Incredibili vacanze. Narrativa, 2^

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Emma Perodi

Le novelle della nonna Illustrazioni di

Laura Crema

Einaudi scuola I CLASSICI


Emma Perodi

Le novelle della nonna Adattamento a cura di Silvia Scarpa Illustrazioni di Laura Crema Apparato didattico a cura di Nicoletta Monteforte Bianchi

Einaudi scuola


La sorte di Biancospina

Al tempo dei tempi c’era una vedova di nome Maddalena, che tutti chiamavano Lena. Era figlia d’un ricco signore che, morendo, aveva lasciato un castello, terre e animali, grano, olio e vino e sul letto di morte aveva raccomandato ai figli maschi di dividere con lei l’eredità. Ma i fratelli non le dettero nulla. A Lena non rimasero altro che una capannuccia e una mucchetta nera, per sé e per Biancospina, la sua figliola di dieci anni, che era pallida ed esile come un fiorellino di biancospino. Biancospina stava tutto il giorno nei prati con la mucchetta e passava il tempo a far coroncine di fiori. Ogni giorno un pettirosso gorgheggiava dolcemente con lei, come se volesse parlarle, ma la bimba non lo capiva.

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Una brutta sera, purtroppo, la mucca fu sbranata dai lupi. Biancospina andò a letto senza mangiare e pianse disperatamente tutta la notte. Il mattino dopo, all’alba, corse sul prato. Il pettirosso era lì, cantava, ma, come prima, lei non riusciva a capirlo, finché vide qualcosa che brillava per terra: era erba d’oro! La bimba la toccò e iniziò a comprendere l’uccellino, che le disse: – Iddio mi ha concesso il dono di aiutare le creature buone di cuore e ho scelto te. Seguimi, Biancospina!

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I due giunsero in un prato, in cui c’era un bastone. Il pettirosso disse: – Prendi il bastone, percuoti un sasso con esso e ne uscirà una mucca. Biancospina fece come le aveva detto il pettirosso e quando batté il sasso spuntò una mucchina tranquilla. Quando la mamma si mise a mungerla, rimase a bocca aperta perché il latte usciva senza smettere mai. In breve non si parlò d’altro. I possidenti offrivano a Lena prezzi favolosi per la mucca. Arrivò anche il fratello Piero, che disse: – Sorella, ti darò la villa dove sei nata con i poderi e il bestiame in cambio della mucca. Lena accettò, consegnò la mucca e si trasferì nella villa.

possidenti: coloro che possiedono le terre.

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La sera, però, la mucca era già tornata da Biancospina. – Ma lo zio verrà a cercarti! – esclamò la bimba. – Cogli tre foglie di genziana e strofinamele addosso – disse la mucca. Detto fatto, la mucca diventò un bel cavallo. Il giorno dopo Lena volle provare il cavallo e lo mandò a Pratovecchio a portare del grano. Ma figuratevi un po’ come rimase meravigliata quando vide che la schiena dell’animale s’allungava quanto più lo caricavano, così che poteva portare da solo tanti sacchi quanti ne portavano tutti i cavalli del paese! Questa notizia si sparse in breve per tutto il vicinato, e Cosimo, il secondo fratello della vedova, andò alla villa e chiese alla sorella se voleva venderglielo. – Ti propongo di darti in cambio tutte le mie vacche e ci aggiungerò anche le pecore – disse Cosimo.


E si portò via il cavallo. La sera, però, l’animale era già tornato alla villa. Biancospina, come aveva fatto al ritorno della mucca, lo strofinò dalla punta degli orecchi alla punta della coda con tre foglie di genziana e il cavallo si trasformò in un montone con il pelo lungo, morbido e lucente come seta. Lena si mise subito a tosare l’animale. Ma la lana cresceva quanto più la tagliava!

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La voce di questo nuovo miracolo giunse fino a Cambio, il terzo fratello della vedova, che le offrì tutto ciò che possedeva per il montone. Ma mentre attraversava il fiume con l’animale, questo sparì nell’acqua. Questa volta il montone non tornò; allora Biancospina corse dal pettirosso. Lui le disse: – Padroncina, il montone non tornerà! Ma se hai bisogno, io sarò qui. Dopo tre giorni, arrivò invece Piero, armato fino ai denti e furente per la mucca scomparsa. Biancospina corse dal pettirosso, che disse: – Non temere. Mettigli nel vino tre granellini di sabbia di fiume. Dimenticherà tutto, tranne i propri torti. Biancospina raccolse i tre granellini, li mise nel vino e lo offrì allo zio. I tre granellini fecero subito il miracolo. 8

i propri torti: le ingiustizie commesse nei confronti della mamma di Biancospina.


Piero rimase a tavola ciarlando del più e del meno, dimenticandosi della mucca e del resto, poi salutò e andò via. – E uno! – esclamò Biancospina. La mattina dopo giunse Cosimo, furioso per la fuga del cavallo. – Rendetemi tutto! – urlava. – Piano, – sussurrò Biancospina – quando la mamma si sveglierà, le parlerete. Venite a vedere, il cavallo non è nella nostra stalla. Cosimo controllò la stalla e si calmò. – Vorreste mangiare? – domandò Biancospina. – E va bene – rispose Cosimo. Biancospina corse al fiume, tornò con altri tre granelli di sabbia e preparò la colazione. Lo zio brontolò, finché Biancospina gli versò il vino con i granelli di sabbia. Cosimo pranzò serenamente con la sorella, che intanto si era svegliata, e poi tornò a casa. – E due! – disse Biancospina. ciarlando: chiacchierando.

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Il giorno dopo giunse infine Cambio, furibondo. Rovistò dappertutto brontolando: – Me non mi gabbate, streghe! – Zio caro, – disse Biancospina, – tornate in voi. Venite a ristorarvi. – Non mangerei neppure un uovo in casa vostra. Streghe, streghe! – Almeno bevete! – Peggio! Voglio solo la mia roba. Biancospina corse dal pettirosso: – Lo zio Cambio non vuol bere, né mangiare, e non posso fargli buttar giù la sabbia dell’oblio. – Soffiala nei suoi occhi. Cara Biancospina, ora ti devo dire addio.

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Me non mi gabbate: non mi imbrogliate. ristorarvi: mangiare e riprendere le forze. la sabbia dell’oblio: la sabbia che fa dimenticare.


– Addio, pettirosso, e grazie di tutto! L’uccellino volò via e Biancospina corse a casa con una grembiulata di rena. Il vento si levò e una nuvola di sabbia avvolse lo zio, che si mise a gridare. Biancospina gli portò dell’acqua e Cambio la ringraziò. Poi si lavò bene e mangiò abbondantemente. Quindi se ne andò. – E tre! – disse Biancospina. – Ora vedremo se si potrà vivere in pace. La pace infatti arrivò. Biancospina si godette i suoi beni, sposò un nobile signore, e si mantenne sempre affabile e compassionevole. una grembiulata di rena: il grembiule pieno di sabbia. affabile e compassionevole: gentile e pronta ad aiutare gli altri.

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La gobba del Buffone

Tanti, tanti anni fa, il conte Alessandro sposò una signora straniera; poiché la donna, lontana dalla sua famiglia e dalla corte dell’imperatore, s’annoiava sempre, il conte chiese al padre della sposa di mandargli un giullare. Giunse un ometto piccino piccino, vestito a strisce rosse e gialle, con una gobba come un melone. Col suo cavallino piccolo piccolo arrivò al ponte levatoio e proferì: – Io sono il celebre Riccio, giunto per divertir la padrona. – Chi ti manda, gobbo? – domandò Alessandro. – Io mi chiamo Riccio, non gobbo. Tu sei pelato come una zucca, ma non ti chiamo pelato. 12

proferì: disse.


Mentre servi e valletti si reggevano la pancia dal gran ridere, Riccio concluse che lo mandava il suocero di Berta, cosĂŹ si chiamava la moglie del conte, presentò la sua lettera e fu invitato al cospetto della contessa. Qui fece una comica riverenza con l’enorme gobba, e la signora subito scoppiò a ridere.

valletti: aiutanti. riverenza: inchino.

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– Messere e madonna, eccomi qui nella vostra casa. Se volete che resti, dobbiamo fare i nostri patti. Mentre la contessa continuava a ridere, il conte ordinò a Riccio di leggere la lettera del suocero, che diceva:

Un giullar mi chiedesti per madonna Che dal tedio si rode e si consuma Ecco Riccio; se lo cuci alla gonna Di Berta, il tedio tosto ne sfuma. – Allora adesso sentiamo che cosa chiedi come compenso! – disse la contessa, che si divertiva a sentir parlare il giullare. – Ecco che cosa desidero. Voglio un letto di piume finissime, perché la mia metà non può stare sdraiata sul duro.

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Messere e madonna: signore e signora. tedio: noia. il tedio tosto ne sfuma: la noia subito se ne va.


– La tua metà? Vuoi dire la gobba? – rise il conte. – Non chiamarla gobba, che è permalosa! Chiamala Collinetta bella, e sarà tutta latte e miele. Secondo: ho bisogno di quattro vestiti all’anno, la bella Collinetta mia è sofisticata. Terzo. Collinetta bella ha lo stomaco delicato: ha bisogno di carni tenere, gelatine e pasticcini. – Non dubitare. Ora è terminato l’elenco di quello che vuoi? – Resta il meglio. Collinetta bella vuole tant’oro quanto ne può contenere. – Sia. Purché la tristezza non appaia mai sul volto della mia sposa – acconsentì il conte. Col giullare entrò l’allegria nel castello. Se la contessa era pensierosa, Riccio si permetteva burle d’ogni genere. permalosa: si offende facilmente. sofisticata: molto elegante. Sia: Va bene, siamo d’accordo. burle: scherzi.

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A tavola prendeva dal suo piatto. Dopo pranzo cantava le bellezze di Collinetta bella e sfogava i tormenti del suo cuore, facendo sbellicare dalle risa madonna Berta.

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Tutti erano pazzi di Riccio. Tutti eccetto ser Lapo, un poetastro lungo lungo, vile e noioso, credetemi, noioso. Il poetastro aveva paura di tutto, soprattutto degli spiriti. CosĂŹ Riccio volle fargli una burla, e una sera si nascose sotto il suo letto. Quella sera ser Lapo sentĂŹ tirare le coperte.


– Gli spiriti! – disse con un fil di voce. Poi una mano gelata gli toccò i piedi. – Sono morto! – urlò. Riccio continuò a spaventarlo con ogni tipo di scherzi e poi andò a dormire. La mattina ser Lapo era terrorizzato. – Madonna e messere, nelle camere ci son gli spiriti! – disse Riccio ai padroni. – Collinetta bella è tutta ammaccata dai colpi che le hanno dato. – Li hai sentiti anche tu! – disse ser Lapo. – Io non ci dormo più lì! – E io neppure – disse Riccio. – Dormiremo nella Torre. Nella Torre c’era una stanza per piano. Lapo prese quella di sotto e Riccio quella di sopra. Il giullare avvertì i signori della burla, poi catturò dei pipistrelli. Di notte li liberò da Lapo, che si svegliò di soprassalto, e poi sentì Riccio urlare: – Salvatemi! Gli spiriti! Allora Lapo nascose la testa sotto le coperte.

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La mattina dopo Lapo disse che nella Torre non ci avrebbe più dormito. La contessa Berta non poteva trattenere le risa vedendo il giullare che faceva la faccia impaurita. Il poeta e il buffone si trasferirono di nuovo e ognuno si ritirò nella propria stanza. Lapo andò subito a letto; Riccio prese degli scarafaggi, adattò loro una candelina sulla schiena, l’accese e li spinse dentro la camera del poeta. Poi gridò: – Aiuto! I fantasmi! Lapo, vedendo la processione di lumicini, impazzì quasi dalla paura, mentre Riccio urlava: – Ahimè! Amico, soccorrimi!

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Il buffone gridò tutta la notte, e quando fu giorno andò in camera di Lapo, tremando come se avesse i fantasmi in corpo. Ser Lapo, più morto che vivo, prese le sue cose e se ne andò. E quello che risero la contessa e il conte non si può dire.

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Intanto era passato un anno, il tempo che era stato pattuito per il soggiorno di Riccio, e il giullare si presentò dai padroni. – Salute! Oggi è un anno che sono arrivato, e oggi me ne vado. – Ma Riccio, qui ti vogliamo bene e abbiamo mantenuto i patti. – Sì, ma Collinetta bella deve avere ancora l’oro. E poi vi lascerò. – E sia! – disse il conte e, presa una borsa d’oro, la fece scivolare nella gobba. Riccio guardò il conte. – Collinetta bella può contenere altre monete – disse. Il conte versò altro oro. Riccio sfilò dalla giubba un pugno di stoppa e ripeté: – Collinetta bella può contenere altre monete. Il conte prese altro oro; ma più ne metteva dentro la gobba, più Riccio toglieva stracci. 20

giubba: giacca, casacca. stoppa: ciò che rimane quando si lavorano il lino e la canapa per farne dei tessuti.


Insomma, per riempir la finta gobba ci volle un forziere di monete d’oro. Alessandro era su tutte le furie e Berta rideva. Quando la finta gobba fu piena di monete d’oro, Riccio disse: – Collinetta bella contiene molte monete, ma l’allegria non si paga. Salute e figli maschi! L’omino balzò in sella, e via. La contessa continuava a ridere, e tutte le volte che il conte si lamentava di essere stato derubato dal giullare, ella rispondeva: – L’allegria non si paga!

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La pastorella del Pian del Prete

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Tutti sapete che posto sia, d’inverno, il Pian del Prete. Il vento soffia e gela la neve, spazza gli uomini e le pietre. Ebbene, tanti, ma tanti anni fa, in una giornata da lupi, un monaco passò per il Pian del Prete, e vide un fagotto. Dentro c’era una bimba di pochi mesi.


Il monaco, di nome Buono, la prese e andò al monastero. La bimba fu chiamata Buona e affidata a fra’ Ilario, il padre forestale. E così passò il primo inverno. Poi il forestale trovò una capanna, la ripulì e ci sistemò Buona, lasciando Lupo, il suo cane pastore, a guardia della bimba. Mattina e sera il monaco andava a trovare Buona che giocava, cantava e correva. La notte dormiva beatamente, e mai nessun male l’aveva tormentata. Come vestito aveva una camicia bianca, tagliata da una tonaca di fra’ Ilario. I capelli erano biondi, e i piedini rosei come quelli di una regina. Appena ebbe sette anni, l’Abate le affidò alcune pecore e incaricò fra’ Buono d’istruirla. Buona imparava con facilità, ed era così cortese e nobile che l’Abate diceva: – Buona sembra nata in una corte! Abate: è il capo di un monastero.

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Un giorno Buona era col gregge quando un lupo si gettò sulle pecore. Buona, senza riflettere, alzò il bastone e gli ordinò di fermarsi. Il lupo si fece mansueto. Fra’ Ilario vide comparire Buona col lupo che la seguiva come un agnellino. – È un miracolo! – esclamò. L’umile monaco non sapeva che Buona era protetta perché la sua triste mamma pregava per lei. Se volete saperlo, era andata così: il conte di Poppiano e il conte di Romena si odiavano da quando Corso, figlio del primo, era un giovinetto, e Selvaggia, figlia del secondo, era una fanciulla. L’inimicizia era scoppiata per una contestazione di confini, e i due s’erano giurati odio eterno. Corso e Selvaggia, invece, cresciuti insieme, avevano continuato a volersi bene, finché stabilirono di sposarsi e nascondersi dai genitori. 24

mansueto: docile, non aggressivo.


Intanto Selvaggia e Corso ebbero una bambina. Ma un giorno un uomo li trovò e informò il conte di Poppiano. La sera successiva quattro uomini rapirono Selvaggia e la piccina e ferirono gravemente Corso. – Eccovi la moglie del figlio vostro – disse il capo della spedizione giungendo a Poppiano dal conte. – Che sia rinchiusa nelle prigioni – ordinò il conte.

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– E la figlia? – Abbandonatela. Dov’è Corso? – chiese il signore. I ribaldi non vollero confessare di averlo ferito e dissero che non l’avevano visto. Poi il capo della spedizione portò la bambina sul Pian del Prete e l’abbandonò. Corso, appena guarito, andò a Romena per cercare sua moglie. Ma lì nessuno l’aveva vista. Allora andò a Poppiano da suo padre. – Quale ragione ti riconduce qui? – gli domandò il conte. – Il desiderio di sapere della mia sposa – rispose il giovine. – Come posso mai saperlo io? Corso tacque e si mise in viaggio per cercare Selvaggia. Dopo un anno di inutili ricerche, s’imbarcò su una nave, ben presto assalita dai pirati. Fu fatto prigioniero e portato sulle coste africane. 26

ribaldi: furfanti, canaglie.


Selvaggia, intanto, piangeva e pregava per la sua bambina. Nel frattempo Buona con l’aiuto dei monaci s’era fatta bellissima. Tutti la rispettavano, vedendola con il suo abito bianco, sempre intenta a leggere dei grossi libri. Inoltre il padre forestale raccontava a tutti il miracolo del lupo. In poco tempo la venerazione per Buona era tanto cresciuta che i malati andavano da lei sperando di guarire. Un giorno il conte di Poppiano si ammalò gravemente. Allora gli fu suggerito di chiamare la pastorella del Pian del Prete. Buona andò dal vecchio signore che teneva rinchiusa sua madre e che aveva fatto abbandonare lei. – Signore, – disse Buona al malato – pregherò per voi. Quella voce dolce scese come un balsamo al cuore del vecchio conte, che cominciò subito a migliorare. balsamo: medicina che fa passare la sofferenza.

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– Chi sei? – le domandò. – Non lo so. Quindici anni fa, fra’ Buono mi raccolse sul Pian del Prete. – Quindici anni fa! Dimmi… sapresti perdonare la persona che rapì tua madre? – Non sta a noi giudicare le azioni degli altri...


– Avvicinati! – ordinò il conte. Non poteva ingannarsi: erano proprio gli occhi del suo Corso. Allora abbracciò Buona e disse: – Figlia del figlio mio, ti benedico! Buona non capiva. Il conte le raccontò tutto e la portò da sua madre, che dopo tanti anni passati in prigione era ridotta a uno spettro. – E tu, Selvaggia, puoi perdonarmi? – domandò il vecchio. – Rendetemi la mia creatura e dimenticherò tutto! Il conte in breve si rimise in salute, ma il suo pensiero era sempre per Corso. Finché una sera un cavaliere chiese ospitalità. Quando entrò, dalla bocca di Selvaggia uscì un grido. Era Corso che, con l’aiuto di alcuni marinai, era riuscito a scappare dai pirati. Buona fu da allora la consolazione dei genitori, com’era stata la consolazione del vecchio conte, e non tolse mai l’abito bianco che fra’ Buono le aveva donato.

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I Nani di Castagnaio

C’erano una volta a Castagnaio quattro tribÚ di Nani. I Cornetti soffiavano in piccoli corni; i Ballerini ballavano al lume di luna; quelli delle valli erano Valletti e gli abitatori dei poderi, neri e piccini piccini, Topolini. Vi era poi un luogo chiamato Pian del Castagno che gli uomini evitavano di notte, perchÊ i Ballerini trascinavano i mal capitati in una danza vertiginosa fino al canto del gallo. Una sera, un certo Bernardo, gobbo dalla nascita, tornava dal campo con il forcone in mano e con sua moglie. Prese la direzione dei Ballerini, dato che credeva che non avessero ancora cominciato le danze. 30

vertiginosa: velocissima.


Ma giunto al Pian del Castagno, i Nani circondarono lui e la moglie come uno sciame di mosche intorno al miele. Subito però scapparono quando videro il forcone e Bernardo riuscì a passare. Egli era, però, un uomo molto curioso e una sera volle ritornare al Pian del Castagno. – Ecco Bernardo! Ecco Bernardo! – Sì, omini, sono io. – Benvenuto! Vuoi ballare? – dissero i Ballerini. Il gobbo si unì ai Ballerini, che cominciarono:

Giro, giro tondo, Giro, giro tondo... Poi Bernardo disse: – Di grazia, signori Nani, credo di poter allungare la canzone. – Sentiamo! Sentiamo! – dissero i Nani. 31


Allora il gobbo riprese:

Giro, giro tondo, Un pane, un pane tondo, Un mazzo di viole, Le do a chi le vole; Le vo’ dare alla vecchina; Caschi in terra la più piccina! I Ballerini giravano come piume spinte dal turbine. Poi si fermarono e dissero: – Che cosa desideri? Ricchezza o bellezza? Parla e ti contenteremo. – Ebbene, – replicò Bernardo – levatemi la gobba!

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turbine: vento forte.


Essi lo buttarono qua e là come una palla, finché atterrò senza gobba e ringiovanito. Vi potete immaginare quando ritornò a Castagnaio! Persino la moglie stentava a riconoscerlo! In paese c’era anche un sarto con i capelli rossi e gli occhi loschi, tale Pietro il Balbuziente. Triste, noioso e avaro, credetemi, avaro.

loschi: cattivi.

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Bernardo gli doveva cinque fiorini e lo supplicò di aspettare la mietitura. – No, dammi subito i miei soldi, – disse Pietro – oppure raccontami come hai fatto a togliere la gobba. Alla fine Bernardo gli svelò il suo segreto. La sera stessa Pietro andò al Pian del Castagno. I Ballerini gli domandarono di ballare. Pietro acconsentì, e gli omini cominciarono a cantare. – Aspettate, – esclamò il Balbuziente, – voglio aggiungere qualche cosa alla vostra canzone. – Aggiungi! Aggiungi! – risposero i Ballerini.

Giro, giro tondo, Un pane, un pane tondo, Un mazzo di viole, Le do a chi le vole; Le vo’ dare alla vecchina; Caschi in terra la più piccina! 34

fiorini: monete. la mietitura: il raccolto.


Allora i Nani tacquero, e il Balbuziente aggiunse:

E si… si… rompa la zu… zucchina. I Nani corsero all’impazzata e alla fine gridarono: – Esprimi un desiderio! – Ebbene, Berna… Bernardo ha scelto la be… bellezza; io scelgo ciò che Berna… Bernardo ha ri… fiutato. – Bene, bene! – esclamarono i Ballerini. Così lo fecero rimbalzare di mano in mano, e quando cadde in terra aveva fra le spalle una gobba come un cocomero. Da quella sera l’infelice visse di rabbia e, trascorsi gli otto giorni, disse a Bernardo che, se non poteva pagare, avrebbe avvertito la giustizia. Bernardo tornò al Pian del Castagno. I Ballerini lo accolsero con gioia e si misero a ballare, finché Bernardo disse: – Questa canzone, alla lunga, è un po’ noiosa. Ve ne comporrò una più allegra.

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Siam piccini, siam bruttini, Siamo tutti ballerini, Ed alquanto sbarazzini; Gobba va, gobba viene, Chi l’ha avuta se la tiene.

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Mille gridi partirono dalla riva. In un momento tutto il terreno fu coperto da Nani: ne uscivano dai ciuffi di erba e di ginestra, dai castagni e dalle rocce, pareva un alveare di omini neri sgambettanti, e tutti gridavano:


Bernardo, sei l’atteso salvatore, Sei colui inviato dal Signore! – Non capisco! – esclamò Bernardo. – Eravamo condannati a restare fra gli uomini e a ballare tutta notte finché un uomo non ci avesse inventato una nuova canzone. Allungare l’altra non bastava; il balbuziente poi ci ha canzonati e l’abbiamo punito. La pena è cessata, e noi torniamo nel nostro regno sotterraneo.

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– Se ho fatto qualcosa di buono per voi, ora voi cavate d’impaccio un amico! – Che cosa ti occorre? – Tanto da pagare il Balbuziente oggi, e il fornaio tutti i giorni. I Nani gettarono a Bernardo dei sacchetti di panno rosso. Egli li raccolse e corse a casa, dove li aprì. Contenevano rena, foglie e crini. – Credevo che contenessero qualcosa di meglio! – disse lui addolorato.

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cavate d’impaccio: tirate fuori dai guai, date una mano. crini: peli della criniera o della coda del cavallo.


La donna allora pensò di prendere un ramo d’olivo, di inzupparlo in una purissima acqua di fonte e di spruzzarla sui sacchetti. Ed ecco che i crini si tramutarono in perle, le foglie in monete d’oro, e la sabbia in diamanti. L’incantesimo era rotto e le ricchezze dei Nani ritrovavano il loro aspetto. Bernardo rese i cinque fiorini al Balbuziente, dette molti soldi ai poveri, e poi partì con la moglie per la città. I due comprarono una casa, ebbero dei figli e morirono ricchi in età avanzatissima. E da quel momento, nel Pian del Castagno, i Nani sono spariti per sempre. E la novella è finita.

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Il grembiule di Chiara

Diversi secoli addietro, in una grotta vicino a un castello, viveva una bellissima forestiera di nome Bianca con la sua bimba, Chiara. Molti andavano alla grotta per sentirla cantare nella sua dolcissima lingua. Una sera, fra i curiosi, v’era un trovatore provenzale, di nome Amato, ospite nel castello. Costui, ascoltata la canzone, le chiese in provenzale: – Chi vi ha insegnato questa canzone, che ho udito alla corte di Provenza? 40

forestiera: straniera. trovatore provenzale: poeta della Provenza (una regione nel sud della Francia) che componeva poesie d’amore.


– La mia nutrice provenzale – rispose la donna. – Voi stessa dovete essere provenzale. – Io non ho patria – rispose ella. Amato tornò al castello e parlò alla contessa Laura della bellezza e dei nobili modi della forestiera. Un giorno la contessa prese suo figlio Guglielmo, un bambinetto di otto anni, e si diresse alla grotta. nutrice: balia, la donna che la allattò quando era neonata. patria: Stato dove uno è nato, per esempio l’Italia.

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Quando vide la forestiera, le si rivolse in provenzale: – Voi non siete povera quale apparite. Se può esservi di sollievo, confidatevi con me. – Il mio dolore – ella disse – non può esser sollevato. L’unica cosa di cui vi prego, nel caso mi trovino morta, è quella di prendervi cura di mia figlia Chiara, che rimane sola al mondo. – Se dovesse accadervi qualcosa, io mi occuperò di Chiara come se fosse mia figlia – disse la contessa. Nei mesi seguenti, la forestiera divenne sempre più debole. Un giorno, mentre sentiva aggravarsi la malattia, una visione celestiale la rassicurò: – Non piangere Bianca, la tua Chiara sarà sempre al sicuro dalla miseria. Fila con le tue mani un grembiule per lei. Ogni volta che lo indosserà, si riempirà di tutto ciò che le serve. La povera madre si trascinò al castello e chiese di madonna Laura. 42

celestiale: proveniente dal Cielo, dal Paradiso.


– Signora, – le disse – io mi sono privata di quasi tutto, ma non ho mai osato separarmi da un anello con lo stemma del padre mio. Ora, madonna, mi occorre del lino, e vi offro in cambio quest’anello. – Questo è lo stemma del padre vostro? – domandò Laura. – Sì, signora. Il padre mio mi ha cacciata dalla mia casa perché ho amato e sposato un semplice cavaliere. Mio marito è morto, e sono venuta a nascondermi in questi boschi. La castellana pianse e dette alla povera Bianca quanto lino voleva, pregandola di tenersi l’anello. La forestiera, tornata alla grotta, filò giorno e notte e cucì il grembiule con le sue mani. Tre giorni dopo morì, raccomandando a Chiara di conservare sempre l’anello e di indossare il grembiule ogni volta che le occorreva qualche cosa. Appena giunse la notizia, madonna Laura fece portare Chiara al castello.

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Quando la bambina si sentĂŹ rivolgere la parola in provenzale dalla contessa, smise di piangere. Madonna Laura addestrava Chiara nel ricamo, Amato le insegnava le canzoni della Provenza e la bambina cresceva bellissima e tanto buona. Ella metteva il grembiule di continuo per portare vesti e cibo ai poveri. Queste uscite furono osservate da una donna invidiosa e cattiva, Geltrude.

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Ella disse al conte che la ragazza rubava. Il castellano chiamò Chiara, e le disse: – Tu ci danneggi, privandoci della nostra ricchezza per darla ai bisognosi. – Io non ho mai donato un boccon di pane che vi appartenesse. Signore, credetemi – si difese Chiara. – Vattene, e stai bene attenta a non dire nulla a madonna Laura. Chiara, offesa da tanta durezza, se ne tornò nella grotta. La notte dopo che Chiara fu cacciata, un nemico del conte strinse d’assedio il castello. Ben presto le provviste di cibo si esaurirono e la gente che viveva nella rocca non aveva più niente da mangiare.

strinse d’assedio: circondò con i soldati, in modo che nessuno potesse entrare o uscire dal castello. rocca: fortezza.

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La povera contessa Laura, addolorata per la scomparsa di Chiara, era molto triste perché la sua gente soffriva la fame e il freddo. Una sera Chiara lasciò la grotta e si presentò dal nemico del conte. – Che vuoi? – le domandò costui. – Messere, io sono stata molto aiutata dal conte e dalla contessa. Concedetemi di entrare nella rocca e morire con i miei benefattori. Chiara fu consegnata agli assediati e venne condotta dal conte.


– Che fai qui? – le domandò. – Vi porto la salvezza. Portatemi in un luogo dove possa stare sola, e a ogni ora venite a prendere tutto ciò che vi occorre. Il conte temeva che ella preparasse un tranello per vendicarsi, tuttavia la rinchiuse in una stanza vicina alla sala delle armi e si allontanò. Dopo un’ora la stanza, che prima era vuota, era piena di farina e di cacciagione. – In che modo ti sei procurata tutto questo? – domandò.

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– Con l’aiuto del mio grembiule. Il signore riprese coraggio e ordinò che fosse fatto il pane e arrostita la carne. Intanto la stanza di Chiara si riempiva ora di vino, ora di carbone, ora di sassi da lanciare sui nemici. La fortezza resisteva, perciò i nemici alla fine se ne andarono. Da allora Chiara fu chiamata «la liberatrice» e i conti non avrebbero potuto amarla di più. Anzi, per non separarsi più da lei, le offrirono di sposare il loro figlio Guglielmo.

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L’Albergo Rosso C’era una volta un albergo che si chiamava l’Albergo Rosso, per il colore della facciata. Pippo, il locandiere, e Rosa, sua moglie, erano due brave persone e facevano pagare il giusto. Una sera d’autunno, quando le giornate erano già corte e il freddo si faceva sentire, giunse un signore ben vestito, che salutò cortesemente e disse: – Potrei avere una camera e una buona cena? Pippo rispose: – Per la cena non dubitate, ma l’albergo è pieno e non c’è che la camera rossa. Da che ho acquistato l’albergo due persone soltanto hanno dormito lì, e la mattina dopo, benché fossero giovani, avevano i capelli tutti bianchi, mentre la sera prima erano neri come il carbone. Ho paura che ci siano degli spiriti in quella stanza! locandiere: albergatore.

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– Spiriti o no, ho bisogno di riposare. Così il viaggiatore, tale messer Gentile di San Godenzo, cenò con appetito, augurò la buona notte e salì in camera. La stanza era grande e color fuoco. Sul pavimento, pure scarlatto, si vedevano macchie lucenti, che parevano macchie di sangue. Il viaggiatore non tardò a prender sonno. Ma quando scoccò la mezzanotte, si svegliò di soprassalto. «Ci siamo!» pensò. E senza riflettere, fece per scendere dal letto. Ma appena messi giù i piedi, sentì qualcosa di ghiacciato. Dinanzi a lui c’era una bara coperta di un drappo nero con frange d’oro, che aveva nel centro lo stemma dei Gentili di San Godenzo. Era chiaro che un morto aveva delle domande da fargli. – Chi sei, morto? scarlatto: di colore rosso brillante. drappo: tessuto.

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– Sono messer Lapo Gentile, zio tuo. Un giorno ero in viaggio e mi fermai in quest’albergo. Ne era padrone allora un certo Ramarro, che mi assassinò per derubarmi. Con i denari che mi ha rubato e con la vendita dell’albergo, ha comprato una bella casa e vive da signore; intanto il mio corpo è sotterrato in cantina. – Dimmi che cosa devo fare. – Ebbene, nipote mio, chiama la giustizia, denunzia il colpevole e pensa all’anima mia. – Certamente – dichiarò Gentile. Appena questa promessa gli fu uscita dalle labbra, la bara sparì. La mattina dopo, l’oste guardò i capelli di Gentile, che erano sempre dello stesso colore. – Messere, non avete avuto paura? – No, – rispose Gentile – e nessuno ne avrà più, se riesco a esaudire i desideri dello spettro. Ascoltami, hai una cantina? – Altro che! E ben fornita.


– Non hai osservato, nei primi tempi, se la terra era smossa? – Sì, messere, e ho sempre supposto che là il mio predecessore nascondesse un tesoro. – Un triste tesoro… andiamo insieme a scoprirlo. Così Pippo seguì messer Gentile in cantina. I due si misero a scavare, e scava scava comparve un piede.

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– «Tesoro», messere? Qui c’è un cadavere! – Infatti, è il cadavere di un viaggiatore assassinato, nascosto qui dal tuo predecessore. – Nessuno verrà più nel mio albergo se si viene a sapere che qui fu assassinato un viandante. Signore, non dite niente a nessuno! Non mi rovinate! – Io faccio il mio dovere – replicò Gentile. E, spiccato un salto, uscì dalla cantina, chiuse la porta e corse a chiamare la giustizia. La polizia, poco dopo, lo seguiva in cantina; e quando aprirono l’uscio, videro non uno, ma due cadaveri: l’oste, dalla paura, era caduto e pareva morto pure lui. Allora lo presero e lo portarono a letto. Il cadavere invece fu messo in una bara e portato in chiesa. Gentile partì con gli agenti per cercare Ramarro.


La comitiva si fermò in un’osteria, piena di gente del popolo. Si distingueva, per il suo modo di fare prepotente, un uomo grosso e rosso, che brontolava per tutto. Gentile si sentì tirar la manica. – Ramarro è qui – gli sussurrarono gli agenti. – È quell’omaccione ben vestito che brontola! Gentile, accostatosi all’assassino, gli disse: – Messere, vi propongo di finir la cena con me nella mia camera, dove potremo parlare di alcune cose che di certo vi interessano – e fece intuire a Ramarro che c’era qualcosa da guadagnare. L’altro accettò subito. Gentile gli lasciò credere che ci fosse la possibilità di ottenere molti soldi con un’eredità o con un tesoro nascosto. Ma appena si sentiva porre troppe domande, esclamava: – Non mi fate parlare, ho promesso di tenere il segreto! Durante la cena Ramarro bevve molto vino e stava per addormentarsi.

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A quel punto Gentile impugnò la spada e gli disse con voce cavernosa: – Destati, assassino! Sono messer Lapo, torno dal Purgatorio per vendicarmi. Restituiscimi ciò che mi hai rubato! – Pietà! – urlava Ramarro. – Restituirò tutto, lo giuro!

Allora Gentile chiamò gli agenti e Ramarro dovette confessare. 56

Destati: svegliati.


L’assassino fu incarcerato e Gentile andò in chiesa per dare sepoltura a messer Lapo, poi tornò all’Albergo Rosso. Pippo stava guarendo, e finì per riconoscere che Gentile aveva agito nel modo giusto. Si convinse pienamente quando vide le pareti della camera rossa tornare bianche, e le macchie di sangue sparire dal pavimento. Da quel momento nella camera rossa nessuno fu più disturbato. Messer Gentile, prima di tornare a San Godenzo, si fece consegnare i danari rubati allo zio e diede molti soldi ai poveri, dandone una buona parte all’oste Pippo, per risarcirlo dei danni subiti.

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La criniera del leone

C’era una volta, al tempo dei tempi, un giovane signore che ne aveva fatte d’ogni colore, finché suo padre gli disse un giorno: – Eccoti una borsa ben guarnita. Scegli un cavallo e fa’ che non senta più parlare di te. Il giovane Valfredo abbracciò la madre piangente, che gli consegnò una medaglia d’oro con l’effigie di san Marco, e partì a spron battuto. Valfredo viaggiò con piacere fin quando non gli rimase neppure un soldo. Poi decise di imbarcarsi per combattere i Turchi, ma ben presto fu fatto prigioniero da una nave turca che lo portò a Costantinopoli.

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ne aveva fatte d’ogni colore: aveva combinato guai di ogni tipo. guarnita: fornita di denaro. effigie: immagine, figura.


Il cavaliere aveva bell’aspetto, belle maniere e abiti eleganti e ciò fece buona impressione sul Sultano di Costantinopoli. – La marmaglia mandatela a lavorare, – disse il Sultano – quest’uomo solo resterà a palazzo. Sarà il guardiano del leone d’Africa che ho ricevuto in dono. In un mese dovrà, in presenza mia, contare i peli della sua criniera. Le guardie portarono Valfredo alla gabbia del leone, che subito ruggì. marmaglia: gentaglia, persone di poco valore.

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– Si comincia male! – disse Valfredo. – Proviamo a fargli dei complimenti: Oh, potente signore del deserto… Ma il leone, attraverso le sbarre, gli acchiappò il berretto e lo fece in mille pezzi. – Proviamo le minacce. Lo vedi questo bastone? Ebbene, te lo romperò sul groppone, se non mi ubbidirai come un cane. Il leone stritolò il bastone, come se fosse un fuscello. – Perbacco! L’impresa non è facile, ma in un mese si fanno tante cose. Valfredo si mise a passeggiare per il giardino, ammirando le piante, i bizzarri giochi d’acqua, e il mare tranquillo che lo bagnava. Vedendo una vasca, si tuffò per rinfrescarsi. Poi abbassò gli occhi sul petto e vide la medaglia con l’effigie di san Marco datagli dalla madre. 60

bizzarri: strani, stravaganti.


In quel momento pensò: «San Marco, voi che prendeste a simbolo il leone, aiutatemi a domare la terribile fiera!». Dopodiché uscì dall’acqua baciando la medaglia. Ma uno dei guardiani del Sultano la vide e per prenderla si scagliò contro Valfredo, che lo colpì con una pietra. Il guardiano cadde per terra e Valfredo fu condotto dal Sultano. – Perché l’hai fatto, straniero? – disse costui. – Signore, io possiedo un talismano per domare il leone. La guardia s’è avvicinata per rubarmelo e mi sono difeso. – Sta bene. Ma entro una settimana devi condurmi il leone e contare in mia presenza i peli della criniera. Valfredo tornò alla gabbia, e in quel momento sbucò un veneziano. – Amico, – gli disse – tutti parlano della tua medaglia. Vuoi giocarla a dadi contro questo prezioso pugnale? fiera: belva feroce. talismano: portafortuna, amuleto.

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E gli mostrò un’arma dall’impugnatura pregiata. Valfredo stava per cedere, quando gli parve di scorgere la faccia cupa di san Marco. – No, non cederò alla tentazione! Il veneziano si gettò addosso a Valfredo, ma egli lo disarmò e lo ferì. Dopo un’ora era di nuovo alla presenza del Sultano. – Dunque, straniero, che dici a tua difesa? – Il veneziano voleva che io giocassi il mio talismano. Ho rifiutato e ha tentato di uccidermi. – Sta bene, ma ti resta solo un giorno per ammansire il leone. Il cavaliere, sconsolato, andò in giardino e si buttò in ginocchio. – San Marco, datemi un’ispirazione per uscire da questo guaio! Se mi aiutate, difenderò Venezia, la città di cui siete il santo protettore. 62

ammansire: addomesticare.


Pronunciata la promessa, si sentì invaso da una forza e da un coraggio straordinari. Aprì la gabbia del leone e vi penetrò. Questo fece per saltargli addosso, ma Valfredo l’afferrò. La belva non poteva muoversi, trattenuta dalle ferree mani del giovane. Dapprima il leone ribolliva, ma poi, a poco a poco, cedette e si ammansì, leccando le mani di Valfredo. ribolliva: era agitatissimo, molto arrabbiato.

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Il cavaliere giunse a palazzo col leone, che lo seguiva scodinzolando e, di fronte al Sultano, cominciò a contare i peli della criniera. Quando finì, disse: – Vedi, potente signore, che ho compiuto un miracolo in un giorno. Questo leone starà ai piedi del tuo trono e sarai paragonato agli antichi imperatori di Roma e di Bisanzio. Non merito una ricompensa? – Guardie, legatelo. Valfredo, di fronte a tanta ingratitudine, urlò: – A me, leone di san Marco! La fiera si gettò sulle guardie e sul Sultano, e Valfredo si lanciò nei giardini gridando: – A me, prigionieri! Per il leone di san Marco, siamo liberi! A quel punto le persone che erano rinchiuse uscirono dalle prigioni. Mentre il leone teneva a bada le guardie, i prigionieri raggiunsero le galere turche.

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galere: navi a remi e a vela sulle quali erano imbarcati i prigionieri, che dovevano remare.


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Presto se ne impossessarono e poco dopo navigavano verso Venezia e la libertà. Quando le sentinelle veneziane videro le navi turche, dettero l’allarme. Ma Valfredo scese e narrò al Doge l’accaduto. Poi espresse il suo desiderio di porsi al servizio di Venezia e fu investito del comando delle navi prese ai Turchi. Il cavaliere attraversò vittorioso i mari, sempre accompagnato dal leone, e salì ai più alti onori, ottenendo grandi ricchezze.

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Doge: era il capo della Repubblica di Venezia.


Il naso del Podestà

C’era una volta un Podestà, tale Bandino Corsi, che aveva un naso così buffo che faceva ridere tutti. In mezzo a un viso lungo, giallo e sbarbato, troneggiava come un peperone quel naso, al quale era appeso una specie di fungo di carne nerastra, tutto coperto di peli. In città i monelli torturavano il poveretto che, per sottrarsi ai loro scherzi, aveva ottenuto di ritirarsi in campagna. Però i monelli ci sono dappertutto, e appena il nuovo Podestà giunse a cavallo, urlarono: «Ecco il tacchino!». Ser Bandino aveva pure un altro difetto, che si mostrava maggiormente quando era in collera. Egli metteva la esse dinanzi a ogni parola. Podestà: era il capo della città.

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Quel giorno era molto arrabbiato e urlò: – Sragazzacci, srispettatemi; sono Spodestà sdella Srepubblica! – Sviva slo Spodestà! – urlò uno dei monelli. – Sviva! – urlarono gli altri. Ser Bandino ordinò di disperdere la folla, e si ritirò. La mattina dopo, pensa e ripensa, provò a coprire il naso con un po’ di farina e uscì. Una cinquantina di monelli gli si fecero davanti.

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Ognuno aveva una padella e urlava: – Smesser slo Spodestà, sla smia spadella scuoce smeglio; snon sfaccia scomplimenti, sfrigga slo snaso! Ser Bandino non ci vide più, afferrò una padella, e cominciò a menar giù botte da orbi su tutta la masnada. Poi ordinò di arrestare dieci caporioni. I suoi ordini furono eseguiti, ma alcune guardie ebbero, dalle mamme inferocite, morsi, graffi e schiaffoni. Dei sassi volarono contro le finestre del palazzo e il popolo vi entrò. Ser Bandino fuggì attraverso la cantina e, fuggi fuggi, trovò una porticina. L’aprì e si trovò in campagna.

masnada: banda di ragazzacci. caporioni: capi.

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Cammina cammina, arrivò sul monte, si nascose in un fosso e, al lume della luna, vide una vecchina piccina piccina. – Io vi posso aiutare – disse la vecchina. Il Podestà la seguì fino a una casuccia. Il fuoco era acceso e la vecchina gli offrì da mangiare. Poi uscì, e tornò con un fascio d’erbe e un secchio d’acqua. Bagnò più volte il naso di ser Bandino e lo coprì di foglie. Il giorno dopo il Podestà si svegliò e portò la mano al naso. Il fungo non c’era più. Urlò: – Grazie! Nel pronunciare quella parola capì di esser guarito. La vecchina scese pian piano, e disse: – Spero che mi sarete grato. – Ti condurrò al palazzo, dove sarai servita e rispettata come se fossi mia madre – disse il Podestà. – Se non mantengo la promessa in capo a un mese, che mi possa ricrescere il fungo e che ritorni più scilinguato di prima. 70

scilinguato: si dice di chi parla in modo confuso e pronuncia male i suoni.


Ser Bandino, tutto allegro, tornò a palazzo. Bussa che ti bussa, nessuno apriva. – Sono il Podestà, aprite! – gridava ser Bandino. – Non ci imbrogliate – rispondevano le guardie. – Il Podestà, quando apre bocca, si riconosce subito! – Sono il Podestà! – Peggio per te – dissero poi. Il portone si aprì, ser Bandino fu afferrato e portato nella stessa prigione dov’erano rinchiusi i dieci monelli. Le guardie gli dissero: – Quando arriverà il nuovo Podestà, sarai giudicato. Così passò un mese. Ser Bandino, una mattina, si vide dintorno tutti i monelli con gli occhi sgranati. Volle interrogarli, ma appena aprì bocca essi gridarono: – È lui, è lui! Gli è ricresciuto il fungo ed è scilinguato! Ser Bandino si sentì morire. Non aveva potuto mantener la promessa fatta alla vecchina ed era tutto come prima.

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Le guardie, sentendo baccano, accorsero, e appena aprirono rimasero di sasso. Il Podestà uscì a capo chino, senza aprir bocca, e dietro di lui tutti i monelli. Verso sera, il Podestà si avviò solo solo in cerca della vecchina. Non la trovò e tornò a palazzo, dove pregò di avere il coraggio di sopportare le sue infermità. Ed ecco apparire la vecchina. – Se non hai mantenuto la tua promessa, – gli disse – non è colpa tua.


Poi sparì e il Podestà andò a dormire. La mattina dopo nulla era cambiato. Allora pensò che doveva avere molto coraggio per sostenere nuove prove. Quella sera arrivò messer Alessandro Vitelli, temuto condottiero. Il Podestà gli andò incontro a cavallo. – Sillustrissimo smessere… – incominciò. Ma non poté finire, perché il capitano lo squadrò e disse: – La Repubblica tiene un Podestà molto strano in questa sua terra. condottiero: persona che comanda una schiera di soldati.

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Il tempo che Vitelli passò in città fu un lungo supplizio. Vitelli comandava, ser Bandino soffriva e il popolo si lamentava. Il Podestà si ammalò per la preoccupazione. Finalmente il condottiero ebbe l’ordine di trasferirsi e il Podestà guarì. E siccome una consolazione non vien mai sola, il brav’uomo, nell’alzarsi dal letto, si accorse che gli era sparita la deformità del naso e che parlava bene e velocemente. Lietissimo, annunciò che voleva iniziare il suo governo con un generale perdono, tanto più che il popolo era abbastanza provato dal passaggio di Vitelli. Questo atto generoso lo rese popolarissimo in quel piccolo paese, dove ser Bandino trascorse il resto della sua vita.

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supplizio: sofferenza, patimento.


Il talismano del conte Gherardo

Tanti, ma tanti anni fa, messer Gherardo di Porciano prese in moglie la bella e ricca Luisa de’ Tosinghi, e sperava di avere una bella dote. Ma ogni volta che faceva cadere il discorso su questo tasto, ser Bernardo de’ Tosinghi rispondeva: – Messer conte, non avrete a lagnarvi di me. Venne il giorno delle nozze, ma di dote non si parlava. Quando gli sposi montarono a cavallo alla volta di Porciano, comparve ser Bernardo con un robusto asino, curvo sotto il peso di una cassa. – Ecco la dote promessa, conte – disse ser Bernardo. Appena il conte giunse con la sposa al suo castello, aprì la cassa. dote: denaro e altri oggetti che la famiglia della sposa dava allo sposo.

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Essa ne conteneva una seconda di ferro. Con la stessa chiave aprì anche quella, ma quando ebbe alzato il coperchio, rimase molto meravigliato, vedendone una terza di rame. Poi aprì la cassa di rame, poi una d’argento finemente lavorata e infine una d’oro, sul cui fondo scorse un rotolo di pergamena e una rocca coperta di lana. Prese il rotolo e la rocca e andò da madonna Luisa, intenta a ricamare. – Madonna, – rispose il conte, – sono stato burlato.

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rocca: strumento di legno usato per filare la lana.


– E chi ha osato burlarti? – Il padre tuo – disse il conte e raccontò delle casse a Luisa. – Leggiamo la pergamena – disse la contessa Luisa. Io, ser Bernardo de’ Tosinghi, giuro sull’anima mia che è vero quanto sto per narrare. Quando mia moglie stava per dare alla luce la nostra Luisa, le apparve una vecchina. Quella disse: «Madonna, tu sei stata sempre devota. E, per ricompensarti, ti ho portato una dote per la figlia che deve nascere. Questa non consiste in oro o in argento, ma in una rocca coperta di lana da filare nel momento del pericolo. Con quel filato ella potrà avvolgere le persone care e renderle invulnerabili». La vecchina sparì dopo avere deposto la rocca sul letto, e poi venne al mondo Luisa. devota: fedele, religiosa.

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– Vedi, signor mio, che mio padre non ha voluto farti nessuna burla. Il conte rinchiuse tutto nella cassa d’oro, girò la chiave e l’affidò a madonna Luisa. Passarono due mesi. Un giorno un messaggero chiese al conte di organizzare un piccolo esercito per combattere contro Fronzola, che molestava Poppi. Il conte Gherardo fece preparar le armi. – Già mi lasci, signor mio? – disse Luisa. – Che farò io se muori? – Madonna, già hai dimenticato il talismano? Allora la bella contessa si diede a filare. Avvolse le armature degli uomini, supplicandoli di non levarsele mai finché durava la guerra per non spezzare il sottile filo. Quando tutte le armature furono pronte, i soldati di Porciano e quelli di Poppi uscirono per combattere contro i fronzolesi. 78

molestava: dava fastidio, disturbava. Fronzola e Poppi sono due città in lite fra loro.


A fine battaglia, attorno a messer Gherardo di Porciano si riunirono tutti i suoi, tranne un certo Bosio che di notte si era levato l’armatura spezzando i fili. – Mi hai portato in dote un vero tesoro – disse il conte alla moglie quando arrivò al castello. Di lì a poco i fronzolesi assediarono il castello. Madonna Luisa con le agili dita girava e girava il fuso. Ma a un certo punto, la lana venne a mancare.

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Luisa si rivolse al Cielo. Mentre nel castello si udiva il cozzare delle armi, le guardie videro una massa nera che si inerpicava sulla via del castello. Il conte ordinò che un drappello uscisse dal castello per vedere di che cosa si trattava e i guerrieri tornarono trascinandosi dietro un montone ricoperto di lana. – Ecco l’aiuto richiesto! – esclamò la contessa. E si diede a filar la lana. Gli assedianti volevano prenderli con la fame. Per settimane, dal castello non poté uscire né entrare nessuno, e il cibo veniva a mancare. Inoltre, in quel lunghissimo assedio non era possibile per gli uomini tener sempre addosso l’armatura, e la contessa doveva continuamente filare nuova lana. 80

drappello: gruppetto di soldati.


Così, fila fila, fu consumata tutta la lana del montone, e un giorno il montone fu arrostito e distribuito agli assediati. La povera contessa, desolata, andò a ricercare per tutto il castello i fili di lana spezzati dai combattenti nel togliersi le armature, e riuscì, con molti nodi, a mettere insieme un gomitolino, con cui coprì appena l’armatura del conte. Intanto gli assedianti diedero assalto alle mura. Il conte si lanciò contro i nemici, ma i suoi non lo seguirono, non essendo avvolti nel filo miracoloso. I nemici fecero prigioniero il conte. Allora l’infelice signora scese a precipizio, impugnando la rocca miracolosa, questa volta seguita dai porcianesi pentiti di non aver seguito il capo. A un tratto i nemici videro la contessa Luisa piombare nelle loro file, gridando: – Alla riscossa! La contessa liberò il marito, in breve il nemico fu sconfitto e il conte risalì al suo palazzo con l’amata sposa.

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Quando la pace fu conclusa, egli ordinò grandi feste al suo castello, al quale invitò il suocero, e convocò una persona molto istruita perché scrivesse in molte copie la storia della rocca e dell’assedio di Porciano.

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Il berretto della saggezza

C’era una volta un vecchio ricco e generoso, che viveva con i suoi figli, Enzo e Barnaba. Un giorno, in punto di morte, chiamò due amici e suo figlio Enzo, e disse: – È mio desiderio che i miei beni passino a questo mio primogenito; siatene testimoni. Poi chiamò Barnaba, a cui disse: – A te lascio questo berretto, che ti darà la saggezza. E gli donò un logoro berretto di rozzo panno. Poi morì. Barnaba mise il berretto e partì per Roma. Dopo poche ore giunse a un’osteria. Arrivarono anche due cavalieri importanti, giovani e ben vestiti, che parevano grandi amici.

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Barnaba li vide senza invidia mangiare pietanze gustose, mentr’egli si accontentava di un pezzo di pane. I due presero a parlare di politica. Ma pian piano passarono alle offese e poi alle minacce. Infine misero mano alle spade. Barnaba, con mossa rapida, gettò il suo berretto in testa al primo che esclamò: – Amico, perché dovremmo ucciderci per ciò che non ci riguarda?

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Allora Barnaba gli tolse il berretto, e lo fece volar sul capo dell’altro, che si calmò e disse: – Amico, hai ragione! – Una parola, messere, – disse Barnaba. – La vostra saggezza vi viene dal mio berretto; ora vi prego di restituirmelo, perché è la mia sola ricchezza. I cavalieri dissero: – Ti siamo grati di averci trattenuti dal commettere una pazzia. Accetta questa borsa, come ricordo della nostra rappacificazione. Barnaba accettò con gratitudine e ripartì. Un passo dopo l’altro giunse in un’antica città. Fu informato che il popolo malcontento voleva destituire il gonfaloniere Venuti, per mettere al suo posto uno della famiglia Diligenti. Il gonfaloniere non voleva cedere, e il Diligenti si preparava all’assalto al palazzo. Barnaba attese il Diligenti, e gli lanciò in testa il berretto. destituire: mandare via, allontanare dal suo posto. gonfaloniere: il gonfaloniere era una persona che aveva un ruolo molto importante nella guida della città.

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All’improvviso, questi disse: – Un momento, amici. Voglio parlare col gonfaloniere. E si avviò a palazzo, ma Barnaba lo fermò. – Messere, voi dovete la saggezza al mio berretto; permettetemi di accompagnarvi, perché possa infonderla anche al gonfaloniere. Messer Diligenti era meravigliato, ma avendo sentito svanire l’ira appena il berretto l’aveva sfiorato, annuì, e con lui fu ammesso alla presenza del gonfaloniere. – Che volete? – gli chiese costui. – Voglio ricordarvi che siamo entrambi figli di questa terra ed è malvagità esporre alla morte i nostri concittadini. – Dunque rinunciate a combattere contro di me? – Sì. Voi, però, dovete sgombrare il palazzo. Il gonfaloniere stava per rispondere che non si sarebbe mosso, quando Barnaba gli mise il berretto.


Sparì il risentimento dal volto del Venuti, che disse: – Non capisco perché ci tenevo tanto a rimanere. Il posto di gonfaloniere non mi ha dato che noie, e ci rinuncio. I due andarono sul balcone del palazzo e il Diligenti dichiarò: – Cittadini, il gonfaloniere rinuncia alla sua carica. Un grido di giubilo partì dalla folla. Il popolo fu ben sorpreso quando vide uscire anche il Diligenti. – Amici, io non ho l’ambizione di essere il primo cittadino della nostra città, ma il suo figlio più fedele. Questa saggezza ce l’ha data il giovane Barnaba. Il popolo si mostrò gratissimo. I principali cittadini gli offrirono una ricca donazione in denaro e il Venuti e il Diligenti gli dettero un cavallo per andare a Roma. risentimento: rancore, irritazione. giubilo: gioia.

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Giunto a Orvieto, Barnaba prese alloggio in una stanza da cui si udivano grida strazianti. L’oste gli disse che era la figlia del conte, rinchiusa dalla matrigna gelosa della sua bellezza. Barnaba, pensa e ripensa, andò fuori cittĂ per comprare stoffe e monili. Poi finse di essere un mercante, mostrando in cittĂ cose preziosissime.


La notizia giunse alla contessa, che lo invitò a palazzo. Barnaba portò le più belle stoffe, e mostrò un drappo d’oro, dicendo che si usava per dei berretti, con la forma simile al suo berretto di panno. La contessa provò il copricapo di Barnaba ed esclamò: – Ma per chi dunque mi orno? Ora spetta a Selvaggia ornarsi. E scese in fretta, per risalire con una giovinetta pallida e bella come un occhio di sole. mi orno: mi faccio bella.

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Poi Barnaba disse che doveva essere difficile trovare un marito per una signorina in una piccola città e fece la proposta di sposar Selvaggia. La contessa era raggiante, e lo condusse dal conte, che disse: – Prendetevi mia figlia e rendetela felice. Selvaggia era piena di gratitudine. Il matrimonio fu celebrato e la gioia si leggeva in viso a Selvaggia, ma quando furono partiti, Barnaba le disse: – Madonna, se voi non avete per me nessun affetto, vi condurrò dove volete. – Sposo mio, avete un cuore generoso, e questo lo conferma. Io vi seguirò ovunque. I due giunsero a Roma, dove Barnaba divenne uno dei più ricchi e stimati mercanti. Selvaggia fu moglie affettuosa e lo ripagò del bene che le aveva fatto.

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Qualcosa in più Le storie che hai letto sono tratte da un libro dal titolo Le novelle della nonna. Fiabe fantastiche. L’autrice si chiama Emma Perodi. Emma nacque nel 1850 in un paese vicino a Firenze. La sua famiglia era di nobili origini e benestante, e questo le diede la possibilità di studiare, cosa che all’epoca non tutti potevano fare. In particolare, le donne che studiavano erano proprio poche. Emma divenne giornalista e scrittrice e collaborò con diverse riviste. Per esempio scriveva per il “Giornale per i Bambini”, diretto allora da Carlo Lorenzini (lo scrittore conosciuto con lo pseudonimo di Collodi, autore di Pinocchio, che ella più tardi sostituì come direttore). Emma amava molto scrivere per i bambini. L’opera più famosa che ha scritto per l’infanzia è proprio Le novelle della nonna.

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Il libro originale di Emma Perodi raccoglie quarantacinque fiabe. Esse si alternano al racconto delle vicende della famiglia Marcucci, una famiglia contadina che viveva in una valle ricca di castelli e di foreste che si trova poco lontano da Firenze. Come realmente accadeva un tempo nelle famiglie contadine, ogni domenica sera la famiglia Marcucci si radunava davanti al focolare per ascoltare le fiabe della nonna. Nei racconti della nonna c’erano spettri, fantasmi, cadaveri, foreste buie e creature misteriose, ingredienti per vere storie‌ horror! Nella versione che tu hai letto abbiamo preferito attenuare questi elementi: mica ti volevamo spaventare! Se in queste fiabe hai trovato delle parole difficili è perchĂŠ sono state scritte tanti anni fa, verso la fine del 1800. 92


Giochiamo con le fiabe 1 Colora con uno stesso colore gli elementi che appartengono alla stessa fiaba. vecchina

camera rossa

burle

do‌ n o t o r i Giro, g

giullare

bara

spettro

o alberg

Collinet ta

bella

PodestĂ

nte

uzie il Balb

Nani

estĂ !

Spod o l s a Sviv

naso

Baller

glia meda rco Ma di San

ini

Venezia gobba

sultano leone 93


2 Ora prova tu a inventare una storia. Costruiscila a partire dagli ingredienti che acquisti al mercato delle storie. Attenzione: ogni ingrediente costa una moneta e tu non puoi spendere piĂš di 5 monete! luoghi

personaggi

elemento magico

bosco

bambino dispettoso

chiavi dorate

cane fedele

ala di pipistrello

zia brontolona

acqua della veritĂ

principe verde

succo della falsitĂ

fata delle nuvole

lacrime di drago

armadio soffitta castello palude

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3 Collega ogni elemento magico con il suo effetto.

grembiule di Chiara

rocca berretto tre granelli di sabbia

tramutano i crini in perle, le foglie in monete d’oro, la sabbia in diamanti

ramo d’olivo e acqua di fonte

si riempie di tutto ciò che serve fila la lana che rende invulnerabili

hanno il potere di far dimenticare dona saggezza a chi lo indossa

4 Nel rettangolo qui sotto sono nascosti i nomi di quattro personaggi delle nostre storie: scoprili cancellando le letterine inutili. TRIBIANCOSPINA UIGUBUONAEAQD IVALFREDONDFBU RECPBARNABARUV UIEMNABDRICCIO

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Indice

96

3 12 22 30 40 49 58 67 75 83

La sorte di Biancospina La gobba del Buffone La pastorella del Pian del Prete I Nani di Castagnaio Il grembiule di Chiara L’Albergo Rosso La criniera del leone Il naso del Podestà Il talismano del conte Gherardo Il berretto della saggezza

91 93

Qualcosa in più Giochiamo con le fiabe


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