Quattro mosse. Narrativa, 5^

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Alessandro Manzoni

I promessi sposi Adattamento di Simona Bonariva Illustrazioni di Marco Bregolato

CON AUDIOLIBRO I CLASSICI



Alessandro Manzoni

I Promessi Sposi Adattamento di Simona Bonariva Illustrazioni di Marco Bregolato

Apparato didattico a cura di Anna Rossi

Einaudi scuola



1. Un brutto, orribile incontro Una sera di novembre dell’anno 1628, lungo una stradicciola di campagna vicino a un paese nei pressi di Lecco, tornava bel bello un curato, sì insomma un prete, con gli occhi e il naso immersi nel suo libro di preghiere. Ogni tanto lo chiudeva e si guardava intorno brevemente, mentre con piccoli calci spostava i sassi dalla strada. Se ne andava così senza preoccupazioni, quando, dietro una svolta, gli capitò di vedere quello che non avrebbe mai voluto vedere. Su un muretto a pochi passi, due tipi dall’aspetto per niente amichevole parevano aspettare qualcosa. O qualcuno. Lui? Un brivido gli corse giù per la schiena: don Abbondio, questo il suo nome, non era certo nato con un cuor di leone. I due tizi in questione parevano in tutto e per tutto due bravi, vale a dire due furfanti che per mestiere facevano tribolare la povera gente. Ed era un mestiere, in quei tempi, diffuso e ben pagato, poiché i ricchi signori di campagna e di città amavano circondarsi di questi birboni prepotenti e sempre pronti a far risse e duelli. I due avevano intorno al capo una reticella da cui spioveva sulla fronte un enorme ciuffo di capelli che era una specie di segno distintivo della loro specie. bel bello: con calma, tranquillamente. svolta: curva. cuor di leone: coraggioso. facevano tribolare: facevano soffrire, tormentavano. birboni: persone disoneste, imbroglioni.

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Armati di pistole e spadone, parevano nati apposta per terrorizzare gente ben più coraggiosa del povero curato. Che infatti si sentì subito terrorizzato. Cercò con lo sguardo di qua e di là una via di fuga, ma non c’era scampo, bisognava affrontarli. Uno dei due gli si piantò davanti e disse con fare brusco: – Il signor curato ha intenzione di sposare domani un tale Lorenzo Tramaglino con una certa Lucia Mondella? Don Abbondio tentò di farfugliar qualcosa, ma quello lo interruppe: – Ebbene, questo matrimonio non si ha da fare, né domani né mai! – Ma… – Noi siam galantuomini e non vogliamo far del male al signor curato, purché abbia giudizio. Il nostro padrone, l’illustrissimo don Rodrigo, le manda i suoi saluti. Al sentir quel nome, il poco sangue che era rimasto nelle vene del curato si raggelò: don Rodrigo! Il più potente, il più capriccioso e crudele signorotto che ci fosse in quei dintorni. – Dunque, cosa devo riferire al mio signore? – Il mio rispetto, e che mi avete trovato sempre disposto all’ubbidienza.

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farfugliar: parlare in modo poco chiaro, non scandire bene le parole. galantuomini: persone oneste e leali. illustrissimo: lo si dice di persone importanti, verso le quali si prova rispetto e sottomissione. il poco sangue… si raggelò: provò un grande spavento. Quando si prova un grande spavento, si ha una sensazione di freddo. Il mio rispetto: con questa frase Don Abbondio vuole dire che farà quello che gli è stato chiesto.


I bravi, soddisfatti della risposta, gli voltarono le spalle e lo piantarono lì. Chi non era per niente soddisfatto era don Abbondio, che cominciò subito a torcersi le mani: perché proprio a lui questa gran disgrazia? Che cosa aveva fatto di male? Lui che era sempre così attento a non far torto a nessuno, specie a quelli più potenti e importanti, si capisce. Fin da giovane don Abbondio, che non era né nobile, né ricco, né appunto coraggioso, si era reso conto che il mondo in cui viveva era violento e governato dalla legge del più forte. Aveva presto capito d’essere come un vaso di terracotta in mezzo a vasi di ferro, cioè debole e senza difese in mezzo a forti e prepotenti. Proprio per questo s’era fatto prete, per mettersi al riparo di una classe rispettata e temuta, e trovare lì un rifugio dai mali del suo tempo. In tutto questo la vocazione religiosa c’entrava, in effetti, assai poco o per nulla. E adesso, a chi avrebbe potuto rivolgersi per avere protezione? Non ai giudici o alle guardie che, per impotenza o per complicità, non reagivano mai alle prepotenze dei signori. E dunque chi? Il povero curato affrettò il passo, mentre sudava e aveva i brividi, e arrivò a casa che ormai pareva uno straccio.

non far torto: non fare del male, non commettere ingiustizie. mettersi al riparo di una classe: chiedere la protezione di un gruppo di persone che svolgono lo stesso lavoro e che sono simili tra loro nel modo di vivere. vocazione religiosa: sentirsi chiamati, capire che quello che si desidera di più è dedicare la propria vita a Dio.

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Perpetua, la buona donna che viveva con lui per servirlo, lo vide così pallido che subito si preoccupò. – Misericordia! Che ha signor padrone? Abbondio negò lì per lì che fosse successo qualcosa, ma senza convinzione, perché in realtà aveva urgente bisogno di sfogarsi con qualcuno e avere magari un consiglio o almeno un po’ di consolazione. Così non ci volle molto per cavargli di bocca il racconto degli orrendi fatti capitatigli. – Oh che birbone, oh che uomo senza timor di Dio! – Tacete, Perpetua, non dite più nulla, volete vedermi morto? – No di certo! Ma che fare ora? Parlarne magari al nostro arcivescovo? È un sant’uomo. – Ma che dite! Quando poi mi fossi preso una schioppettata nella schiena, forse l’arcivescovo potrebbe levarmela? Lasciatemi solo ora, devo riflettere, trovare una soluzione. Ah, ma proprio a me che son galantuomo e mi faccio sempre i fatti miei doveva capitare? Ed era in effetti proprio un brutto guaio quello che gli era capitato, dal momento che il tale che si doveva sposare, quel Lorenzo detto Renzo, era un uomo di vent’anni vigoroso e anche un tantino

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timor di Dio: modo di vivere che possa piacere a Dio, pensando che Dio veda tutto e sempre. schioppettata: colpo di fucile. vigoroso: forte.


impetuoso, più infiammabile di un fiammifero, insomma, un tipo da prendere con le pinze. Chi glielo avrebbe detto che non si poteva più sposare? Abbondio, girandosi e rigirandosi nel letto, pensava affannosamente a come risolvere la questione. La cosa più importante era far sì che il nome di don Rodrigo non uscisse mai, mai! Se no, sarebbe stato un disastro irreparabile, quella testa calda di Renzo chissà cosa avrebbe combinato! Doveva piuttosto trovare una scusa, qualcosa per rimandare il matrimonio di qualche giorno. Almeno fino a raggiungere il tempo dell’Avvento, in cui per la legge della Chiesa per alcune settimane non si sarebbero più potuti celebrare matrimoni. E poi, in quelle settimane, ne potevano succedere di cose! Ecco, buona idea, rimandare con la scusa, sì, con la scusa d’aver dimenticato di fare certe pratiche necessarie… cosa ne sapeva quel sempliciotto ignorante di Renzo di tutte le pratiche che un prete deve sbrigare… sì, gli avrebbe detto così, l’avrebbe calmato, rassicurato… il sonno prese finalmente Abbondio, che trovò un poco di pace fino al mattino.

impetuoso: che agisce senza riflettere. prendere con le pinze: affrontare con attenzione, delicatamente. testa calda: persona impulsiva, che reagisce alle provocazioni senza pensare alle conseguenze. Avvento: periodo dell’anno che precede il Natale. pratiche: cose da fare importanti, che devono essere fatte in un modo preciso e definito. sempliciotto: ingenuo, sciocco.

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2. Renzo non la prende bene Ma il mattino arrivando gli riservò un risveglio amaro. Renzo infatti, impaziente ed eccitato, si presentò alla sua porta di buon’ora. – Buongiorno, son venuto per sapere a che ora dobbiam venire in chiesa. – Di che giorno parlate? – Come, di che giorno?! Oggi, come concordato. – Ma oggi non si può! – Oh cosa dite? Che mai è successo? E qui il curato prese a elencare tutti i problemi e gli ostacoli in modo confuso e vago e, per impressionare il povero ragazzo e non fargli capire più niente, cominciò pure a tirar fuori parole oscure, parole latine. – Si piglia gioco di me? Che me ne faccio del suo ‘latinorum’? – sbottò Renzo, che cominciava a innervosirsi sul serio. – Ma no, che pensate! Solo, voi non sapete tutti gli obblighi, tutte le difficoltà… ma basta, ho detto anche troppo. In fondo vi chiedo solo di pazientare qualche giorno, che sarà mai? E così potremo fare le cose per bene. Una settimana potrebbe bastare. – E a Lucia che devo dire? – Che è stato un mio sbaglio, per troppa bontà.

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risveglio amaro: risveglio sgradevole. latinorum: questa parola non ha significato, ma è usata da Renzo per indicare la difficoltà di comprendere la lingua latina. Il latino infatti era usato spesso da preti e avvocati per non farsi capire dalle persone semplici.


Per la premura di venirvi incontro, di vedervi contenti. Date pure tutta la colpa a me. Renzo, vedendo che era inutile insistere, se ne andò pensando e ripensando a tutto quello che il curato gli aveva detto: qualcosa non gli tornava. Il curato era sembrato a disagio e aveva detto cose troppo fumose, come se dovesse nascondere il vero motivo di quel rimandare. Mentre andava così assorto nei suoi pensieri, Renzo vide da lontano Perpetua e pensò che magari sarebbe riuscito a sapere qualcosa di più da lei. E infatti bastò incoraggiarla un poco che quella si lasciò scappare una parola di troppo, accennando a certi prepotenti che non hanno timor di Dio. Renzo capì al volo quel che doveva capire e tornò da don Abbondio, affrontandolo direttamente. – Chi è il prepotente che non vuole che io sposi Lucia? Il povero curato, colto di sorpresa, cercò addirittura di scappare, ma Renzo lo bloccò spaventandolo e giurando di fare uno sproposito se non gli avesse detto subito il nome. Don Abbondio, messo alle strette, confessò – don Rodrigo! – e quindi raccontò l’incontro coi bravi. Renzo, furioso e sconvolto, uscì in gran fretta e don Abbondio, per lo spavento e per la disgrazia ancora più grande che gli era piovuta in testa fu preso da una febbre improvvisa e si mise a letto tra brividi e sospiri. premura: fretta. fumose: poco chiare. sproposito: azione molto grave.

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3. Tutto a monte per oggi Mentre il povero curato era alle prese con i suoi spaventi, Renzo camminava a passi rabbiosi verso la casa di Lucia. E adesso? Che cosa le avrebbe detto? E poi, Lucia ne sapeva forse qualcosa di tutta questa faccenda? Possibile che non si fosse accorta di nulla? E se lo sapeva, perché non glielo aveva detto? Ah, poter andare subito a casa di quel farabutto e farsi giustizia da sé! O magari appostarsi dietro un cespuglio, armato di uno schioppo e aspettare che passasse… basta! Lucia non avrebbe certo voluto questo, e nemmeno lui, alla fin fine era un bravo ragazzo e non certo un assassino. In preda a questi pensieri contrastanti arrivò a casa della sua promessa sposa. La trovò circondata dalle amiche che la stavano aiutando a prepararsi per il matrimonio e la chiamò in un’altra stanza, per parlarle in privato. – Lucia! Tutto è a monte per oggi, e Dio sa quando potremo essere marito e moglie. – Cosa?! – disse Lucia smarrita. Renzo le raccontò quello che era successo con il curato e lei, al nome di don Rodrigo, arrossì. – Dunque voi sapevate?

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farabutto: persona disonesta e senza scrupoli. contrastanti: uno l’opposto dell’altro. è a monte: è annullato. voi: Renzo si riferisce solo a Lucia. Un tempo si usava usare il “voi” anziché il “tu” – come invece usiamo noi oggi – anche tra parenti stretti: era un segno di rispetto usato dai figli nei confronti dei genitori, tra marito e moglie e tra fidanzati.


– Sì, ma non pensavo che sarebbe arrivato a questo punto! – e tra le lacrime raccontò a Renzo e a sua madre Agnese, che nel frattempo li aveva raggiunti, come era andata la cosa. Aveva incontrato don Rodrigo e suo cugino Attilio almeno un paio di volte di ritorno dalla filanda. La prima volta lei era con le sue compagne e Rodrigo l’aveva trattenuta con chiacchiere che l’avevano messa in imbarazzo. Era scappata via, ma aveva sentito i due uomini ridere alle sue spalle e parlare d’una scommessa. Il giorno seguente di nuovo li aveva incontrati e di nuovo li aveva sentiti sghignazzare e don Rodrigo dire “vedremo!” Spaventata aveva raccontato tutto a padre Cristoforo, un sant’uomo di un convento lì vicino, e a nessun altro, per non diffondere quella storia che la faceva vergognare. – Che ti ha detto il buon padre? – chiese Agnese. – D’affrettare le nozze e stare il più possibile al riparo dentro casa. – Ah birbone! Ah maledetto! – Renzo camminava avanti e indietro, mettendo intanto la mano sul manico del coltello che teneva in vita. Le due donne dovettero fare una gran fatica per calmarlo, quando ad Agnese venne un’idea. – Date retta a me figlioli, che conosco un po’ come vanno le cose nel mondo. Renzo, voi andrete a Lecco da un avvocato, come si chiama, Azzecca-garbugli… filanda: è il nome utilizzato per gli edifici dove un tempo si lavorava la seta e il cotone. sghignazzare: ridere rumorosamente. Azzecca-garbugli: il soprannome è diventato con il tempo sinonimo di avvocato poco capace che commette imbrogli e intrighi.

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no! Non chiamatelo così per carità, che non è il suo vero nome… to’! Mi accorgo che neanche lo so, il suo nome vero! Comunque, là lo conoscono tutti, vedrete che ve lo sapranno indicare. Andate da lui e chiedete il suo consiglio, è uomo di grandi studi e vi potrà certo aiutare, ne ha aiutata tanta di gente! Abbiate fiducia, che la povera gente come noi ne deve avere. – Sì, ho capito chi dite, lo conosco di vista. E può aiutarci, voi dite? – Ma sicuro e per convincerlo portategli in dono questi quattro capponi, perché non bisogna andar mai con le mani vuote da quei signori. Renzo uscì tenendo per le zampe le povere bestie a scuotendole a ogni passo mentre, ripensando alla sua disgrazia, gesticolava e si agitava tanto da parere un matto furioso.

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capponi: galli castrati fatti ingrassare per avere la carne più tenera.


4. Il dottor Azzecca-garbugli Giunto in paese, Renzo trovò presto l’abitazione e, grazie ai quattro capponi consegnati subito alla serva del dottore, fu ammesso alla sua presenza. Renzo fece un grand’inchino e il dottore lo invitò ad entrare. Nonostante Renzo si sentisse impacciato alla presenza di un uomo così colto e importante, si fece forza e gli chiese: – Signor dottore, vorrei sapere se a minacciare un curato perché non faccia un matrimonio c’è una pena. Forse non era questa la maniera migliore di spiegare la faccenda, perché infatti il dottore fraintese la domanda e pensò che fosse stato Renzo a far quella minaccia e che si trattasse, come al solito, di un ribaldo che gli stava chiedendo protezione per le sue ribalderie. Cosa alla quale, evidentemente, il dottore era ben abituato. – Caso serio, figliolo – gli rispose – cosa grave, certamente, ne son state scritte di gride che dicono che queste azioni meritano la più grave punizione. Il dottore, per confermare le sue parole, metteva sotto al naso di Renzo fogli e libri, mostrando col dito il punto in cui si parlava di pene e condanne. – Vedete? Non c’è da scherzare. – Renzo, contento, annuiva perché pensava che quel prepotente di don Rodrigo avrebbe avuto quel che si meritava. fraintese: capì in modo sbagliato. ribaldo: persona disonesta. gride: leggi. Si chiamano così perché venivano gridate nelle piazze dai banditori del governatore.

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Ma quando gli fu chiaro che il dottore pensava che fosse lui il briccone che aveva minacciato il curato, si ritrovò con un’amara sorpresa. Il dottore infatti, una volta capito che era stato Renzo a patire l’ingiustizia e che voleva andar contro niente meno che a don Rodrigo, cambiò atteggiamento improvvisamente e lo buttò praticamente fuori di casa. La serva gli restituì addirittura i capponi, perché fosse chiaro che da lui non accettavano niente e non volevano averci niente a che fare.

Renzo era frastornato: ma come? Non doveva essere, quello, un difensore della giustizia? Lui che sapeva di regole e di leggi, che aveva studiato, che sapeva perfino il latino? Di nuovo si sentì furioso, ma ritrovatosi per strada coi capponi in mano, non poté far altro che tornare verso casa per raccontare a Lucia e Agnese il bel risultato della sua spedizione.

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frastornato: confuso.


5. Come Ludovico divenne padre Cristoforo Mentre Renzo era impegnato a farsi maltrattare dal dottore avvocato, le due donne si preoccupavano di cercare ogni possibile soluzione. Lucia, che riponeva grande fiducia in quel tal padre Cristoforo, avrebbe voluto chiedergli ancora consiglio e il caso volle che in quel momento arrivasse a bussare alla loro porta un frate cappuccino, fra Galdino, proveniente proprio dal convento di padre Cristoforo. Veniva a chiedere l’elemosina per il convento e le due donne gli diedero un gran mucchio di noci purché portasse a Cristoforo un messaggio da parte loro. E fra Galdino partì con le noci, lasciando la promessa di chiedere a padre Cristoforo di passare a trovarle al più presto. Quando Renzo tornò riportando i capponi e la penosa notizia che andar fino a Lecco non era servito a niente, le donne lo consolarono dicendo che Cristoforo, noto per la sua bontà e la sua capacità d’aiutare i poveretti, sarebbe senz’altro venuto a salvare anche loro. E infatti Cristoforo, appena ricevuta il messaggio da fra Galdino, si mise subito per strada. Era costui un uomo di circa sessanta anni, con una gran barba bianca e lunga che gli copriva guance e mento e due occhi vivaci e penetranti. Prima d’essere frate cappuccino si chiamava Ludovico ed era figlio di elemosina: donazione in soldi o di oggetti a chi ne ha bisogno. penosa: triste, che è causa di sofferenza. penetranti: che fissano con attenzione.

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un ricco mercante. Fin da piccolo era stato abituato ad avere sempre quello che voleva, grazie ai soldi del padre, e a considerare un diritto l’esser trattato con ogni riguardo. Ma i nobili della sua città lo trattavano invece come un inferiore, visto che era ricco sì, ma non era di sangue nobile come loro. E Ludovico soffriva moltissimo di questa situazione, essendo orgoglioso e fiero. Così a ogni momento si trovava a fare gare di ricchezza e potere, a sfidare ed esser sfidato, e insomma si era fatto così molti nemici. A questo si aggiunga che per natura non sopportava le prepotenze e si era trovato spesso a prender le difese dei più deboli contro quei nobili che già di suo detestava. E così andavano avanti le cose finché un giorno capitò un fatto che gli cambiò per sempre la vita. Stava andando per strada insieme con un suo fidato servitore di nome Cristoforo, quando gli capitò di incontrare un signore che gli era particolarmente odioso e nemico, scortato dai suoi bravi. In una situazione come questa era uso che uno dei due cedesse il passo all’altro e subito quel signore arrogante pretese che Ludovico si facesse da parte, cosa che Ludovico non voleva assolutamente fare. Cominciarono a insultarsi e finirono con lo sfidarsi a duello. Ludovico fu ferito e Cristoforo, vedendolo in pericolo, si slanciò per difenderlo e rimase ucciso.

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l’esser trattato con ogni riguardo: essere trattato con attenzione e rispetto. sangue nobile: che appartiene a una famiglia nobile. era uso: di solito. cedesse il passo: lasciar passare.


Ludovico a quella vista perse il controllo e scagliatosi contro il signore che aveva ucciso il suo servitore, lo colpì a morte a sua volta. I bravi del signore scapparono e Ludovico si ritrovò solo, in mezzo alla strada, coi due corpi senza vita. A quel punto rimaneva soltanto la fuga, e difatti Ludovico scappò e si rifugiò nel convento di cappuccini lì di fianco. Qui, sconvolto, non riusciva a darsi pace: benché avesse compiuto in passato molte azioni violente, non era mai arrivato a uccidere. convento di cappuccini: i cappuccini sono dei frati che vivono all’interno di uno stesso edificio, il convento, racchiuso da mura. All’interno dei conventi, oltre alle stanze dei frati, si trovano sempre cappelle, laboratori, orti e giardini. Qui i frati vivono, lavorano e pregano.

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Inoltre, pensava anche di essere la causa della morte del suo servitore Cristoforo, al quale era molto affezionato. Quando poi un frate cappuccino, mandato di corsa sul luogo del duello, aveva trovato che il signore colpito da Ludovico non era ancora morto e gli aveva detto che chiedeva perdono e perdonava a sua volta il suo uccisore, Ludovico si era turbato ancora di più. Così, dopo lunga meditazione, aveva deciso di farsi frate per riparare tutto il male che aveva fatto e causato. Prese il nome di padre Cristoforo, in memoria del suo fedele amico, e come primo atto di penitenza andò a chiedere perdono ai parenti del signore che aveva ucciso. Poi lasciò il suo paese per incamminarsi verso il convento cui era stato destinato. Da quel momento in avanti aveva vissuto tra preghiere e servizi ai poveri, ai moribondi, a chiunque ne avesse bisogno, prendendosi particolarmente a cuore le sorti della povera gente che non aveva mai giustizia o protettori. In questo modo si era fatto una solida fama di sant’uomo, giusto e caritatevole, sempre dalla parte degli oppressi. E così fu anche nel caso di Lucia, di cui conosceva la bontà e l’innocenza: appena gli giunse la sua richiesta tramite Galdino, subito partì per correre ad aiutarla.

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atto di penitenza: un’azione che viene fatta per chiedere perdono per qualcosa di sbagliato che si è commesso.


6. Padre Cristoforo ci prova con le buone Quando si affacciò alla porta della casa di Agnese e Lucia, le due donne si alzarono per andargli incontro e raccontargli ogni cosa. E mentre Lucia parlava, il frate diventava di tutti i colori, trattenendo a stento le esclamazioni di incredulità e rabbia. – A tanto! Povera Lucia! Ma non temete, quello è prepotente e senza vergogna, ma voi potete contare su un alleato ben più potente, che non vi abbandonerà in nessun caso. Dio vi protegge, statene sicura. Il frate appoggiò il mento sulla mano, stringendosi la barba, e stette così concentrato a pensare ogni possibile soluzione. Costringere Abbondio a fare il suo dovere? E come? Non avrebbero potuto certo mettergli più paura di quella che già aveva di don Rodrigo. Informare l’arcivescovo? Troppo tempo ci sarebbe voluto, e intanto Lucia sarebbe stata esposta al pericolo. Cercare la protezione dei frati cappuccini? Ma quel farabutto di Rodrigo aveva spesso chiesto e fatto favori al convento e, insomma, non era detto che Cristoforo avrebbe trovato l’aiuto che sperava dai suoi confratelli. Alla fine di tutto questo gran pensare, la soluzione migliore gli parve di andare a parlare con don Rodrigo in persona, per vedere se gli riusciva di convincerlo a lasciar perdere quella diventava di tutti i colori: il colorito del viso di fra Cristoforo cambiava colore per le emozioni che provava mentre ascoltava il racconto.

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impresa così vigliacca ai danni di una povera figliola innocente e indifesa. Mentre così pensava, arrivò anche Renzo e raccontò come era andata dal dottore avvocato. Cristoforo, vedendolo rabbioso e pieno di cattivi propositi, lo convinse a calmarsi una buona volta e a lasciar fare a lui. – Credimi Renzo, anche se tu riuscissi a vendicarti uccidendolo, non ne avresti un gran vantaggio, perché ne ricaveresti una soddisfazione di breve durata, ma soprattutto la vita rovinata dal peso di un gesto grave e senza rimedio. Confida in Dio piuttosto, che sa qual è il tuo bene meglio di te. Andrò a parlare oggi stesso con quell’uomo e spero che le mie parole gli tocchino il cuore. Ma se così non fosse, sono certo che Dio stesso ci indicherà un’altra soluzione. Stasera o domattina tornerò per raccontarvi. Detto questo Cristoforo partì subito per non perdere tempo. Al palazzo fu ricevuto da un anziano servitore che lo riconobbe, poiché lo conosceva di fama e di vista. – Siete voi il padre Cristoforo del convento di Pescarenico? – Sono io. – Certo venite per far del bene, che da queste parti ce n’è tanto bisogno. Più ancora che dalle parole, dal tono di voce Cristoforo capì che il vecchio servitore doveva essere scontento di servire nella casa di un signore così malvagio e senza rispetto delle leggi e degli altri. Il servo lo condusse nella sala dove il suo padrone stava cenando con degli ospiti, tra i quali, guarda un


po’, c’era proprio quell’azzecca-garbugli del dottor avvocato. E poi il cugino di Rodrigo, Attilio, compagno di furfanterie, e nientepopodimeno che il podestà, quello stesso che in teoria avrebbe dovuto far rispettare la legge! Vedi un po’ come va il mondo, o almeno come andava in quel lontano 1628. Cristoforo dovette aspettare la fine della cena e delle loro chiacchiere prima di potere passare in un’altra stanza con Rodrigo per fare le sue richieste. – In che cosa possa ubbidirle? – chiese Rodrigo con un tono di voce che sembrava però intendere tutt’altro, ad esempio “sbrigati a dirmi quello che devi dire e levati di torno, che non ho tempo da perdere”. Cristoforo, con grande cautela e badando a non nominare mai apertamente Lucia, cercò di far capire che era lì per chiedere una grazia, un atto di onore, che insomma lasciasse in pace giovani innocenti che non avevano difese né colpe… Ma Rodrigo non lo lasciò finire e, cambiando atteggiamento, mise da parte i finti modi gentili. – Insomma, padre, non so che cosa lei voglia intendere con queste parole. Capisco solo che c’è una giovane che le sta a cuore, chissà poi perché, ma io cosa ci posso fare? Se questa giovane è in pericolo, come lei teme, le dica pure che può venire a mettersi sotto la mia protezione. Cristoforo non credeva alle sue orecchie! A tanto arrivava questo ribaldo, addirittura suggerire di mandare la pecorella nelle fauci del lupo? Ma come! Lui nientepopodimeno: addirittura. podestà: era la persona che governava la città. fauci: bocca di un animale.

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veniva a chiedere di lasciarla in pace e quello pretendeva che lei venisse da lui di spontanea volontà? La pazienza di Cristoforo scappò via tutta in un colpo e i suoi propositi di calma e sopportazione andarono in fumo. – La vostra protezione! Avete esagerato! Quell’innocente è sotto la protezione di uno ben più potente di voi, non ha nulla da temere. Voi invece! State attento perché la maledizione è sopra questa vostra casa e la giustizia di Dio non tarderà ad arrivare. Verrà un giorno… – Fermo là, villano incappucciato, ringrazia il saio che indossi e ti protegge, altrimenti ti avrei già dato quello che ti meriti. Esci con le tue gambe, per questa volta. La prossima, vedremo. Cristoforo, cui la rabbia era subito passata, e aveva piuttosto pietà di quel poverino, chinò la testa e se ne andò in silenzio. Ma mentre era quasi fuori dal palazzo gli si avvicinò il vecchio servitore di prima e gli disse: – Ora non posso parlare, ma so molte cose… verrò domani al convento. Intanto cercherò di scoprire ancora di più, perché non voglio esser complice di certe vigliaccate, ci tengo all’anima mia. – Dio vi benedica! – sussurrò Cristoforo e andò via con la sensazione che, dopo tutto, non era stato inutile far quel tentativo.

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vigliaccate: ingiustizie compiute nei confronti di chi è più debole e indifeso.


7. Agnese ne pensa un’altra Intanto a casa di Lucia si faceva un gran parlare, alla ricerca d’una soluzione. E ancora da Agnese venne l’idea d’un modo, magari non proprio corretto, magari non proprio onestissimo, ma insomma non era colpa loro se dovevano ricorrere a questi sotterfugi! La cosa era così: aveva sentito dire che se due che si volevano sposare riuscivano a mettersi davanti a un curato con due testimoni e a dire “signor curato questa è mia moglie” e “signor curato questo è mio marito” era bell’e fatta, anche se il curato non voleva. Purché non scappasse e sentisse le parole, e purché le sentissero anche i testimoni. Renzo ne fu subito entusiasta, Lucia un po’ meno, dal momento che non le sembrava giusto. Come? Prender di sorpresa il curato! Costringerlo contro la sua volontà! Non le pareva una cosa buona, ecco. Ma Agnese insisteva: – Certo non sarà il modo migliore al mondo ma, una volta fatta la frittata, chi avrà più qualcosa da ridire? Più Lucia avanzava dubbi, più Agnese, e soprattutto Renzo, insistevano e andavano avanti a progettare il piano. sotterfugi: azioni fatte con l’inganno. testimoni: persone che assistono a un evento e che possono poi “testimoniare” che quell’evento è avvenuto. una volta fatta la frittata: fare qualcosa che non può essere poi più cambiato, da cui non si può più tornare indietro.

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– Conosco due che possono fare al caso nostro. Sono Tonio e Gervaso, sapete, quei fratelli che hanno un cervello in due, ma tutto nella testa di Tonio. Lasciate fare a me e fate conto di avere già i testimoni belli e pronti. E dobbiamo farlo al più presto, domani notte. Renzo fremeva di impazienza, mentre Lucia ripeteva: – Sono imbrogli, non son cose lisce, non ne verrà niente di buono. – Ma il giovane non la stette a sentire e uscì per andare a casa di Tonio e combinar l’affare. E non ci volle molto a convincerlo, bastò accennare a un certo debito che Tonio aveva appunto col curato: in cambio di quei soldi Tonio era disposto a tutto, compreso portare anche il fratello tonto, si capisce. Renzo, procurati i testimoni, tornò per dare la buona notizia e arrivò un momento prima di padre Cristoforo che veniva a dare la sua, cattiva. – Non c’è niente da sperare da quell’uomo – disse entrando il padre – ma non disperate: ho motivo di credere che Dio sia dalla nostra parte, ne ho già avuto un segno. Domani, Renzo, vieni al convento o manda qualcuno per aver notizie, vedrete che avrò la giusta soluzione. Detto questo se ne andò in fretta per non rischiare penitenze per esser rientrato tardi al convento. Nonostante quelle ultime parole del padre, però, Renzo non voleva calmarsi: era furente e disgustato dall’arroganza di Rodrigo, tanto che Lucia fu costretta a cedere alle sue insistenze e promettere che sarebbe andata davanti al curato per fare alla maniera suggerita da Agnese.


– Dunque me lo promettete? – chiese Renzo impaziente. – Ve l’ho promesso e non mi ritiro. Ma vedete voi come mi avete fatto promettere… che Dio ci aiuti. – Dio sa che non facciamo male a nessuno, noi. – Andate ora, non sta bene che siate in questa casa a quest’ora, che è ormai scesa la notte. A domani.

non sta bene che siate in questa casa a quest’ora: un tempo era ritenuto scandaloso che un uomo, dopo il tramonto, facesse visita in una casa abitata solo da donne.

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8. I piani prendono forma

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La notte passò per tutti e tre tra grandi agitazioni e per non rischiare di farsi scoprire, così eccitato com’era, il giorno dopo Renzo decise che da padre Cristoforo avrebbe mandato un ragazzo, Menico, a sentir se c’erano delle novità. E come la notte era stata tormentata, il giorno non lo fu di meno. Nella casa di Agnese e Lucia infatti, per buona parte della giornata, passarono strani personaggi a chieder l’elemosina, anche se non parevano mendicanti, o a cercare informazioni o con altri pretesti e insomma questo fece preoccupare le due donne, perché sembrava loro una stranezza. E facevano bene a preoccuparsene, anche se non potevano saperlo, perché quei personaggi strani erano bravi di don Rodrigo, venuti a dare un’occhiata alla casa. E come mai? Bisogna sapere che don Rodrigo, dopo la visita di Cristoforo, non riusciva a darsi pace. Un po’ era seccato che un frate qualunque fosse venuto a fargli la predica! Un po’ era indispettito dagli scherzi di suo cugino Attilio, che lo provocava ricordandogli la scommessa su Lucia: ormai ne andava non solo del suo onore, ma di quello di tutta la famiglia, non poteva più tirarsi indietro. Così, il giorno dopo la visita di Cristoforo, aveva mandato a chiamare il Griso, il più capace e fidato tra i suoi bravi. – Griso! C’è da fare un’impresa speciale e ho bisogno di te. Prima di domani quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo. Non mi importa come farai, prendi tutti gli uomini che ti servono e non deludermi.


– Sono qui per obbedire. Anzi ho già in mente come, lasci fare a me, questa notte resterà servito – e il Griso spiegò brevemente il suo piano che prevedeva di rapire Lucia dalla sua casa, imporre il silenzio alla povera Agnese, spaventare a morte Renzo e fare ricadere i sospetti su qualche forestiero. – Fa’ come credi, l’importante è che mi porti la ragazza. Se poi nel mezzo dell’impresa capiterà di caricar di botte quel fessacchiotto del suo fidanzato, non vi tirerete certo indietro. – Lasci fare a me, le dico, non avrà a pentirsene – e il Griso andò subito a organizzare la spedizione. Ed ecco spiegato quell’andirivieni nella casa di Agnese e Lucia: erano i bravi che venivano a fare il sopralluogo per capire come muoversi la notte, quando sarebbero tornati per prendere Lucia. Ma quelle cose dette tra don Rodrigo e il Griso non erano sfuggite al vecchio servitore che stava sempre all’erta. E non appena il vecchio le ebbe sentite, con la scusa di prendere un po’ d’aria, andò a riferirle al padre Cristoforo, giù al convento. E così più o meno nello stesso momento, sul far della sera, c’erano il Griso per strada coi suoi che si preparavano ad appostarsi secondo i piani, il vecchio servitore che andava al convento e Renzo, dal canto suo, che stava portando i suoi preziosi testimoni, Tonio e Gervaso, all’osteria, per aspettare il momento propizio di andare dal curato e costringerlo a sposarli suo malgrado. resterà servito: otterrà quello che desidera. all’erta: pronto, preparato. suo malgrado: anche se non vuole.

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E proprio all’osteria Renzo notò che c’eran certi brutti musi che lo fecero sentire inquieto, ma non poté farci troppo caso, impegnato com’era a tenere a freno l’impazienza per l’impresa che lo aspettava. Mangiò con poco appetito e quando fu l’ora uscì coi due fratelli per andare a prendere Agnese e Lucia. Poi tutti insieme, zitti zitti nelle tenebre, andarono alla casa di don Abbondio.

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brutti musi: con la faccia cattiva, che sembrano pericolosi.


9. La notte degli imbrogli e dei sotterfugi Qui Tonio chiese a Perpetua di entrare, insieme con suo fratello Gervaso, anche se l’ora era tarda, perché doveva restituire al curato quei denari che aveva avuto in prestito da lui. Era un buon sistema, perché altrimenti Perpetua quella porta non l’avrebbe aperta mai. Ma davanti al denaro, si sa, le porte cedono più facilmente. E mentre Perpetua apriva, arrivò Agnese come per caso, la fece uscire con una scusa e la convinse ad allontanarsi un poco per spettegolare, al che Perpetua non seppe resistere. Così i promessi sposi, che erano appostati, poterono entrare in casa senza esser visti e salire nella camera dell’ignaro don Abbondio che, fino a un momento prima, si stava facendo beatamente i fatti suoi. Mentre Tonio teneva occupato il curato con un sacchetto di soldi che andavano contati e controllati, Renzo e Lucia aspettavano fuori, e quando Tonio fece un segnale si precipitarono dentro all’improvviso. – Signor curato, in presenza di questi testimoni, questa è mia moglie – disse in fretta Renzo. Ma don Abbondio, svelto come un gatto e capito al volo l’imbroglio, balzò in piedi, prese il tappeto che era steso sul tavolino e lo gettò in testa a Lucia, che non era nemmeno riuscita ad aprire la bocca per dire la sua parte. Le si gettò poi addosso stringendole il tappeto sulla faccia per impedirle di parlare, nel frattempo gridando come un matto – Perpetua! Aiuto!

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La lampada che stava tenendo in mano cadde e si spense, cosicché si ritrovarono tutti al buio e nella più grande confusione. Abbondio, che ovviamente conosceva la casa meglio di tutti, sgattaiolò in uno stanzino accanto e vi si chiuse dentro, mentre continuava a strillare – Aiuto! Tradimento! Mi assalgono! Poi aprì la finestra e si mise a urlare anche più forte, finché non riuscì a risvegliare il sagrestano, che abitava lì vicino, e gli gridò di chiamare gente al più presto, che lo stavano assalendo in casa sua. Il sagrestano andò subito alle campane e prese a suonarle svegliando mezzo paese. Molti, allora, così com’erano, si precipitarono in strada per capire cosa stava succedendo. Questo gran baccano fu sentito anche dai bravi, che stavano appostati aspettando il momento di rapire Lucia. Pensando fosse quella un’occasione propizia, perché tutti sembravano im-

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sagrestano: è la persona che si occupa di tenere in ordine una chiesa.


pegnati da un’altra parte, entrarono in casa sua, ma trovarono vuote tutte le stanze. Possibile? Cos’era successo? Qualcuno aveva tradito? Il Griso, non si sa se più sorpreso o furibondo, comandò ai suoi di andarsene subito, che tanto lì non avevano niente da fare. E Perpetua? Quando sentì il gran fracasso provenire dalla casa del suo padrone, capì che Agnese l’aveva trattenuta lontano apposta – ah la bugiarda traditrice! – e corse indietro per aiutare don Abbondio. Sulla porta vide i due fratelli che correvan fuori e dietro anche i due sposi rimasti promessi. Tutti insieme questi quattro, con anche Agnese, corsero via e quasi si scontrarono con Menico che era venuto proprio a cercar loro. – Andiamo a casa vostra, presto! – disse Renzo a Lucia – prima che arrivi gente! – No, a casa vostra no! – gridò Menico. – Venite per di qua, andiamo al convento, che a casa vostra c’è il diavolo, ero venuto a dirvelo! – perché infatti, come Menico spiegò più tardi, il vecchio servitore di don Rodrigo aveva avvisato Cristoforo e Menico, andato da lui per aver notizie, veniva appunto a dire che i bravi volevano rapire Lucia dalla sua stessa casa. Mentre i fuggiaschi fuggivano, don Abbondio, passato il pericolo, si affacciò alla finestra per ringraziare tutti quelli che erano corsi in suo aiuto e li mandò a casa con tanti saluti, e così finì lo schiamazzo in piazza e si acquetò la gran confusione che aveva animato quella notte sfortunata. si acquetò: si calmò.

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10. La partenza di Agnese, Lucia e Renzo Nel frattempo Agnese, Lucia e Renzo, arrivati al convento, furono subito ricevuti da padre Cristoforo che non sapeva del loro tentativo malandrino ai danni di don Abbondio e credeva che essi fossero lì perché avvisati da Menico. – Figlioli, la situazione precipita, ormai questo paese non è più sicuro per voi e conviene che partiate al più presto. Voi – disse rivolgendosi alle donne – andrete nel nostro convento di Monza e tu, Renzo, andrai invece a Milano, nel convento di Porta Orientale, e darai questa lettera al padre Bonaventura da Lodi, mio buon amico. Si occuperà di te nel modo migliore. Li accompagnò davanti alla porta. – Andate al lago e troverete un battello vicino allo sbocco del tor-

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tentativo malandrino: il tentativo di Renzo e Lucia di farsi sposare da Don Abbondio con l’inganno.


rente Bione. Direte ‘barca’, vi chiederanno ‘per chi’ e risponderete ‘san Francesco’. La barca vi condurrà alla meta. Presto, partite ora, ogni minuto è prezioso. I tre lo ringraziarono e lo salutarono con calore. Raggiunsero il lago e trovarono tutto come aveva detto Cristoforo. Furono poi portati a Monza da un carro a cavalli e poterono riposare un poco in un’osteria. Ma poi Renzo dovette partire, mentre le due donne furono condotte a Monza, presso il convento che doveva ospitarle. Qui furono accolte bene, grazie alla raccomandazione di Cristoforo, e furono prese sotto la protezione di una monaca, Gertrude, che, pur non essendo la badessa del convento, aveva lì una posizione di grande potere, essendo figlia di un principe locale. Gertrude, che era diventata monaca non per sua volontà ma per volere dei suoi familiari, si prese a cuore la sorte di Lucia e decise di aiutarla e proteggerla.

badessa: è la suora responsabile di un convento.

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Ma che fine avevano fatto i bravi, sbandati nella notte e rimasti a bocca asciutta? E che cosa avrebbe raccontato il povero Griso al suo padrone? In effetti, nessuno avrebbe voluto esser nei suoi panni. Quando rientrarono a palazzo, Rodrigo, vedendo che erano arrivati senza Lucia, mandò subito a chiamare il suo bravo di fiducia. – Dunque? Spiegati, presto! Il povero Griso, sudando freddo, raccontò come erano andate le cose e Rodrigo sbottò: – Una spia! Che ci fosse una spia in questo palazzo proprio non me lo immaginavo! Tu ti sei comportato bene, ma qualcuno dovrà pagare… – L’ho pensato anche io, ma non sono convinto. Mi lasci indagare e far qualche domanda in paese e domani sapremo come sono andate davvero le cose. Troppi conti non mi tornano. – Sta bene, fai le tue domande e poi vieni subito a riferire. Il giorno seguente Rodrigo volle veder Attilio, che naturalmente lo prese in giro per la pessima riuscita della spedizione, ma vedendo che Rodrigo non era dell’umore giusto per scherzarci sopra gli disse: – Sapete, cugino, penso che quel frate ci abbia messo lo zampino. Lasciate che chieda aiuto al nostro conte zio, che ha molto potere, e vedrete che lo sistemeremo per le feste, quel cappuccino ficcanaso.

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bocca asciutta: non ottenere quello che si desiderava. sbottò: parlò senza riuscire a trattenersi. messo lo zampino: intromettersi senza farsi vedere. sistemeremo per le feste: ridurre in cattive condizioni.


Rodrigo accettò ben volentieri la proposta e si mise ad aspettare con impazienza la relazione del Griso. Il quale Griso, intanto, stava appunto girando per il paese a raccattar notizie da questo e da quello, finché non riuscì a riscostruire la vicenda più o meno come era andata. Così poté informare Rodrigo del tentativo andato a vuoto dei due promessi sposi e tutto il baccano che ne era seguito: nessun traditore dunque, era solo stata una serie di sfortunati eventi. E meno male che non pensarono al vecchio servitore, se no chissà quanto male gliene sarebbe venuto. – Fuggiti insieme dunque! È intollerabile! Che, può un sempliciotto montanaro aver la meglio su don Rodrigo? Griso! Entro stasera devo sapere dove si sono rifugiati, o non son più chi sono. Va’ al convento di Pescarenico e torna solo se hai buone notizie. Va’. E non ci volle molto al Griso per trovare anche quelle informazioni, perché le notizie vanno di bocca in bocca più veloci del vento. Così entro sera poté riferire al suo padrone che le donne si erano rifugiate in un convento a Monza e che Renzo si era diretto a Milano. Rodrigo sentì queste notizie con gran soddisfazione – dunque avevano dovuto separarsi! – e cominciò subito a pensare a come recuperare quello che aveva perduto, cioè Lucia, e a come tenere il più possibile lontano l’odiato rivale.

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11. La rivolta del pane a Milano Renzo, intanto, era per l’appunto arrivato a Milano, intenzionato ad andare subito al convento in cerca di quel tal padre Bonaventura. Mentre camminava per le vie della grande città, gli capitò di trovare per terra del pane. – Oh guarda come sono ricchi qui, mentre noi in campagna dobbiamo misurare ogni cosa. Posson addirittura buttare il pane! – Ma la cosa gli sembrava ben strana, specialmente in un momento di carestia come quello. E infatti strana lo era. Renzo ancora non lo sapeva, ma era capitato nel bel mezzo di una rivolta del popolo che, stanco di fare la fame e di non avere né pane né farina, si era riversato per le strade al grido di “pane! pane!” e stava assaltando le botteghe dei fornai, nella convinzione che quelli la farina ce l’avessero e la tenessero tutta per sé. Renzo avanzò ancora e incontrò della gente che veniva piena di pani e farina nei vestiti e nei grembiuli, mentre da lontano sentiva gran schiamazzi. Dominò la curiosità che lo pungeva e si presentò comunque al convento, ma padre Bonaventura non c’era e a Renzo fu detto di aspettare. – Tanto vale allora che dia un’occhiata qui intorno, vediamo un po’ a che punto stanno le cose – e andò dalla parte di dove venivano grida e confusione. Un forno in particolare, che non era troppo lon-

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carestia: mancanza di cibo dovuta a scarsi raccolti, rovinati da fenomeni naturali, oppure a causa di guerre o epidemie.


tano da lì, era stato preso d’assalto, il pane rubato, la farina sparsa a terra e tutti gli attrezzi e le macchine distrutti. – Vedete – gridavano alcuni – vedete che qui c’è la farina! La tengono per loro, questi infami fornai, e noi moriamo di fame! – tutti gridavano, spingevano, arraffavano e la confusione diventava di momento in momento più grande. – La colpa è tutta del vicario di provvisione! – bastò che uno dicesse così perché la folla, ormai grossa e infuriata, andasse verso la casa del povero vicario, che era un impiegato con l’incarico di governare appunto le scorte di cereali della città. Renzo, vedendo queste cose, pensò che distruggere un forno non era certo la miglior cosa da fare per aver più pane e, spinto sempre dalla curiosità, seguì il flusso di gente diretta alla casa del vicario. Lì la folla diede l’assalto alla porta e il tumulto divenne inarrestabile. Le cose per il vicario si mettevano molto male. – Affamatore! Fuori! O vivo o morto! – Renzo a quel punto era convinto più che mai che fosse tutto sbagliato: rubare il pane dal forno passi, in fondo quei fornai forse eran davvero ribaldi e furbacchioni, ma chiedere la morte di qualcuno, chiunque fosse, questo era troppo! Per fortuna tra la gente sentì che alcuni volevano salvare il vicario e decise di aiutarli anche lui. E con questa intenzione si spinse nel bel mezzo del parapiglia. Mentre andavano così le cose, arrivò la carrozza di Antonio Ferrer, gran cancelliere, parapiglia: confusione. gran cancelliere: una delle più alte cariche del governo spagnolo a Milano a quell’epoca.

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venuto apposta per salvare il vicario. Renzo, vedendo la carrozza, si diede da fare per aiutarla a farsi largo tra la folla e, tra mille difficoltà e fatiche, Ferrer riuscì a calmare almeno la gente che aveva intorno e a caricare sulla carrozza il vicario terrorizzato. Renzo, contento di aver dato una mano a salvare il vicario, visto che ormai s’era fatta quasi sera, si mise a cercare un’osteria dove mangiare e riposare, perché era troppo tardi ormai per presentarsi al convento. Mentre era per via, trovò un gruppetto di persone che commentavano i grandi fatti della giornata e si fermò per dire anche lui il suo parere. – Signori miei, non è soltanto nella questione del pane che si fanno delle bricconerie, ve lo dico io. Oggi s’è visto che se ci si fa sentire si ottiene giustizia, quindi bisogna andare avanti così, finché non si sia messa fine a tutte le ingiustizie fatte dai tiranni e dai prepotenti – Renzo naturalmente aveva in mente le sue faccende personali, ma non avrebbe dovuto parlar così. Incauto! Non sapeva che in città giravano sempre spie del governo pronte a scovare gli scontenti e i contestatori. Così uno che ebbe sentito le parole di Renzo lo portò in un’osteria, lo fece ubriacare e riuscì a farsi dire il suo nome con l’inganno: l’avrebbe fatto arrestare il giorno dopo, con l’accusa di essere uno dei capi della rivolta. Povero, ingenuo Renzo! Ci cascò in pieno e disse molto più di quello che doveva, così la mattina seguente si ritrovò appena sveglio e ancora intontito dal troppo vino con le guardie in stanza e i lacci intorno ai polsi.

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12. Arresto e fuga – Lorenzo Tramaglino! Animo, uscite senza opporre resistenza! Renzo, trovandosi risvegliato così amaramente, si mise a protestare, ma il notaio che era venuto a prenderlo con le guardie lo bloccò. – Se siete un uomo onesto non avete da preoccuparvi, vi faranno solo poche domande e poi sarete libero d’andar per i fatti vostri. – Da fuori venivano intanto baccano e grida e fu chiaro al notaio, ma anche a Renzo, che i disordini del giorno prima non erano finiti e che c’erano ancora dei rivoltosi per le strade. – Certo che sono un uomo onesto! E proprio per questo non voglio esser portato via in questo stato, non ho fatto nulla di male – e tendeva i polsi per farsi togliere i lacci. – Benissimo, quindi non avete nulla da temere. Adesso però uscite con calma e non fate schiamazzo, lo dico per il vostro onore. Non vorrete provar la vergogna di farvi vedere catturato. È per il vostro bene. Renzo, che era ingenuo ma non stupido, capì che il notaio era preoccupato di quegli agitati che riempivano le vie e pensò di approfittare della situazione per scappare. Non appena fu in strada, vedendo che un bel gruppo di gente veniva dalla loro parte, gridò: – Figlioli! Aiutatemi vi prego, mi portano in prigione perché ieri ho gridato ‘pane e giustizia!’ ma non ho fatto nulla di male, sono un galantuomo, non m’abbandonate!

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Al che quelli, che erano già esaltati e non aspettavano che un’occasione per far trambusto, si strinsero intorno alle guardie e al notaio con fare minaccioso, finché quelli, vista la situazione, non lasciarono andare Renzo, che grazie alla folla riuscì a sgattaiolare via e a sparire, mentre le gente gridava contro al notaio: – Guardate un corvaccio! Corvaccio, corvaccio! A quel punto a Renzo non parve una buona cosa rimaner da quelle parti o andarsi a chiudere in un convento. – Se posso essere uccel di bosco, non voglio diventare uccel di gabbia. E poi, sanno il mio nome, potrebbero venire a prendermi in qualsiasi momento, meglio andarsene lontano da qui. A Bergamo, dal cugino Bortolo, là sarò al sicuro. Così si allontanò il più possibile, cercando di capire la direzione per uscir da Milano dalla parte giusta. Non si fidava a chiedere informazioni, tutti sembrandogli sospetti, magari altre spie, che lui ne aveva abbastanza! Non voleva fare lo stesso errore della sera prima. E, come fortuna volle, girò e girò finché non si ritrovò alla Porta Orientale e di lì poté uscire dalla città. Di nuovo trovandosi senza indicazioni certe, andò nella direzione che gli pareva giusta, lasciandosi guidare dall’istinto e allungando di molto la strada. Camminò tutto il giorno e verso sera si fermò in un’osteria a mangiare. Qui venne a sapere da uno di

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corvaccio: il notaio viene chiamato così perché all’epoca i notai erano sempre vestiti di nero con un colletto bianco. uccel di bosco: libero. uccel di gabbia: imprigionato.


passaggio che la sommossa a Milano era finita e che le autorità avevano catturato i capi della rivolta e li avrebbero impiccati. Uno però, forse il più pericoloso, arrestato in un’osteria, era riuscito a scappare e lo stavano cercando dappertutto. Renzo, sentendo questo, mancò poco che si soffocasse col boccone: che! Ma proprio di lui parlavano? E lo dipingevano come un maramaldo, un facinoroso, uno scellerato! Ma che giustizia c’era al mondo, che le bugie dovevan valere più della verità! Avrebbe voluto alzarsi in piedi e gridare davanti a tutti che lui, semmai, lo avrebbero dovuto premiare, altro che arrestare, perché aveva salvato il vicario e non aveva fatto proprio niente di male, tutto il contrario! Ma naturalmente stette ben zitto e seduto, e mandò giù il boccone amaro di dover ascoltare tutte quelle menzogne e furfanterie. Riprese subito la strada, perché ormai aveva in odio le osterie che gli portavano solo disgrazie, e camminò fino a notte, cercando nel buio se per caso sentiva il rumore amico del fiume

maramaldo: persona che se la prende con i deboli e con chi non può difendersi.

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Adda, che conosceva così bene e gli avrebbe fatto capire d’esser sulla strada giusta. Entrò in un bosco, dove persino le ombre degli alberi gli sembravano minacciose e oscure, e si sentì perduto e disperato finché udì il rumore tanto desiderato, uno scorrere d’acqua tranquillo e benevolo: l’Adda! Allora, rincuorato, si mise al riparo d’un casotto mezzo abbandonato e aspettò il mattino. Non appena la luce fu abbastanza per vederci, andò alla riva e qui trovò subito un barcaiolo che lo portò dall’altra parte senza far troppe domande. In salvo! Perché l’altra riva era sotto il dominio di Venezia, e i milanesi qui non l’avrebbero potuto prender più. Felice e sollevato, con passo molto più leggero, si incamminò verso Bergamo, che già vedeva di lontano, e non ci mise poi molto ad arrivare. Una volta in città, cercò la bottega dove lavorava il cugino Bortolo, che lo accolse con un abbraccio. – Benedetto figliolo, sono felice di vederti, ma potevi avvisare! Ti ho detto tante volte di venire e ora mi capiti qui proprio mentre c’è poco lavoro! Renzo allora gli spiegò come erano andate le cose e che non si trovava lì per scelta, ma per necessità. – Quand’è così, hai fatto benissimo a venire e insieme troveremo una soluzione, non temere. Il padrone qui mi vuole bene e mi stima e tu sei un gran lavoratore, ti sistemerà senz’altro. Renzo, grato e tranquillizzato, poté tirare un sospiro: era davvero in salvo e le cose per lui si erano aggiustate. Ora si trattava di far venire a Bergamo al più presto anche Agnese e Lucia e sarebbero stati finalmente felici.


13. Rodrigo cerca aiuto e Cristoforo va a Rimini Da Milano le notizie fecero presto ad arrivare a Lecco e dintorni: così anche al suo paese si venne a sapere che Lorenzo Tramaglino era stato uno degli agitatori della rivolta del pane ed era ora ricercato. La cosa arrivò anche alle incredule orecchie di Cristoforo, che mandò a chiedere notizie all’amico Bonaventura: niente da quella parte, Renzo non era al convento. Nessuno in paese poteva credere alla colpevolezza di Renzo, che era conosciuto per essere buono e onesto, ma certo qualcuno si rallegrò molto della reputazione che si era guadagnato. Rodrigo si sfregava le mani: il rivale messo fuori combattimento addirittura dalla giustizia! dalle autorità! Meglio di così non poteva andare, aveva fatto tutto da solo. E intanto si stava sistemando anche la faccenda del frate arrogante, quel Cristoforo, visto che il cugino Attilio era andato a parlare con il potente conte zio a Milano e aveva ottenuto la promessa che il padre predicatore sarebbe stato mandato in un altro convento lontano. Insomma fatti fuori il rivale e il frate ficcanaso, restava solo da metter le mani sulla ragazza. E qui l’osso si faceva duro, perché il convento di Monza e la protezione di una principessa – fosse anche monaca – erano troppo per il suo potere e la sua influenza. Ritirarsi dall’impresa era ormai fuori dil’osso si faceva duro: la situazione si faceva difficile.

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scussione: si era invischiato e ne andava sempre più del suo onore. Non avrebbe più potuto guardar in faccia nessuno, non dico Attilio, ma nemmeno uno dei suoi amici, o peggio nemici, se avesse lasciato perdere. Il suo nome, e quindi il suo potere, ne sarebbe stato molto diminuito. Che fare, quindi? Cercare l’aiuto di uno più potente? E chi c’era lì nei dintorni più potente di lui? E così potente da aprire le porte addirittura di un convento? Uno, in effetti c’era, anche se Rodrigo di rivolgersi a lui ne avrebbe fatto volentieri a meno. Ma tant’è, non c’era altra strada. E così, fatta venire una scorta, Rodrigo si incamminò verso il castello d’un tal signore, malvagio tra i malvagi, diabolico e feroce, di cui però non si conosce il nome. Lo chiameremo l’innominato.


Intanto la notizia delle disavventure di Renzo era arrivata anche al convento di Monza tramite un messaggero mandato da Cristoforo: Agnese e Lucia a quelle parole si sentirono svenire, ma almeno seppero che Renzo era vivo, ed era riuscito a scappare, rifugiandosi forse nel bergamasco. Era pur sempre qualcosa! Ma dato che dopo queste notizie non ne erano venute altre e le donne erano di nuovo preoccupate, Agnese decise di tornare a casa, al paese, per avere notizie più fresche. Trovò un passaggio da un pesciaiolo che veniva da Milano e andava verso i monti e arrivò la mattina del giorno dopo, di buon’ora. Andò subito al convento per trovare il caro padre Cristoforo, ma qui l’aspettava un’amara notizia: il padre era stato trasferito a Rimini, due giorni prima. Bisognava vedere come ci rimase la povera Agnese! Di stucco. E disperata. – Povera me! Perché mandarlo via? – Non son cose che si possano sapere, decidono i superiori ed è sempre per il meglio. – Sarà come dite voi, ma per me è una gran disgrazia. Oh Signore, Signore! Come faremo? – Via, ne abbiamo altri di bravi predicatori. Agnese lo guardò senza aggiungere altro, ma se ne andò con cuore pesante di sconforto. E così il conte zio aveva messo in moto le sue conoscenze ed esercitato il suo potere, e padre Cristoforo ne era andato di mezzo. Vedi un po’ come vanno le cose, che i ribaldi trionfano e gli onesti patiscono. Ma non era ancora detta l’ultima parola. con cuore pesante: preoccupata e triste.

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14. L’innominato In un castellaccio fosco e sinistro, appollaiato su uno sperone roccioso che dominava una valle proprio al confine tra il territorio di Milano e quello di Bergamo, viveva dunque questo personaggio tristemente famoso, che qui viene detto innominato. Era un uomo di circa sessant’anni, la maggior parte dei quali trascorsa a compiere delitti crudeli e sanguinosi. Un uomo spietato, senza leggi sopra di sé o rispetto delle regole, tutto preso dalla volontà di essere il più potente e temuto di tutti. Aveva moltissimi nemici e pochi amici, e quei pochi, più che amici, bisognava piuttosto chiamarli subalterni, dipendenti, vassalli. Insomma, tutti gli stavano sotto e ne avevano paura, anche Rodrigo e quelli pari a lui. Erano in molti a rivolgersi all’innominato per aiuto, perché più di chiunque altro sapeva ottenere i risultati voluti, così che qualche volta si era trovato perfino a raddrizzare dei torti o contrastare una prepotenza. Ma mai per buon cuore, sempre per calcolo e convenienza, o al più, per capriccio. Con un misto di timore e repulsione Rodrigo si era messo per strada, dunque, per andare a chiedere aiuto a questo terribile personaggio, ben sapendo che, prima o poi, ne avrebbe dovuto pagare il conto,

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subalterni: chi lavora agli ordini di qualcuno. vassalli: nel medioevo erano coloro che in cambio di terre e protezione da parte di un principe o di un re, giuravano fedeltà e dipendenza.


a dieci o cento volte il suo valore. Arrivò a una locanda chiamata Malanotte in fondo alla valle, dove dovette lasciare le armi e i bravi che gli facevano da scorta, tutti tranne il Griso. Poi, a piedi, arrivò al castello dove fu subito ricevuto. Non aveva ancora finito di chiedere il favore, che l’innominato glielo aveva già concesso. Questa velocità si deve al fatto che l’innominato conosceva un certo giovane signore di nome Egidio, scapestrato e senza scrupoli, che abitava a ridosso del convento di Monza. Ebbene, questo Egidio aveva frequentato di nascosto proprio Geltrude, la monaca protettrice di Lucia, e questa era cosa proibitissima e molto grave. Se si fosse risaputa sarebbe stato un enorme scandalo per la poverina e, quel che è peggio, per il severo principe, suo padre. Perciò era certo che qualunque cosa Egidio avesse chiesto alla monaca, questa avrebbe dovuto concederglielo per assicurarsi il suo silenzio. E qualunque cosa l’innominato avesse chiesto a Egidio, l’avrebbe ottenuta, perché il giovanotto gli era debitore e compagno di scelleratezze. Dunque la parte più difficile, cioè sottrarre Lucia alla sua protettrice, era già risolta in partenza e l’innominato poteva esser certo di soddisfare la richiesta di Rodrigo senza troppa fatica. Così, in men che non si dica Rodrigo, si ritrovò la soluzione in tasca e poté andar via sicuro che avrebbe avuto la ragazza in suo potere in capo a poco tempo. A che prezzo, poi, l’avrebbe saputo solo dopo. scapestrato: che non ha voglia di lavorare, che sperpera i propri averi.

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15. Rapita! Rodrigo se ne era appena andato che l’innominato si pentì di aver concesso il suo aiuto così in fretta. Da qualche tempo, infatti, a ogni nuova impresa scellerata sentiva un disagio che non aveva mai sperimentato prima. Era come se il peso della nuova cattiva azione venisse a sommarsi a quello di tutte quelle passate e il totale stava diventando insopportabile. Adesso che l’innominato sentiva di avere più vita alle spalle che davanti, cominciava a preoccuparsi di quello che lo aspettava… invecchiare! Morire! E poi? Cosa mai c’era dopo, e se c’era qualcosa, come sarebbe stata per lui, che aveva seminato tante sofferenze? La morte e quel che veniva dopo, ecco, questo era il pensiero che lo tormentava e contro al quale non aveva difese. Ci sarebbe stato un giudizio? Una punizione? E lui come sarebbe stato allora giudicato? Quel Dio di cui non aveva mai voluto sentir parlare, c’era dunque? Esisteva? Ma di queste inquietudini non poteva parlare con nessuno, figurarsi! Circondato com’era solo da bravi e altra gentaglia. E quindi si teneva tutto dentro e si tormentava, cercando di mandar via questi pensieri angoscianti e di tenersi sempre occupato a far qualcosa. Così anche stavolta, partito Rodrigo, per non cedere alla tentazione di avere ripensamenti, l’innominato chiamò il capo dei suoi bravi, detto il Nibbio, e gli ordinò di andare subito da Egidio per combinar

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scellerata: crudele, malvagia.


la cosa. E il Nibbio tornò ben presto con la risposta: Geltrude, ovviamente, avrebbe collaborato, la cosa era praticamente bell’e fatta. E infatti, nel giorno stabilito, con uno stratagemma Geltrude indusse Lucia a uscire dal convento da sola per una certa commissione, mentre una carrozza con il Nibbio e altri bravacci la aspettava a mezza via. Lucia passò di fianco alla carrozza, il Nibbio in persona la fermò con la scusa di chiedere un’informazione e quando Lucia fece per rispondere, la bloccò circondandola con le braccia e la caricò a forza sulla carrozza, ficcandole un fazzoletto in bocca. Inutile cercare di descrivere il terrore che prese la povera fanciulla nel vedersi trattata a quel modo! Mancò poco che morisse letteralmente per lo spavento, e di certo svenne, incapace di sopportare quell’angoscia e quel turbamento. Quando si riebbe un poco, cercò più volte di gettarsi dalla carrozza in corsa, di divincolarsi, di gridare, ma quei tipacci la tenevano, la stringevano, la ricacciavano giù, insensibili alle sue preghiere e alle sue lacrime. Per tutto il viaggio, che non fu breve, Lucia alternò uno stato di incoscienza a queste suppliche e ai tentativi di fuga, ma niente servì: la carrozza andava come il vento verso la sua meta.


Intanto, nel castello sulla roccia, l’innominato aspettava. E non era un’attesa gioiosamente maligna, come altre volte, ma piuttosto agitata, piena di sentimenti cupi e quasi di paura. Stava affacciato alla finestra, scrutando il fondo della valle e intanto pensava “Che impiccio che mi dà questa ragazza! E perché poi? Non voglio neanche vederla, la manderò direttamente da Rodrigo!” Ma poi subito una voce gli diceva “No! Devi incontrarla invece, e subito”. Vedendo arrivare la carrozza, mandò a chiamare una vecchia serva e le disse di accogliere bene la ragazza e portarla in una stanza preparata apposta, senza spaventarla. – Falle coraggio e trattala con ogni riguardo o dovrai vedertela con me. Al fermarsi della carrozza nel cortile, la vecchia si affacciò dentro e disse: – Venite, su, senza paura, che non vi succederà niente di male. Lucia tremava come una foglia al vento e, vedendosi circondata da brutti ceffi, seguì la vecchia che almeno le faceva meno paura. – Dove sono? Perché sono qui? Cosa volete da me? – Lucia non cessava di far domande, guardandosi attorno spaurita, ma la vecchia continuava solo a dire di star tranquilla che non le avrebbero fatto del male.

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gioiosamente maligna: felice di essere crudele. sentimenti cupi: pensieri tristi e spaventosi.


16. La compassione del Nibbio e la promessa di Lucia Mentre l’innominato guardava questa scena da una finestra, arrivò da lui il Nibbio a riferire. – Tutto a puntino e liscio come l’olio signore, non se ne è accorto nessuno. Ma… – Ma? – Ma avrei preferito doverle tirare una schioppettata nella schiena, a quella poverina. – Sarebbe a dire? – Voglio dire, voglio dire… tutto quel tempo a piangere e pregare, tutta quella sofferenza, gli svenimenti, il pallore… m’ha fatto compassione, ecco. – Compassione?! E che ne sai tu di compassione? – Poco e niente, lo ammetto. Non ne avevo mai provata, e avrei preferito non provarla mai. Se un uomo prova compassione, a momenti non è più un uomo, lei mi capisce… non può più fare quello che deve, ecco. L’innominato lo guardò stupefatto: questa poi era davvero nuova! Il Nibbio mosso a pietà! Il più sanguinario e sciagurato dei suoi bravi, commosso come una donnicciola! Ma chi era questa ragazza, alla fin fine? Un demonio? O un angelo? “Non la voglio in casa costei, non la voglio!” pensò. Poi, ad alta voce, disse: – Va’ a riposarti adesso, domattina farai quello che ti dirò. a puntino: fatto alla perfezione. liscio come l’olio: quando qualcosa avviene senza intoppi, come era previsto.

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Poi andò nella stanza della prigioniera. Lucia era a terra come un mucchio di stracci, tutta rannicchiata. – Alzatevi. Ma lei, completamente terrorizzata, rimase raggomitolata con il viso nascosto nelle mani. – Su, non vi farò del male – disse lui con impazienza. Lucia si mise in ginocchio e alzò gli occhi colmi di lacrime. – Che colpe ho? Perché m’ha presa? Voglio tornare a casa mia, da mia madre, la prego, non le ho fatto nulla! – V’ho detto che non voglio farvi del male, basta! – ma la voce suonava già più raddolcita. – Mi lasci andare allora e io pregherò per lei. Dio perdona tante cose per un gesto di misericordia! L’innominato sentì qualcosa nascergli nel cuore, una sensazione che non conosceva o che forse si era dimenticato di poter provare. – Via, fatevi coraggio, non vi ho torto un capello, alla fin fine. Domattina… – Vedo che lei ha buon cuore, che sente pietà per me che sono una povera creatura, me ne accorgo. Mi liberi dunque, subito, e io pregherò per lei tutta la vita. – Domattina ci rivedremo, vi dico. Intanto riposate, mangiate qualcosa, e state tranquilla. La vecchia a sentir parlare così il suo padrone, con un tono di voce rassicurante se non addirittura dolce, lo

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gesto di misericordia: azione buona per qualcuno gratuitamente, senza avere niente in cambio. non vi ho torto un capello: non vi ho fatto nessun male.


guardava con gli occhi spalancati, ma abituata com’era a obbedire senza far domande si teneva in disparte e in silenzio. L’innominato le diede istruzioni di trattare bene Lucia e non farle mancare nulla e poi uscì. Lucia, sfinita e disperata, tornò a rannicchiarsi nell’angolo della stanza e si mise a piangere. Non volle mangiare quel che portarono né mettersi a letto, restò lì tremando in preda a pensieri funesti. Le sembrava d’essere finita in un incubo, alternava momenti di veglia a momenti di sonno agitato. In tutta questa angoscia pensò che almeno le restava la consolazione di pregare, sperando che Dio e la Madonna avrebbero ascoltato le sue parole. E mentre pregava, le venne l’idea che se avesse promesso qualcosa in cambio, qualcosa di prezioso, magari la sua richiesta sarebbe stata maggiormente ascoltata. E cosa mai poteva avere lei di valore, così povera e sventurata com’era? Così si ricordò di quello che aveva di più caro al mondo e, spinta dalla sofferenza e dall’orribile spavento che sentiva, decise di offrirlo come in sacrificio. Si mise in ginocchio, alzò gli occhi al cielo e disse: – O Vergine santissima, aiutatemi! Fatemi uscire da questo pericolo e tornar salva con mia madre, e io faccio voto di rimanere vergine e rinunciare per sempre a sposarmi con quel mio Renzo! Dette queste parole si rimise a sedere con una speranza nel cuore, come se le fosse entrata nell’animo una nuova fiducia. E, stremata com’era, s’addormentò. funesti: che sono causa di dolore e sofferenza.

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17. La notte dell’innominato Se la notte di Lucia era così tormentata, anche qualcun altro nel castello non dormiva. Uscito dalla stanza della ragazza, l’innominato s’era chiuso in fretta e furia nella sua. Aveva bisogno di stare da solo e allo stesso tempo ne aveva paura. Non voleva incontrare nessuno dei suoi, come se ne avesse ribrezzo, ma rimanere solo lo costringeva a ripensare a cose che avrebbe voluto piuttosto dimenticare. – Cosa diavolo m’è venuto addosso, di parlare a quella donna in quel modo? Forse è la prima volta che sento qualcuno piangere e supplicare?! E pure costei… basta! Non so più chi sono, non sono più un uomo! – camminava avanti e indietro senza riuscire a stare fermo. – Ma sono così stanco di tutto questo, delle sofferenze, delle violenze… non voglio più saperne. Anche se ho fatto molto male in passato, ora potrei cambiare e magari… magari salvare almeno questa… chiederle perdono… perdono! Ma cosa dico? Cosa penso? Ho bisogno forse io, io, del perdono di una donnicciola, ah! A cosa son ridotto, sto proprio perdendo il senno. Ma intanto quell’idea prendeva forma nella sua testa, essere perdonato, compiere una buona azione finalmente, sentiva che la sua anima ne aveva bisogno come l’assetato ha bisogno di acqua.

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ribrezzo: provare disgusto.


Ma ancora qualcosa in lui si ribellava a queste considerazioni, tutto il suo essere di un tempo reagiva. – Via son sciocchezze che mi sono passate per la testa anche altre volte, basta cacciarle, non pensarci più. Ma niente. Per quanto si sforzasse di distrarsi, la mente di nuovo tornava a quelle idee: tristezza e spavento per le tremende azioni compiute, e terrore per le conseguenze che avrebbe dovuto sopportare. L’unico sollievo era il pensiero che l’indomani avrebbe potuto far del bene a quella poverina e con questo guadagnare almeno un po’ di pace. E in tutta questa agitazione, ci fu un momento in cui addirittura prese una pistola e pensò di farla finita, tanto quella sua vita spaventosa gli era divenuta insopportabile. Ma all’ultimo momento, quando già stava per tirare il colpo fatale, si fermò, colto da un pensiero improvviso. E se quell’altra vita di cui gli avevano parlato quando era ragazzo esisteva davvero? Non ci aveva mai voluto pensare, ma adesso… gli tornarono in mente le parole di Lucia “Dio perdona tante cose per un atto di misericordia!” Levò la pistola dalla tempia, ripensò a Lucia non come a una prigioniera che stava facendo una supplica, ma come a una in grado di concedere perdono e consolazione, e prese la decisione definitiva: l’indomani l’avrebbe liberata. Nel tumulto di questi pensieri contrastanti era intanto arrivata l’alba e con la luce gli venne alle orecchie un suono, come un colpo fatale: colpo mortale. tumulto: grande confusione.

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brusio festoso e un gran scampanare. Si affacciò e vide che nelle strade in fondo alla valle c’era gente che passava, che usciva dalle case, che si fermava a parlare e poi andava in un’unica direzione, in un paese poco lontano dal suo castello. – Dove va tutta quella gente così di buon’ora? Che diavolo hanno tutti da essere così allegri? Chiese a un bravo cosa stesse succedendo e seppe che era arrivato in paese il cardinale Federigo Borromeo di Milano, un sant’uomo famoso per essere sempre dalla parte dei deboli e dei poveretti e non solo a parole, cosa molto diffusa anche a quei tempi, ma coi fatti e la sua stessa vita.

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brusio: rumore di voci. buon’ora: la mattina presto.


18. L’innominato e il cardinal Federigo Vedendo dunque tanta gente così gaia e desiderosa di vedere quell’uomo, all’innominato venne la irresistibile curiosità, di più, il bisogno, di andare a conoscerlo anche lui. – Cosa può mai avere un uomo da rendere tutti così felici? Forse costui può togliere i tormenti e le tribolazioni? Allora nessuno ne ha più bisogno di me! Così, animato da una speranza vaga ma fortissima, l’innominato decise di scendere al paese per incontrare il cardinale e vedere se fosse eccezionale come aveva fama di essere. Passò nella stanza di Lucia, che stava ancora dormendo, e disse alla vecchia che era rimasta a farle la guardia: – Quando si sveglia, dille che sono andato via, ma che tornerò presto e farò quello che lei vorrà. Poi andò verso il paese, senza il solito seguito di bravi. La gente per strada, vedendolo così, si faceva da parte e lo guardava con meraviglia. Arrivò alla casa dove era il cardinale e chiese di essere ricevuto. Il cappellano, pur strabiliato che quel tiranno, famoso per la sua ferocia e arroganza, fosse lì a chiedere udienza come un poveretto qualunque, si afgaia: felice. tribolazioni: fatiche, dolori. vaga: poco chiara. strabiliato: sorpreso.

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frettò a riferire a Federigo la richiesta e quello disse di far passare subito l’innominato. Federigo, infatti, che era veramente quel santo che si diceva, aveva subito intuito il motivo per il quale l’innominato si era presentato e voleva gioire di quella decisione e accoglierlo a braccia aperte. – Fatelo entrare, ha già aspettato anche troppo! L’innominato entrò e stette lì fermo, incapace di decidere se era più contento o più stizzito: da un lato sperava di trovare quel conforto che ormai gli era necessario come l’aria, dall’altro era irritato e vergognoso d’esser lì come un pentito, un miserabile, a implorare perdono. Ma quando vide il volto del cardinale, aperto, sincero e genuinamente felice di vederlo, caddero le sue resistenze. – Benvenuto! Che preziosa visita è questa! Perdonatemi, avrei dovuto venire io da voi. Vi ho tanto pensato, ho tanto pregato e adesso siete qui. Dio mi ha ascoltato. L’innominato, che certo non si aspettava una simile accoglienza, rimase sbigottito e commosso. – Come mai siete così contento di vedermi? Sapete davvero chi sono? – Certo che lo so, e per questo di più mi rallegro. Dio vi ha toccato il cuore e se vorrete dirigere, da ora in avanti, le vostre azioni a far del bene, avrete il perdono e la consolazione di cui avete così bisogno. Comincia per voi una nuova vita, perché Dio vi ama e ha grandi disegni su di voi.

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stizzito: irritato, innervosito. sbigottito: turbato e sorpreso allo stesso tempo.


– No, non può essere, voi non sapete, non capite… – So e capisco invece, siatene certo – e Federigo lo abbracciò. L’innominato, colto di sorpresa, non resistette più a lungo e abbandonò la testa sulla spalla del cardinale, lasciando finalmente correre le lacrime che da troppo tempo teneva compresse dentro di sé. – Io solo ora comprendo chi sono, le mie malefatte mi stanno davanti e ho orrore di me stesso, eppure… eppure adesso provo una gioia, una pace come non avevo mai provato prima – e nel dir questo pareva come trasfigurato, un volto nuovo, o forse era un’espressione nuova che gli aveva trasformato la faccia. E per dimostrare che era cambiato anche nell’anima, l’innominato disse che voleva cominciare subito a fare del bene, liberando la fanciulla che teneva prigioniera al castello. A sentir questo, il cardinale chiamò il cappellano e gli chiese se per caso, nella folla accorsa da tutte le parti, non ci fosse anche il curato del paese di Lucia, che certamente la conosceva. E il curato, cioè don Abbondio in persona, per l’appunto c’era e fu fatto venire all’istante. – Trovate una buona donna che vi accompagni e possa tranquillizzare quella poverina e andate al castello per prenderla e portarla qui, ma presto! Che ha già sofferto abbastanza. Quanto a voi – disse rivolto all’innominato – siete benedetto! Rallegratevi, Dio vi ha trasformato in strumento di salvezza a chi dovevate esser di rovina. La vostra nuova vita comincia qui.

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19. Libera! E così don Abbondio, senza quasi avere il tempo di riprendersi dalla sorpresa d’esser chiamato dal cardinale in persona, si ritrovò caricato su una carrozza diretto niente meno che al castello dell’innominato. E siccome nel frattempo il curato non era diventato coraggioso, passò tutto il viaggio ad angustiarsi d’essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. – Accidenti a Perpetua che mi ha convinto ad andare a vedere Federigo! A casa mia dovevo restare, e adesso non sarei qui a rischiare la vita tra queste brutte facce da canaglia. Come Dio volle arrivarono al castello e nella stanza di Lucia, la quale, vedendo la donna e poi don Abbondio pensò lì per lì di aver perso la ragione. Ma quando l’ebbero rassicurata che erano venuti a prenderla per portarla in salvo, riacquistò forze e fiducia. – È la Madonna che vi manda! Dunque mi ha ascoltato! Mentre stava per uscire, entrò nella stanza l’innominato. – Perdonatemi! – disse lui di slancio, tenendo gli occhi abbassati. – Oh il mio Signore! Dio le renda merito della sua misericordia! – rispose in fretta Lucia e uscì insieme con la donna e don Abbondio. Salirono sulla carroz-

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angustiarsi: preoccuparsi. le renda merito: le riconosca il valore delle sue azioni.


za tutti e tre e, scortati dall’innominato in persona, si diressero verso la casa dove abitava quella donna, mentre la gente si accalcava ai lati della strada per vederli passare. La notizia della conversione dell’innominato, infatti, aveva fatto in fretta a diffondersi e tutti erano curiosi di vedere questo prodigio. Una volta arrivati, la buona donna si mise subito a cucinare qualcosa per Lucia, che non mangiava da molte ore ed era sfinita di fame e stanchezza. Ma non appena la ragazza si sentì al sicuro, le tornò in mente quello che era successo e la solenne promessa che aveva fatto la notte precedente, e si pentì di quelle parole. – Oh, povera me, cos’ho fatto! Poi però pensò alla situazione passata e all’angoscia che aveva provato e capì che non aveva avuto altra scelta: adesso era impossibile ritirare la promessa, sarebbe stato un sacrilegio verso la Madonna che l’aveva salvata. Così tornò a formulare il suo voto, pregando ma anche piangendo, perché aveva promesso è vero, e non poteva più tornare indietro, ma non poteva neanche fare a meno di essere, per questo, completamente infelice. Fu infine chiamata a tavola dalla buona donna e da suo marito, che era un sarto e, mentre mangiavano, arrivò anche Agnese che nel frattempo era stata mandata a chiamare. Impossibile descrivere l’incontro della figlia con la madre: non la finivano più di abbracciarsi, baciarsi, piangere e raccontarsi cose. Nel trambusto dell’incontro, Lucia non ebbe cuore di dire a sua madre della promessa che aveva fatto, contenta solo d’esser di nuovo con lei.

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Poi chiese di Renzo, ma Agnese sapeva solo quello che sapevano tutti, cioè ch’era salvo e rifugiato probabilmente nel bergamasco, e Lucia non chiese di più. In quel momento, arrivò niente meno che Federigo in persona, venuto a vedere se il salvataggio della prigioniera fosse andato a buon fine. La sua venuta mise in subbuglio l’intero paese e naturalmente ancor più il sarto e sua moglie, che non sapevano più dove stare e cosa fare davanti a un personaggio così illustre. Federigo parlò a lungo con Agnese e Lucia e venne così a sapere un poco di più della loro storia: di come don Abbondio avesse rifiutato di sposare i due giovani e di come loro avessero tentato di costringerlo e poi avessero dovuto fuggire e separarsi. Dissero pure che Renzo era un bravo giovine e che certamente non poteva aver fatto quei crimini che gli attribuivano. Agnese concluse a proposito di questo: – Chi sa che imbroglio avranno fatto laggiù. I poveri, ci vuol poco a farli sembrare birboni. – È vero, purtroppo – disse il cardinale – mi informerò su di lui e vedremo.

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20. Lucia e Agnese devono separarsi ancora L’innominato intanto era tornato al castello e qui, radunati tutti i suoi bravi in cortile, disse loro che aveva cambiato vita e costumi: chi voleva restare avrebbe dovuto fare come lui, gli altri potevano ritirare la paga dovuta e andar via, che lì non c’era più posto per loro. Alcuni restarono, altri partirono, ma tutti furono strabiliati da questo improvviso cambiamento e impressionati dalla conversione. Sin dal giorno successivo nel paese di Lucia e nei dintorni non si parlava d’altro che di lei, dell’innominato, del cardinale e delle grandi cose capitate. E si parlava pure di un altro, che stavolta di tutta questa fama avrebbe fatto volentieri a meno: Rodrigo. Quelli che avevano buoni motivi per odiarlo, cioè praticamente tutti, presero coraggio e cominciarono a dir male di lui apertamente, perché era come se fosse caduto in disgrazia, non avendoci fatto una buona figura in tutta quella vicenda e non avendo più protettori che prendessero le sue difese. Rodrigo, saggiamente, rimase rintanato in casa qualche giorno e poi partì per Milano, per sottrarsi alle chiacchiere e anche alla visita che Federigo avrebbe fatto in quei giorni proprio al paese di Lucia. E lui non voleva certo rischiare di incontrarlo. strabiliati: sorpresi. conversione: quando qualcuno che non ci credeva, comincia a credere in Dio. O, più in generale, quando si decide di cambiare la propria vita e le cose in cui si crede.

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Agnese e Lucia passarono alcuni giorni nella casa del sarto e di sua moglie, finché una gentildonna molto incline a far del bene, donna Prassede, e suo marito, don Ferrante, che erano in villeggiatura da quelle parti, non si offrirono di dare ospitalità a Lucia nella loro casa di Milano. Questo per evitare che tornasse a stare troppo vicino a quel prepotente di Rodrigo, che certamente aspettava solo l’occasione di vendicarsi. Lucia accettò la loro offerta, anche per l’insistenza di Agnese, che invece doveva tornarsene a casa sua, al paese. La ragazza non avrebbe voluto separarsi dalla madre ancora una volta, ma purtroppo non si poteva evitare. Prima che partisse arrivò il parroco del paese che stava vicino al castello dell’innominato e consegnò un pacchetto ad Agnese e Lucia: erano soldi, un notevole gruzzolo che l’innominato mandava loro, nella speranza che potesse essere d’aiuto nelle loro tribolazioni. Agnese, esultante, si mise subito a far piani per l’avvenire: – Vedrai che tra poco Renzo manderà notizie, magari andremo a raggiungerlo là dove si trova e pazienza per la nostra casa e il paese: io per me sono felice di vedervi felici e posso stare dappertutto, basta stare con voi che siete i miei figlioli. Ma più Agnese parlava, più Lucia si intristiva finché non ce la fece più e sbottò: – Povera mamma! Avrei dovuto dirvelo prima, ma non ho avuto cuore, perdonatemi! – Dirmi cosa? Su, non farmi preoccupare.

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non ho avuto cuore: non ho avuto coraggio.


– Io non posso più esser moglie di quel poverino! – Come?! Lucia, col capo basso e la voce rotta dal pianto, raccontò la notte angosciosa e la promessa fatta alla Madonna. Agnese era stupefatta, non sapeva come reagire, questa non se l’aspettava. Voleva dirle “Cosa hai mai fatto?” ma le pareva brutto nei confronti della Madonna e anche di Lucia che, nel ricordare quella notte spaventosa, ancora tremava di paura. Così disse solo: – E ora cosa farai? – Mi sono messa nella mani del Signore, saprà lui cosa è meglio per me. Non devo più pensare a quel poverino, si vede che non era il nostro destino di stare insieme… il Signore ha voluto così – e scoppiò a piangere. – Diteglielo voi vi prego, che a me non basta il coraggio – aggiunse tra i singhiozzi – fategli sapere quanto ho sofferto, cosa mi è capitato, quello che ho promesso e non si può più rimangiare, insomma che se ne faccia una ragione e non mi cerchi più. Agnese, intenerita nel vederla soffrire così, promise che ci avrebbe pensato lei, avrebbe trovato il modo di fargli avere una lettera e anche del denaro, per aiutarlo, che certo ne aveva bisogno. Così, con il cuore pesante di tristezza, Lucia partì per Milano, con la promessa che sarebbe tornata in visita nell’autunno successivo.

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21. Un complicato servizio postale Ma passò molto tempo senza che Agnese potesse aver notizie di Renzo. Non era la sola che le cercasse, perché anche il cardinal Federigo stava indagando su di lui, per capire se alla fin fine fosse davvero un bravo giovine o uno scapestrato. Le poche cose che si sapevano erano contraddittorie e poco fondate, solo chiacchiere in effetti, senza nessuna prova. La verità era che Renzo, avvisato che correva qualche pericolo a stare a Bergamo, si era spostato in una paese vicino, dove Bortolo gli aveva trovato un altro lavoro come filatore e lo aveva presentato come Antonio Rivolta. Ed ecco spiegato come mai di lui si fossero perse le tracce: lo stesso Bortolo, per sviare la curiosità, ne aveva raccontate di baggianate sul suo conto, che era andato in Germania, che era scappato all’improvviso, che era partito per l’oriente e chi più ne ha più ne metta. E così Renzo se ne stava nascosto sotto un falso nome, ma era tormentato dal desiderio di far arrivare notizie alle sue care donne e riceverne da loro. Così trovò un uomo fidato che sapesse scrivere e gli dettò una lettera per Agnese e Lucia, e una per Cristoforo, e poi le fece portare a Pescarenico e al suo paese. La lettera arrivò ad Agnese (ma non a Cristoforo, che non era più nel suo convento di Pescarenico) e lei poté rispondere grazie all’aiuto di suo cugino Alessio, che sape-

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contraddittorie: una il contrario dell’altra. baggianate: sciocchezze, cose non vere.


va leggere e scrivere. Con questo sistema poterono essere poi inviate e ricevute altre lettere, finché non arrivò a Renzo quella che conteneva la notizia della promessa di Lucia alla Madonna. Al sentire quelle parole, mancò poco che Renzo se la prendesse col lettore: tremava, inorridiva, si infuriava e si fece rileggere più volte il punto in cui si diceva che Lucia non avrebbe mai più potuto sposarsi, né con lui né con nessun altro: ah che assurdità! Ah che tiro birbone! Ah che destino sfortunato! Renzo subito fece scrivere una risposta appassionata: – Scrivete che io il cuore in pace non lo voglio mettere, né ora né mai. Ho sempre sentito dire che la Madonna è disposta ad aiutare i poveretti, e non a far loro dispetto e farli mancar di parola: Lucia una promessa l’aveva già fatta a me – e via di questo passo. Da parte sua Lucia si sforzava in ogni modo di non pensare più a Renzo, di dimenticarlo, ma l’immagine e il ricordo di lui si presentavano in ogni momento di ogni giorno, così che la poverina non aveva mai pace e passava più tempo a piangere che a star serena o almeno tranquilla.

tiro birbone: brutto scherzo.

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22. Carestia Mentre ai nostri ragazzi capitavano queste fatti, la situazione nelle città e nelle campagne peggiorava di giorno in giorno. Dopo la rivolta del pane a Milano le cose erano andate bene per un po’ di tempo: pane ce n’era e costava poco, sembrava che la crisi fosse passata. Ma non era così. La carestia aveva consumato nei mesi precedenti tutte le scorte e la rivolta aveva semmai contribuito a farle finire prima, grazie anche allo spreco di farina nell’assalto ai forni. E ben presto pane e farina vennero di nuovo a scarseggiare, si alzarono i prezzi, ci furono nuovi disordini e nuove leggi per colpire chi non voleva rispettare le regole. Insomma, la situazione a Milano diventò difficilissima. A ogni passo botteghe chiuse, fabbriche deserte, un moltiplicarsi di poveri vecchi e nuovi, miserabili che a ogni angolo di strada chiedevano l’elemosina. Nessuno aveva più lavoro da dare o da fare, i lavoranti licenziati e i padroni rovinati, tutti quanti finiti per strada nelle stesse condizioni di fame, di freddo e di miseria. Intere famiglie vagavano senza un posto dove andare e si vedevano tendere la mano persino quelli che un tempo erano signori, e pure i loro bravi, che ormai del loro passato, avendo perso l’arroganza, conservavano solo il ciuffo.

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tendere la mano: chiedere la carità.


E presto cominciarono a venire nuovi poveri anche da fuori, dalle campagne. Questi erano contadini rovinati dalla carestia, e spesso vittime anche dei soldati che depredavano le case, rubavano, distruggevano, facevano ogni sorta di violenze. I nuovi arrivati venivano oltretutto guardati con antipatia, poiché tutta quella miserabile concorrenza diminuiva le possibilità di trovare un poco di aiuto e carità. C’era chi, in questa emergenza, si adoperava per prestare soccorso per quanto possibile, ma non era abbastanza: mentre in certe parti della città alcuni sventurati venivano raccolti, curati, nutriti, in cento altre parti molti cadevano e morivano senza aiuto e senza sollievo. E per tanti che morivano anche di più arrivavano da fuori, mantenendo la città traboccante di miseria e disgrazia. Così passarono l’inverno e la primavera e cominciò ad affacciarsi la preoccupazione di un contagio: la debolezza delle gente, l’affollamento, la sporcizia dappertutto, persino i corpi senza vita lasciati per strada, tutto lasciava prevedere che a breve ci sarebbe stato anche un problema di salute pubblica.

depredavano: rubavano tutto quello che trovavano. ogni sorta: ogni tipo. traboccante: piena oltre il limite. contagio: il passaggio di una malattia da una persona a un’altra.

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23. Si prepara una nuova sciagura E proprio per scongiurare questo pericolo, il governo di Milano stabilì di ricoverare tutti gli accattoni, sia sani sia malati, in un solo luogo e cioè il lazzaretto, per curarli, ma soprattutto tenerli sotto controllo. Era quello un edificio grande, diviso in piccole stanze che potevano servire per accogliere tutti quei poveracci. Si fece un editto invitando i senza-tetto a rifugiarsi lì. E subito accorsero a centinaia, non avendo altro posto dove andare, e diventarono migliaia in poco tempo. Ma nemmeno questo bastò, perché per le strade ne rimaneva ancora la maggioranza. Si mandò allora a prenderli con la forza, scatenando una specie di caccia all’accattone: chi ne portava uno riceveva un premio di dieci soldi. E così il numero di quelli nel lazzaretto raggiunse i diecimila: dormivano ammassati in venti o trenta dentro alle stanzette, sulla paglia lurida e vecchia o direttamente sulla terra, mangiavano pane ammuffito e bevevano acqua sporca. A questo, si aggiungevano i mali di una cattiva stagione: piogge abbondanti seguite da siccità prolungata, caldo umido e soffocante. Così la mortalità e i disagi crescevano, preparando il terreno per l’arrivo di un ancor più terribile flagello, che si abbatté di lì a poco sulla città con una violenza inaudita.

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scongiurare: cercare di evitare. accattoni: le persone che chiedono la carità per strada. È usato in modo dispregiativo.


Per parlare di questa nuova sciagura, bisogna prima sapere che nei territori intorno a Milano si stavano muovendo le truppe dell’esercito tedesco, o come si diceva allora, alemanno, che scendevano dalla Valtellina per andare alla conquista di Mantova. Tra quei soldati era diffusa la peste, una terribile malattia il più delle volte mortale, che si trasmetteva per contatto. I soldati saccheggiarono ogni territorio, ogni paese trovato sulla strada, come era l’abitudine dei soldati a quel tempo. Combattevano infatti per denaro e, dato che la loro paga era bassa, si tollerava che rubassero tutto quello che volevano. Quando arrivava una di queste squadracce in un paese, ogni cosa veniva presa o distrutta e, per maggior disgrazia, i poveri paesani maltrattati o addirittura uccisi. Passata quella, ecco che ne arrivava un’altra, come le ondate di una burrasca, fino a che tutto il territorio del ducato di Milano non fu completamente devastato, compresa la città di Lecco e i suoi dintorni. E così questa minaccia dei soldati arrivò anche a toccare qualcuno di nostra conoscenza: don Abbondio, Perpetua e Agnese, che in paese sentivano ogni giorno arrivare notizie spaventose. – Si avvicinano! – Hanno devastato Introbbio e Pasturo. – Si salvi chi può! E via di questo passo. È facile immaginare come doveva stare il povero don Abbondio al sentire queste parole: praticamente non viveva più. Ma non sapendo dove rifugiarsi, non faceva altro che andare avanti e indietro, torcendosi le mani. – Oh povero me! Nessuno che voglia aiutarmi,

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che si metta a proteggere il suo parroco. Come farò? Dove andrò? Perpetua, che intanto si dava da fare per nascondere denaro e oggetti più o meno preziosi, non lo sopportava più. – E perché invece di stare tutto il tempo a lamentarsi non mi dà una mano a metter via la roba? Crede lei che anche gli altri non abbiano una pelle da salvare? – Oh zitta Perpetua, che questa ingratitudine mi uccide. Oh povero me, che cuori malvagi! Non c’è carità, ognun pensa per sé e nessuno pensa a me. – Perché, lei a chi pensa, signor padrone? – Taci dunque, cosa vuoi capire tu, io sono il loro pastore, devono prendersi cura di me! Perpetua si morse la lingua per non dire una parola di troppo e proprio in quel momento arrivò a trovarli Agnese. – Ho da farvi una proposta – disse entrando in casa – sentite cosa ho pensato.


24. Di nuovo nel castello dell’innominato Agnese si era ricordata che l’innominato, quando le aveva inviato quei soldi, aveva anche aggiunto la promessa che le avrebbe aiutate sempre, lei e Lucia, solo che lo avessero chiesto. Dato che correva notizia che il castello dell’innominato si era trasformato in una specie di rifugio per i poveretti, le era venuta l’idea di andare lì e mettersi sotto la sua protezione. Il castello infatti era in alto, ben difeso e al riparo dalle scorribande dei soldati, che mai sarebbero saliti fin lassù. E quand’anche fossero saliti, avrebbero trovato un bel benvenuto: l’innominato poteva contare ancora su molti uomini in grado di combattere, e non aveva mai buttato via le armi, anche se lui stesso non voleva maneggiarle più. Ma poiché Agnese l’innominato non l’aveva incontrato mai, non se la sentiva di andare là da sola. E allora aveva pensato a don Abbondio. – Capite? Là saremmo al sicuro, quell’uomo gode ancora di una fama tale che nessuno oserebbe sfidarlo, nemmeno adesso che sembra diventato santo. E ha uomini, armi, provviste, denaro, insomma tutto quel che serve per stare tranquilli. Che ne dite, Perpetua? – Dico che è una buonissima idea, brava Agnese! Mettiamoci subito per strada. Ma non avevano fatto i conti con don Abbondio, che pauroso come sempre, sollevò mille dubbi, finché Perpetua perse del tutto la pazienza. – Ora basta! Con tutte le sue storie non si verreb-

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be mai a una soluzione. Agnese l’ha pensata bene e noi partiremo subito. Avanti, prenda il libro di preghiere e il cappello, e andiamo – e così fecero.

Naturalmente don Abbondio non la smise mai di lamentarsi, né durante il tragitto verso il castello, né per tutto il tempo in cui furono ospiti dell’innominato. Sì perché, quando si presentarono, li accolse a braccia aperte, felice di poter fare del bene proprio alla madre di Lucia, e poterono stare al sicuro finché fu necessario e cioè fino a quando tutti i soldati non furono andati via da quelle terre e dal loro paese. Quando poterono tornare a casa, non si può descrivere cosa trovarono: pareva che fosse passato un uragano. La porta sfondata, i mobili distrutti, sporcizia dappertutto, ogni cosa rubata o spaccata e perfino trovati e presi i denari e quei pochi oggetti di valore che Perpetua aveva sotterrato sotto l’albero di fico, in giardino. Insomma avevano perduto tutto, ma almeno avevano conservato la vita.

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25. La peste Le bande di soldati alemanni, come si diceva, portarono dunque la peste e non soltanto nei territori del milanese, ma in buona parte d’Italia. Bisogna subito dire che i Conservatori della salute pubblica di Milano, due dei quali erano medici, avevano ben avvisato che coi soldati sarebbe arrivato il contagio. Ma il governatore aveva risposto che l’esercito doveva passare per forza e che le questioni di guerra erano più importanti di qualsiasi altra cosa. Quanto al resto, si prendessero le misure necessarie e si sperasse nella provvidenza. E nemmeno il popolo, per paura o per ignoranza, credeva all’avviso dei Conservatori, e così nessuno li ascoltò, nemmeno quando arrivarono le prime notizie di malati, guarda caso proprio dai quei paesi dove i soldati erano passati. E fu un gran male, perché se li avessero creduti, forse il peggio si sarebbe potuto evitare. E invece la gente fece finta di niente, anzi chi parlava di peste o malattia venne preso in giro o addirittura disprezzato. Poveri stolti! Non volevano credere che bastasse non soltanto toccare qualcuno infetto, ma persino le sue cose o gli abiti che aveva indossato, per prendere la malattia. Ma nessuno fece nulla, nessuno prese precauzioni, nessuno prestò attenzione.

provvidenza: ciò che Dio fa per aiutare gli uomini, anche se spesso non avviene nel modo in cui gli uomini si aspetterebbero. stolti: sciocchi.

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Stando così le cose, il contagio poté covare e diffondersi indisturbato in tutta la città, aspettando solo di esplodere. Ci volle ancora qualche mese perché fosse evidente, ma, quando finalmente non fu più possibile negarlo, era ormai troppo tardi. Verso il mese di marzo cominciarono a moltiplicarsi i casi di malattia e i morti, ma ancora non si voleva ammettere che fosse proprio peste: si diceva fosse una strana febbre maligna, che però non si attaccava per contatto. Intanto la popolazione del lazzaretto cresceva di ora in ora e c’era sempre più bisogno di tutto: cibo, acqua, medicamenti, e gente che potesse assistere i malati. Così i Conservatori della salute si rivolsero ai frati cappuccini, che andarono al lazzaretto a fare tutto quello che serviva: curare, cucinare, pulire, lavare e persino, alla fine, sotterrare. Poiché la malattia si propagava velocemente, cominciò a girare la voce che c’erano in città dei personaggi malvagi, detti untori, che andavano di strada in strada e di porta in porta a diffondere il male

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si propagava: si diffondeva.


spalmando strani unguenti velenosi, o addirittura magici, sui muri, sulle case e perfino sulle persone. Perché poi dovessero fare una cosa del genere non era chiaro, ma tutti erano subito pronti a credere una simile stupidaggine, perché faceva meno paura quello, che pensare che ogni malato fosse a sua volta causa di malattia. Per contrastare la diffusione del male, si pensò allora di organizzare una processione per invocare la protezione di San Carlo, portando in giro le sue sacre reliquie. Purtroppo una processione in quello stato di cose non era una buona idea: significava infatti mettere tanta gente a stretto contatto proprio in un momento in cui sarebbe stato meglio piuttosto limitare il più possibile ogni contatto. E, insomma, la processione passò in ogni quartiere e il giorno dopo le morti crebbero in ogni parte della città. Ma anche qui si diede la colpa agli untori e nessuno volle credere che la causa fosse piuttosto l’aver messo vicine così tante persone, tra sane e già ammalate.

unguenti: intrugli di erbe che avevano lo scopo di curare e prevenire malattie. In questo caso, invece, si pensava che avessero lo scopo di diffondere la peste.

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26. Il tradimento

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La furia del contagio andò sempre più crescendo, la popolazione del lazzaretto passò da due a dodicimila ricoverati e la situazione a Milano sfuggì a ogni controllo. Tutti ormai sospettavano di tutti, perché ognuno poteva essere portatore del contagio, e si moltiplicavano le accuse, infondate, di essere untori. Le autorità cittadine erano ormai impotenti di fronte allo sbando della città, dove non c’era più legge né chi la facesse rispettare. In questa situazione una notte, verso la fine d’agosto, tornava don Rodrigo nella sua casa di Milano, dopo una serata spesa a far baldoria con gli amici. Mentre camminava sentiva però un malessere, una pesantezza di respiro e di gambe, un abbattimento che lo fecero preoccupare. Quando arrivò a casa, il Griso, che era uno dei pochi tra i suoi bravi scampato alla malattia, lo vide in faccia e impallidì. – Sto bene, ve’, non guardarmi così, ho solo bevuto un po’ troppo e ho bisogno di dormire. Il Griso non disse nulla, ma aveva già capito, ne aveva visti troppi per non riconoscere i segni. Rodrigo si mise a letto senza trovare pace e, mentre era lì che si rotolava nel letto in preda a sogni angoscianti, si svegliò di soprassalto chiamando il Griso. – Eccomi. – Griso, sto male. – Lo vedo. – Va’ subito a chiamare il medico, digli che lo pagherò qualunque cifra, ma che venga qui in fretta.


Il Griso andò, ma non tornò col medico: piuttosto arrivò con due monatti per portare Rodrigo al lazzaretto. Eran questi monatti dei loschi figuri, gente senza scrupoli e senza paura, che magari aveva preso la peste e ne era guarita e così adesso ne era immune. E s’erano messi così a fare il mestiere di ritirare i malati o addirittura i morti per portare gli uni al lazzaretto e gli altri alle fosse. E già che c’erano prendevano anche le cose che trovavano, rubavano, ricattavano, minacciavano e facevano quello che gli pareva perché tutti avevano paura di loro. E così anche Rodrigo, che al vederli sulla porta prese a gridare contro di loro e contro il Griso. – Andate via! Ah maledetto! Scellerato! – si dibatteva, urlava, ma era tutto inutile: era troppo debole e quelli erano in due. Lo presero e lo buttarono su una barella, mentre il Griso si prendeva quel che più gli piaceva delle sue cose. Ma avrebbe avuto anche il Griso il tempo di pentirsi d’essere stato traditore e avido, quando nei giorni successivi cominciò a sentire anche lui i sintomi del male, che gli si era attaccato addosso quando aveva toccato i vestiti di Rodrigo per vedere se c’era da cavarne magari qualche moneta.

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27. Renzo torna al paese Mentre Milano veniva spopolata e devastata dal morbo, nel bergamasco le cose andavano un poco meglio, ma alla fine il contagio arrivò anche qui. Renzo, che era stato qualche mese a lavorare sotto falso nome, come abbiamo detto, era poi tornato a Bergamo e aveva anche preso la peste. Ma per la sua forte costituzione, o forse per pura fortuna, ne guarì, conquistando l’invidiabile condizione di chi ormai non aveva più nulla da temere, perché il male non si poteva prendere due volte. Una volta guarito però, sapendo cosa stava succedendo a Milano e sapendo soprattutto che là era andata a vivere Lucia, presso donna Prassede e suo marito, non seppe più stare fermo e calmo: doveva andare, scoprire se Lucia era viva oppure… non voleva neanche pensarci. Così si mise per strada, pensando che l’ordine di cattura che pendeva sulla sua testa ormai valesse come carta straccia: in città avevano ben altri problemi. E infatti non aveva torto: a lui nessuno pensava più, figurarsi! Partì gli ultimi giorni d’agosto, poco dopo che Rodrigo era stato portato al lazzaretto, e puntò verso Lecco, poiché voleva passare dal suo paese dove sperava di trovare notizie, e vedere se Agnese stava bene. Ci arrivò verso sera, vide i suoi luoghi e si commosse. Poi visitò la sua casa che era in stato di abbandono, mezza distrutta e pensò che lì non

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morbo: malattia.


avrebbe più potuto abitare. Incontrò perfino don Abbondio, quasi irriconoscibile. Aveva preso anche lui il morbo infatti, da Perpetua, che ne era morta. Lui invece era guarito, ma ne portava i segni: smorto, magro, debole. Abbondio gli disse che Agnese era in un paese chiamato Pasturo da certi suoi parenti e che Cristoforo da tempo era partito e non era mai tornato. Gli elencò poi tutti quelli che in paese erano morti per la peste, ed erano così tanti che Renzo ne rimase meravigliato e rattristato. Tra i pochi che si erano salvati però c’era un suo amico di infanzia e Renzo pensò di andare a trovarlo e restare da lui per la notte. E così fece e furono momenti commoventi in cui i due si raccontarono le loro vicende e le loro vite, e furono vicini come non erano mai stati in tanti anni passati insieme. Allo spuntar del giorno Renzo prese di nuovo la strada e si diresse verso Milano e ci arrivò vicino verso sera, dalla parte di Porta orientale. Trovò un posto per dormire e si addormentò subito da quanto era stanco.


28. Di nuovo a Milano All’alba si mosse per entrare in città e non fu difficile, perché chi doveva sorvegliare le porte lo faceva poco e male: era quello ormai il sistema, che le cose non andavano più come dovevano andare e non c’era nessuno che facesse rispettare leggi e regole. Tutto andava a rotoli, ma questa volta la cosa tornò a vantaggio di Renzo che poté passare senza problemi. Ma appena entrato, che spettacolo!

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Tutto andava a rotoli: tutto andava male. Come i sassi che scendono durante una frana, così quando le cose cominciano ad andare male una dopo l’altra, si dice che “tutto va a rotoli”.


Renzo non era preparato a tanta miseria e tanta sventura: tutto intorno, nelle vie, desolazione, sporcizia, resti di fuochi che servivano a bruciare cose e mobili e vestiti delle case appestate, moribondi ai lati della strada o addirittura cadaveri, quasi nessuno in giro di sano. O, se qualcuno c’era, passava in fretta, stando sulle sue, impaurito e diffidente. Ad un tratto sentì arrivare un rumore di ruote e di campanelli: “o che cos’è questo suono?” pensò. E di lì a poco capì: un uomo camminava con dei campanelli attaccati alle caviglie per avvisare che stava per arrivare il carro dei monatti. E infatti apparve poi anche il carro, trainato da due cavalli e guidato da questi personaggi lugubri che frustavano, imprecavano e gridavano. Sul carro molti corpi ammonticchiati, intrecciati insieme senza riguardo, uno spettacolo terribile che fece inorridire il povero Renzo e lo fece fermare, come sbalordito. Riprese il suo cammino in mezzo a quella completa rovina e trovò la casa di don Ferrante e donna Prassede solo per scoprire che Lucia non era lì. – Non c’è più – disse una serva affacciata alla finestra – i padroni sono morti e quella Lucia è andata al lazzaretto. Renzo, deluso e addolorato, con poca fiducia e il cuore gonfio di paura si diresse verso il lazzaretto. Ma quando ci arrivò, tutte le miserie che aveva visto sino a quel punto impallidirono davanti allo spettacolo che si presentò ai suoi occhi.

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29. Incontri inaspettati Si affacciò dunque alla porta e rimase fermo un momento, come tramortito. Davanti a lui una distesa di appestati a perdita d’occhio, più di sedicimila in quel momento, sdraiati e messi da tutte le parti, come un orribile pavimento umano. Un giacere, andare, venire, brulicare di gente sofferente che gemeva, gridava e chiedeva aiuto e pochi che tra questi si aggiravano, aiutando come potevano. Renzo guardava e non guardava, perché non ce la faceva a sostenere lo sguardo, era troppo il dolore da sopportare. Si aggirò a lungo tra i malati scrutando ogni viso, ogni figura, ma senza riconoscere nessuno, finché gli parve di vedere qualcuno. È lui? No! Non è possibile, eppure gli somiglia, ma così stentato, così curvo, così smorto… – Padre Cristoforo! L’uomo lo guardò meravigliato. – Tu qui! Perché vieni ad affrontare così la peste?! – Oh, l’ho avuta e l’ho passata, grazie al cielo. Ma lei! Come sta? – Meglio di tanti poverini che vedi qui – la sua voce però era fioca, mutata. – Io vengo a cercar Lucia. Mi hanno detto che è qui. – Lucia! Qui! Ed è tua moglie? – Ma lei non sa dunque nulla? No, non lo è. – No, da che Dio mi ha allontanato da voi, non ho

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tramortito: stordito, sorpreso.


più saputo niente. Ma vieni, sediamoci che mi devi raccontare e intanto mangerai qualcosa. Mentre mangiava, Renzo raccontò come gli erano andate le cose, anche nei tumulti di Milano, e cosa era capitato a Lucia, il rapimento e tutto il resto. – E adesso – concluse – mi hanno detto che lei è qui e sono venuto a cercarla. – Senti, proprio oggi devono uscire dal lazzaretto alcuni che sono guariti. Vai là dove devono passare e guarda: magari la vedrai lì. – Grazie padre, vado e spero di trovarla con tutto il mio cuore. Ma se non la trovo, troverò magari qualchedun altro. Lo cercherò finché non l’avrò trovato, lui che è la causa di tutti i miei mali…

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– Renzo!! Come osi parlare così davanti a me! Come osi pensare di far giustizia tu! Cosa ne sai della giustizia! Lasciala al Signore, che è il solo in grado di giudicare, di decidere chi salvare e chi punire – lo sguardo e la voce di Cristoforo avevano in quel momento la severità e la forza di un tempo. Fissò gli occhi negli occhi di Renzo, come combattuto su qualcosa, poi disse: – Vieni con me, avanti, devo mostrarti una cosa. Lo prese per un braccio e lo trascinò quasi a forza dentro a una stanza dove in un angolo, su un letto, un uomo giaceva immobile con gli occhi spalancati e il viso pallido sparso di macchie nere. Il petto si sollevava di un respiro affannoso e le labbra erano livide e gonfie, come le dita le cui punte erano annerite dalla malattia. – Ecco chi cerchi, l’hai trovato. È qui da tre giorni e non si decide a morire. Forse aspetta di essere perdonato. Sta a te decidere. Ma sappi che il sentimento che ora provi per quest’uomo, lo stesso sentimento Dio proverà per te quando sarà il tuo momento. Perdonalo! E benedicilo, perché così verrai perdonato e benedetto. L’odio genera solo odio, l’amore, amore. Cristoforo tacque e giunse le mani per pregare, e Renzo, turbato da quella vista e da quelle parole, fece lo stesso. – Ora va’ e cercala, e se la trovi o non la trovi, torna comunque qui che pregheremo di nuovo insieme.

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30. Quella voce! Renzo andò dunque nel luogo dove si erano radunati quelli che potevano uscire perché guariti e non più contagiosi. Tutti li guardò passare, scrutando ogni volto fino a farsi dolere gli occhi, ma niente, Lucia non c’era. Afflitto da questa nuova crudele delusione, Renzo si scoraggiò per un momento: ora il meglio che poteva sperare era di trovarla malata. Ma si fece forza, non poteva cedere proprio adesso e si rimise a cercare, in quel luogo che era così grande che non l’aveva ancora visto tutto. Si diresse tra certi capanni e qui, mentre si stava chinando, gli capitò di sentire una voce… oh cielo! È possibile?! Tutta la sua anima si raccolse nell’orecchio, smise anche di respirare per sentire meglio… sì! Sì! quella voce! Non c’era dubbio, era lei! Gli mancarono le ginocchia, gli si appannò la vista, ma si riprese e in un balzo fu davanti alla porta del capanno. – Lucia! V’ho trovata! Siete proprio voi! Siete viva! – Oh Signore benedetto! Voi?! – rispose la ragazza tremando tutta – che cos’è questa cosa? E la peste? – L’ho avuta e passata. E voi…? – Ah, anch’io… e mia madre? – Non l’ho vista perché è a Pasturo, ma credo stia bene. Ma voi... come siete pallida… siete guarita? – Sì, sono qui perché non è molto che son guarita e non posso ancora uscire, ma sto bene. Ah Renzo, ma perché siete qui? – Come perché? Avete bisogno che ve lo dica? Non mi chiamo più Renzo io? Non siete più Lucia voi?

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– Ah cosa dite, ma pure vi ho fatto scrivere da mia madre… – Sì, l’ho letto. Belle cose da scrivere a un povero fuggitivo, a me che di dispetti non ve n’ho fatti mai. – Come! Se dunque sapevate, perché venire… a farmi soffrire ancora. – Oh Lucia, dopo tante promesse, dopo tante tribolazioni… non siam più noi? – Ma Renzo… una promessa alla Madonna… – Ma non conta! Se la Madonna avesse parlato, allora… Ma cos’è stato? Una vostra idea, ecco tutto. Parole dette per l’angoscia del momento. Promettete piuttosto alla Madonna che se ci nasce una bambina le metteremo nome Maria, sono certo che questa promessa le sarà ben più cara di un inutile sacrificio. – Che dite! Andate via, non posso, non posso, non capite? – Sentite Lucia, il buon padre Cristoforo è qui: se fosse lui a dirvi che potete, gli dareste ascolto? – Padre Cristoforo? Qui? Davvero? – Gli ho appena parlato. – Ebbene sì, se lui fosse d’accordo e mi dicesse che posso, allora… – Non dite una parola di più, vado e torno. E difatti andò e tornò col padre. E quando Cristoforo seppe da Lucia come erano andate le cose, la sciolse dal voto e la rassicurò: – Figliola, se mai mi è parso che due fossero uniti da Dio, voi eravate quelli: non vedo perché Dio vi debba voler separare. Io vi benedico, sposatevi e siate felici. Poi li lasciò, e tornò ad occuparsi dei suoi malati.


31. Tutto è bene quel che finisce bene Lucia dovette restare ancora nel lazzaretto, ma Renzo poté tornare al paese, dall’amico che l’aveva ospitato e poi subito a Pasturo, da Agnese. E con quanta gioia le disse che Lucia era sana e salva! E che lui era libero da ordini di cattura! E che finalmente potevano andare a vivere a Bergamo, dove aveva un’attività ben avviata e sarebbero stati finalmente bene e in pace! Perché Lucia era stata sciolta dall’obbligo della sua promessa e poteva finalmente sposarlo! Descrivere la felicità di Agnese è impossibile. Renzo andò anche da don Abbondio e solo quando gli disse che aveva visto don Rodrigo moribondo al lazzaretto, il curato acconsentì al matrimonio. Una sera Agnese sentì un carro fermarsi davanti al suo uscio: era Lucia, guarita del tutto. Come si abbracciarono e ritrovarono le due donne, anche questo non si riesce a raccontare: felici da scoppiare, da mozzare il respiro, dopo tanti guai non riuscivano a credere che tutto stesse andando per il meglio. La mattina successiva arrivò anche Renzo, ma purtroppo pure la notizia che la peste si era portata via il buon padre Cristoforo. – Me l’aspettavo purtroppo – disse Renzo – ma sono sicuro che a quest’ora prega per noi da lassù. La domenica successiva i due promessi sposi andarono in chiesa e per bocca di don Abbondio furono finalmente maritati.

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Andarono ad abitare con Agnese vicino a Bergamo, dove vissero una vita tranquilla piena di soddisfazioni e di bambini. E quando si voleva vedere Renzo animato bisognava sentirlo raccontare le sue avventure: di come aveva imparato a non mettersi nei tumulti, a non bere troppo, a pensare prima di parlare, a non farsi giudizi affrettati. Insomma i guai che aveva passato gli avevano ben lasciato qualche insegnamento e alla fine di tutto poteva dire che ne era valsa la pena.


Qualcosa in più Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785, dove morirà nel 1873. I promessi sposi è la sua opera più celebre. I promessi sposi è un romanzo storico, dove invenzione ed eventi storici realmente accaduti si intrecciano. Infatti le vicende di Renzo e Lucia, due ragazzi nati dalla fantasia di Alessandro Manzoni, hanno come sfondo episodi realmente accaduti in Lombardia nel 1628 e personaggi storici vissuti veramente in quegli anni. Manzoni lavorò molto sulla lingua nelle varie stesure che fece del romanzo (la prima è del 1821, l’ultima del 1840), convinto dell’importanza della lingua nel processo di unificazione dell’Italia che stava avvenendo in quegli anni. Nella versione definitiva Manzoni scelse di scrivere il romanzo utilizzando un linguaggio simile a quello parlato (un misto di Fiorentino semplice e alcune espressioni lombarde tipiche delle zone in cui il romanzo è ambientato) ed è per questo che è ritenuto il padre delle lingua italiana.

Alla scoperta dei segreti del testo 1. Cerca nel testo il significato delle seguenti parole. Poi collega ogni parola al suo significato. bravi (cap. 1)

imbrogli

perpetua (cap. 1)

impiegato con l’incarico di governare le scorte di cereali

non son cose lisce (cap. 7)

donna al servizio di un prete

schiamazzo (cap. 9)

luogo dove venivano ricoverati i malati

vicario di provvisione (cap. 11)

furfanti

lazzaretto (cap. 23)

gran confusione

alemanno (cap. 23)

tedesco

untori (cap. 25)

persone che si credeva diffondessero la peste

monatti (cap. 26)

persone guarite dalla peste che portavano malati al lazzaretto

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2. Nei Promessi sposi ci sono tantissimi personaggi. Collega ogni nome e la sua descrizione. Il prete che dovrebbe sposare Renzo e Lucia Renzo e Lucia Don Abbondio

Mamma di Lucia Donna che accudisce e vive con Don Abbondio

Fra Cristoforo Agnese Perpetua Innominato

Il piĂš fidato dei bravi di Don Rodrigo Frate amico di Renzo e Lucia Monaca del convento di Monza

Don Rodrigo Griso Gertrude

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Signorotto capriccioso e crudele Promessi sposi Personaggio malvagio che tutti temono


3. Colora i nomi dei personaggi dell’esercizio precedente con i colori indicati. ■ Personaggio che ostacola il matrimonio. ■ Personaggio che aiuta Renzo e Lucia. ■ Personaggio che prima sembra aiutare Renzo e Lucia, poi invece li ostacola. ■ Personaggio che in un primo momento ostacola Renzo e Lucia e poi però li aiuta. Comprensione

4. Cap. 5 Il vero nome di Padre Cristoforo era Ludovico. “Cristoforo” fu scelto da lui come nome perché: A. gli piaceva come nome. B. era il nome di una persona che lui aveva ucciso. C. era il nome del suo servitore che rimase ucciso per salvargli la vita. D. il nome fu scelto dagli altri frati cappuccini. 5. Cap. 9 Perché Lucia, Renzo e Agnese scappano al convento di padre Cristoforo? A. Perché era fallito il loro tentativo di sposarsi con l’inganno. B. Perché padre Cristoforo voleva tenerli al sicuro nel suo convento. C. Perché Menico li avvisa che i bravi di don Rodrigo volevano rapire Lucia. D. Perché don Abbondio aveva fatto suonare le campane e tutto il paese era accorso in suo aiuto.

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6. Cap. 18 L’innominato decide di andare a incontrare il cardinale Federigo Borromeo. Mentre si dirige verso il paese “la gente per strada, vedendolo così, si faceva da parte e lo guardava con meraviglia”. Perché la gente è meravigliata? A. Perché ha timore dell’innominato. B. Perché l’innominato cammina da solo, senza i bravi. C. Perché è accompagnato dai bravi. D. Perché sono tutti felici e l’innominato è l’unico triste. 7. Cap. 22-25 Perché si diffonde la peste? Segna con una X le risposte corrette. A. Perché la peste era diffusa tra i soldati alemanni che lungo la loro strada saccheggiavano e distruggevano ogni territorio. B. Perché la gente non credette agli avvisi dei Conservatori della salute pubblica di non toccare oggetti o persone infette. C. Perché gli untori diffondevano la peste con degli unguenti. D. Perché la gente non si lavava.

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8. Cap. 29-30 Lucia alla fine accetta di sposare Renzo perché: A. don Rodrigo è morto. B. Renzo propone di cambiare il voto e di chiamare la prima figlia Maria. C. padre Cristoforo scioglie il voto. D. Lucia ritrova Renzo sano e salvo.


9. Osserva la carta e scrivi al posto giusto i numeri dei seguenti luoghi citati nel romanzo.

■ ■

■ 1. 2. 3. 4. 5.

Convento di Gerturde dove si rifugia Lucia. Città di Bortolo, cugino di Renzo. Paese dove si rifugia Agnese durante la peste. Città dove Renzo incontra Azzecca-garbugli. Città dove si rifugia Renzo ma dove rimane implicato in una sommossa popolare.

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Indice

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3 8 10 13 15 19 23 26 29 32 36 39 43 46 48 51 54 57 60 63 66 68 70 73 75 78 80 82 84 87 89

Cap. 1. Un brutto, orribile incontro Cap. 2. Renzo non la prende bene Cap. 3. Tutto a monte per oggi Cap. 4. Il dottor Azzecca-garbugli Cap. 5. Come Ludovico divenne padre Cristoforo Cap. 6. Padre Cristoforo ci prova con le buone Cap. 7. Agnese ne pensa un’altra Cap. 8. I piani prendono forma Cap. 9. La notte degli imbrogli e dei sotterfugi Cap. 10. La partenza di Agnese, Lucia e Renzo Cap. 11. La rivolta del pane a Milano Cap. 12. Arresto e fuga Cap. 13. Rodrigo cerca aiuto e Cristoforo va a Rimini Cap. 14. L’innominato Cap. 15. Rapita! Cap. 16. La compassione del Nibbio e la promessa di Lucia Cap. 17. La notte dell’innominato Cap. 18. L’innominato e il cardinal Federigo Cap. 19. Libera! Cap. 20. Lucia e Agnese devono separarsi ancora Cap. 21. Un complicato servizio postale Cap. 22. Carestia Cap. 23. Si prepara una nuova sciagura Cap. 24. Di nuovo nel castello dell’innominato Cap. 25. La peste Cap. 26. Il tradimento Cap. 27. Renzo torna al paese Cap. 28. Di nuovo a Milano Cap. 29. Incontri inaspettati Cap. 30. Quella voce! Cap. 31. Tutto è bene quel che finisce bene


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