa la principessa salvata, proprio come nelle fiabe.

Elementi fiabeschi nell’Odissea

Già il poema Odissea contiene molti elementi fiabeschi, tutti costruiti attorno alla figura del protagonista, Ulisse.

Attraversando mari e terre ignote Ulisse incontra una serie di personaggi tipici della fiaba: una maga (Circe) che trasforma uomini in animali, un aiutante magico (Atena) che lo soccorre, mostri antropofagi (cioè che mangiano uomini) come Scilla e così via. Una peripezia tipicamente fiabesca è quella che mette di fronte Ulisse e il Ciclope: come in tante fiabe (per esempio, Pollicino), anche qui abbiamo la sfida tra l’eroe del racconto e l’orco (il Ciclope). Ulisse, infatti, viene fatto prigioniero dal Ciclope che divora i compagni, ma grazie alla sua astuzia lo acceca e riesce a fuggire.

Giuseppe Cesari, Perseo libera Andromeda, 1594-1595. Roma, Fondo della collezione dell’Accademia di San Luca.

1. Ascolta il podcast dell’autore sulle origini della fiaba.

2. Inquadra il QR code e leggi il racconto omerico di Ulisse e Polifemo (Odissea IX, 105-115, 250-293, 345-412).

• Rispondi alle seguenti domande:

– Che cosa del Ciclope spaventa Ulisse e i suoi compagni?

– Che cosa chiede Ulisse al Ciclope?

– Quale inganno escogita Ulisse contro il Ciclope?

– Perché Ulisse dice al Ciclope di chiamarsi Nessuno?

• Scrivi un riassunto del brano.

3. Inquadra il QR code e leggi il breve brano relativo all’uccisione di Medusa da parte di Perseo (Ovidio, Metamorfosi IV, 779-786).

• Cerca in Rete informazioni sulla storia di Perseo, dalla sua nascita fino alla vendetta contro Polidette; poi raccontala in un podcast di massimo 4 minuti.

• In classe, poi, dividetevi in gruppi e, con l’aiuto dell’insegnante, individuate nel mito la presenza delle seguenti funzioni di Propp (o di altre ancora):

Persecuzione L’eroe è perseguitato da qualcuno che attenta alla sua vita.

Allontanamento L’eroe è allontanato dall’ambiente familiare dall’antagonista, che ha paura che il suo potere venga insidiato.

Prova L’eroe viene sottoposto a una prova di vario genere (un enigma da risolvere, una prova di forza o abilità).

Superamento L’eroe supera la prova cui è stato sottoposto dall’antagonista. Ritorno L’eroe torna a casa.

Punizione L’antagonista viene punito.

Lieto fine e premio L’eroe ottiene la ricompensa finale.

SCOPRIAMO GLI ANTENATI
Arnold Böcklin, Odisseo e Polifemo, 1896. Collezione privata.

IL GENERE AL CINEMA

Fiabe e favole sul grande schermo

I classici della Disney

Il genere fiabesco e favolistico è stato trasposto al cinema in due modi principali. Da un lato mettendo in scena vere e proprie fiabe o favole, spesso derivate dal repertorio letterario tradizionale. Dall’altro inserendo elementi fiabeschi e favolistici in opere che non sono propriamente fiabe e favole.

Gli esempi più popolari del primo modo di portare fiabe e favole sul grande schermo sono alcuni tra i più celebri film d’animazione prodotti da Walt Disney: Biancaneve e i sette nani (di David Hand, 1937), Pinocchio (di Ben Sharpsteen e Hamilton Luske, 1940), Cenerentola (di Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wilfred Jackson, 1950). Questi film hanno influito così profondamente sul nostro immaginario, che alcuni loro elementi sono entrati a far parte stabilmente della nostra memoria e della nostra cultura, come, per esempio, il valore simbolico di alcuni oggetti o azioni (basta pensare alla mela di Biancaneve), la convivenza tra personaggi umani e non umani (gli aiutanti animali di Cenerentola), la morale finale come lezione necessaria alla crescita (il destino di Pinocchio).

Nuovi adattamenti

In anni più recenti, il cinema ha cercato vie alternative per avvicinarsi al mondo della fiaba e della favola, per esempio con Il favoloso mondo di Amélie (di JeanPierre Jeunet, 2001): adottando l’ottica della protagonista, il film trasforma la Parigi contemporanea in una città colorata e surreale, dove la bontà e la forza dei sogni possono cambiare in meglio il destino delle persone.

Un altro modo di declinare fiabe e favole caratterizza invece uno dei titoli più famosi della storia del cinema, Star Wars: episodio IV – Una nuova speranza (di George Lucas, 1977). Anche se si tratta propriamente di fantascienza, già l’inizio, che riassume gli antefatti della storia («Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana...»), rivisita il tradizionale «C’era una volta...»; il film poi mette in scena il classico conflitto tra Bene e Male, coinvolgendo principesse, cavalieri (i jedi), cattivi metà guerrieri e metà stregoni (Darth Vader), aiutanti non umani (i robot), magia bianca e nera (la Forza, con il suo lato oscuro).

Ma non mancano altri esempi interessanti di questo tipo di adattamenti. The Village (di M. Night Shyamalan, 2004) è ambientato in una comunità isolata dal resto del mondo, circondata da una foresta infestata di creature mostruose; ma la realtà non è come sembra e il villaggio si rivela essere il luogo dove un gruppo di persone – deluse dalle meschinità del mondo – si è rifugiato nella speranza di costruire una società migliore. Ne Il labirinto del fauno (di Guillermo Del Toro, 2006), il cupo mondo in cui la protagonista evade per sottrarsi a una realtà violenta funge da specchio deformato di quella stessa realtà (l’Europa devastata dalla Seconda guerra mondiale). Big Fish – Le storie di una vita incredibile (di Tim Burton, 2003) presenta il rapporto tra un figlio bisognoso di affetto e un padre incapace di donarglielo perché impegnato a vivere avventure di carattere fantastico; il regista utilizza l’immaginario fiabesco e favolistico per riaffermare l’importanza della morale: comprendere davvero qualcuno significa anche accettarne i difetti e le mancanze, con affetto, rispetto e sensibilità. Il film è tratto dal romanzo omonimo dello scrittore Daniel Wallace.

Il favoloso mondo di Amélie
Il labirinto del fauno
Big Fish

COSTELLAZIONI

Fuori dal coro

Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore

La fiaba ha il potere di raccontare ciò che succede nel nostro mondo e nel nostro tempo, trasportandolo però in un altro luogo e in un altro tempo. Questo racconto dello scrittore danese Andersen (1805-1875) ne è un chiarissimo esempio: quando affermare la verità è rischioso, serve una grande lealtà per non cedere a una facile menzogna; quando poi tutti intorno a noi mentono per convenienza, bisogna essere coraggiosi per affermare anche le evidenze più banali. Bisogna essere coraggiosi, o – forse – basterebbe solo essere semplici come bambini.

Molti anni fa viveva un imperatore che amava così tanto i bei vestiti nuovi, che spendeva tutti i suoi soldi per agghindarsi1. Non gli interessavano i suoi soldati, non gli interessava la commedia né andare in carrozza nel bosco, ma solo farsi vedere con i suoi vestiti nuovi. Aveva una marsina2 per ogni ora del giorno, e come di un re si dice sempre che è in consiglio, di lui si diceva «l’imperatore è nel guardaroba!».

Nella grande città in cui abitava la vita era piuttosto piacevole, ogni giorno arrivavano molti stranieri e un giorno giunsero due truffatori; si spacciavano per tessitori e affermavano di essere in grado di tessere la stoffa più splendida che si possa immaginare. Non solo i colori e il disegno erano qualcosa di insolitamente bello, ma i vestiti cuciti con quella stoffa avevano la straordinaria caratteristica di diventare invisibili a chiunque non fosse all’altezza del suo incarico o fosse intollerabilmente stupido.

«Che splendidi vestiti» pensò l’imperatore, «indossandoli potrò scoprire quali uomini del mio regno non sono all’altezza dell’incarico che ricoprono, e potrò riconoscere gli intelligenti dagli stupidi! Sì, quella stoffa deve subito essere tessuta per me!» e consegnò molto danaro ai due truffatori perché cominciassero il loro lavoro. Quelli montarono persino due telai e fecero finta di lavorare, ma sul telaio non avevano nulla. Presto richiesero la seta più sottile e l’oro più sontuoso; se li infilavano nella borsa e lavoravano con i telai vuoti, e fino a tarda notte. «Ora mi piacerebbe sapere a che punto sono con la stoffa!» pensò l’imperatore, ma si sentiva davvero a disagio a pensare che chi era stupido o non era all’altezza del suo incarico non potesse vederla; naturalmente credeva di non aver nulla da temere per sé, ma avrebbe mandato prima qualcun altro a vedere come stavano le cose. In città tutti sapevano quale

Esplora altre #fiabe

Da Fiabe raccontate per bambini 1837, fiaba

1. agghindarsi: vestirsi in modo ricercato.

2. marsina: indumento da cerimonia, detto anche frac.

straordinario potere avesse la stoffa, e tutti erano ansiosi di vedere quanto fosse incapace o stupido il vicino.

«Manderò dai tessitori il mio vecchio, onesto ministro!» pensò l’imperatore. «Lui potrà vedere meglio di tutti che aspetto ha la stoffa, perché ha giudizio e nessuno più di lui è adatto al suo incarico!».

Ora il vecchio ministro entrò nella sala dove i due truffatori sedevano a lavorare con i telai vuoti. «Signore Iddio!» pensò il vecchio ministro e sgranò gli occhi! «Non riesco a vedere niente!». Ma non lo disse. I due truffatori lo pregarono di accomodarsi più vicino e chiesero se non aveva forse un bel disegno e degli splendidi colori. Poi indicarono il telaio vuoto, e il povero vecchio ministro continuava a sgranare gli occhi, ma non riusciva a vedere niente perché niente c’era. «Oh Dio!» pensò. «Che io sia stupido? Non l’avrei mai creduto, e nessuno deve saperlo! Che io non sia all’altezza del mio incarico? No, è meglio non rivelare che non riesco a vedere la stoffa!».

«Ebbene, non ne dite niente?» disse uno dei tessitori.

«Oh, è graziosa! Proprio molto carina!» disse il vecchio ministro e guardò attraverso i suoi occhiali. «Quel disegno e quei colori! Sì, dirò all’imperatore che mi piace in particolar modo!».

«Ebbene questo ci rallegra!» dissero entrambi i tessitori, ed elencarono i colori e parlarono del disegno. Il vecchio ministro ascoltò bene, perché avrebbe potuto ripetere le stesse parole quando sarebbe tornato dall’imperatore, e così fece.

Ora i truffatori chiesero altri soldi, altra seta e oro, dovevano usarli per la tessitura. Si infilarono tutto in tasca e sul telaio non finì nemmeno un filo, ma continuarono come prima a tessere sul telaio vuoto.

Dopo qualche giorno l’imperatore mandò di nuovo un bravo funzionario per vedere come andava con la tessitura, e se la stoffa sarebbe stata terminata presto. Gli andò come all’altro, guardava e guardava, ma poiché non c’era altro che il telaio vuoto, non poteva vedere niente.

«Ebbene, non è una bella pezza di stoffa?» dissero i due truffatori, indicando e spiegando lo splendido disegno che non c’era. «Stupido non sono!» pensò l’uomo. «Dunque non sono all’altezza del mio buon incarico? Che strano! Ma non bisogna farsi scoprire!» e così lodò la stoffa che non vedeva, e assicurò loro di essere contento dei bei colori e dello splendido disegno. «Sì, mi piace proprio in maniera particolare!» disse all’imperatore.

Tutti in città parlavano della meravigliosa stoffa.

Ora l’imperatore la volle vedere di persona mentre era ancora sul telaio. Con un’intera schiera di uomini scelti, fra i quali i due bravi vecchi funzionari che c’erano già stati, andò dai due astuti truffatori che ora tessevano a più non posso, ma senza filo né trama.

«Ebbene, non è magnifique3 ?» dissero i due bravi funzionari. «Vostra Maestà non vede che disegno, che colori?» e indicavano il telaio vuoto, poiché erano sicuri che gli altri potessero vedere la stoffa.

«Che cosa?» pensò l’imperatore. «Io non vedo niente! È terribile! Sono stupido? O non sono capace di fare l’imperatore? È la cosa più spaventosa che potesse accadermi!» «Oh, è molto bella!» disse l’imperatore. «Ha la mia suprema approvazione!» e annuì soddisfatto, osservando il telaio

vuoto; non voleva dire che non riusciva a vedere niente. Tutto il seguito che aveva con sé guardava e guardava e non ne cavava molto più degli altri, ma dicevano come l’imperatore: «Oh, è molto bella!» e gli consigliarono di indossare per la prima volta quei sontuosi vestiti nuovi alla grande processione che si sarebbe svolta di lì a poco. «È magnifique! Grazioso, eccellente!» passava di bocca in bocca, e tutti erano così sinceramente contenti. L’imperatore diede a ciascuno dei truffatori una croce da cavaliere da appendersi all’asola e il titolo di “nobile del telaio”. Per tutta la notte che precedeva la processione i truffatori rimasero in piedi tenendo più di sedici candele accese. La gente poteva vedere che erano indaffarati a terminare i vestiti nuovi dell’imperatore. Fecero finta di prendere la stoffa dal telaio, tagliarono nell’aria con grandi forbici, cucirono con l’ago senza filo e dissero infine: «Ecco, ora i vestiti sono finiti!». L’imperatore andò personalmente a ritirarli accompagnato dai suoi più nobili cavalieri, ed entrambi i truffatori sollevarono un braccio in aria come se tenessero qualcosa e dissero: «Ecco i pantaloni! Ecco la marsina! Ecco il mantello!» e così via. «È leggero come una tela di ragno! Vi sembrerà di non aver niente sul corpo, ma è proprio questa la sua virtù!». «Già!» dissero tutti i cavalieri, ma non riuscivano a vedere niente, perché niente c’era.

«Vostra Maestà Imperiale, volete ora avere la grazia di togliervi i vestiti?» dissero i truffatori. «Così Vi faremo indossare quelli nuovi, qui davanti al grande specchio!».

L’imperatore si tolse tutti i vestiti e i truffatori si comportarono come se gli dessero ogni capo dei nuovi che avrebbero dovuto cucire, e l’imperatore si girava e rigirava davanti allo specchio.

«Dio come vi stanno bene! Vi vanno a pennello!» dicevano tutti. «Che disegno! Che colori! È un abito prezioso!».

«Fuori stanno aspettando col baldacchino che deve accompagnare Vostra Maestà in processione!» disse il maestro di cerimonie.

«Sì, del resto sono pronto!» disse l’imperatore. «Non mi sta bene?» e si girò ancora una volta davanti allo specchio! Perché ora doveva sembrare che ammirasse davvero i suoi orpelli4 .

I ciambellani che dovevano reggere lo strascico brancolarono con le mani sul pavimento, come se lo raccogliessero, e camminarono tenendo l’aria, non osavano far vedere che non riuscivano a vedere niente.

Così l’imperatore andò in processione sotto lo splendido baldacchino e tutta la gente per strada e alle finestre diceva: «Dio quanto sono incomparabili i vestiti nuovi dell’imperatore! Che splendida coda ha sulla marsina! Come gli sta d’incanto!». Nessuno voleva far vedere che non vedeva niente, perché altrimenti sarebbe passato per stupido o non all’altezza del suo incarico. Nessuno dei vestiti del re aveva mai riscosso tanto successo. «Ma non ha niente addosso», disse un bambino. «Signore Iddio, sentite la voce dell’innocenza», disse il padre; e ognuno sussurrò all’altro ciò che diceva il bambino.

«Ma non ha niente addosso!» gridarono infine tutti insieme. L’imperatore si fece piccolo piccolo, perché gli sembrava che avessero ragione, ma pensò: «Ora devo arrivare fino alla fine della processione». E i ciambellani camminavano e portavano lo strascico che proprio non c’era.

(H.C. Andersen, Fiabe e storie, trad. di B. Berni, Feltrinelli, Milano, 2015)

4. orpelli: ornamenti vistosi.

L’imperatore

I funzionari

Il testo e io

Una fiaba apparentemente semplice come quella di Andersen risulta in realtà abbastanza complessa: i personaggi, anche se sono resi con pochi e brevi tratti, presentano caratteristiche psicologiche originali, ogni volta diverse e non banali. Osserviamoli da vicino.

IL TESTO...

Rileggi il testo, poi completa la tabella.

Quali sono i due motivi per cui l’imperatore si fa confezionare dei nuovi vestiti dai due truffatori?

Quali caratteristiche vengono attribuite ai due funzionari inviati dall’imperatore a controllare il lavoro? Che cosa determina il loro comportamento?

I ciambellani Il comportamento dei ciambellani è forse il più assurdo tra tutti. Cosa fanno? Per quale ragione si può definire così?

Il seguito del re Per quali ragioni tutti i cavalieri lodano un vestito che non sono in grado di vedere?

Il bambino Perché il bambino si comporta in modo diverso da tutti gli altri?

La stoffa

Identifica nel testo tutte le frasi in cui viene ripetuto che la stoffa non esiste. Per quale ragione secondo te il narratore lo ripete con tale insistenza?

La morale Secondo te la fiaba contiene una morale? Quale?

...E IO

Nelle esperienze della nostra vita possiamo esserci trovati in situazioni analoghe a quella raccontata nella fiaba, situazioni in cui affermare la semplice verità sembra impossibile, anche se questa è di fronte agli occhi di tutti: a volte siamo l’imperatore, a volte uno dei truffatori o il bravo funzionario, un cavaliere al seguito del re o il bambino. Perché pensi che sia così difficile avere il coraggio di smascherare una menzogna? La morale della fiaba ti pare ingenua oppure svela aspetti importanti del nostro modo di vivere con gli altri? Rifletti su questi temi e appunta le tue considerazioni. Scrivi poi una pagina di diario per raccontare un episodio in cui ti sei ritrovato nella situazione di uno dei personaggi di Andersen oppure ne sei stato testimone. Avresti potuto comportarti diversamente? Se sì, come?

Il topo di campagna e il topo di città; La cicala e la formica

L’autore Secondo una tradizione in parte leggendaria, lo scrittore greco Esopo (probabilmente vissuto tra VII e VI secolo a.C.) giunse in Grecia come schiavo (dall’Asia Minore o dall’Africa) e ottenne poi la libertà. Il suo nome è associato al genere letterario della favola, del quale è considerato l’inventore, nella sua forma letteraria scritta.

L’opera e i testi Le sue Favole sono una raccolta di 358 brevi testi, che seguono perlopiù uno schema fisso: sono componimenti brevi, generalmente con animali personificati come protagonisti e una conclusione che contiene una morale molto semplice ed esplicita. Molte delle favole di Esopo sono state poi riprese e rielaborate da autori successivi.

Nei due testi qui proposti, le domande che la morale pone sono universalmente valide: meglio una vita parca ma sicura, o un’esistenza colma di ricchezze, ma segnata da continui pericoli? È meglio godersi la vita con allegria e spensieratezza, o comportarsi saggiamente per garantirsi la sicurezza nel lungo inverno che verrà?

Il topo di campagna e il topo di città

Un giorno il topo di città andò a trovare il cugino di campagna. Questo cugino era di modi semplici e rozzi, ma amava molto il cugino di città e gli diede un cordiale benvenuto. Lardo e fagioli, pane e formaggio erano tutto ciò che poteva offrirgli, ma li offrì volentieri. Il topo di città torse il lungo naso e disse:

– Non riesco a capire, caro cugino, come tu possa vivere con un cibo così misero ma, certo, in campagna non ci si può aspettare di meglio. Vieni con me, e io ti farò vedere come si vive. Quando avrai trascorso una settimana in città, ti meraviglierai di aver potuto sopportare la vita in campagna! Detto fatto, i due topi si misero in cammino e arrivarono all’abitazione del topo di città a notte tarda.

– Desideri un rinfresco, dopo un viaggio così lungo? – domandò con cortesia il topo di città; e condusse l’amico nella grande sala da pranzo. Qui trovarono i resti di un ricco banchetto e si misero subito a divorare dolci, marmellata e tutto quello che c’era di buono.

A un tratto udirono dei latrati.

– Che cos’è questo? – chiese il topo di campagna.

– Oh, sono soltanto i cani di casa. – rispose l’altro.

– Soltanto! – esclamò il topo di campagna. – Non amo questa musica, durante i pasti. – In quell’istante si spalancò la porta ed entrarono due enormi mastini: i due topi ebbero appena il tempo di saltar giù e di correre fuori.

– Addio, cugino. – disse il topo di campagna.

– Come! Te ne vai così presto? – chiese l’altro.

– Sì! – replicò il topo di campagna: – Meglio lardo e fagioli in pace che dolci e marmellata nell’angoscia.

Da Favole VI secolo a.C., favole

La cicala e la formica

C’era una volta un’allegra cicala che continuava a cantare. Una formica invece faticava sotto il sole caldo dell’estate trasportando chicchi di grano.

Tra una pausa e l’altra del suo canto la cicala si rivolgeva alla formica: –Perché non smetti di lavorare: potresti cantare insieme a me!

La formica instancabile rispondeva: – Non posso! Sto accumulando le provviste per l’inverno, quando farà freddo e non ci sarà niente da mangiare!

– L’estate è ancora lunga e c’è tempo per fare provviste. Con questo caldo è impossibile lavorare!

La cicala continuò a cantare per tutta l’estate finché arrivò l’autunno e poi l’inverno. Venne la neve e la cicala si ritrovò infreddolita e senza più nulla da mangiare.

Una notte bussò alla porticina della formica: – Apri, apri, sto morendo di fame, dammi qualcosa da mangiare! – gridò, affondando nella neve. La porticina si aprì e la formica si affacciò: – Ti riconosco, tu sei la cicala, che cos’hai fatto durante l’estate mentre io lavoravo?

– Cantavo...

La formica chiuse la porta: – Hai cantato? Bene, adesso balla! Morale: non bisogna essere negligenti per non affliggersi ed essere in pericolo.

(Esopo, Favole, trad. di E. Ceva Valla, Rizzoli, Milano, 1998)

François Chauveau, illustrazione di La cicala e la formica per Le favole di La Fontaine (1668).

Uomini e topi, cicale e formiche

In entrambe le favole sono facilmente identificabili gli elementi tipici del genere Innanzitutto, gli animali personificati: il loro comportamento rappresenta un motivo di riflessione sui vizi e le virtù degli uomini, sui loro istinti, desideri e passioni. Nel primo testo i due topi mostrano due diversi atteggiamenti nei confronti della vita: il topo di città è raffinato e disprezza il modo di vivere semplice del cugino; questi è forse ingenuo, ma certo affettuoso e generoso. Anche il secondo testo è secco nella sua essenzialità e mette a confronto senza troppe sfumature due atteggiamenti: quello di chi spreca tempo prezioso e quello di chi, con il sacrificio, sa garantirsi un’esistenza sicura.

Il narratore e la morale

Come in tutte le favole, a raccontare la vicenda è la voce di un narratore esterno e onnisciente: è proprio grazie a questa sua posizione di superiorità rispetto ai personaggi che ha la possibilità di ricavare la morale della favola e di offrirla ai lettori come monito di saggezza. Nel primo testo l’insegnamento finale è esposto implicitamente dal topo di campagna nella sua battuta conclusiva (rr. 25-26) e il suo significato deve quindi essere desunto dal lettore (meglio una vita serena, anche se semplice, piuttosto che una ricchezza vissuta nella paura).

Nel secondo l’ammaestramento è espresso chiaramente nella frase di chiusura, introdotta nell'esplicita indicazione «Morale».

◗ Comprensione

1. Perché il topo di città invita il cugino a trasferirsi da lui?

2. Quali animali costringono i topi a scappare dal loro banchetto?

3. Quali scuse adduce la cicala per non lavorare?

4. Che cosa intende dire la formica quando afferma: «Bene, adesso balla!»?

◗ Analisi

5. Ti sembra che queste due favole abbiano una ricca componente descrittiva e narrativa? Motiva la tua risposta.

6. Quali virtù rappresentano in modo allegorico la cicala e la formica?

◗ Lingua e stile

7. L’affermazione del topo di campagna «Non amo questa musica, durante i pasti» (rr. 19-20) è da intendersi in senso:

A serio e letterale. B figurato e ironico.

◗ Scrittura

8. EDUCAZIONE CIVICA Nella favola della cicala e della formica, la morale fa luce sull’opportunità e il beneficio del risparmio in previsione del futuro. In termini ambientali, le politiche dei vari Paesi sono state invece improntate al consumo e allo spreco e solo adesso si comincia a capire l’importanza di un atteggiamento previdente. Nella tua vita di tutti i giorni ci sono azioni concrete che, per quanto piccole, potresti compiere per cambiare in meglio le tue abitudini? Scrivi una riflessione in merito.

LAVORIAMO SUL TESTO
RIFLETTIAMO SUL TESTO

Da I racconti di Mamma Oca 1697, fiaba

T 4

Charles Perrault Barbablù

L’autore Charles Perrault (1628-1703), nato a Parigi in una famiglia benestante dell’alta borghesia, studiò giurisprudenza e trovò impiego nell’amministrazione dello Stato. Per tutta la vita coltivò i propri interessi artistici e letterari e, nel 1697, pubblicò con inatteso successo la raccolta di undici fiabe intitolata Racconti e storie del passato con una morale, poi ribattezzata I racconti di Mamma Oca. Perrault seppe arricchire con la sua creatività il materiale della tradizione popolare, dando così un contributo fondamentale alla nascita della fiaba moderna.

L’opera e il testo I racconti di Mamma Oca raccolgono le prime versioni scritte, in prosa e in versi, di alcune delle più celebri fiabe di tutti i tempi (La bella addormentata nel bosco, Il gatto con gli stivali, Cenerentola, Pollicino, e anche Cappuccetto Rosso, poi pubblicata anche nella raccolta dei fratelli Grimm). Perrault rimane piuttosto fedele, anche nella semplicità dell’intreccio, alla tradizione popolare, aggiungendo però il personaggio del narratore, la contadina Mamma Oca, che dà il titolo alla raccolta. Barbablù è una fiaba che unisce elementi del racconto fantastico con altri elementi della storia di paura: dietro la facciata di un palazzo lussuoso e ricchissimo, si nasconde una stanza misteriosa, che racchiude un terribile segreto. E la morale in questo caso è un ammonimento a non essere troppo curiosi. Il testo qui proposto è quello della traduzione ottocentesca di Carlo Collodi, l’autore di Pinocchio.

1. piatterie: stoviglie.

2. le menò: le condusse.

3. guardarobe: stanze nelle quali si ripongono abiti e biancheria.

4. finimenti: ornamenti.

C’era una volta un uomo, il quale aveva palazzi e ville principesche, e piatterie1 d’oro e d’argento, e mobilia di lusso, e carrozze tutte dorate di dentro e di fuori. Ma quest’uomo, per sua disgrazia, aveva la barba blu: e questa cosa lo faceva così brutto e spaventoso, che non c’era donna, ragazza o maritata, che soltanto a vederlo, non fuggisse a gambe dalla paura. Fra le sue vicine, c’era una gran dama, la quale aveva due figlie, due occhi di sole. Egli ne chiese una in moglie, lasciando alla madre la scelta di quella delle due che avesse voluto dargli: ma le ragazze non volevano saperne nulla, non trovando il verso di risolversi a sposare un uomo che aveva la barba blu. La cosa poi che più di tutto faceva loro ribrezzo era quella che quest’uomo aveva sposato diverse donne e di queste non s’era mai potuto sapere che cosa fosse accaduto. Fatto sta che Barbablù, tanto per entrare in relazione, le menò2, insieme alla madre e a tre o quattro delle loro amiche e in compagnia di alcuni giovinotti del vicinato, in una sua villa, dove si trattennero otto giorni interi. E lì, fu tutto un metter su passeggiate, partite di caccia e di pesca, balli, festini, merende: insomma, le cose presero una così buona piega, che la figlia minore finì col persuadersi che il padrone della villa non aveva la barba tanto blu, e che era una persona ammodo e molto perbene. Tornati di campagna, si fecero le nozze. In capo a un mese, Barbablù disse a sua moglie che per un affare di molta importanza era costretto a mettersi in viaggio e a restar fuori almeno sei settimane: che la pregava di stare allegra, durante la sua assenza; che invitasse le sue amiche del cuore, che le menasse in campagna, caso le avesse fatto piacere. «Ecco», le disse, «le chiavi delle due grandi guardarobe3: quella dei piatti d’oro e d’argento; quella degli scrigni, dove tengo i sacchi delle monete; quella degli astucci, dove sono le gioie e i finimenti4

di pietre preziose. Quanto poi a quest’altra chiavicina qui, è quella della stanzina, che rimane in fondo al gran corridoio del pian terreno. Padrona di aprir tutto, di andar dappertutto: ma in quanto alla piccola stanzina, vi proibisco d’entrarvi e ve lo proibisco in modo così assoluto, che se vi accadesse per disgrazia di aprirla, potete aspettarvi tutto dalla mia collera». Ella promette che sarebbe stata attaccata agli ordini5: ed egli, dopo averla abbracciata, monta in carrozza, e via per il suo viaggio. Le vicine e le amiche non aspettarono di essere cercate, per andare dalla sposa novella, tanto si struggevano dalla voglia di vedere tutte le magnificenze del suo palazzo […]. Esse non rifinivano dal magnificare e dall’invidiare la felicità della loro amica, la quale, invece, non si divertiva punto alla vista di tante ricchezze, tormentata, com’era, dalla gran curiosità di andare a vedere la stanzina del pian terreno. Quando fu sola, prese per una scaletta segreta, e scese giù con tanta furia, che due o tre volte ci corse poco non si rompesse l’osso del collo. Arrivata all’uscio della stanzina, si fermò un momento, ripensando alla proibizione del marito, ma la tentazione fu così potente, che non ci fu modo di vincerla. Prese dunque la chiave, e tremando come una foglia aprì l’uscio della stanzina. Dapprincipio non poté distinguere nulla perché le finestre erano chiuse: ma a poco a poco cominciò a vedere che il pavimento era tutto coperto di sangue accagliato6, dove si riflettevano i corpi di parecchie donne morte e attaccate in giro alle pareti. Erano tutte le donne che Barbablù aveva sposate, eppoi sgozzate, una dietro l’altra. Se non morì dalla paura, fu un miracolo: e la chiave della stanzina, che essa aveva ritirato fuori dal buco della porta, le cascò di mano. Quando si fu riavuta un poco, raccattò la chiave, richiuse la porticina e salì nella sua camera, per rimettersi dallo spavento. Essendosi avvista7 che la chiave della stanzina si era macchiata di sangue, la ripulì due o tre volte: ma il sangue non voleva andar via. Ebbe un bel lavarla e un bello strofinarla: il sangue era sempre lì: perché la chiave era fatata e non c’era verso di pulirla perbene: quando il sangue spariva da una parte, rifioriva subito da quell’altra. Barbablù tornò dal suo viaggio quella sera stessa, raccontando che per la strada aveva ricevuto lettere, dove gli dicevano che l’affare, per il quale si

5. sarebbe… ordini: avrebbe obbedito.

6. accagliato: rappreso.

7. Essendosi avvista: essendosi accorta.

Gustave Doré, illustrazione per Barbablù di Charles Perrault, 1867. In questa scena Barbablù consegna alla moglie le chiavi del palazzo, vietandole di entrare nella stanza proibita.

8. Il giorno dipoi: Il giorno successivo.

9. con… polmoni: con tutto il fiato che aveva.

era dovuto muovere da casa, era stato bell’e accomodato e in modo vantaggioso per lui. La moglie fece tutto quello che poté per dargli ad intendere che era oltremodo contenta del suo sollecito ritorno. Il giorno dipoi 8 il marito le richiese le chiavi: ed ella gliele consegnò […]. Barbablù, dopo averci messo sopra gli occhi, domandò alla moglie: «Come mai su questa chiave c’è del sangue?». «Non lo so davvero», rispose la povera donna, più bianca della morte. «Ah! non lo sapete, eh!», replicò Barbablù, «ma lo so ben io! Voi siete voluta entrare nella stanzina. Ebbene, o signora: voi ci entrerete per sempre e andrete a pigliar posto accanto a quelle altre donne, che avete veduto là dentro». Ella si gettò ai piedi di suo marito piangendo e chiedendo perdono, ma Barbablù aveva il cuore più duro del macigno. «Bisogna morire, signora», diss’egli, «e subito». «Poiché mi tocca a morire», ella rispose guardandolo con due occhi tutti pieni di pianto, «datemi almeno il tempo di raccomandarmi a Dio». «Vi accordo un mezzo quarto d’ora: non un minuto di più», replicò il marito. Appena rimasta sola, chiamò la sua sorella e le disse: «Anna, sorella mia, ti prego, sali su in cima alla torre per vedere se per caso arrivassero i miei fratelli; mi hanno promesso che oggi sarebbero venuti a trovarmi; se li vedi, fa’ loro segno, perché si affrettino a più non posso». La sorella Anna salì in cima alla torre e la povera sconsolata le gridava di tanto in tanto: «Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?».

«Non vedo altro che il sole che fiammeggia e l’erba che verdeggia».

Intanto Barbablù, con un gran coltellaccio in mano, gridava con quanta ne aveva ne’ polmoni9: «Scendi subito! O se no, salgo io». «Un altro minuto, per carità» rispondeva la moglie. E di nuovo si metteva a gridare con voce soffocata: «Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?». «Non vedo altro che il sole che fiammeggia e l’erba che verdeggia».

«Spicciati a scendere», urlava Barbablù, «o se no salgo io». «Eccomi» rispondeva sua moglie; e daccapo a gridare: «Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?».

«Vedo», rispose la sorella Anna, «vedo un gran polverone che viene verso questa parte…».

«Sono forse i miei fratelli?».

Gustave Doré, illustrazione per Barbablù di Charles Perrault, 1867. I fratelli della moglie di Barbablù uccidono il protagonista del racconto.

«Ohimè no, sorella mia: è un branco di montoni».

«Insomma vuoi scendere, sì o no?», urlava Barbablù. «Un altro momentino» rispondeva la moglie: e tornava a gridare: «Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?».

«Vedo», ella rispose, «due cavalieri che vengono in qua: ma sono ancora molto lontani».

«Sia ringraziato Iddio», aggiunse un minuto dopo, «sono proprio i nostri fratelli: io faccio loro tutti i segni che posso, perché si spiccino e arrivino presto».

Intanto Barbablù si messe10 a gridare così forte, che fece tremare tutta la casa. La povera donna ebbe a scendere, e tutta scapigliata11 e piangente andò a gettarsi ai suoi piedi: «Sono inutili i piagnistei», disse Barbablù, «bisogna morire». Quindi pigliandola con una mano per i capelli, e coll’altra alzando il coltellaccio per aria, era lì lì per tagliarle la testa. In quel punto fu bussato così forte alla porta di casa, che Barbablù si arrestò tutt’a un tratto; e appena aperto, si videro entrare due cavalieri i quali, sfoderata la spada, si gettarono su Barbablù. Esso li riconobbe subito per i fratelli di sua moglie, uno dragone e l’altro moschettiere 12, e per mettersi in salvo, si dette a fuggire. Ma i due fratelli lo inseguirono tanto a ridosso, che lo raggiunsero prima che potesse arrivare sul portico di casa. E costì13 colla spada lo passarono da parte a parte e lo lasciarono morto.

(C. Perrault, I racconti delle fate, trad. di C. Collodi, Adelphi, Milano, 1976)

RIFLETTIAMO SUL TESTO

Un difetto fisico come segnale di malvagità morale

In questa celebre fiaba, Perrault mette in scena una situazione piuttosto comune ai suoi tempi, quella di un matrimonio combinato. In questo caso c’è un signore, facoltoso e di età matura, che, senza alcun coinvolgimento sentimentale, chiede la mano di una di due sorelle (tra le quali, significativamente, non ha preferenze).

Il particolare che fa la differenza tra realtà e fiaba è costituito, all’inizio, da un tratto anomalo del personaggio, ovvero un’inquietante barba blu. Questo è il segnale che il protagonista forse non è un uomo come tutti gli altri, e tantomeno «una persona ammodo e molto perbene» (rr. 18-19) come inizia a pensare una delle due sorelle, convinta dalla ricca ospitalità del pretendente. Si scopre, infatti, che Barbablù è un feroce assassino, per il quale forse Perrault si era ispirato a una

figura storica, quella di Gilles de Rais, un nobile francese impiccato nel 1440 per aver torturato e ucciso moltissimi bambini e giovinette, nel corso di rituali a sfondo magico.

Una morale tradizionalista

Barbablù attende però un pretesto per uccidere la moglie e sottopone la ragazza a una “prova”: resistere alla tentazione della curiosità, un “difetto” tradizionalmente associato alla donna dai pregiudizi maschilisti. L’elemento di ammonizione contenuto nella fiaba è dunque questo: essere troppo curiosi è molto pericoloso e bisogna sempre obbedire al proprio marito. Si tratta di una morale molto retrograda e tradizionalista. In effetti la fiaba è stata spesso utilizzata anche come strumento per inculcare, fin dall’infanzia, l’ideologia dominante all’epoca, secondo cui la donna doveva sottostare ai voleri dell’uomo (soprattutto del marito).

10. si messe: si mise.

11. scapigliata: scompigliata e arruffata.

12. dragone… moschettiere: i dragoni e i moschettieri erano due reparti dell’esercito.

13. costì: lì.

◗ Comprensione

1. In che modo Barbablù cerca di convincere una delle giovani a sposarlo?

2. Perché Barbablù torna a casa la sera stessa che è partito?

3. In che modo Barbablù scopra che la moglie non ha rispettato il suo divieto?

4. Con quale pretesto la moglie riesce a prendere tempo e a isolarsi in una stanza, lontana dal marito?

5. Per quale motivo la sorella della ragazza si trova a casa di Barbablù?

6. Come riesce a salvarsi la ragazza?

◗ Analisi

7. Come definiresti la focalizzazione della voce narrante?

A Di grado zero B Interna C Esterna

8. Quale funzione di Propp è presente nelle raccomandazioni che Barbablù dà alla moglie prima di partire?

9. Quale ruolo tipico delle fiabe svolge la sorella Anna?

10. Conosciamo il nome della moglie? Secondo te perché?

◗ Lingua e stile

11. Che cosa significa propriamente la frase «la figlia minore finì col persuadersi che il padrone della villa non aveva la barba tanto blu» (rr. 17-18)?

12. Nella frase: «Se non morì dalla paura, fu un miracolo: e la chiave della stanzina, che essa aveva ritirato fuori dal buco della porta, le cascò di mano» (rr. 49-53), l’espressione “morì di paura” rappresenta una figura retorica. Quale?

13. Il verbo “spicciare” o il riflessivo “spicciarsi” (r. 97 e r. 110) provengono dall’antico francese. Qual è il significato comune di questo verbo?

◗ Scrittura

14. Scrivi un testo di 15 righe con una tua interpretazione di questa fiaba. Puoi seguire le seguenti domande.

• Quale messaggio vuole veicolare questa fiaba?

• Che cosa ti ha colpito maggiormente nella fiaba?

• La fiaba presenta ambiguità? Se sì, quali?

◗ Produzione orale

15. In un’epoca in cui la notizia di femminicidi è tragicamente ricorrente, è appena il caso di ribadire l’attualità della figura di Barbablù. Il testo di Perrault, in modo conforme alla mentalità dell’epoca, racconta la violenza dell’uomo come conseguenza di un comportamento “scorretto” della moglie. Pensi che oggi ci sia ancora un riflesso di questa mentalità, che vede nella donna una parte di responsabilità nella violenza subita? In classe, dividetevi in gruppi e discutete su questo tema, poi un portavoce riassuma e argomenti a voce i risultati del confronto.

T 5

Gianni Rodari

Il semaforo blu

L’autore Giovanni Francesco Rodari (1920-1980), noto come Gianni, nacque nel 1920 in un piccolo paese del Piemonte. Divenuto maestro di scuola, esercitò con passione il suo lavoro, che ispirò la composizione dei suoi testi caratterizzando la sua opera letteraria per il ruolo fondamentale della fantasia. Soldato nella Seconda guerra mondiale, entrò nella Resistenza come partigiano, dedicandosi poi, dopo la Liberazione, alla carriera giornalistica. Morì a Roma nel 1980. Della sua vasta produzione, dedicata in particolare a bambini e ragazzi, ricordiamo i romanzi Le avventure di Cipollino (1951), La freccia azzurra (1954), C’era due volte il barone Lamberto (1978) e le numerose raccolte di racconti, favole e filastrocche, come Filastrocche in cielo e in terra (1960), Favole al telefono (1962), I viaggi di Giovannino Perdigiorno (1973).

L’opera e il testo La raccolta Favole al telefono comprende 70 brevissimi racconti di genere misto: molte sono fiabe, alcune sono favole, molte altre sono una contaminazione fra i due generi. Il titolo della raccolta nasce dal fatto che il protagonista, il ragionier Bianchi, quando è fuori per lavoro tutte le sere telefona alla figlia per raccontarle la storia della buona notte. La caratteristica di questi brevissimi testi è la fantasia estrema, che invita però il lettore a guardare la realtà da un punto di vista diverso e a non farsi intrappolare dagli schemi della società moderna.

Il semaforo blu è una favola il cui protagonista è un semaforo in piazza Duomo a Milano, che un giorno invece del verde, del rosso e del giallo, si accende di blu, mandando automobilisti e pedoni in confusione.

Favole al telefono 1962, favola

Una volta il semaforo che sta a Milano in piazza Duomo fece una stranezza. Tutte le sue luci, ad un tratto, si tinsero di blu, e la gente non sapeva più come regolarsi.

– Attraversiamo o non attraversiamo? Stiamo o non stiamo? Da tutti i suoi occhi, in tutte le direzioni, il semaforo diffondeva l’insolito segnale blu, di un blu che così blu il cielo di Milano non era stato mai. In attesa di capirci qualcosa gli automobilisti strepitavano e strombettavano, i motociclisti facevano ruggire lo scappamento e i pedoni più grassi gridavano:

– Lei non sa chi sono io!

Gli spiritosi lanciavano frizzi1: – Il verde se lo sarà mangiato il commendatore, per farci una villetta in campagna. – Il rosso lo hanno adoperato per tingere i pesci ai Giardini. – Col giallo sapete che ci fanno? Allungano l’olio d’oliva. Finalmente arrivò un vigile e si mise lui in mezzo all’incrocio a districare il traffico. Un altro vigile cercò la cassetta dei comandi per riparare il guasto, e tolse la corrente. Prima di spegnersi il semaforo blu fece in tempo a pensare: “Poveretti! Io avevo dato il segnale di “via libera” per il cielo. Se mi avessero capito, ora tutti saprebbero volare. Ma forse gli è mancato il coraggio”.

(G. Rodari, Favole al telefono, Feltrinelli, Milano, 2010)

1. frizzi: battute pungenti.

AUDIO
Da

Una favola della contemporaneità Protagonista del Semaforo blu è un oggetto inanimato – un semaforo appunto – che già di per sé ha una funzione e un significato ben preciso: è un simbolo del mondo contemporaneo, un oggetto con cui ogni giorno i cittadini devono “interagire”, quello che a ogni incrocio “comunica” loro se possono procedere o devono fermarsi. È un oggetto, dunque, che regola un elemento prezioso, il tempo, anche se solo il tempo degli spostamenti, e scandisce così una parte importante della giornata delle persone. Ma il semaforo è simbolo della contemporaneità anche perché la funzione stessa di regolare il traffico è una necessità delle città moderne, dove la vita è frenetica, le strade sono un viavai di gente indaffarata che corre e obbedisce alla macchina del lavoro, della produttività, del denaro, senza concedersi

il tempo di respirare e godere del momento. Non a caso, il semaforo di questa favola è nel cuore di Milano, capitale del lavoro, dell’industria, dell’economia, in altre parole della vita moderna.

La morale implicita: alzare lo sguardo

La favola si apre con l’azione eccentrica del semaforo e si chiude con il suo sconsolato commento, che detta la morale del racconto. Gli esseri umani, infatti, abituati a seguire il flusso, a obbedire agli obblighi e alle regole della vita quotidiana (orari da rispettare, posti di lavoro dove andare, percorsi fissi da seguire), hanno perso la capacità di immaginare, il desiderio di spostare lo sguardo e vedere al di là del proprio angusto schema quotidiano: hanno perso, soprattutto, il coraggio di scegliere diversamente, la libertà di prendere il volo verso nuove possibilità.

LAVORIAMO SUL TESTO

◗ Comprensione

1. In che cosa consiste la stranezza compiuta dal semaforo?

2. Come reagisce la gente alla vista delle luci blu?

◗ Analisi

3. Dividi il testo in sequenze assegnando a ciascuna una parola-titolo.

4. A quali fasi della fabula faresti corrispondere le sequenze individuate nell’esercizio 3? Motiva la tua risposta.

◗ Lingua e stile

5. Come definiresti il registro linguistico di questa favola? Motiva la tua risposta.

6. Nel testo viene usato un aggettivo che oggi risulterebbe offensivo, ma che negli anni Sessanta, quando Rodari ha scritto il racconto, non avrebbe urtato la sensibilità. Rintraccialo e immagina di essere un editore o un critico che deve spiegare, oggi, all’autore perché usare quell’aggettivo non è opportuno.

◗ Scrittura

7. Pensa alla realtà in cui vivi, alla tua città, ai suoi problemi e allo stile di vita degli adulti. Scrivi ora tu una favola con una morale, implicita o esplicita, che faccia riflettere su un tema di interesse comune.

Oltre gli stereotipi

T 6

Margaret Atwood C’era una volta

La fiaba è un genere antichissimo e racconta storie ambientate in luoghi e tempi indefiniti e lontani da noi: «C’era una volta, in un paese lontano lontano…». I protagonisti hanno spesso caratteristiche simili e le loro vicende, come si è visto, seguono schemi narrativi più o meno fissi. Ma che cosa succederebbe se si provasse a scrivere una fiaba ambientata ai nostri giorni, nella periferia di una città? È quello che prova a fare Margaret Atwood (1939), che sembra però non riuscire ad andare oltre l’incipit

– C’era una volta una ragazza povera, bella e buona, che viveva con una matrigna malvagia in una casa nel bosco.

– Nel bosco? Bosco è così passatista1, voglio dire, ne ho fin qua di tutta questa roba legata alla natura. Non è un’immagine adatta alla società di oggi. Proviamo con qualcosa di urbano, una volta tanto.

– C’era una volta una ragazza povera, bella e buona, che viveva con una malvagia matrigna in una casa in periferia.

– Meglio. Ma ho dei seri dubbi per quel che concerne quel povera.

– Ma era povera!

– La povertà è relativa. Viveva in una casa, no?

– Sì.

– Allora, dal punto di vista socio-economico, non era povera.

– Ma i soldi non erano suoi! Il punto della storia è proprio che la matrigna malvagia la costringeva a indossare vestiti vecchi e a dormire nel camino… – Ah-ah! Avevano un camino! I poveri, lascia che te lo dica, non ce l’hanno un camino. Vieni a farti un giro al parco, o alla stazione, di notte, o dovunque si buttino a dormire coperti solo dai cartoni, e te li faccio vedere io, i veri poveri!

– C’era una volta una ragazza della classe media, bella e buona…

– Fermo lì. Credo che potremmo fare a meno di quel bella, che dici? Già così, ora come ora le donne devono vedersela con dei modelli irraggiungibili, con tutte quelle bonazze nelle pubblicità. Non potresti renderla, be’, più normale?

– C’era una ragazza un po’ sovrappeso e con i denti un po’ sporgenti che…

– Non mi sembra bello prendere in giro qualcuno per il suo aspetto. In più, incoraggi l’anoressia.

– Non stavo prendendo in giro nessuno! Mi limitavo a descrivere…

Esplora altri libri sugli stereotipi

Da Good Bones 1992, fiaba

1. passatista: eccessivamente legato al passato, superato.

– Niente descrizione. Le descrizioni opprimono. Ma puoi dire di che colore era.

– Di che colore?

– Certo. Nera, bianca, rossa, gialla. Puoi scegliere. E lasciatelo dire, ne ho fin qua dei bianchi. Cultura dominante e tutto…

– Non so di che colore fosse.

– Be’, facile che sia del tuo colore, allora.

– Ma che c’entro io? Si tratta di una ragazza…

– Tu c’entri sempre.

– Ho come l’impressione che non ti interessi sentirla, questa storia.

– Be’, ok, vai avanti. Puoi sempre dire che era un frutto dell’ibridazione interrazziale2. Aiuterebbe.

– C’era una ragazza di origini incerte, dall’aspetto normale e buona, che viveva con la sua malvagia…

– Un’altra cosa. Buona e malvagia. Non credi che dovresti trascendere3 certe categorie puritane e moralistiche4? Voglio dire, è tutta una questione di educazione, no?

– C’era una volta una ragazza, dall’aspetto normale e benintenzionata, che viveva con la sua matrigna, che era tutt’altro che disponibile e affettuosa perché lei stessa aveva subito degli abusi nell’infanzia.

– Meglio. Ma questi stereotipi femminili negativi mi hanno stufato! Le matrigne, tocca sempre a loro! Perché non un patrigno, eh, che dici? Avrebbe anche più senso, se ci pensi, visti i pessimi comportamenti che stai per raccontare. E buttaci dentro delle fruste e delle catene. Sappiamo tutti come sono questi uomini di mezz’età: malati, repressi5 …

– Hey, calma! Io sono un uomo di mezz’età…

– Oh, piantala, caro il mio impiccione. Nessuno ti ha costretto a ficcarti in questa cosa. È una faccenda tra noi due. Va’ avanti.

– C’era una volta una ragazza…

– Quanti anni aveva?

– Non lo so. Era giovane.

– Finisce che si sposano, no?

– Be’, non voglio fare spoiler, ma sì.

– Allora piantala con questa terminologia paternalistica6. È donna, amico. Donna

– C’era una volta…

– Cosa sono questi era, una volta? Basta con il passato. Il passato è morto. Raccontami di adesso.

– C’è…

– Quindi?

– Quindi, cosa?

– Quindi, perché non qui?

(M. Atwood, Racconti da ridere, a cura di M. Rossari, Einaudi, Torino, 2017)

2. ibridazione interraziale: unione di soggetti appartenenti a etnie diverse.

3. trascendere: superare.

4. categorie puritane e moralistiche: modo di pensare rigido, intransigente ed eccessivamente legato alla morale comune.

5. repressi: frustrati e pieni di complessi.

6. paternalistica: con “paternalismo” si intende l’atteggiamento benevolo e protettivo nei confronti di qualcuno ritenuto inferiore a sé o incapace.

Il testo e io

Margaret Atwood mette in scena un assurdo dialogo attraverso il quale porta il lettore a rendersi conto degli stereotipi tipici della narrazione fiabesca. La «ragazza povera, bella e buona» perde pian piano tutte le sue caratteristiche, fino a scomparire completamente nel finale: è ancora possibile oggi raccontare (o vivere) una fiaba?

IL TESTO...

Il dialogo inizia dalla frase: «C’era una volta una ragazza povera, bella e buona, che viveva con una matrigna malvagia in una casa nel bosco». Ripercorri il testo e indica per ogni elemento qual è l’obiezione mossa dall’interlocutore a chi narra – o vorrebbe narrare – la storia:

• c’era:

• una volta: ...

• una ragazza:

• povera:

• bella:

• buona:

• una matrigna:

• malvagia:

• casa nel bosco: ...E IO

Molte narrazioni fiabesche presentano stereotipi simili, per esempio la fiaba Cappuccetto Rosso (→ T7), il cui ipotetico finale potrebbe essere il seguente: «Morto il lupo, Cappuccetto Rosso tornò dalla sua mamma e vissero per sempre felici e contente». Anche in questo caso si possono ritrovare diversi elementi che la società contemporanea percepirebbe in maniera diversa: l’uccisione di un animale, la cura dei figli affidata unicamente alla madre o una certa rappresentazione di famiglia perfetta e felice che emerge nelle ultime parole. Seguendo l’esempio del testo di Margaret Atwood e cercando di imitare lo stile che ha usato, scrivi un dialogo analogo della lunghezza di almeno 20 battute, che reinterpreti il finale proposto.

Testo di verifica

T

7

Jacob e Wilhelm Grimm Cappuccetto Rosso

Gli autori I fratelli Jacob (1785-1863) e Wilhelm Grimm (1786-1859) nacquero ad Hanau, vicino a Francoforte, in Germania. Dopo gli studi giuridici e le esperienze prima come bibliotecari e poi come professori nelle università di Kassel e a Gottinga, si dedicarono a raccogliere e poi a pubblicare il patrimonio narrativo dell’antica tradizione popolare nordica, contribuendo a formare l’identità nazionale tedesca.

L’opera e il testo Le Fiabe per i bambini e per la casa, conosciute anche come Fiabe del focolare, comprendono le fiabe popolari tedesche, trascritte dai fratelli attingendo ai racconti di famigliari e amici e confrontando e integrando le diverse varianti. Cappuccetto Rosso è una fiaba nota sia nella versione dei fratelli Grimm sia in quella di Charles Perrault: la storia della ragazzina imprudente, del lupo che inghiotte sia lei sia la nonna e del cacciatore che salva entrambe è stata riletta infinite volte e con le sfumature più diverse dalla letteratura, dal cinema e dal fumetto. La traduzione qui presentata si deve ad Antonio Gramsci (1891-1937), importante uomo politico e filosofo italiano, che si dedicò a questo lavoro durante gli anni di prigionia impostigli dal regime fascista.

C’era una volta una dolce fanciulla a cui tutti volevano bene, specialmente la nonna, la quale non sapeva più che cosa regalarle. Una volta le regalò un cappuccetto di velluto rosso e poiché le stava molto bene e non voleva portare niente altro, fu chiamata solo Cappuccetto Rosso.

Un giorno la madre le disse: «Va’, Cappuccetto Rosso, eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna, che è ammalata e debole e le farà bene. Levati prima che faccia troppo caldo e quando uscirai cammina composta e per benino, senza allontanarti dalla strada, perché altrimenti puoi cadere, rompere la bottiglia e la nonna non avrà nulla. E quando entri nella sua stanza, non dimenticare di dire buongiorno e non andare intorno a guardare negli angoli».

«Farò tutto per benino», disse Cappuccetto Rosso alla madre e per promessa le dette la mano. Ma la nonna abitava fuori, nella foresta, a una mezz’ora dal villaggio. Appena Cappuccetto Rosso entrò nella foresta, le venne incontro il lupo. Cappuccetto Rosso però non sapeva quale malvagia bestia fosse e non ebbe paura.

«Buongiorno, Cappuccetto Rosso», disse il lupo.

«Tante grazie, lupo».

«Dove vai così di buon’ora, Cappuccetto Rosso?».

«Dalla nonna».

«Che cosa porti sotto il grembiale?».

«Focaccia e vino; ieri abbiamo infornato il pane, così la nonna che è ammalata e stanca potrà mangiare qualcosa di buono e rinforzarsi».

«Cappuccetto Rosso, dove abita la tua nonna?».

AUDIO

60

«Ancora un buon quarto d’ora più lontano, nella foresta, la sua casa sta sotto tre grosse querce, più sotto c’è la macchia di noccioli, che tu certo conoscerai», disse Cappuccetto Rosso.

Il lupo pensò tra sé: «La ragazzina è tenera, è un boccone grasso molto più saporito della vecchia; bisogna incominciare astutamente da questa e così le acchiapperò tutte e due».

Si avvicinò un po’ a Cappuccetto Rosso e disse: «Cappuccetto Rosso, guarda che bei fiori ci sono qui; perché non ti guardi intorno? Credo che tu non senta neppure che gli uccellini cantano dolcemente! Tu cammini come se andassi a scuola, e invece è così gaio stare nella foresta».

Cappuccetto Rosso sbatté gli occhi e quando vide i raggi del sole che brillavano qua e là attraverso gli alberi e tutti quei bei fiorellini, pensò: «Se porterò alla nonna un mazzolino fresco, le farò molto piacere; è ancora così presto che arriverò sempre in tempo». Lasciò la strada e si addentrò nella foresta in cerca di fiori. E quando ne aveva colto uno pensava che ancora più in là ce ne sarebbero stati di più belli e così facendo sempre più si addentrava nella foresta.

Ma il lupo si diresse direttamente verso la casa della nonna e bussò alla porta.

«Chi è?».

«Cappuccetto Rosso che porta focaccia e vino, apri». «Spingi il saliscendi1 – gridò la nonna – sono molto debole e non posso alzarmi».

Il lupo spinse il saliscendi, la porta si aprì ed egli andò, senza dire una sola parola, diritto al letto della nonna e la divorò.

Poi indossò i suoi abiti, si mise la sua cuffietta, si coricò nel letto e tirò le tendine.

Intanto Cappuccetto Rosso correva dietro ai fiori e quando ne ebbe colti tanti, quanti ne poteva portare, si ricordò di sua nonna e si rimise in strada verso la casa. Si meravigliò, arrivando, che la porta fosse aperta e quando entrò nella stanza tutto le parve così strano, tanto che pensava: «Dio mio, oggi mi sento angosciata; eppure sto sempre volentieri con la nonna!».

Gridò: «Buongiorno!». Ma non ricevette risposta. Allora andò verso il letto e tirò indietro le tendine; sul letto giaceva la nonna che aveva la cuffietta messa fino al naso e uno strano aspetto.

«Eh, nonna, che orecchie lunghe hai!».

«Per sentirti meglio».

«Eh, nonna, che occhi grandi hai!».

«Per vederti meglio».

1. saliscendi: era una versione rudimentale della nostra maniglia, che serviva ad aprire e chiudere le porte.

Gustave Doré, illustrazione per Cappuccetto Rosso di Jacob e Wilhelm Grimm, 1867.

2. truogolo: vasca di pietra o di muratura, collocata all’esterno di un’abitazione, destinata a contenere acqua per lavare i panni o per far abbeverare gli animali.

«Eh, nonna, che mani grandi hai!».

«Per afferrarti meglio».

«Però, nonna, che bocca terribilmente grande hai!».

«Per mangiarti meglio!».

Appena ebbe detto ciò, il lupo fece un balzo dal letto e inghiottì la povera Cappuccetto Rosso. Poi, soddisfatta la sua fame, si sdraiò di nuovo sul letto, si addormentò e cominciò a russare fragorosamente.

Un cacciatore che passava davanti alla casa pensò: «Come russa la vecchia; vado a vedere se le occorre qualcosa». Entrò nella stanza e appena fu vicino al letto s’accorse che vi era sdraiato il lupo.

«Eccoti qui, vecchio peccatore – disse – ti ho cercato tanto».

Stava puntando il fucile, ma poi gli venne in mente che il lupo poteva aver divorato la nonna tutta intera e che forse si poteva ancora salvarla: non sparò, ma prese le forbici e incominciò a tagliare la pancia del lupo che dormiva. Fatti un paio di tagli, vide balenare il cappuccetto rosso; ancora un paio di tagli e la ragazza saltò fuori gridando: «Ah, com’era brutto, come era buio nella pancia del lupo».

Dopo anche la vecchia venne fuori ancora viva, anche se poteva appena respirare. Cappuccetto Rosso corse a prendere dei grossi sassi per riempire la pancia del lupo e quando questi si svegliò, volle saltar via, ma i sassi erano così pesanti che cadde pesantemente e morì.

Tutti e tre erano contenti: il cacciatore scuoiò il lupo e si portò a casa la pelle; la nonna mangiò la focaccia e bevette il vino che Cappuccetto Rosso aveva portato e si rimise in salute. E Cappuccetto Rosso pensò: «Mai più uscirò dalla strada per correre nella foresta quando la mamma me lo proibirà».

Si racconta anche che un’altra volta mentre Cappuccetto Rosso portava il pane alla sua vecchia nonna, un altro lupo le abbia rivolto la parola per indurla a fermarsi. Ma Cappuccetto Rosso se ne guardò bene e continuò diritta per la sua strada e disse alla nonna di aver incontrato il lupo, che le aveva augurato il buongiorno ma che l’aveva guardata con occhi malvagi. «Se non fossimo stati nella pubblica via, mi avrebbe mangiata». «Va’ – disse la nonna – a chiudere la porta, perché non possa entrare». Poco dopo il lupo bussò e disse: «Apri, nonna, sono Cappuccetto Rosso e ti porto il pane». Ma esse rimasero zitte e non aprirono la porta; la testa grigia strisciò pian piano intorno alla casa, finalmente saltò sul tetto per attendere che Cappuccetto Rosso alla sera ritornasse a casa; l’avrebbe seguita di soppiatto e nell’oscurità l’avrebbe divorata.

Ma la nonna capì che questa era la sua intenzione. Davanti alla casa stava un grosso truogolo2 di pietra. La nonna disse alla fanciulla: «Prendi il secchio, Cappuccetto Rosso, ieri ho cotto delle salsicce; versa l’acqua in cui le ho cotte nel truogolo».

Cappuccetto Rosso portò tanta acqua finché il truogolo fu pieno. L’odore delle salsicce salì al naso del lupo, che fiutò, guardò giù e allungò talmente il collo che perse l’equilibrio e cominciò a scivolare; sdrucciolò giù dal tetto, diritto diritto dentro il grosso truogolo, dove annegò.

Cappuccetto Rosso tornò a casa tutta contenta e nessuno le fece del male.

(J. e W. Grimm, Cappuccetto Rosso, in A. Gramsci, Favole di libertà, Vallecchi, Firenze, 1980)

◗ Comprensione

1. Perché la protagonista della fiaba viene soprannominata Capuccetto Rosso?

2. Che cosa deve portare Cappuccetto Rosso alla nonna e per quale motivo?

3. Con quale scusa il lupo distrae Cappuccetto Rosso lungo il cammino dal villaggio alla foresta?

4. Come muore il lupo dopo che la nonna e Cappuccetto Rosso sono state salvate?

5. In che modo la nonna riesce a salvare Cappuccetto Rosso dal lupo la seconda volta?

◗ Analisi

6. Dividi il testo in sequenze e indica di che tipo sono.

7. Che tipo di focalizzazione è adottato nella favola?

A interna

B esterna

◗ Lingua e stile

C zero

D mista

8. Come definiresti il linguaggio utilizzato dal primo lupo per attirare l’attenzione di Cappuccetto Rosso e indurla a cambiare strada?

A aggressivo e inquietante

B infido e seducente

C semplice e convincente

9. Quando il lupo chiede a Cappuccetto Rosso «Che cosa porti sotto il grembiale?» (r. 21), che cosa intende con “grembiale”? Qual è la variante oggi più usata per questo sostantivo?

◗ Il genere nel testo

10. Basandoti sulla classificazione di Propp, indica a chi corrispondono questi ruoli in Cappuccetto Rosso:

• Eroe/eroina:

• Mandante:

• Oggetto:

• Antagonista/avversario:

• Aiutante:

11. Con riferimento alle funzioni di Propp, qual è il divieto imposto alla protagonista? Quali parti di questo divieto vengono infrante da Cappuccetto Rosso?

12. In quali parole è contenuta la morale della fiaba?

13. Il finale di questa fiaba rispetta le caratteristiche del finale tipico delle fiabe? Motiva la tua risposta.

Esplora la famiglia di parole di Bagliore.

Ripassa ed esercitati

1. LE DIFFERENZE TRA FAVOLA E FIABA

Completa la tabella sulle differenze tra favola e fiaba inserendo gli elementi corretti: antagonista ∙ Perrault ∙ umane ∙ Fedro ∙ morale ∙ fantastico ∙ ruoli fissi ∙ funzioni ∙ animali ∙ Trilussa ∙ non precisato ∙ Andersen ∙ indeterminato

ambientazione

tempo: non precisato luogo:

tempo: luogo: , come castelli, boschi, paesi lontani

personaggi , con caratteristiche umani, con , come eroe/eroina, , aiutante ecc.

struttura

conclusa da una esplicita

autori classici - Esopo e - La Fontaine -

2. IL TERMINE CHIAVE

costituita da una sequenza di sempre uguale

- Basile

- fratelli Grimm

-

IN COPPIA Il termine “bagliore” forse viene dal verbo “abbagliare”, a sua volta derivato dal latino varium, ovvero “vario”, e indica uno splendore improvviso, una luce accecante. Tuttavia, in senso figurato, il bagliore è anche quello dell’effetto di sorpresa e incanto che le fiabe suscitano nei lettori.

Sfida un tuo compagno o una tua compagna: per ciascuno dei seguenti aggettivi e nomi, scrivete almeno una frase compiuta e poi confrontatela. abbagliare ∙ abbagliante ∙ abbaglio ∙ sbagliare ∙ anabbagliante ∙ sbaglio ∙ sbagliato

3. SCRIVERE FAVOLE MODERNE

IN CLASSE Dividetevi in gruppi.

Produzione

• Chiedete a un chatbot di intelligenza artificiale di scrivere una morale adatta ai tempi che stiamo vivendo e di associarvi un’immagine. Usate il seguente prompt: “Genera una morale per una favola moderna e aggiungi un’immagine”.

• Scrivete poi la vostra favola moderna usando gli elementi narratologici propri di questo genere letterario e lo schema di Propp

Analisi

• Condividete le immagini generate dall’AI con i vostri compagni e chiedetegli di indovinare la morale prima di leggere la vostra favola.

Conclusione

• E ora riflettete: dopo aver letto le vostre favole moderne, decidete qual è la morale, tra tutte quelle proposte dal chatbot, che ritenete utile alla vostra vita. Motivate la vostra scelta.

FAVOLA
FIABA
FAMIGLIE DI PAROLE

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.