La Pietra. Il mestiere e l'arte del decorare

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PROVINCIA DI COSENZA

MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITAʼ CULTURALI DIREZIONE REGIONALE CALABRIA

CASSA DI RISPARMIO DI CALABRIA E DI LUCANIA

SOPRINTENDENZA PER I BENI STORICI ARTISTICI ED ETNOANTROPOLOGICI DELLA CALABRIA

LA PIETRA IL MESTIERE E L’ARTE DEL DECORARE Storia della lavorazione della pietra nella provincia di Cosenza

18 Giugno 27 Settembre 2015 Museo delle Arti e dei Mestieri della Provincia di Cosenza

Comune di Albiano


Provincia di Cosenza

LA PIETRA

Il mestiere e l’arte del decorare Storia della lavorazione della pietra nella provincia di Cosenza Museo delle Arti e dei Mestieri 18 Giugno-27 Settembre 2015

Comune di Albiano

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LA PIETRA

Il mestiere e l’arte del decorare Storia della lavorazione della pietra nella provincia di Cosenza La mostra La Pietra. Il mestiere e l’arte del decorare è promossa dalla Provincia di Cosenza con il patrocinio ed il sostegno della Fondazione Carical e con la collaborazione dell’Università della Calabria – Dipartimento di Studi Umanistici. È resa possibile grazie ai gentili prestiti dell’Archivio di Stato di Cosenza, del Museo Nazionale Archeologico della Sibaritide, del M.I.S.A.R di Rogliano, dell’Eco-Museo dell’Argentario e del Distretto del Porfido e delle pietre Trentine (sostenuti da APT Pinè Cembra e Comune di Albiano -TN-, Società Trentino Sviluppo e Ditta Zanettin s.r.l).

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La Pietra. Il mestiere e l’arte del decorare

Storia della lavorazione della pietra nella provincia di Cosenza Museo delle Arti e dei Mestieri 18 Giugno-27 Settembre 2015 Curatore della mostra, della didattica e del catalogo: Anna Cipparrone Comitato scientifico: Anna Cipparrone, Giorgio Leone, Cristiana Coscarella. Si ringraziano per la preziosa collaborazione il maestro Eduardo Bruno e il maestro Gabriele Ferrari Albo dei prestatori: Archivio di Stato di Cosenza, Museo Nazionale Archeologico della Sibaritide, Museo M.I.S.A.R. di Rogliano, Ecomuseo dell’Argentario, Distretto del Porfido e delle Pietre Trentine Albo degli artigiani: Gabriele Ferrari di Altilia, Diego Ferrari di Altilia, John Santo Alessio di Altilia, Ferdinando Gatto di Rogliano, Domenico Madia di San Giovanni in Fiore. Per il Trentino Alto Adige espone la Ditta Zanettin di Cembra (TN) Albo delle cave di pietra: Massimo Albanese e Gianni Longobardi di San Lucido, Franco Cannataro di Mendicino, Domenico Madia di San Giovanni in Fiore. Albo degli artisti: Eduardo Bruno di San Marco Argentano, Angelo Aligia di Maierà, Salvatore Pepe di Praia a mare, Franco Paletta di Rende, Nicola Di Domenico di Pedivigliano, Fulvio Longo di Maierà, Michelina Consalvo, Rosa Consalvo, Amatore Di Tullio di Bari Autori del catalogo: Mario Occhiuto,

Mario Bozzo, Marisa Spizzirri, Anna Viteritti, Patrizia Filippi, Anna Cipparrone, Amedeo Lico, Giuseppe Roma, Pasquale Apolito, Luciana De Rose, Maria Rosaria Salerno, Cinzia Altomare, Giorgio Leone, Ludovico Noia, Alberto Pincitore, Marina Ameduri, Catia Salfi, Francesca Carvelli, Maria D’Ermoggine, Cecilia Perri, Francesca Pasculli, Antonella Salatino, Luca Irwin Fragale, Melissa Acquesta, Cristiana Coscarella, Gabriele Ferrari e Francesco Paolo Dodaro. Pannelli didattici della mostra: Anna Cipparrone Servizio didattica al pubblico: Maria Cristina Argento, Rossana Caridà e Antonio Cosentino - Studenti Università della Calabria. Si ringrazia per la collaborazione Antonio Bonifati, già tirocinante e studente della Laurea magistrale in Storia dell’Arte Laboratori artigiani sulla lavorazione della pietra e laboratori con i Licei artistici di Cosenza e San Giovanni in Fiore. Finissage con Zanettin s.r.l Trentino Alto Adige Progetto espositivo e allestimento: Anna Cipparrone. Si ringraziano per la collaborazione Fabrizio Marano, Gabriele Ferrari, Luigi Caputo e la squadra edilizia della Provincia di Cosenza. Campagna fotografica di Giulio Archinà per la sezione storico-artistica. Si ringrazia Caterina Iannelli per la docu-

mentazione fotografica sugli artigiani e l’Associazione Geo Arte Onlus di Maierà per le immagini della pietra di Grisolia, nonché gli autori che ne abbiano fornito nei loro contributi. Progetto video nelle botteghe artigiane: Pino Iannelli Installazione sugli antichi portali: Gabriele e Diego Ferrari, John Santo Alessio Progetto grafico della mostra: Fabrizio Marano Catalogo: Pellegrini Editore, Cosenza Traduzione: Laura Verta Promozione e comunicazione: Rosita Gangi per la Provincia di Cosenza, Fabrizio Marano per il MaM ISBN: 978-88-6822-301-4 Si ringraziano Giovanna Capitelli, docente di Storia dell’Arte presso l’Unical, Alessandro d’Alessio, già direttore del Museo Nazionale della Sibaritide e Salvatore Patamia, dirigente della Direzione Regionale per i beni culturali della Calabria per l’attenzione mostrata nei confronti del progetto. Un sentito ringraziamento all’Amministrazione Provinciale per aver consentito, seppur in un momento di forte difficoltà per le Province, i Musei e i Sistemi Museali Provinciali, la realizzazione della mostra. 5


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a città di Cosenza e il Museo delle Arti e dei Mestieri della Provincia, coinvolto nella finalità di recuperare le antiche tradizioni artigiane del territorio, propongono l’interessante mostra La Pietra. Il mestiere e l’arte del decorare. Storia della lavorazione della pietra nella provincia di Cosenza. L’iniziativa consente ai cittadini di tutto il territorio provinciale, di riacquisire le profonde radici storiche di questa importante tradizione artigiana. Lo scopo è quello di ricostruire la vicenda storica e la filiera della lavorazione della pietra locale, fin dalla sua estrazione, attraverso un corpus di saggi contenuto nel catalogo, frutto di ricerche geologiche, archeologiche, documentarie e storico-artistiche fiorite sul territorio e con una ricca ricognizione di maestri artigiani e artisti che ancora oggi lavorano la pietra cosentina. Un mestiere, quello dello scalpellino, che si unisce al mastro fabbricatore o architetto, citato dalle fonti documentarie, costituendone parte integrante del suo cantiere. Nella città di Cosenza le loro opere sono visibili in ogni angolo del nostro centro storico e, solo per citare due illustri esempi, nel fortilizio cittadino e nella Cattedrale, realizzati proprio in pietra locale e decorati da sapienti maestri scalpellini. La mostra, infine, amplia il suo raggio di azione e si orienta verso la promozione di una risorsa naturale in quanto tale, sollecitandone il recupero in termini culturali. E persegue questo intento, in continuità con le mostre già proposte sulla Ceramica, il Legno, i Tessuti e l’Oro, invitando una solida realtà extraterritoriale che, in questa occasione, è il Trentino Alto Adige, terra nota per la ricchezza dei suoi giacimenti pietriferi e oggi sede del Distretto del Porfido e della Pietra Trentina, best practice nel recupero e nella promozione delle materie del territorio anche in termini identitari. Una iniziativa, quindi, che valorizza la ricchezza delle risorse presenti nella provincia di Cosenza e la conseguente varietà, nonché il valore, del patrimonio culturale che, dal suo utilizzo, è scaturito nei secoli. Mario Occhiuto Presidente della Provincia di Cosenza

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l Museo delle Arti e dei Mestieri della Provincia di Cosenza continua a promuovere iniziative che mirano a valorizzare momenti significativi della nostra storia e della creatività che la Calabria ha saputo esprimere in diversi settori. La mostra su La Pietra, il mestiere e l’arte del decorare, si pone, quindi, in linea di continuità con quanto è stato già realizzato. La nostra Fondazione, da sempre impegnata nella valorizzazione dei beni culturali, cui appartiene di diritto il vasto mondo dell’artigianato, piccolo e grande, aderisce volentieri alla richiesta di contribuire alla realizzazione dell’evento. Lo fa, non con l’atteggiamento di chi guarda al passato come ad un bene per sempre perduto verso il quale indirizzare inutili rimpianti e improduttivi accenti di nostalgia, ma con l’intento, motivato e convinto, di guardarvi con l’animo di chi “memore, innova”, di chi vuole, cioè, dare continuità, in contesti mutati, a quanto è stato fatto nei secoli. Gli stessi musei avrebbero poco senso se si limitassero ad esporre i segni del passato. Essi, invece, assumono una funzione strategica se sono funzionali alla volontà di dare un futuro alla memoria: un compito che, ovviamente, chiama in causa le responsabilità decisionali di tutte le Istituzioni interessate. Solo così la nostalgia cede il posto alla speranza ed il rimpianto all’impegno. Questa motivazione, recentemente, ha portato la nostra Fondazione ad aderire all’associazione OMA, Osservatorio dei Mestieri d’Arte, promossa dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze. Il programma dell’OMA e delle Fondazioni che vi partecipano è ambizioso e prevede, tra l’altro, la possibilità di realizzare, anche nel nostro territorio, iniziative condivise ed interscambi tra diverse esperienze, con la presentazione di “esempi virtuosi”, adattabili e replicabili in tutte le realtà. Mario Bozzo Presidente della Fondazione Carical

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radizione e innovazione, artigianato e arte, risorse naturali e sperimentazione artistica. Questi i temi che animano la mostra La Pietra. Il mestiere e l’arte del decorare. Storia della lavorazione della pietra nella provincia di Cosenza promossa dal MaM in perfetta rispondenza alle sue finalità di recupero, ricostruzione e valorizzazione della storia del territorio attraverso i topoi dell’artigianato artistico. Una mostra che prende le mosse da una risorsa naturale fortemente presente nel territorio cosentino, la pietra appunto, denotandone le più intime peculiarità e varietà, tecniche, lavorazioni ed usi fin dalle età più remote fino ad arrivare -attraverso il felice binomio della contaminazione tra le realtà regionali ed artistiche e dello scambio culturale con una regione quanto mai affascinante come il Trentino Alto Adige- a sancire il ruolo economico e culturale che per secoli ha avuto la pietra, rilanciandone l’importanza ai giorni nostri . La felice intuizione del Distretto del Porfido e delle Pietre Trentine –buona pratica di recupero identitario e di sviluppo economico promosso dal Trentino Alto Adige- e la profonda conoscenza del territorio che un luogo di cultura e di ricerca come il MaM (nel quale l’aspetto esperienziale si erge quasi a baluardo della continuità tra antichi saperi e moderne generazioni) esprime, ci induce a riflettere sulle molteplici direttrici che il potenziamento delle risorse naturali e culturali del territorio cosentino potrebbero dischiudere. L’input che ci fornisce la mostra è proprio quello di garantire al territorio un concreto impegno -grazie anche al settore Politiche Comunitarie- Politiche Culturali- per la promozione di tutte le sue risorse che, nel plus valore della cultura, ci conferiscono senza dubbio una effettiva unicità. Anna Viteritti Dirigente del Settore Politiche Comunitarie- Politiche Culturali

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elice intuizione quella di fare dialogare le fonti che attestano quanto siano radicate nella nostra cultura e nella nostra tradizione le attività artigiane quali la tessitura, l’oreficeria, la lavorazione della pietra, della ceramica, del legno, del vetro e dei metalli; estremamente proficuo da un punto di vista didattico il confronto tra passato e presente, tra la storia e l’attualità, per il cui perseguimento è indispensabile partire dalle fonti documentarie intendendo per documento, in senso lato, tutto ciò che testimonia un’attività umana, un’antica cultura, una civiltà scomparsa: dal documento scritto conservato in Archivio al reperto archeologico, ai manufatti artigianali, all’opera d’arte. Le fonti archivistiche hanno in questo contesto un ruolo fondamentale. Chi ha interesse verso questo tipo di ricerca ed anche la pazienza di sfogliare le pagine consunte ma affascinanti dei volumi notarili, non può non trovare le tracce da seguire per ricostruire la vicenda storica dell’artigianato locale, la cui presenza e la cui evoluzione è ancora ben visibile nei manufatti esistenti presso i nostri antichi e bellissimi borghi: il portale in pietra scolpita, l’altare in legno decorato ad intaglio, le argenterie sacre, le stoffe intessute a mano. C’è una particolare tipologia di atti notarili che si presta in particolar modo a questo scopo: le convenzioni stipulate tra privati cittadini, nobili o comunque benestanti che intendevano adornare le loro abitazioni con pregevoli manufatti, ovvero confraternite che abbellivano le loro cappelle, ovvero chiese e conventi che arricchivano i loro edifici, e le maestranze che si impegnavano ad eseguire i lavori richiesti. Gli accordi comprendevano anche i dettagli tecnici delle opere che venivano commissionate, i materiali da usare, i particolari decorativi, i tempi richiesti e, ovviamente, il prezzo da pagare. Raramente si trova il disegno dell’opera da eseguire. La ricerca può seguire diverse direzioni e perseguire diversi obiettivi: innanzitutto dal punto di vista della storia dell’arte e dell’artigianato si possono reperire notizie sia sulle maestranze che operavano in loco costituendo delle vere e proprie scuole professionali (tanto per ricordarne una la bottega di Rogliano degli intagliatori del legno), sia sulle maestranze che provenivano da fuori regione e che in Calabria portavano il frutto della loro esperienza e della loro arte. L’altro aspetto che si può mettere a fuoco è quello della committenza, con le diverse implicazioni sugli aspetti sociali, economici e culturali di questo fenomeno. Diverse sono le pubblicazioni su questi temi: dagli studi ormai datati di Mario Borretti, a quelli dei ricercatori contemporanei Paola Borsetta, Bruno Mussari e Giuseppina Scamardì, che in anni di ricerca e nell’ambito delle rispettive aree di competenza hanno consultato decine di volumi notarili e ricostruito l’attività di liutai, organari, scalpellini, intagliatori, marmorari, argentieri, orafi, ecc. 10


L’altra tipologia di atti da considerare è quella degli inventari di beni ereditari, nei quali sono descritti in maniera dettagliata i beni esistenti nelle case di abitazione di persone defunte, che il notaio doveva appunto inventariare su richiesta degli eredi. Su questo tipo di atti è stata compiuta negli anni scorsi in Archivio una ricerca in collaborazione con l’Università della Calabria relativamente a Collezionismo e consumo d’arte a Cosenza nel Settecento, nell’ambito di un progetto formativo ideato dal prof. Paolo Coen, i cui risultati sono a disposizione degli studiosi. Gli inventari possono riguardare sia i palazzi, dei quali viene anche descritta la composizione e distribuzione dei locali, quanto anche le botteghe artigianali, le librerie, le biblioteche private, le spezierie, le mercerie, con le possibilità di ricerca che si possono facilmente immaginare; possono riguardare anche gli edifici religiosi, chiese e conventi o palazzi arcivescovili. Particolarmente interessanti a questo proposito le Platee, ossia gli inventari di tutto il patrimonio mobiliare ed immobiliare delle istituzioni ecclesiastiche, comprese le rendite ed i censi. Ne cito due di particolare interesse in quanto relativi a due pietre miliari della vita religiosa della nostra regione: la Cattedrale di Cosenza ed il Santuario di San Francesco di Paola in Paola. Il primo è del 5 maggio 1547, redatto nella sacrestia della Chiesa Madre cosentina ad opera del tesoriere Cesare Pantusa pro utilitate dicte ecclesie et conservatione ipsorum bonorum…, dove viene sottolineato il dovere di tutelare il patrimonio artistico religioso in un’epoca in cui la diffusione della cultura umanistica e la conseguente riscoperta dell’antichità classica lo avevano fatto diventare oggetto di interesse del mercato antiquario e quindi a rischio di rapine e spoliazioni. I custodi della sacrestia si impegnavano dicta bona ut supra annotata et inventariata bene conservare et custodire…; tra i beni compare anche la stauroteca, ma con un piedistallo in avorio: una cruce de oro con lo pede de avorio in la quale nce lo ligno crucis in la quale nce sono vintiuno buctunecti de oro…1. Il secondo, redatto dal notaio Francesco Calandra nel 1643, contiene la descrizione della Chiesa del Santuario con l’indicazione degli altari, delle cappelle, delle reliquie conservate e delle argenterie, nonché notizie sulla vita di San Francesco di Paola e sulla fondazione ed edificazione del Monastero2. Cito anche, a titolo di esempio, l’inventario del palazzo nobiliare di proprietà del barone Francesco Guzzolini, nel quale compaiono numerose tele del pittore fiammingo Guglielmo Borremans3 e l’inventario dell’eredità del duca di Caccuri Antonio Cavalcante, nel quale compaiono oltre cento quadro per lo più di soggetto sacro4. Ma esistono anche altre fonti archivistiche meritevoli di attenzione, per quanto riguarda il periodo post-unitario: la serie Affari generali-Pubblica istruzione della Prefettura di Cosenza. Qui si trovano le relazioni redatte dai Sindaci o dagli ispettori ai monumenti sui beni artistici esistenti nei vari comuni, per 11


ottemperare all’esercizio della tutela da parte dello Stato, esistente già nella legislazione pre-unitaria (il decreto di Ferdinando di Borbone del 16 settembre 1839 prevedeva che tutti i Comuni redigessero un inventario degli oggetti d’arte esistenti nel loro territorio, in vista della compilazione dell’inventario generale del Regno). Pur essendo questa operazione molto al di sopra delle capacità tecniche e culturali degli amministratori, è evidente che esse rappresentano una fonte di estremo interesse per lo studio del nostro patrimonio storico-artistico per l’attestazione sia dell’esistenza degli oggetti sia del loro stato di conservazione. Alla luce di queste considerazioni si comprende come le fonti d’archivio rappresentino l’antefatto storico, l’ambito socio-culturale-istituzionale dal quale il manufatto artistico o artigianale proviene o nel quale mantiene la sua caratteristica di bene da custodire e tutelare; esse richiedono di essere attentamente e pazientemente consultate per potere dare un contributo alla ricerca storico-artistica ed alla conoscenza del nostro patrimonio culturale. Per questo auspico che la collaborazione avviata col Museo Arti e Mestieri della Provincia di Cosenza e con la sua infaticabile e competente Direttrice Anna Cipparrone possa proseguire per dare sempre più validi ed articolati contributi alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale. Marisa Spizzirri Archivio di Stato di Cosenza

Note: 1 Archivio di Stato di Cosenza, Not. Napoli Di Macchia, n. 23, 1546-47, cc. 38-41 r. 2 Ibidem, Corporazioni religiose, Convento di San Francesco di Paola. 3 Ibidem, Not. Pietro Assisi, n. 270, 1736, cc. 334-341 r. 4 Ibidem, Not. Santo De Marco, n. 129, 1709, cc. 54-58.

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l Comune di Albiano dal 2011 organizza il Simposio internazionale di scultura in pietra. La manifestazione è nata nel 2011 nell’ambito delle celebrazioni per la ricorrenza del centenario dell’apertura del primo lotto cava e l’inaugurazione di Casa Museo Porfido. Visto l’interesse riscosso e il successo della manifestazione dato dalla ricaduta in termini di immagine sul settore estrattivo per il Comune di Albiano, l’iniziativa è proseguita con l’invito di altri scultori di fama internazionale chiamati a scolpire ed interpretare il porfido trentino creando opere monumentali che come per la prima edizione sono state collocate nel tessuto urbano dell’abitato di Albiano. A partire dal 2013 la manifestazione si è evoluta con la creazione di un Comitato organizzatore: il Comitato Simposio internazionale di scultura in pietre trentine di cui fanno parte anche i Comuni di Capriana, Fornace, Lona Lases ed il Distretto del Porfido e delle Pietre Trentine. Nel 2014 si è deciso di dare vita ad una nuova edizione del Simposio internazionale di scultura in Pietre Trentine, che si è tenuto ad Albiano dal 14 al 19 Luglio 2014, la manifestazione ha visto la partecipazione di altri sei scultori di pregio internazionale. Gli artisti che hanno preso parte alle varie edizioni del Simposio di scultura in pietra, sono stati ospitati nella splendida cornice dalla Valle di Cembra, quindi del Trentino ad Albiano ed hanno scolpito ad arte le pietre trentine per dar vita ad opere che possano entrare a far parte dei palazzi e luoghi pubblici più rappresentativi della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol, ove i visitatori provenienti dai luoghi più disparati, possano prendere conoscenza e coscienza della bellezza e versatilità di materiali unici come il Porfido Trentino, la Tonalite di Carisolo, il Marmo Rosso e Verdello di Trento, Giallo di Mori, il Granito Rosa di Predazzo, il Granito Cima d’Asta, . Il respiro dell’iniziativa è di una vera rete fatta da operatori economici che si sono impegnati donando la materia prima da cui creare arte, oltre a grande disponibilità e da istituzioni pubbliche e private, che rinnovano sostegno economico e morale. La manifestazione è stata riconosciuta dalla Regione Autonoma TrentinoAlto Adige/Südtirol e Provincia Autonoma di Trento che hanno patrocinato il Simposio di scultura in Pietre Trentine 2013 -2014. A settembre 2014, le opere del Simposio 2014 sono state esposte per la II edizione consecutiva, presso lo Stand Istituzionale della Provincia di Autonoma di Trento alla Fiera internazionale del lapideo: Marmomacc a Verona. 13


A partire da ottobre le opere sono esposte presso Casa Museo Porfido di Albiano. Fil rouge delle varie edizioni del Simposio internazionale di scultura è di lasciare interpretare le pietre trentine agli artisti partecipanti, facendo emergere il legame profondo che lega l’uomo a Madre Terra. Dall’edizione 2014 si è mirato ad instaurare e consolidare rapporti di collaborazione con le principali istituzioni trentine che comunemente al Comitato promotore del Simposio in pietre trentine hanno per obiettivo di promuovere la conoscenza e sviluppo del territorio del Trentino Alto Adige e la versatilità di materiali unici come il Porfido trentino, la Tonalite di Carisolo, il Rosso di Trento, il Granito Rosa di Predazzo, il Granito Cima d’Asta. Le pietre sono elementi della storia del nostro territorio cui siamo inscindibilmente legati. La durezza della pietra su cui scivola l’acqua che beviamo e crescono i frutti che mangiamo a volte può spiegare le caratteristiche dell’uomo, attraverso il legame con suo territorio.” Patrizia Filippi Assessore Comune di Albiano

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Sommario

Presentazione 17 Risorsa naturale ed estrazione Amedeo Lico Materiali lapidei e cave di approvvigionamento degli scalpellini roglianesi: risorse in Calabria e nella Provincia di Cosenza

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Archeologia e storia antica Giuseppe Roma L’adorazione delle pietre e i megaliti del bosco di Castroregio (CS)

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Pasquale Apolito L’utilizzo della pietra locale in Magna Grecia e nei Bruttii

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Luciana De Rose “Isole di Pietra”. Città, mura e strade nella Calabria antica.

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Mariarosaria Salerno “Facere et portare petra”: l’economia della pietra nella Calabria medievale

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Anna Cipparrone Pietra locale e cantieri-scuola nelle testimonianze architettoniche dell’abate Gioacchino da Fiore

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Fonti

Cinzia Altomare L’utilizzo della pietra per l’uso quotidiano tra XVI e il XIX secolo: Mastri fabbricatori, Muratori e Manipoli semplici

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Pietre di Calabria: le scuole, i cantieri e le maestranze. Il mestiere e l’arte del decorare nella provincia di Cosenza

Giorgio Leone Pietre di Calabria: una introduzione storiografica per lo studio del patrimonio degli scalpellini dell’attuale provincia di Cosenza in età medioevale e moderna

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Ludovico Noia Qualche annotazione su alcuni portali medievali di Calabria Citra 104 Alberto Pincitore Portali del Quattrocento e del Cinquecento 117 Marina Ameduri Su alcun portali litici barocchi dell’attuale provincia di Cosenza 130 Catia Salfi Portali dell’Ottocento: tra documenti e storiografia 137 15


Francesca Carvelli Alcuni esempi di facciate di chiese realizzate in pietra dal Medioevo al Tardo barocco nell’attuale provincia di Cosenza 143 Maria D’Ermoggine Tra alcuni rosoni e finestre dal Medioevo in poi 152 Cecilia Perri “Su questa pietra…”: annotazioni sulle decorazioni lapidee all’interno delle chiese nell’attuale provincia di Cosenza 159 Francesca Pasculli Altari di pietra: esempi dalla provincia di Cosenza dal Medioevo fino al Settecento 169 Antonella Salatino Su alcuni fonti battesimali della Calabria Citra: per un repertorio dell’attuale provincia di Cosenza 177 Luca Irwin Fragale Di alcuni stemmi dell’Alto Ionio, tra portali e pietre minori: Canna e il circondario in un’ipotesi migratoria delle maestranze. 186 Giorgio Leone Un problema a latere: esempi di scultura in pietra fra Trecento e Cinquecento nell’attuale provincia di Cosenza, per un repertorio 203 Melissa Acquesta Pietra locale e d’importazione, maestranze autoctone e straniere, modelli e committenza nell’arte sepolcrale di età moderna in Calabria. 213 Amedeo Lico Maestranze roglianesi-scalpellini, un segno indelebile di genialità e arte nell’edilizia religiosa di Cosenza e dei suoi casali tra xv e xviii secolo 222 Anna Cipparrone Edilizia feudale in età moderna. Esempi, modelli e maestranze per l’individuazione di una “semantica” della pietra. 233 Cristiana Coscarella Tracce di archeologia proto-industriale nei territori della provincia di Cosenza: le fornaci per la produzione della calce. 248 La mostra La pietra come risorsa ambientale e culturale 260 Fonti archeologiche e documentarie per la ricostruzione dell’artigianato artistico nella provincia di Cosenza 270 Gli scalpellini nella provincia di Cosenza. 271 Pietra contemporanea. Materia e concetto 289 Il distretto del porfido e delle pietre trentine nel Museo delle Arti e dei Mestieri di Cosenza. Contaminazioni e scambi culturali e identitari 298

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Presentazione

Dalle coste ionica e tirrenica all’altopiano silano il territorio della provincia di Cosenza è ricco di giacimenti pietriferi direttamente manifesti nella ricchezza del patrimonio architettonico e decorativo dei nostri bellissimi borghi e nella varietà dei manufatti in essi presenti. La mostra sulla storia della lavorazione della pietra nella provincia di Cosenza è informata dal duplice intento di restituire ai cittadini e agli studiosi un’occasione di riflessione sul tema della pietra e delle sue molteplici lavorazioni e impieghi, fin dall’antichità, nell’ambito sia artigianale che artistico, “dal mestiere all’arte del decorare”, fornendo altresì gli strumenti storiografici per ripensare alla sua valorizzazione in termini culturali ancorchè propriamente ambientali. La storia dell’arte e del territorio che il MaM si prefigge di tracciare attraverso la ricostruzione di ogni singola categoria dell’artigianato tradizionale, si concretizza difatti nel dialogo trasversale tra le fonti e nel ruolo centrale riconosciuto ai materiali. Tale approccio aspira a ricostruire i tasselli, talvolta in ombra, della nostra vicenda storica e delle produzioni locali per restituirle ai cittadini e configurarsi come input per future ricerche. Nel fare ciò il Museo, luogo di studio e ricerca prima ancora che espositivo, risponde alla evidente esigenza di creare repertori storiografici sulla fenomenologia storico-artistica e storico-sociale che si è manifestata attorno allo sfruttamento delle risorse naturali intese, per lungo tempo, fonte dell’economia locale. La conoscenza delle pietre locali e dei suoi utilizzi, per non discostarci dalla mostra in questione, consente di delineare un quadro completo delle opere che vi furono realizzate nel campo della scultura, del decoro ornamentale e dell’architettura, fornendo una considerevole messe di informazioni sulla storia dell’arte calabrese e sulla storia della locale economia: dall’estrazione della materia prima ai modelli figurativi e architettonici originatisi attorno ad essa. I contributi presenti nel catalogo hanno il compito di sollecitare nel lettore un viaggio ideale, sensoriale ed extratemporale, che dal materiale grezzo estratto nelle cave del territorio cosentino giunga a definire il ruolo della pietra nelle attività e negli usi delle civiltà più antiche così come nelle sperimentazioni artistiche proprie del contemporaneo. L’espediente del dialogo tra le fonti (naturali, archeologiche, documentarie, artigianali ed artistiche) che il MaM costantemente propone aspira, difatti, a garantire una fruizione organica e sistematica di tutti i saperi e di tutti i patrimoni, facendo riaffiorare la necessità di rimettere a valore quanto la nostra terra, generosamente e storicamente offre, e ciò che Musei e Istituzioni possiedono. Il Museo delle Arti e dei Mestieri deriva questo suo impegno dal collocarsi in una realtà fortemente legata alle tradizioni artigiane. L’area urbana della città di Cosenza entro cui si colloca era il luogo degli artigiani, delle manifatture, delle botteghe che ancora oggi risuonano negli antichi toponimi e negli stretti viottoli. Nelle mostre temporanee finora proposte dal Museo nella sua giovane vita (Artessile. Capolavori dell’arte tessile cosentina; Cosenza Preziosa. Maestri e opere dell’arte 17


orafa; Il Legno; Ceramica. Storia di un’arte1) e in quella su La Pietra. Il mestiere e l’arte del decorare. Storia della lavorazione della pietra nella provincia di Cosenza si è voluto ripercorrere in termini storici, storico-artistici e ambientali, la vicenda dell’artigianato artistico locale prendendo le mosse dalla risorsa naturale e approdando alla trasmissione dei saperi alle nuove generazioni con l’espediente dei laboratori artigiani e delle attività esperienziali promosse sui territori.

La Pietra. Introduzione al catalogo e alla mostra In Calabria i siti pietriferi sono numerosi, alcuni di essi ancora oggi vengono sfruttati, mentre la maggior parte sono stati chiusi e dismessi2. La provincia di Cosenza è ricca di cave di pietra calcarea e arenaria la cui versatilità e impiego sono testimoniati dall’opera di artieri e scalpellini fin dalle età pre-elleniche e per tutta l’età moderna, fino all’Ottocento quando ancora erano esistenti nella nostra provincia ben 21 cave3. Il volume prende le mosse dallo studio di Amedeo Lico sulla risorsa litica in quanto tale: aspetti naturalistici e geologici vengono tracciati per consentire al lettore/visitatore di addentrarsi nel tema della “pietra”. I rinvenimenti archeologici hanno evidenziato la presenza e l’utilizzo della pietra in diversi ambiti (il più noto esempio di arte preistorica in Calabria risulta il graffito rupestre raffigurante il Bos Primigenius, visitabile nella Grotta del Romito a Papasidero). Uno di questi, più approfonditamente affrontato da Giuseppe Roma è quello della venerazione dei blocchi monolitici sorti spontaneamente sul territorio – il caso trattato dallo studioso è quello dell’area di Castroregio – e della loro elevazione, in epoca pre e protostorica, a simboli di una dimensione magica e inafferrabile dall’uomo. Le pietre come simbolo e manifestazione del divino. Non solo, gli studi di Pasquale Apolito hanno definito la consistente presenza del materiale lapideo nelle aree archeologiche del territorio cosentino per l’edificazione di ambienti a destinazione sacrale di età magno-greca e romana. Blocchi di granito scolpiti e assemblati con perizia, a formare cinte murarie che proteggessero le poleis costituitesi sul territorio cosentino, è invece l’ambito della ricerca condotta da Luciana De Rose che indaga gli usi della pietra locale per la costruzione di strade e città in una congiuntura propriamente funzionale e utilitarista tipica della civiltà romana. La storia antica costituisce le basi di questo studio sulla storia della lavorazione della pietra nella provincia di Cosenza e intende garantire al tema oggetto della mostra consistenti fondamenta. Ampia testimonianza trovano l’estrazione della pietra ed i suoi utilizzi nella documentazione fornita da Maria Rosaria Salerno, il cui contributo ha inteso delineare i caratteri di un’economia locale che, in epoca medievale, fu saldamente ancorata allo sfruttamento della risorsa pietrifera. Sempre per l’epoca medievale, sulla scorta delle indagini fiorite attorno ai cantieri cistercensi, nei quali la lavorazione della pietra fu legata a schiere di scalpellini e di maestranze dal lavoro fortemente parcellizzato, sono stati indagati i luoghi e la grange sorte sotto l’abate Gioacchino da Fiore (1130-1202), ipotizzando la nascita di veri e propri cantieri-scuola con maestranze interne all’Ordine capaci di garantire uniformità architettonica nel rispetto dell’ideologia del fondatore. La prima parte del catalogo, incentrata in modo evidente sulla presenza del 18


materiale litico locale nei cantieri dell’antichità si avvia, nella seconda parte, ad un dialogo più diretto con l’ambito storico-artistico anticipato dal contributo di Cinzia Altomare. L’approccio storiografico che ha condotto all’individuazione e al riconoscimento delle maestranze operanti nella filiera della lavorazione della pietra in epoca rinascimentale e barocca è stato avviato, a partire dal Borretti, da Bruno Mussari e Giuseppina Scamardì, cui si sono aggiunti i contributi forniti da Mario Panarello, Antonio Tripodi, Maria Letizia Fazio4 che, con i rispettivi regesti, hanno effettivamente chiarito l’esistenza di una moltitudine di maestranze – locali e forestiere – impegnate nella lavorazione della pietra per le campagne architettoniche ed artistiche bandite dalla committenza coeva (XVI-XVIII secolo). La ricerca che Cinzia Altomare ha condotto nell’Archivio di Stato di Cosenza fornisce una notevole messe di informazioni su quelle maestranze minori di cui i capimastri solevano circondarsi. Nel contributo della studiosa si è inteso evidenziare la varietà delle lavorazioni cui la pietra si prestava presentando al lettore un elenco di oggetti in pietra inventariati nelle abitazioni e nelle botteghe, esempi di costruzione di strade e slarghi antistanti le abitazioni, edificazioni di fontane, casi di restauro di chiese, descrizioni del materiale che serviva per la loro costruzione. Il contributo si conclude con un repertorio di maestranze rintracciate negli Atti Notarili dell’Archivio di Stato di Cosenza. La sezione storico-artistica del volume presenta una serie di affondi storiografici sugli ambiti della lavorazione della pietra documentati dal ’400 all’800 e si configura come una strutturata, organica ed esauriente disamina delle produzioni litiche fiorite nei centri storici della provincia cosentina per il lungo e variegato arco temporale. La sezione segue l’indirizzo conferitogli da un grande conoscitore di storia dell’arte calabrese: Giorgio Leone. I casi sono stati indagati in stretta correlazione ai fenomeni della committenza religiosa e gentilizia, al rapporto tra maestranze e modelli figurativi e architettonici locali con influssi extra regionali. Il rigore che informa il progetto deriva dall’intento di repertoriare i luoghi e le opere della storia dell’arte (della pietra) in provincia di Cosenza. La sezione storico-artistica si apre con un contributo di Giorgio Leone sull’intaglio della pietra, sfondo e supporto storiografico per tutti i testi successivi nei quali sono state prese in considerazione le decorazioni eseguite sulle facciate di chiese (Francesca Carvelli), sulle pareti di chiese e sulle facciate monumentali (Cecilia Perri) laddove è stato evidenziato l’elevato livello artistico raggiunto dalle cappelle monumentali in San Domenico a Cosenza e nella Cappella Cybo Malaspina di Aiello Calabro. Interessanti ricerche hanno avuto come oggetto la produzione di altari in pietra eseguiti dalle maestranze locali (Francesca Pasculli), fonti battesimali (Antonella Salatino), rosoni (Maria D’Ermoggine), stemmi gentilizi – talvolta rispondenti ad un determinato canone in aree ben definite del territorio cosentino – (Luca Irwin Fragale), i portali in pietra, approfonditi sia in relazione alle aree di realizzazione che al periodo storico (Ludovico Noia, Alberto Pincitore, Marina Ameduri e Catia Salfi) e infine la scultura (Giorgio Leone). Nel delineare ambiti e canoni che la lavorazione della pietra locale ha generato nel territorio cosentino, ampio risalto è dato al ruolo della committenza. Due contributi affrontano l’argomento dell’utilizzo della pietra seguendo questa direttrice: quello di Melissa Acquesta sui monumenti funerari e sul ricorso a maestranze “forestiere” per la realizzazione di monumenti più pregiati e raffinati e 19


quello di chi scrive, più specificamente finalizzato all’identificazione di una sorta di “semantica della pietra” attraverso lo studio di alcuni casi emblematici di residenza feudale dai quali sembra trasparire che il ricorso ad un materiale come la pietra ben si prestò alla manifestazione dell’autorità e del potere che governi centrali e famiglie esercitarono sulla civiltà locale in un’ottica di controllo e sottomissione, tralasciando – salvo casi sporadici – la profusione di elementi artistici e ornamentali di più spiccata pertinenza extraregionale. Completano il quadro della produzione e lavorazione della pietra il contributo di Amedeo Lico sulle maestranze roglianesi e quello sulle antiche calcare, il cui studio è stato affrontato da Cristiana Coscarella. Le calcare rappresentano le uniche testimonianze di un’attività, quella della produzione della calce, di cui si è perso col tempo il ricordo. E con esso il virtuoso circuito di esperienza e capacità tecnica che contraddistingueva le maestranze. La studiosa, nel ripercorrere i segni, le tracce e le testimonianze di antichi processi produttivi e di archeologia proto-industriale, propone un’azione di salvaguardia e valorizzazione dei siti attraverso idonee iniziative di promozione culturale e progetti di musealizzazione all’aperto. Un invito che accomuna tutti gli ambiti della mostra e del catalogo, dai quali emerge l’intento di creare un distretto delle risorse naturali del territorio cosentino che ne garantisca la preservazione, l’utilizzo e la diffusione al di fuori dei nostri confini. Esplicita e lecita è, infine, la sollecitazione proposta da Gabriele Ferrari, scalpellino di Altilia, per la musealizzazione della cava di Altilia immersa nella Valle del Savuto, la quale dopo secoli di sfruttamento dorme silenziosamente nella sua rigogliosa natura. Ricalcando la struttura del catalogo, la mostra La pietra, prende le mosse dalla presenza dei conci estratti nelle cave del cosentino: pietra rosa di Mendicino, pietra di San Lucido, granito silano, pietra di Altilia, pietra di Grisolia, costituiscono alcuni degli elementi che l’uomo potrebbe più sapientemente valorizzare sia in termini ambientali che culturali ed economici. Dall’estrazione della pietra, proposta al pubblico con l’installazione di una cava e della bottega dello scalpellino, le tradizioni artigiane della provincia di Cosenza vengono valorizzate attraverso il dialogo tra fonti archeologiche e documentarie. La presenza in mostra di reperti archeologici provenienti dai depositi del Museo Nazionale archeologico della Sibaritide afferenti alle Arti che fin dall’epoca enotria e poi greca e romana si praticavano in questa importantissima area archeologica, così come i documenti rinvenuti nell’Archivio di Stato di Cosenza legati alle attività degli artigiani nel cosentino tra il Cinquecento e il Settecento, dimostrano che la tessitura, la lavorazione del legno, dei metalli, dell’argilla e, ovviamente, quella della pietra, non solo hanno origini antichissime ma continuano ancora oggi e devono assurgere a patrimonio culturale tout court. Dal mestiere all’arte del decorare, sottotitolo dell’iniziativa, è una sezione che cerca di definire la produzione artistica fiorita tra committenza locale e Scuole di scalpellini, nell’ambito di quel decoro architettonico ampiamente trattato nel catalogo. I modelli e le tecniche, spesso originatisi attorno ad un giacimento pietrifero e ad una Scuola che ne diffuse i caratteri nell’osservanza delle peculiarità dei territori, adornano i nostri bellissimi centri storici e risultano ben rappresentati dalla ricognizione fotografica di Giulio Archinà. Ormai svincolati dalla condizione rigidamente anonima delle maestranze 20


del passato, sono invece gli scalpellini di oggi, la cui opera si colloca nel panorama artistico tout court chiarendo quel labile e sottile confine tra artigianato e arte sotto l’egida comune della manualità e della creatività. Mascheroni, mensoloni, chiavi di volta, colonne, capitelli e bassorilievi appaiono, nella loro produzione artistica, svincolati dal rigido legame con la funzionalità e l’utilità per assurgere, grazie all’opera di de-contestualizzazione proposta, ad opere di artigianato artistico. Nella sezione sono inseriti due grandi scalpellini della generazione degli anni Sessanta-Novanta; il primo, Domenico Varca scomparso nel 1981 e autore di importanti restauri al patrimonio architettonico e decorativo calabrese e il secondo, Eduardo Bruno, oggi attivo a Firenze come medaglista e scultore del bronzo e del marmo. Questi da scalpellino, è divenuto scultore e docente di Accademia a Firenze costituendo una delle esperienze più esemplari del nostro territorio. Testimoniano poi l’azione propagatrice di “saperi” e competenze portata avanti da MAM, le opere degli studenti dei Licei Artistici di Cosenza e San Giovanni in Fiore che hanno felicemente accolto il nostro invito a realizzare un’opera in pietra locale, sotto la guida degli insegnanti di discipline plastiche, nonché i manufatti realizzati dagli allievi del corso LA.Bo.Ro.Bis (Settore Politiche Comunitarie e Culturali della Provincia di Cosenza) tenutosi un anno fa e oggi parte integrante della raccolta del Museo. Conclude la mostra una sezione sull’arte contemporanea nella quale espongono artisti della provincia di Cosenza che, nella loro attività e produzione, hanno inteso rivalutare e nobilitare la materia – e nella fattispecie la materia litica di origine locale – per dare forma a sperimentazioni e a moderni linguaggi artistici. Dalla rivalutazione delle forme geometriche proposta da Angelo Aligia alle reminiscenze classiche e manieriste reinterpretate dallo scalpello di Franco Paletta; dalle simbologie materico-esistenziali proposte da Nicola Di Domenico fino alla assoluta sintesi degli elementi eseguita da Fulvio Longo e Salvatore Pepe. Nelle opere di quest’ultimo la risorsa naturale, o materia, diventa oggetto di sublimazione grazie al mezzo artistico trascendendo così dalla mera materialità/oggetto di trasformazione, per divenire essa stessa opera d’arte. Sono esposti in questa sezione i bozzetti realizzati per la nascita del M.I.S.A.R. di Rogliano, una iniziativa virtuosa finalizzata a istituire un Museo all’aperto ma anche e soprattutto a preservare dall’oblio la pietra locale e gli antichi scalpellini roglianesi. Il Focus sul Distretto del Porfido e delle pietre Trentine, infine, garantisce il dialogo ed il confronto tra best practices italiane incentrate sull’attenzione ai materiali e sul recupero dell’identità storica5. Obiettivo della manifestazione, nel consueto dialogo con altre realtà regionali proposto dal MaM, è dunque quello di assegnare alla pietra un evidente ruolo artistico sia in quanto materia sia come frutto di processi manuali di lavorazione. La presenza di una realtà connotata da un forte spirito identitario e da un concreto risvolto culturale ed economico può e deve indurci a rimettere le risorse naturali al centro del processo di sviluppo culturale ed economico in Calabria.

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Note 1  Artessile, Capolavori dell’arte tessile cosentina, catalogo mostra a cura di Anna Cipparrone, Cosenza 2012; Cosenza preziosa. Maestri e opere dell’arte orafa, catalogo mostra a cura di Anna Cipparrone, Cosenza 2012; Cosenza e le Arti. La collezione di dipinti dell’800 della Provincia di Cosenza (1861-1931), catalogo mostra a cura di Anna Cipparrone, Cosenza 2013; Il Legno. Storia della lavorazione del legno nella provincia di Cosenza, cat. Mostra a cura di Anna Cipparrone, Cosenza 2013; Ceramica. Storia di un’arte, cat. Mostra a cura di Anna Cipparrone, Cosenza 2014. 2  G.M. Crisci, C. Gattuso, A.M. De Francesco, D. Miriello, Le calcareniti del centro storico di Cosenza: uso e provenienza, in La Calabria del Viceregno spagnolo. Storia arte architettura e urbanistica, a cura di Alessandra Anselmi, Roma 2009, pp. 841 e ss.; G. Barrio, Antichità e luoghi della Calabria, Cosenza ed. 1979; V. Canonaco, Attività estrattiva in Calabria. Il caso delle cave di Mendicino. Arte e mestiere, tesi di laurea a.a. 2002-2003, prof. Cristiana Coscarella; A. Savaglio, Territorio, feudi e feudatari in Calabria Citra (XVI-XIX), Castrovillari (CS), 2003. 3  Pietre e scalpellini, in “La Provincia di Cosenza” A. 1 n. 6-7, 1999; U. Campisani, Opere di scalpellini a Marzi, in “Calabria Letteraria” n. 10-12, 1997; G. Leone, Intagli e ricami, in “L’Agorà” n. 2, 1995, pp. 23-24; G. Galasso, Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Napoli 1965. 4  G. Scamardì, B. Mussari, Artisti, architetti e mastri fabbricatori, in Storia della Calabria nel Rinascimento, a cura di Simonetta Valtieri, Roma 2002; G. Scamardì, Stefano Vangeri “ingegnero e capo della eccellentissima casa di Bisignano”, in “Quaderni PAU, anno 5, n. 10 (1995) pp. 115 e ss.; G. Scamardì-B. Mussari, Andrea Maggiore scalpellino di Carrara tra Catanzaro e Squillace, in “Vivarium Scyllacense”, n. 1-2, 1998, pp. 10 e ss.; G. Scamardì-B. Mussari, Notizie sull’attività di architetti, artisti e costruttori in Calabria Citra nei secoli XVII-XVIII tratte dai protocolli notarili, in “Quaderni PAU”, anno 7.(1991) n. 13-14, pp. 43 e ss.; M. Panarello, Artisti della tarda maniera nel Viceregno a Napoli: mastri scultori, marmorari e architetti, Soveria Mannelli (CZ), 2010; Calabria, Atlante del barocco in Italia, a cura di Rosa Maria Cagliostro, Roma 2002; M.L. Fazio, Committenze e maestranze tra il XVI e il XX secolo attraverso le fonti dell’Archivio di Stato di Cosenza, in “Esperide”, anno 3, n. 5-6, 2010, pp. 182 e ss.; A. Tripodi, Scalpellini in Calabria, in “Esperide”, a. 1, n. 1 (2008), p. 76 e ss.; S. Valtieri, L’attività costruttiva e artistica in Calabria Citra durante il Viceregno come espressione delle maestranze roglianesi e straniere, in “Quaderni PAU”, a.5, n. 10 (1995), pp. 99-100; E. Bruno, Scalpellini di Calabria: i cantieri e le scuole, Fuscaldo (CS) 1995. 5  F. Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Firenze 1954; Atlante della pietra Trentina, a cura di Enrico Cattani, Rovereto 2008.

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Risorsa naturale ed estrazione


Amedeo Lico

Materiali lapidei e cave di approvvigionamento degli scalpellini roglianesi: risorse in Calabria e nella Provincia di Cosenza

Analizzando i materiali impiegati nelle costruzioni, il Palladio nel suo trattato premette che: Delle pietre altre abbiamo dalla natura altre son fatte dall’industria degli uomini: le naturali si cavano dalle petraie, e sono o per far la calce, o per fare i muri[...]1. Tale distinzione può essere adottata ancora oggi: vi sono, infatti, sia materiali naturali, i quali vengono utilizzati in edilizia nello stato in cui sono cavati dal sottosuolo (cave); sia materiali artificiali (laterizi e calcestruzzi), che sono realizzati attraverso particolari lavorazioni e processi di tipo industriale. Tra i primi vi sono le rocce, definite in geologia come aggregati di minerali formatisi in seguito a processi naturali e facenti parte della litosfera sotto forma di massa geologicamente indipendente (Fig. 1). La Calabria, per la sua multiforme costituzione litologica, da sempre si presenta ricca di materiali lapidei naturali dalle particolari caratteristiche fisico-meccaniche e dalle svariate tonalità cromatiche tali da soddisfare molteplici esigenze e che giustificano il largo uso che di questi si è fatto soprattutto nei manufatti Fig. 1 Mastro scalpellino durante la lavorazione di sbozzatura del mate- artistico-architettonici del passato. Come viene riportato dall’Ing. Francesco Penta nel suo voriale lapideo (foto anni ‘20) lume sui materiali da costruzione dell’Italia Meridionale: La valle del Crati, vasta zona pliocenica in predominanza, fra la catena costiera tirrenica, la Sila ed il Pollino, copre il colmato estuario(Corigliano, Vaccarizzo, Spezzano Albanese, Cassano Ionico, Trebisacce) ed il lungo golfo, fino a Rogliano in cui penetrava il mare miopliocenico[...]2. Nei terreni terziari (miocenici) del Vallo cosentino si distinguono tre qualità di rocce prevalenti: i conglomerati con elementi granitoidi, i grés quarzosi e micacei ed i calcarei, a partire da S. Lucido, Carolei, Mendicino, fino a Malito, Altilia, Grimaldi, più a sud, affioranti questi ultimi generalmente con pareti rocciose molto ripide allineate lungo i principali corsi d’acqua. Alfred Burton li descrive come calcari e calcareniti bianco-giallastri o rosati3, abbondantemente fossiliferi, con resti di alghe, molluschi, e protozoi, mentre Rodolico accentua l’attenzione soprattutto sul cosiddetto tufo di Mendicino di colore rosato, distinto dalla varietà più compatta e biancastra che gli scalpellini designano semplicemente con il nome di biancolella4. Di questo materiale, erroneamente chiamato “tufo”5, si è avvalsa in passato l’edilizia non solo di Cosenza, ma dell’intera zona limitrofa, sia come pietra da taglio che negli ornati delle fabbriche architettoniche (pavimenti, archi, mostre di porte e finestre, nonché portali di edifici civili e religiosi). Tra i diversi litotipi, che costituiscono l’Appennino Calabro-Peloritano e, in particolare, il bacino del fiume Crati, certamente il gruppo calcarenitico mioce24


nico rappresenta quello maggiormente presente, caratteristico di tutto l’aspetto geologico-architettonico della zona. Appartenente alle rocce esogene quale frazione calcarea di origine organogica con clasti (frammenti) di minerali generati dal massiccio cristallino della Sila, la calcarenite ben rappresenta il Genius Loci dell’area cosentina, utilizzata in passato per la realizzazione della maggior parte del patrimonio storico-artisticoculturale locale. In generale, ad un attento esame petrografico, il materiale si presenta con matrice carbonatica ad elevato tenore in CaCO3 (carbonato di calcio) a limite dei calcari (tra il 60% e il 90%) con alte percentuali di silice e calcio, porosità diffusa, granulometria grossolana, mediamente resistente e tonalità cromatiche variabili dal bianco al giallognolo, al marrone chiaro e al rossastro, in funzione della prevalenza di alcuni minerali costitutivi rispetto ad altri; infatti, il colore bianco rappresenta quello intrinseco, naturale, dato dalla matrice ricca di elementi di quarzo e feldspati; con la presenza di sali, questo inizia ad assumere la tonalità giallastra fino ad arrivare al marrone chiaro, con elevati tenori di calcite, ed al rossastro, in presenza di ossidi di ferro in quantità massicce. Queste alterazioni cromatiche naturali della calcarenite avvengono soprattutto quando il materiale, posato in opera, entra in contatto con l’ambiente esterno, trovando delle condizioni chimico-fisiche totalmente diverse rispetto al luogo originario di estrazione; fenomeni di alterazione del colore sono facilmente evidenti in alcuni conci di numerosi portali lapidei, realizzati dalle maestranze roglianesi, i quali, ad un primo impatto visivo, o all’occhio del semplice visitatore, potrebbero venire tranquillamente assimilati a delle reintegrazioni di parti con materiale diverso. Uno studio approfondito in merito, invece, condotto e supportato da basi scientifiche e tecniche, dimostra chiaramente il contrario, ovvero che si tratta della stessa pietra, con caratteristiche composizionali simili, ma probabilmente estratta in un punto del fronte di cava, in cui le stratificazioni hanno assunto conformazioni mineralogiche variate rispetto alle altre. L’origine organogena della calcarenite deriva dalla presenza di resti fossiliferi abbastanza notevole, come molluschi, gusci di lamellibranchi, microfossili, ecc., particolarmente evidenti attraverso l’analisi petrografica in sezione sottile, difficilmente ad occhio nudo, e provenienti dalla zona limitrofa del bacino del fiume Crati, cioè dalla Catena Costiera Paolana, con cui la roccia entra in contatto. La permeabilità per porosità è variabile da bassa ad elevata, in quest’ultimo caso accentuata ancor di più a causa di fessurazioni presenti tra i diversi strati; per questo, la roccia si mostra particolarmente tenera, cioè caratterizzata da una debole coesione (poco coerente) con cemento calcareo a diverso grado di consistenza. In ultimo, gli studi geologici e geochimici effettuati sulla calcarenite evidenziano, dunque, una notevole variazione composizionale dei diversi affioramenti, riconducibile ad una precisa situazione paleoambientale6. È cosa grata, avviandoci alle conclusioni, aggiungere poche note sulle cave di approvvigionamento degli scalpellini, sulle loro caratteristiche e sulle loro qualità, con particolare riferimento a tre cave presenti nel territorio cosentino. Il termine cava è riferito ad un insieme strutturalmente complesso e diversificato a seconda del materiale che viene estratto e dell’ubicazione del luogo in cui si effettua l’attività, in altre parole, un medesimo termine linguistico indica fonti di materiali estremamente diversi dal punto di vista mineralogico, materiali che 25


esigono tecniche diversificate di escavazione a seconda che si tratti, per esempio, di calcare, di scisti, di tufo, di graniti o di marmi. L’ubicazione e l’aspetto tipologico delle cave generalmente dipende dalla conformazione della roccia (a rilievo montuoso o pianeggiante), dal suo grado di coesione e, soprattutto, dalla morfologia e dalla disposizione del terreno. In funzione di questi parametri fondamentali, si parlerà allora di: cava a cielo aperto, per quei fronti sufficientemente ampi ed omogenei tali da poter essere facilmente attaccati da mezzi estrattivi; cava ad anfiteatro, quando il materiale costituisce la struttura di un rilievo collinare o montano, per cui è necessario eseguire una seri di tagli successivi a partire dagli strati più esterni; cava a fossa, se la massa rocciosa fa parte di un terreno pianeggiante ed occorre quindi scavare delle trincee in direzione verticale, abbassando gradualmente il livello del suolo; cava a galleria, nel caso di materiali da costruzione scarsi in superficie ed, al contrario, disposti maggiormente nel sottosuolo, e la cui estrazione avviene scavando il rilievo in direzione orizzontale fino a trovare il filone con le migliori caratteristiche; cava a pozzo, quando, il materiale è talmente profondo da consentirne l’estrazione solo scavando un condotto verticale, praticato nel terreno fino a raggiungere l’affioramento roccioso. A questo punto, lo scavo si allarga a forma di bulbo e viene abbandonato solo iun caso di esaurimento del giacimento o per pericolo di crollo. Le operazioni di escavazione per l’apertura di una cava sono sempre procedute da una serie di prospezioni e di saggi (piccole tagliate) che permettono di individuare dei banchi litici particolarmente consistenti, verificandone altresì la qualità (colore, grana, difetti, ecc.), l’orientamento delle eventuali stratificazioni o scistosità, al fine di impostare il fronte di abbattimento7. Scelta così l’ubicazione della cava, ha inizio la prima fase operativa chiamata cappellaccio8, del tutto simile per ciascuna delle cinque tipologie summenzionate e consiste nell’asportazione, mediante pala e piccone, anticamente, attualmente previo l’utilizzo di pale meccaniche, di tutti quei materiali detritici alterati accumulatisi sulla parte sana della roccia con il passare del tempo (terriccio, ghiaia, pietrisco, ciottoli, ecc.). Ultimata la ripulitura preliminare del fronte di estrazione, ha inizio il vero e proprio abbattimento della parete procedendo generalmente dall’alto verso il basso e realizzando dei gradini o bancate con piani orizzontali e verticali che consentono un più agevole posizionamento dell’attrezzature per il taglio; i sistemi tradizionali di estrazione sfruttano spesso le proprietà intrinseche delle rocce di dividersi attraverso piani di discontinuità più o meno evidenti all’interno della massa stessa. Prima di effettuare l’estrazione, viene creato un piano di cava spianato (o piazzale) abbastanza grande da consentire un agevole spostamento dei blocchi estratti ed eventualmente lavorati nelle fasi di sbozzatura preliminare per essere poi inviati nei vari cantieri per le rifiniture successive. Il piazzale di cava rappresenta un vero e proprio cantiere di maestranze (opificium), ordinatamente organizzate seguendo una gerarchia essenziale per il buon andamento del lavoro, a partire dal capo-cava, responsabile tecnico, al tagliatore o filista, o ancora trincaro9 che si occupa dell’estrazione; ed ancora all’uomo al masso che provvede allo spostamento dei blocchi, ai vari capimastri cui spetta l’onere di sbozzarli e, quindi prepararli per le fasi successive della lavorazione, fino ai “manovali di cava” che collaborano con gli altri operai in ciascuna mansione, ed ai manovali comuni che si preoccupano 26


di preparare le strade d’accesso ai vari punti della cava e di spostare il materiale di risulta lontano dal piazzale. Originariamente, i rifiuti della lavorazione venivano caricati su dei carretti trainati da buoi o muli e portati alla più vicina discarica; i cosidetti mulattieri avevano anche il compito di trasportare fino ai cantieri i blocchi sbozzati e pronti per le lavorazioni successive e la posa in opera. Per quanto riguarda l’estrazione vera e propria dei blocchi lapidei, vengono impiegati, ancor oggi, sia sistemi tradizionali manuali che procedimenti tecnici più avanzati ed evoluti. Il metodo maggiormente utilizzato è la cosiddetta tagliata a mano10 (Fig. 2), effettuata indifferentemente sia su rocce tenere che semidure e dure, isolando la bancata utile attraverso dei solchi profondi quanto lo stesso blocco da staccare, praticati con mazzetta e scalpello o piccone a punto. Delimitati così tutti i lati si esegue un ulteriore taglio orizzontale alla base dell’elemento in cui vengono inseriti dei cunei di ferro (o punciotti o puntazze), battuti in successione ad intervalli regolari, tramite una mazza fino al completo distacco. Talvolta, e soprattutto su pietre tenere di natura calcarea o arenacea, si preferisce ricorrere, ancor oggi, al tradizionale uso di cunei di legno secco fatti avanzare generalmente lungo i piani naturali di sedimentazione della roccia; bagnandoli progressivamente a causa della loro dilatazione favoriscono così il taglio del blocco. Il taglio dei blocchi avveniva anche attraverso delle seghe manuali, talvolta talmente lunghe11 Fig. 2 Esempio di lavorazione maggiormente utilizzato denominato “ta- da dover essere manovrate da due operai; attualmente per questo scopo, vengono utilizzate delle seghe circolari elettriche fisse a gliata a mano” lama diamantata o al carborundum o a filo veloce soprattutto per il taglio di lastre in loco, attestando le facce dei blocchi commerciali. Anche i trasporti, nel corso del tempo, hanno notevoli trasformazioni, specie in funzione dell’organizzazione più razionale e moderna dei cantieri. Le cave di riferimento, presenti nel territorio cosentino, sulle quali intendiamo soffermarci brevemente, sono quelle di: Altilia, Mendicino e San Lucido. La pietra calcarea o (calcarenitica), affiorante principalmente nel Bacino del Fiume Crati da Mendicino ad Altilia, ha condizionato notevolmente l’architettura dei diversi centri storici della zona, definendosi come genius loci inconfondibile. In letteratura, questo materiale è definito, anche se erroneamente, come precedentemente citato, tufo di Mendicino comprendente anche la roccia d’altri luoghi vicini (Domanico, Carolei, ecc.) nella valle del Caronte12. In effetti, la calcarenite più conosciuta è rappresentata proprio da quelle mendicinese le cui cave (attualmente non più attive) risalgono al periodo medioevale13, mentre, al contrario, nulla o quasi si conosce delle aree estrattive di Altilia, sempre in provincia di Cosenza, e non per questo meno importanti; anzi possiamo affermare, senza ombra di dubbio che le cave altiliesi rifornivano, in epoche passate ed anche abbastanza remote, tutta la zona limitrofa della Valle del Fiume Savuto, verso sud rispetto al capoluogo bruzio. Quindi, se l’edilizia cosentina si è valsa del tufo di Mendicino, l’architettura del circondario altiliese appare invece interamente legata alla calcarenite locale tanto nelle murature a vista quanto negli ornati di fabbriche civili e religiose (portali, arcate, imposte di porte e finestre, mensole, balaustre ecc.). Gli affioramenti estrattivi di Altilia (Fig. 3) di demanio pubblico attivi fino all’ultimo dopoguerra sono ubicati in località Parriera, in prossimità del torrente 27


Fig. 3 Cava di Altilia (CS)

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Fiumicello, lungo le pendici orientali di Cozzo Pedale; essi sono rappresentati da fronti di cava non eccessivamente alti con il sistema a parete ed anche a “galleria”: il banco roccioso infatti veniva attaccato fino a raggiungere il torrente, sulle cui sponde veniva ricavato il piazzale di cava, ancora esistente. Il corso d’acqua segna il confine naturale tra i Comuni di Malito (a nord) ed Altilia (a sud), scorrendo proprio nella gola provocata dagli immensi fronti lapidei, celati ormai quasi interamente da una fitta e rigogliosa vegetazione. A causa di ciò ed anche per la particolare morfologia del terreno, in più punti impervio, le cave attualmente non sono facilmente raggiungibili, talvolta anche dopo distinguibili ed identificabili; da quando infatti, è cessata l’attività estrattiva intorno alla metà degli anni ‘50, esse sono state completamente abbandonate ed oggi di loro non resta che solo il ricordo nella mente di quelli ultimi cavatori e scalpellini che vi hanno lavorato. Attraverso diversi sopralluoghi in situ è stato comunque possibile individuare ben dieci fronti di cava di cui quattro localizzati nel Comune di Malito (a destra discendendo il torrente), e sei in quello di Altilia, lungo la sponda sinistra del Fiumicello. Certamente, originariamente ne dovevano anche degli altri sulle pendici di Cozzo Pedale più ad occidente, considerando la notevole produzione di manufatti lapidei nella zona, ma purtroppo non è stato possibile identificarli a causa dell’estrema pericolosità dei luoghi. La prima fase della campionatura è consistita nell’individuazione dell’area di affioramento del materiale calcarenitico, sia sulla base di una cartografia specifica alle scale 1:10.000 ed 1:25.000, sia effettuando un’accurata indagine di campagna allo scopo di esaminare la distribuzione dei litotipi nella zona oggetto di studio. La campionatura in profondità degli affioramenti, nonostante la morfologia irregolare del luogo, è stata comunque effettuata in successione da entrambe le sponde del corso d’acqua, contrassegnando poi ciascun campione attraverso una lettera alfabetica così come segue: 1) Comune di Altilia (CS): - cava “A”, corrispondente al fronte datato 1892; - cava “B”, corrispondente al tunnel attiguo al fronte precedente; - cava “C”, corrispondente al fronte datato 1889; - cava “G”, corrispondente all’ultimo fronte risalendo il torrente; - cava “H”, corrispondente al fronte datato 1954; - cava “I”, corrispondente al fronte caratterizzato dalla presenza di due croci, (una incisa ed una a rilievo). 2) Comune di Malito (CS): - cava “D”, corrispondente al fronte datato 1316; - cava “E”, corrispondente al fronte datato 1753; - cava “F”, corrispondente al fronte datato 1881; - cava “L”, corrispondente all’ultimo fronte discendendo il torrente. I campioni prelevati sui fronti succitati, sono stati sottoposti ad analisi di laboratorio del tipo petrografica in sezione sottili, con l’impiego del microscopio ottico a luce polarizzata, allo scopo di individuarne le componenti tessiturali e le


Fig. 4 Cava di Mendicino (CS); loc. Cozzo Iovine

caratteristiche mineralogiche intrinseche. Parte, invece, è stata frantumata e polverizzata al fine di renderla omogenea e prepararla alla successiva analisi chimica analizzata attraverso due apparecchiature: lo spettrometro a raggi x, per l’analisi chimica degli elementi maggiori e minori; ed il diffrattometro a raggi x, per l’analisi mineralogica del materiale14. Attraverso l’analisi petrografica, si è cosi individuata una calcarenite con tenori in carbonato di calcio (CaCO3), al limite dei calcari; la matrice primaria carbonatica presenta componenti organogeni (fossili) e terrigeni, costituiti, quest’ultimi, da particelle clastiche di granulometria variabile, derivanti dall’erosione del massiccio cristallino della Sila. Successivamente, attraverso l’analisi chimica, si è andata a determinare la percentuale dei sali solubili all’interno dei 10 campioni. Dal confronto dei risultati ottenuti, soprattutto degli elementi principali, quali calcio, silice e magnesio, si evince un tenore elevato di carbonato di calcio; inoltre, ciò che caratterizza tutti i litotipi è comunque la concentrazione, non eccessiva ma significativa, di ossido di magnesio. Ciò è rappresentativo in quanto sta a significare che la componente carbonatica è parzialmente dolomizzata15. Infine, ciascun fronte, ad un attento esame ravvicinato, conserva ancora i segni del passato: tracce della lavorazione (a piccone e a scalpello lungo), sigle e nomi di capimastri, date, incisioni, nonché una serie di gradini a vari livelli corrispondenti ai piani estrattivi, persino blocchi appena sbozzati, (basi, rocchi di colonne, ecc.) e pronti per la lavorazione di rifinitura successiva in qualche cantiere vicino. Testimonianza di una fervida attività di maestranze di cui oggi esiste memoria in quei pregevoli manufatti che sono stati prodotti grazie al lavoro preliminare di estrazione del materiale. Per quanto riguarda le cave di Mendicino (Fig. 4), l’area in esame è ubicata sul versante orientale della Catena Costiera Calabra, a sud-ovest di Cosenza. La caratteristica morfologica della zona è rappresentata dai diversi torrenti che in essa scorrono, che creano brusche variazioni di pendio, riscontrabili soprattutto nella parte centrale e meridionale in prossimità della formazione calcarea di Mendicino; inoltre nella zona settentrionale, affiorano depositi argillosi e sabbiosi. I calcari si ravvisano, quindi, con pareti ripide, generalmente rocciose, lungo i corsi d’acqua, alla cui sommità sono ubicate le località Costa, Santa Maria ad ovest, Terredonniche e Destre. Fino agli inizi del secolo scorso, il calcare di Mendicino è stato largamente adoperato come materiale da costruzione; a testimonianza dell’attività estrattiva di tale roccia, che grazie alle sue caratteristiche fisiche ed estetiche, veniva utilizzata per edificare ed adornare gran parte degli edifici storici di Cosenza, rimangono i diversi fronti di cava, presenti in quasi tutto il territorio del comune di Mendicino, chiusi ormai, come anche per Altilia, dalla metà degli anni ‘50. Ne sono stati localizzati circa nove situati nelle località: Casino Ferrera, Basso La Motta, Santa Maria, Costa, San Paolo, Petrara (di cui gli ultimi tre rappresentano delle zone di cava, ovvero zone nelle quali veniva prelevato il materiale di tanto in tanto, laddove questo risultava migliore e più facilmente estraibile, 29


Fig.5 Cava di San Lucido (CS)

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sfruttando i piani di taglio e le discontinuità preesistenti nella roccia), Rizzuto, Ponte Alimena e Cozzo Iove. Talvolta, la massa litica, in più punti appare spesso mal stratificata e mostra variazioni di colore; all’interno di alcuni affioramenti, sono presenti piccole faglie e numerose fratture, riempite da depositi di calcite. Quasi dappertutto, poi, l’intensa copertura vegetale e lo sviluppo edilizio recente, hanno reso poco distinguibili gli originari fronti di cava. I fronti di cava mendicinesi sono rappresentati da masse rocciose variamente sparse sul territorio, che non seguono un andamento ed una collocazione precisa, come nel caso di Altilia; inoltre, non presentano attualmente alcuna traccia dell’attività estrattiva originaria, assimilabili piuttosto, a delle semplici colline boschive, non riconducibili a dei fronti di cava senza una conoscenza storicoscientifica appropriata. La stessa unità calcarea, risulta estremamente differenziata, pur appartenendo alla medesima unità calcarenitica miocenica della Valle del Crati, con variazioni cromatiche. I fronti di cava di San Lucido (Fig. 5), sul versante paolano, sono ubicati ad est della stazione ferroviaria, in località Timpa dello Scorpo, tra il torrente Deuda a nord, ed il torrente Torbido a sud. È interessante notare, come, la zona più a valle rappresenta l’originaria cava (di demanio pubblico), ormai non più attiva fin dal dopoguerra; più in alto invece, risalendo il monte, è situato il fronte attualmente coltivato di proprietà privata16, iniziando l’attività di estrazione nei primi anni ‘50. L’estesa massa rocciosa è stata classificata come calcare arenaceo con un’elevata frazione terrigena (clasti a grana medio-fine, spigolosi arrotondati), a stratificazione piano-parallela evidenziata da tonalità cromatiche giallo-brunastre. Nella parte centrale della massa è presente uno strato di argilla grigia con alcune laminazioni rossastre e tracce sparse di fossili. Elevati e variabili risultano, in più punti i contenuti di calcio, silice e magnesio, componenti maggiori principali del litotipo calcareo, con tenori talvolta anche dolomitici dovuti all’aumento graduale del magnesio. I fronti di cava di San Lucido sono coltivati “ a cielo aperto”; di altezza non eccessivamente elevata, si presentano con un esteso piazzale di cava abbastanza spianato su cui possono muoversi liberamente ed agevolmente tutti i mezzi meccanici adoperati sia per la fase estrattiva del materiale che per il suo sollevamento e del trasporto vero e proprio. L’asportazione del cappellaccio, è state eseguita mediante moderne pale meccaniche; ripulita la massa rocciosa si procede all’estrazione vera e propria dei blocchi attraverso un martello pneumatico collegato ad un lungo braccio meccanico; l’operazione avviene seguendo la stratificazione naturale del materiale effettuando una seri di profondi fori in successione fino al taglio definitivo; attraverso la perforazione meccanica, che ha sostituito i sistemi manuali tradizionali soprattutto a partire dagli anni ‘50, si ottiene un’azione mista di percussione e talvolta, di rotazione della parte perforante (fioretto), e di insufflazione d’aria per eliminare la polvere prodotta. La lunghezza dei fori prodotti raggiunge talvolta anche molti metri adoperando opportune prolunghe. I blocchi estratti, vengono portati in prossimità dei


laboratori, presenti sul piazzale, per le fasi preliminari della lavorazione tramite autopale di notevoli dimensioni. Nei laboratori inizia, così la sbozzatura dei blocchi e la successiva riquadratura a mezzo di impianti fissi di seghe dentate circolari monolama (in widia) a filo veloce in numero di quattro17. L’elemento subisce in tal modo un ciclo graduale di trasformazioni seriali, a partire da una prima suddivisione trasversale e parallela in tanti pezzi facilmente trasportabili anche manualmente attraverso una sega taglia blocchi; da qui si ha inizio alla lavorazione definitiva del materiale che andrà ad essere trasformato in lastre, gradini, pavimenti, soglie ecc. di varia misure e spessore. Infine va ricordato che, all’interno dei laboratori di cava è possibile realizzare su richiesta anche elementi decorativi ed ornamentali (mostre di porte e finestre, colonnine per balaustre, archi, portali, ecc.), ovviamente in questo caso verranno adoperati strumenti di lavorazione manuale tradizionale (scalpelli, subbie, gradine, bocciarde, ecc.), associati pur sempre ad apparecchiature meccaniche moderne per velocizzare i vari procedimenti. Sarebbe importante, soffermarci ancora sulle macchine nel cantiere storico, sulla trattatistica e sul loro utilizzo, nonché sulla lavorazione della pietra stessa e sugli attrezzi utilizzati, ma, nostro malgrado, riteniamo sia necessario rinviare ad altra occasione una trattazione più completa ed esaustiva d’un argomento molto interessante e vasto. La valorizzazione delle cave non più attive, all’interno di una pianificazione territoriale mirata pur sempre alla salvaguardia ed la rispetto per l’ambiente, attraverso una bonifica dei luoghi e la creazione di percorsi guidati, certamente rappresenterebbe un primo passo verso il recupero della storia e delle nostre tradizioni, da sempre rammentate dalla letteratura, attualmente dimenticate e accantonate in nome di una cultura scientificamente più moderna ed avanzata: rivivere per un attimo il passato, anche se solo con l’immaginazione, potrebbe servire per capire il presente e tutto ciò che ci è stato sapientemente tramandato da quei validi artieri di un tempo.

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Note 1  A. Palladio, I Quattro libri dell’Architettura, Venezia 1570, Libro I Capitolo III, p. 14 (Ediz. a cura di L.Magagnato e P. Marini, Milano 1980). 2  F. Penta, I materiali da costruzione dell’Italia Meridionale, vol. II, fondazione politecnica del Mezzogiorno, Napoli 1935, p. 575 (il pliocenico corrisponde all’ultimo periodo dell’Era terziaria). 3  A. Burton, Note illustrative delle tavolette appartenenti al foglio 236 di Cosenza, Cassa per il Mezzogiorno, Poligrafica e Cartevalori, Ercolano (NA) 1973, p. 30. 4  F. Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Le Monnier, Firenze 1995 (ristampa), p. 427. 5  Con questo termine, infatti, vengono designati scientificamente, i tufi vulcanici, estremamente porosi, derivati da rocce sedimentarie piroclastiche, con composizione mineralogica completamente diversa dai calcarei. Nel nostro caso, è corretto parlare di calcarenite marnosa (o arenite calcarea), roccia sedimentaria di origine carbonatica con percentuale di minerali silico-clastici. 6  È doveroso esprimere un grazie al Prof. Gino Mirocle Crisci, U.N.I.C.A.L. Università degli Studi della Calabria (CS), Dipartimento di Scienze della Terra, in qualità di Correlatore di Tesi, per averci fornito gli utili e necessari consigli per ciò che riguarda l’aspetto più propriamente tecnico-scientifico del materiale analizzato (la calcarenite), nonchè a tutti i tecnici di laboratorio, in particolare al Sig. Franco Gagliardi, per aver effettuato con cura le prove chimicopetrografiche opportune dei campioni lapidei concernenti il nostro lavoro, cfr. nota gratulatoria della Tesi di Laurea di C. Deni e di A. Lico, L’opera degli scalpellini roglianesi nell’edilizia religiosa di Cosenza e dei suoi Casali (secc. XV-XVIII) - Dalla cava al restauro, Tomo I, A.A. 1995/96, U.N.I.F.I. Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Architettura, Dipartimento di Storia dell’Architettura e Restauro delle Strutture Architettoniche, p. 643. 7  Durante gli “assaggi” della roccia, tramite cunei e mazze vengono praticate nel banco anche alcune fenditure allo scopo di verificare lo stato composizionale della massa interna. E. Dolci, Carrara: cave antiche, Comune di Carrara 1980, p. 197. 8  Il termine probabilmente viene desunto dal vocabolario tipico dell’arte mineraria. L. e T. Mannoni, Il marmo. Materia e Cultura, SAGEP Editrice, s.l.1984, p. 69. 9  Quest’ultimo termine è riferito più specificatamente agli addetti all’estrazione dei massi nelle cave di pietre tenere dell’Italia meridionale. I “trincari” vengono così definiti per l’uso di gradine a tre denti in fase di squadratura e sbozzatura dei blocchi. 10   Il metodo di escavazione “a tagliata” utilizzato dai romani è facilmente ricostruibile per mezzo degli antichi strumenti e delle numerose tracce ritrovate in loco (soprattutto sulle Alpi Apuane) in seguito a recenti campagne archeologiche in merito. L. e T. Mannoni, Il marmo, op. cit., p. 75. Per gli attrezzi rinvenuti nella zona delle cave lunensi, cfr. E. Dolci, Carrara, op. cit., p. 245. 11  Nelle cave greche, alcune seghe (rinvenute) raggiungevano anche i 4,5 mt. 12  Cfr. F. Rodolico, op. cit.. 13  Ibidem. 14  Cfr. Tesi di Laurea di C. Deni e di A. Lico, L’opera degli scalpellini roglianesi nell’edilizia religiosa di Cosenza e dei suoi Casali (secc. XV-XVIII) - Dalla cava al restauro, Tomo I, A.A. 1995/96, U.N.I.F.I. Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Architettura, Dipartimento di Storia dell’Architettura e Restauro delle Strutture Architettoniche, Op. cit. 15  La dolomite è un carbonato doppio di calcio e magnesio:CaCO3 + MgCO3. 16  Ditta Massimo Albanese & C - San Lucido (CS). 17  In questo caso è utilizzato un sistema ad acqua che serve per evitare l’innalzamento della polvere provocata dal tagli stesso; l’acqua fuoriesce da ugelli direzionati verso il taglio fungendo da lubrificante-raffreddante per la lama. Presente sul piazzale di cava un silos per l’acqua impiegata dalle apparecchiature meccaniche nei laboratori sia per il loro raffreddamento che per la segagione dei blocchi; quest’ultima operazione produce una miscela di acqua e polvere di calcarenite che fuoriesce per effetto del taglio, raccolta in un’apposita vasca e riutilizzata spesso con l’aggiunta di legante (calce), per opere di boiaccature di pavimentazioni, per realizzazione di malte pigmentate, come pigmento naturale nelle stuccature e nelle scialbature e non in ultimo nelle colorozioni di imbiancature a calce.

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Archeologia e storia antica


Giuseppe Roma

L’adorazione delle pietre e i megaliti del bosco di Castroregio (CS) “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” Marcel Proust

Mircea Eliade ha molto ben descritto la struttura e la coerenza dei fenomeni religiosi dei popoli primitivi e la religiosità come esigenza primordiale dell’homo erectus1. Il bisogno del sacro si é manifestato nell’uomo primitivo come sentimento intimo ed è stato calato nella storia attraverso “segni” materiali2. Il senso di debolezza e d’insicurezza spinse la primitiva semplicità dell’uomo a rapportarsi con gli elementi della Natura e a scorgere in essi esseri simbolici, espressione di un mondo magico causa dei fenomeni naturali3. Anche con l’affermarsi delle religioni storiche, soprattutto nelle aree marginali e nella cultura pastorale, le permanenze religiose ancestrali, legate all’adorazione di elementi naturali come alberi, pietre, acqua, restano così vivi da incominciare ad essere vietati. Già nella Bibbia è fatto divieto di rendere omaggio alle pietre: Non collocare una pietra intagliata nella tua terra e non inchinarti davanti ad essa (Levitico 26:1). Nel testo si allude a pietre erette lungo la strada, probabilmente i cippi venerati nella regione di Canaan (Esodo, 23:24)4. La venerazione verso le pietre la troviamo anche in altri passi biblici. Nell’episodio della “Scala di Giacobbe” si legge: La mattina Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità e dopo aver invocato Dio, aggiunse: Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio…. Questa pietra, che io ho eretto come stele, sarà una casa di Dio…5 Nell’antica Roma, Numa Pompilio aveva stabilito che i confini del campo di ciascuno dovevano essere delimitati da pietre consacrate a Giove, alle quali ogni anno il 23 febbraio, durante le feste dei Terminalia, venivano portate offerte. Il termine in seguito indicò le pietre di confine6: Adorano una pietra informe e rozza, che chiamano Termine, dirà dopo Lattanzio7. Una pietra nera era ritenuta a Roma il dio Elagabalo e nel mondo greco romano monoliti erano venerati a Paphos come immagine aniconica di AfroditeAstarte, mentre a Perge, a Sardi e a Iasos come Artemide. Anche l’idolo della Grande Madre, venerata dai Romani in un tempio sul Palatino, era un monolite, che durante la seconda guerra punica era stato trasportato dal santuario di Pessinunte in Frigia su sollecitazione dei Libri Sibillini8. 34


Massimo di Tiro, nel II secolo d.C., parla degli Arabi che adorano un sasso quadrato9, la Pietra della Mecca, che Maometto preserverà, dopo aver distrutto gli altri idoli, e che diventerà la meta del pellegrinaggio di tutto il mondo islamico10. La consuetudine di adorare massi non si esaurisce con la fine del paganesimo. Nel Concilium Cartaginense del 397 è fatto divieto di adorare boschetti sacri in cima a rilievi11. Nei Concili di Arles (a. 452), di Tours (a. 567) e di Nantes (a. 568), la Chiesa sente la necessità di proibire ancora l’adorazione delle pietre. Il canone 22 del Concilio di Tours fa obbligo ai sacerdoti di cacciare dalla chiesa tutti coloro che fanno davanti a certe pietre cose diverse dai riti che si celebrano in chiesa12. Nel VI secolo, Gregorio Magno condanna le usanze dei pastori barbaricini in Sardegna, i quali vivono come animali, non conoscono il Dio vero, e adorano legni e pietre13. In Bretagna nel neolitico sono stati eretti monoliti enormi, alcuni dei quali pesano più di 300 tonnellate, in cima ai quali, con la cristianizzazione, furono poste croci o statue14. Nei pressi di Sainte-Anne d’Auray i contadini con certe malattie si coricano su un megalite scolpito a forma di coppa15. Tutti conoscono i megaliti di Carnac (Francia), di cui oggi si può visitare un modesto gruppo e dove l’Ufficio informazioni di Kermario espone un plastico che permette di osservare e valutare tutta la vastità del sito16 o i tanti esempi della cultura megalitica sparsi per l’Europa, blocchi di pietra, silenziose testimonianze di un passato dimenticato e non più comprensibile. Documenti, comunque, su cui si sono costruite ipotesi anche fantasiose17, ma sicuramente parte importante della storia dei territori. Un sito, ricco di testimonianze e mai indagato, è sicuramente la parte montana del Comune di Castroregio (CS), conosciuta come Foresta di Castroregio18. Il termine “foresta” (φορέστα), del tutto nuovo, venne introdotto, per la prima volta, dai Normanni per indicare la riserva di caccia signorile. Con questo termine è indicato nei documenti del XII secolo il territorio di caccia riservato al signore di cui i forestarii (φορεστάριοι) erano i controllori19. L’attuale “foresta” di Castroregio è citata in un documento del 1193, redatto in greco da David, notaio di Oriolo, successivamente trascritto in latino nel 1277, in cui vengono indicati i confini dei terreni assegnati al monastero di S. Elia20 e in cui si legge che essi erano delimitati ab oriente ballonus foreste21 (odierno Canale della Foresta22). La zona completamente ignorata dalla letteratura archeologica per l’assenza di ricerche mirate, dovette essere frequentata fin dall’antichità dai pastori transumanti. Fino agli anni ’60 del secolo scorso, nei pressi dell’attuale Santuario della Madonna della Neve, per la presenza di una sorgente, oggi scomparsa a causa delle trivellazioni petrolifere, si formava un laghetto in cui i pastori, prima della tosatura, lavavano le pecore del gregge. Dall’Età protostorica fino alla Rivoluzione industriale, la via di penetrazione dalla costa ionica verso i pascoli montani era costituita dalla vallata del torrente Straface. Una gran quantità di ceramica ellenistica è stata rinvenuta lungo quest’asse di penetrazione verso l’interno23. 35


Su questa parte della Calabria, la sezione archeologica del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria sta per avviare un progetto di ricerche sistematiche, finalizzato allo studio di un comprensorio mai indagato, ma ricco di testimonianze materiali. Il territorio dell’attuale Comune di Castroregio, popolato da profughi albanesi alla fine del XV secolo24, apparteneva al monastero di S. Pietro di Brahalla, che é citato in un atto in greco del 1114 come suffraganeo del monastero della SS. Trinità di Cava dei Tirreni e destinatario di un podere in località Stoppa per una donazione di Filippo figlio del Visconte Guglielmo di Grantmesnil 25. Da una prima ricognizione effettuata in località “Foresta” è emersa una realtà archeologica che necessita di verifiche, ma alquanto singolare. Tutta l’area nei pressi dell’attuale santuario della Madonna della Neve (Shën Mëria e Borës) è costellata da una serie di megaliti, che, alla luce di un attento esame mostrano i segni di una probabile utilizzazione antica. Alcuni massi presentano degli incavi semisferici, grandi coppelle (Figg. 1-2), che non lasciano dubbi, ma che per la loro ampia diffusione, soprattutto al Nord lungo tutto l’arco alpino, gli studiosi hanno avuto difficoltà a inquadrarle sia culturalmente che cronologicamente26.

Fig. 1 Castroregio, località Foresta, masso con coppelle

Fig. 2 Castroregio, località Foresta, masso con coppelle

I più recenti confronti archeologici suggeriscono come cronologia di esecuzione dei massi coppellari un periodo che va dal Neolitico (5000 anni a. C.) alla fine dell’età del Ferro (primo millennio a. C.)27. Tra i primi a occuparsi di queste prime manifestazioni della Preistoria fu Antonio Magni, medico comasco, nel 1901. Ecco quanto scrive: La maggior parte degli studiosi delle pietre cupelliformi convengono nel concetto che fossero l’espressione di un culto religioso, cioè di una idea soprannaturale che poteva esplicarsi in svariate manifestazioni di rito, delle quali nessuna è pervenuta a noi, non solo con certezza, ma neanche con molta probabilità. Solo questo appare, che in quei paesi dove non le hanno dimenticate del tutto, sono circondate da singolari leggende ed anche oggetto di superstizioni e di una certa venerazione. In Italia le hanno scordate28. Le coppelle sono state giudicate come prime forme di arte preistorica29, anche se gran parte della letteratura che le riguarda é dedicata più all’analisi tecnica e alla loro descrizione, che non al loro significato. Le ipotesi avanzate, tuttavia, in circa due secoli di ricerche, sono numerose e il Borgna le ha suddivise in categorie con significato religioso, solare, stellare, grafico, funebre, mappale e fecondativo30. 36


I massi coppellari del bosco di Castroregio trovano puntuali confronti con altri esempi diffusi lungo l’arco Alpino (Figg. 3-5).

Fig. 3 Finale Ligure, Ciappo delle Conche, masso Fig. 4 Cuneo, Bric Lombatera, masso con coppelle con coppelle

Fig. 5 Lilianes (Valle d’Aosta), masso con coppelle

Le coppelle, in alcuni casi, sono collegate tra loro da rudimentali solchi o canalette funzionali all’uso (Fig. 6). Un progetto finalizzato alla raccolta dei dati e allo studio delle evidenze coppellari é stato avviato nel 2002 in Val Senales. La ricerca considera le coppelle come segni connessi alla storia del territorio. Studiare queste forme significa occuparsi di un prodotto della cultura materiale del territorio e, quindi, della società preistorica che le ha prodotte31. Il progetto prende in considerazione anche il censimento delle aree di passaggio d’alta quota, delle vie di transumanza e dei vecchi sentieri, dei luoghi di culto, affinché l’incrocio dei dati contenuti nel database e i dati geografici tridimensionali possano tornare utili all’interpretazione del contesto per formulare nuove ipotesi interpretative32. I petroglifi del bosco di Castroregio offrono Fig. 6 Castroregio, località Foresta, masso con coppelle un’ampia gamma interpretativa. Oltre alle coppelle, si riscontrano anche massi con canaletta e con un segno a forma di croce inciso (Fig. 7). Il segno di croce, che si trova inciso o scolpito in luoghi di sosta preistorici33, ma anche su manufatti ceramici34 è stato da sempre caricato di innumerevoli significati35. Più tardi gli auguri conferirono al segno (templum celeste) un potente valore rituale e, secondo quanto riferisce Servio, era severamente proibito tracciare le linee con la mano, ma era obbligatorio l’uso del lituus36. Il masso che reca una canaletta, alcune coppelle e il segno di croce, si trova nella radura antistante la depressione che, ora soltanto d’inverno, si trasforma in laghetto (il toponimo dato dagli abitanti al sito è “luca”), ma che in antico, con la presenza di una sorFig. 7 Castroregio, località Foresta, masso con canaletta e segno di croce (part.) gente, costituiva il punto di incontro e anche di ba37


ratto tra i pastori transumanti e, forse, anche occasione di cerimonie cultuali. Solo così si spiega la diffusa presenza di massi con coppelle, canalette e segni di croce37. Fin dalla Preistoria l’uomo é vissuto tra i boschi delle propaggini ioniche del Pollino ed è del tutto naturale che vi fossero, nella primitiva organizzazione sociale, anche forme elementari di vita religiosa38. Nei rituali preistorici, com’è noto, l’acqua ebbe un rilievo notevole con cerimonie e gesti legati alla sfera religiosa. In posizione dominante sulla radura luca (laghetto), s’innalza fino a 1096 metri slm., un’altura a forma conica, chiamata çuka39 (vetta), interamente coperta da alberi di alto fusto (Fig. 8). In cima si può osservare un Fig. 8 Castroregio, località Foresta, localizzazione di alcuni dei monoliti enorme monolite (Fig. 9). Dei gradini permettono di salire (Fig. 10) e sulla sommità un grande lastrone lapideo, che richiama altri esempi noti (Fig.. 11), è sistemato a mo’ di tavola: la tavola dei briganti è denominata infatti dalla tradizione del luogo (Figg. 12-13). È necessario in questo caso verificare se si è in presenza di forme forgiate dalla natura o dall’uomo, ma non vi è dubbio che il progetto di indagini archeologiche che si intende avviare è necessario per chiarire tutti gli aspetti di un territorio mai indagato, ma che potrebbe riservare apprezzabili sorprese.

Fig. 9 Castroregio, località Foresta, Megalite 38

Fig. 10 Castroregio, località Foresta, Megalite (part.)


Fig. 11 Sassari, Monte D’Accoddi, tavola d’altare del neolitico

Fig. 12 Castroregio, località Foresta, Megalite con sopra la “tavola dei briganti”. 39


Fig. 13 Castroregio, località Foresta, Megalite con sopra la “tavola dei briganti” (part.).

Note

M. Eliade, Histoire des croyances et des idées religieuses, I, Paris 1976, pp. 13-57. R. Otto, Le sacré, Paris 1968, pp. 97-110. 3  J. Ries, La scienza delle religioni: storia, storiografia, problemi e metodi, Milano 2008, pp. 317-320. 4  Per quanto riguarda i Cananei e l’origine del nome: M. H. Fantar, I Fenici, in M. Guidetti (a cura di), Storia del Mediterraneo nell’antichità: 9.-1. secolo a.C, Milano 2004, pp. 22-25. 5  Genesi XXVIII, 18-22. 6  G. Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 1977, pp. 185-188. 7  Lattanzio, Divinae Institutiones, I, 20,37. 8  F. Altheim, Deus invictus: le religioni e la fine del mondo antico, Roma 2007, pp. 157-158. 9  E. Gibbon, Storia della decadenza e rovina dell’Impero Romano, X, Milano 1823, p. 37 n. 1. 10   R. Tottoli, La Pietra Nera e il culto della Ka’ba a Mecca nella tradizione islamica, in A. Monaci Castagno (a cura di), Sacre impronte e oggetti non fatti da mano d’uomo nelle religioni. Atti del Convegno Internazionale (Torino, 18-20 maggio 2010), Torino 2011, pp. 71-79. 11   I. Buttitta, Verità e menzogna dei simboli, Roma 2008, p. 39. 12   Pietre sacre, in Supplemento alla Nuova enciclopedia popolare con appendice, Torino 1851, p. 357. 13   Dum enim Barbaricini omnes, ut insensata animalia vivunt, Deum verum nesciant, ligna autem et lapides adorent…: E. Le Blant Inscriptions chrétiennes de la Gaule antérieures au VIIIe siècle, I, Paris, 1856, p. LII n. 1. 14   P. Josse Guide Routard: Normandia e Bretagna, Milano 2004, p. 208. 15   J. Hani, Il simbolismo del tempio Cristiano, Parigi 1978, p. 130. 16   L. Bennett, Francia - Key Guide, Milano 2005, p. 100. 17   M.R. Omaggio, Viaggio nell’incredibile, Roma 1995, pp. 147-149. 18  I.G.M., Madonna della Neve, 1:25.000, F. 222, IV N.O. sez. D. 19   E. Cuozzo, Le istituzioni politico-amministrative legate alla conquista. Le ripartizioni territoriali: i comitati, in R. Licinio, Francesco Violante (a cura di), I caratteri originari della conquista normanna: diversità e identità nel Mezzogiorno (1030-1130), Bari 2006, pp. 301-302; V. Von Falkenhausen, L’incidenza della conquista normanna sulla terminologia giuridica e agraria nell’Italia meridionale e in Sicilia, in V. Fumagalli, G. Rossetti (a cura di), Medioevo rurale. Sulle tracce della civiltà contadina, Bologna 1980, p. 243. 20  I.G.M., Serra di Tagliamano, 1:25.000, F. 221, I, N.E. sez. A. 1  2

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G. Roma, Su alcuni centri monastici dell’Alto Ionio cosentino in età medievale, “Napoli Nobilissima” XXVII, fasc. III-IV, 1988, p. 151.  I.G.M., Serra di Tagliamano, 1:25.000, F. 221, I, N.E. sez. A. 23   Il materiale è stato consegnato al museo di Sibari. 24   F. Tajani, Le Istorie Albanesi. Epoca quarta, Salerno 1886, p. 8-10; G.B. Mollo, Castroregio colonia albanese di Calabria, in «Risveglio – Zgjimi», 4/2, (1967), p. 5. 25   F. Trinchera, Syllabus graecarum membranarum, Napoli 1865 (rist. an. Sala Bolognese, Forni, 1978), pp. 99-100. 26   M. Miozzi, Incisioni rupestri. Nuovi ritrovamenti in Valle Veddasca, “Rondò” n. 21, 2007, pp. 191-196; G. Berutto, L. Fornelli, Emilius, Rosa dei Banchi: parco del M. Avic, Milano 2005, p. 353; AA. VV. Il monte delle betulle Brezzo di Bedero nella storia e nell’arte, Gavirate 1996; A. Priuli, Il linguaggio della preistoria. L’arte preistorica in Italia, voll. 1-3, Pesaro 1991, pp. 121-124. 27   F. Binda, Le incisioni rupestri nella Svizzera italiana, “Bollettino dell’Associazione archeologica ticinese”, 14, 2002, pp. 20-25. 28   A. Magni, Pietre cupelliformi nuovamente scoperte nei dintorni di Como, “Rivista Archeologica della Provincia di Como”, 41, 1901, p. 91. 29   K. Coe, The Ancestress Hypothesis: Visual Art as Adaptation, New York 2003, pp. 125-126. 30   F. Grosso, Recensione. On the Potential Use of Cup-Marks, “Anthropology of Consciousness”, 21(2) 2010, pp. 205-220. 31   R. Bradley, Rock Art and the Prehistory of Atlantic Europe. Signing the Land, London 1997, p. 8. 32   F. Cavulli, Geografia di un “segno minore”: i massi coppellati della Val Senales. Proposta metodologica di un progetto di ricerca ergologica, in “IV Convegno di Studi sull’arte schematica non figurativa nelle Alpi, Coppelle e Dintorni” – Saviore 2005, Brescia 2005. (Academia edu. Art. online) 33   F. Lampertico, Discorso, in “Atti del Accademia olimpica di Vicenza”, Vicenza 1871, p. 16. 34   A. Mandolesi (a cura di), Materiale protostorico: Etruria et Latium Vetus, Roma 2005, p. 139. 35   N. Spineto, Il simbolismo della croce nelle religioni, in B. Ulianich (a cura di), La Croce. Iconografia e interpretazione (secoli I- inizio XVI), Atti del convegno internazionale di studi (Napoli, 6-11 dicembre 1999), I”, Napoli 2007, pp. 75-87. 36   G. Calcani, La pratica divinatoria e la visione della croce in Costantino, in B. Ulianich (a cura di), La Croce. Iconografia e interpretazione (secoli I- inizio XVI), Atti del Convegno internazionale di studi (Napoli, 6-11 dicembre 1999), Napoli 2007, pp. 223-230; A. Lisdorf, The Dissemination of Divination in Roman Repubblican Times. A cognitive Approach, Copenaghen 2007, pp. 145-146. 37   Sulla religiosità dei paleantropi e i loro miti cosmogonici cfr. M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, I, Firenze 1979, pp. 33-40. 38   J. Ries, La scienza delle religioni… cit., p. 207. 39  I.G.M., Serra di Tagliamano, F. 221, N.E. sez. A. 21 22

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Pasquale Apolito

L’utilizzo della pietra locale in Magna Grecia e nei Bruttii

Fig. 1 La piana di Sibari (da P. Attema – G. Burgers - P.M. van Leusen, Regional Pathways to Complexity, Amsterdam 2010, p. 218)

Fig. 2 Timpone della Motta. Edificio III. Buche di palo sul lato Ovest (foto aut.) 42

L’inizio dell’impiego di materiale lapideo in contesti appartenenti al comprensorio della provincia di Cosenza, con specifico riferimento in questa sede alla Sibaritide settentrionale (Fig. 1), può farsi idealmente risalire all’esperienza della colonizzazione in Magna Grecia: tale fenomeno avrà proprio nella continuità d’utilizzo della pietra uno dei suoi tratti più peculiari e distintivi. Pluriennali ricerche condotte nelle aree limitrofe alla piana di Sibari in contesti indigeni con evidenti tracce di frequentazione d’età precoloniale, attestano come in questa fase doveva essere estremamente diffusa una tecnica costruttiva che prevedeva l’innalzamento di capanne costituite da un’intelaiatura lignea con pali, conficcati all’interno di buche ricavate dal taglio di strati di battuto e portanti coperture straminee (Fig. 2)1. Edifici di tale tipologia sono attestati nell’area denominata Timpone della Motta, nel territorio di Francavilla Marittima in provincia di Cosenza2. L’ area sommitale del Timpone, che sappiamo essere sede di un luogo di culto dedicato ad Athena, almeno a partire del VI sec. a.C., risulta interessata da pesanti interventi edilizi post 720/718 a.C., dopo cioè la deduzione della colonia achea tra i fiumi Kratis e Sybaris (odierno Coscile), oggi affluente del Crati, ma che in antico aveva una propria foce3. L’apparente assenza di cave di estrazione di materiale lapideo nelle immediate vicinanze e nell’area jonica nord calabra ha reso probabilmente necessario, già in età coloniale, adoperare e lavorare grossolanamente in situ pietre facilmente reperibili nelle vicinanze dei torrenti (ad es. il Raganello a Francavilla Marittima o l’Avena e il Ferro ad Amendolara) e alle pendici dei valichi montani. Le indagini archeologiche sul Timpone della Motta hanno portato all’identificazione di cinque imponenti strutture delle quali appare ormai pressoché accertata la funzione sacrale (Edifici I, II, III, IV, V) e che mostrano più fasi costruttive soFig. 3. Timpone della Motta. Edificio II. (da M. Kleibrink, Parco Archeologico “Lagaria” a Fran- vrapposte. In particolare gli edifici cavilla Marittima presso Sibari, guida, Francavilla I, II, III e IV, di forma rettangolare presentano, a partire dal VI sec. a.C., Marittima 2010, p. 116, fig. 156a).


una tecnica costruttiva con zoccolo di fondazione in pietra (Fig. 3): si tratta di elementi di pezzatura piuttosto variabile, dove si alternano rocce sedimentarie a ciottoli fluviali e pietre di piccole dimensioni4. L’analisi della tessitura dei filari di fondazione degli edifici, rinvenuti in situ all’epoca degli scavi, evidenzia come sia stata impiegata la c.d. tecnica “a sorelle”, con singole pietre che dovendo essere disposte di volta in volta a coppie, subivano un taglio nella parte mediana per finire poi affiancate schiena contro schiena, con la faccia convessa rivolta verso l’interno dell’edificio e i lati piani e lisciati verso l’esterno (Figg. 4-5-6); ciottoli di pezzatura minore e cocci di vario genere venivano utilizzati come riempimento degli interstizi tra una pietra e l’altra. Le pietre tendono generalmente a seguire una disposizione tale da creare filari a doppio paramento che nell’Edificio II vanno a suddividere lo spazio interno in tre ambienti distinti alla maniera greca, con un vano centrale più ampio (naos), un’area porticata rettangolare antistante (pronaos) e un vano posteriore più stretto e allungato (opisthodomos)5.

Fig. 6 Francavilla Marittima.Timpone della Motta. Edificio I. Filare di fondazione del lato Sud. Partic. (foto aut.)

Fig. 4 Francavilla Marittima. Timpone della Motta. Edificio II. Filare di fondazione del lato Ovest (foto aut.)

Fig. 5 Francavilla Marittima. Timpone della Motta. Edificio I. Filare di fondazione del lato Sud (foto aut.)

Fig. 7. Amendolara. San Nicola. Case lungo l’asse Nord - Sud (da J. de La Geniere, Amendolara. La nécropole de Paladino Ouest, Napoli 2012).

Una tecnica costruttiva non troppo dissimile si ritrova ancora a Francavilla Marittima, in filari di fondazione di unità abitative disposte su pianori alle pendici dell’area acropolare6 ascrivibili anche queste al VI sec. a.C. e ad Amendolara e Sibari, ancora in contesti di VI sec. a.C. Nell’area di San Nicola, nel comune di Amendolara, gli scavi condotti da J. de la Gèniere tra il 1967 e il 1978 hanno messo in luce un impianto urbano regolare organizzato lungo un asse longitudinale orientato Nord-Sud ai cui lati si dispongono nuclei abitativi (Fig. 7)7. La tecnica costruttiva prevedeva uno zoccolo costituito da un doppio paramento di ciottoli fluviali di grossa pezzatura in parte sbozzati con riempimento di ciottoli di dimensioni inferiori e alzato probabilmente in mattoni crudi. Agli Stombi, invece, le ricerche di P. G. Guzzo hanno individuato strutture pertinenti a una parte dell’abitato arcaico di Sybaris, con pianta rettangolare e zoccolo di pietre di fiume unite a secco, allettate in trincee di fondazione che andavano ad appoggiarsi alla sabbia vergine; l’alzato doveva essere probabilmente in crudo intonacato, con copertura a doppio spiovente in tegole raccordate da coppi pentagonali8. Se tali esempi d’età tardo arcaica paiono attestare come la pietra resterà sostanzialmente in questa fase quasi sempre un materiale per lo più semi-lavorato o sbozzato, a seconda delle esigenze, l’età romana è segnata, sul territorio qui in esame, da un’evidenza estremamente significativa e peculiare dell’impiego e lavo43


Fig. 9. Casa Bianca. Fondazione in ciottoli parallela al Tempio P (da P. Vitti, L’architettura del santuario, in ASAIA, LXXXIX, Serie III, 11. Tomo 2, Roma 2012, p. 31, fig. 31).

Fig. 10. Casa Bianca. Resti del podio del Tempio O da Nord-Est (da P. Vitti, L’architettura del santuario, in ASAIA, LXXXIX, Serie III, 11. Tomo 2, Roma 2012, p. 35, fig. 36).

Fig. 11. Casa Bianca. Capitello corinzieggiante con serpenti (da A. D’Alessio, L’apparato architettonico del santuario delle Divinità Orientali, in ASAIA, LXXXIX, Serie III, 11. Tomo 2, Roma 2012, p. 100, cat. n° 43, fig. 104). 44

razione del materiale lapideo: si tratta del c.d. “Santuario delle Divinità Orientali” di Copia/Thurii a Casa Bianca, situato nel settore più orientale della città romana (Fig. 8). Il complesso, Fig. 8. Sibari. Area di Casa Bianca (da P. Vitti, L’architettura del san- di cui è stata bene tuario, in ASAIA, LXXXIX, Serie III, 11. Tomo 2, Roma 2012, p. evidenziata una fase 24, fig. 24). giulio-claudia, ma sotto e intorno al quale paiono cogliersi sensibili tracce di una frequentazione dell’area iniziata forse già in età tardo arcaica9, risulta costituito tre plessi, distinti e allineati lungo l’asse longitudinale della plateia B Est-Ovest: al centro si trova il santuario vero e proprio (M), a Est un edificio con corte centrale (F) e a Ovest un’area recintata con facciata a pilastri (N)10. Se la pietra calcarea costituisce pressoché il solo materiale impiegato per la decorazione architettonica, sono tuttavia da rilevare emergenze differenti relative a preesistenti attività edilizie: all’interno dell’edificio N è stata infatti messa in luce una fondazione costituita da ciottoli, che corre parallela al tempietto P, in seguito rasata al momento della costruzione del sacello11 (Fig. 9). In calcarenite sono, invece, quattro blocchi ancora in opera “sopravvissuti” allo spoglio delle strutture, pertinenti al muro della cella del Tempio O e in cui si notano sul piano d’attesa un foro per l’alloggiamento di un perno di raccordo col concio superiore12 (Fig. 10). Ma di straordinario interesse sono, in particolare, tutti gli elementi superstiti (basi, fusti di colonna, capitelli ionici, capitelli corinzi e/o corinzieggianti, elementi di altorilievo e fregio figurato) superstiti dell’apparato architettonico del Santuario (M), già oggetto di studio critico e pubblicazione da parte di A. D’Alessio13 (cui si rimanda per una trattazione completa ed esaustiva sull’argomento). Ciò che in primis qui si vuole sottolineare è senza dubbio il complessivo senso di organicità nelle soluzioni stilistico formali adottate in tutto il programma architettonico del santuario: ci si riferisce, in particolare, al carattere precipuo di certi schemi che non possono non rimandare direttamente ai culti orientali e al mondo isiaco, evidente ad esempio nelle scelte decorative operate sui capitelli corinzieggianti con serpenti14 (Fig. 11). Come è stato già sottolineato la stessa scelta della pietra come materiale da costruzione potrebbe celare un intento programmatico unitario per tutta la decorazione e costituire, quindi, la compiuta manifestazione di una precisa volontà “arcaizzante” da parte della comunità locale, nel proposito di volersi ricollegarsi idealmente a forme e modi di culti arcaici praticati nel luogo, quando il materiale impiegato era proprio la pietra15. Ma a colpire sono soprattutto le straordinarie capacità e perizia tecnica di questi scalpellini operanti nel Bruttium (non sappiamo se appartenenti a una “scuola” locale o provenienti da altre aree dell’impero), in grado di plasmare e di dare voce e pathos a un materiale di difficile lavorazione come la pietra; né si


può d’altra parte escludere che tale padronanza sia in parte dovuta all’esercizio della stessa officina su elementi in marmo, il cui impiego è sicuramente attestato nell’area di Parco del Cavallo16.

Note 1  Se ne colgono evidenze nel sito di Broglio di Trebisacce (cfr. almeno R. Peroni, La protostoria, in Storia della Calabria antica, a c.d. di S. Settis, Roma-Reggio Calabria 1987, Vol. 1, pp. 67-136; R. Peroni, La Sibaritide prima di Sibari, in Sibari e la Sibaritide, AttiTaranto XXXII, Taranto 1993, pp. 104-135; R. Peroni-A. Vanzetti, Broglio di Trebisacce 1990-1994. Elementi e problemi nuovi dalle recenti campagne di scavo, Soveria Mannelli 1998). 2  Nel settore meridionale della parte alta del Timpone gli scavi condotti da M. Kleibrink hanno messo in luce una serie di buche di palo che tagliano uno strato di conglomerato roccioso presumibilmente riconducibili a tre edifici differenti e parzialmente sovrapposti (Va, Vb e Vc): una capanna della media età del Bronzo, una residenza ad abside dell’età del Ferro ed un edificio di forma rettangolare la cui costruzione secondo M. Kleibrink è da porsi negli ultimi decenni dell’VIII sec. a.C. Cfr. M. Kleibrink, Dalla lana all’acqua: culto e identità nel santuario di Athena a Lagaria, Francavilla Marittima (zona di Sibari, Calabria), Rossano 2003, p. 64 ; M. Kleibrink, J. K. Jacobsen, S. Handberg, Water for Athena: Votive gifts at Lagaria (Timpone della Motta, Francavilla Marittima, Calabria), in The objects of dedication, in «WorldArchaeology», 36, London 2004; M. Kleibrink, Oenotrians at Lagaria near Sybaris a native proto-urban centralised settlement, London 2006, pp. 111-119. 3  P. Bellotti-P. L. Dall’Aglio-L. Davoli-K. Ferrari, La piana di Sibari (Cosenza). Reciproche influenze tra variazioni morfologiche e popolamento”, in Agri Centuriati. An International Journal Of Landscape Archaelogy”, 3, 2006, Pisa-Roma 2007, pp. 73-99. 4  M. Kleibrink, Parco Archeologico “Lagaria” a Francavilla Marittima presso Sibari, guida, Francavilla Marittima 2010, p. 117. 5  Ead, p. 115. 6  P. Attema-J. Delvigne et Alii, Habitation on plateau I of the hill Timpone della Motta (Francavilla Marittima, Italy). A preliminary report based on surveys, test pits and test trenches, Palaeohistoria, in “Acta et Communicationes Instituti Archeologici Universitatis Groninganae 39/40”, 1997/9, Gronigen 2000, pp. 375-411; M. Kleibrink, Oenotrians at Lagaria…, op. cit., pp. 35-77. 7  J. De La Geniere-A. Nickels, Amendolara (Cosenza). Scavi 1969-1973 a S. Nicola, in NSc XXIX, 1975, pp. 493-498; M. Osanna, Chorai coloniali da Taranto a Locri, Roma 1992, p. 163; E. Greco, L’impero di Sibari. Bilancio archeologico-topografico, in Sibari e la Sibaritide, in AttiTaranto XXXII, Taranto 1993, pp. 459-483, p.470. 8  P. G. Guzzo, Case a Sibari, in Ricerche sulla casa in Magna Grecia e in Sicilia, Atti del colloquio, Lecce, 23-24 giugno 1992, Galatina 1996, pp. 123-126. Per un più recente ed esaustivo contributo sulle tecniche costruttive impiegate sia nelle case di Francavilla che di Amendolara e Sibari cfr. S. Handberg-R. Pace, Le case arcaiche di Francavilla, Amendolara e Sibari: nuove prospettive di ricerca, in Atti della IV giornata archeologica francavillese, Francavilla Marittima 2006, pp. 40-45. 9  E. Greco-V. Gasparini, Il santuario di Sibari – Casa Bianca, in Bibiotheca Isiaca.III, Bordeaux 2014, pp. 55-72, p. 61. 10  Greco-Gasparini, op. cit., p. 58. 11   P. Vitti., Il santuario di Casa Bianca: descrizione e restituzione architettonica preliminare, in ASAIA, LXXXIX, Serie III, 11. Tomo 2, Roma 2012, pp. 23-82, p. 31. 12   Id., p. 35. 13   A. D’Alessio, L’apparato architettonico del santuario delle Divinità Orientali. Selezione e inquadramento preliminare degli elementi superstiti. Tempio e portico, in ASAIA, LXXXIX, Serie III, 11. Tomo 2, Roma 2012, pp. 83-112. 14   Id., p. 87: il modello di riferimento per gli esemplari copiensi (D’Alessio, op. cit., cat. nn° 43-46-53) è individuabile nei capitelli corinzieggianti del tempio di Apollo in Circo a Roma, per cui cfr. A. Viscogliosi, Il tempio di Apollo in Circo e la formazione del linguaggio architettonico augusteo, Roma 1996, p. 63 e pp-150-158. 15  D’Alessio, op. cit., p. 86. 16  Dalle terme situate nel settore Sud- Ovest di Parco del Cavallo proviene il calco di un’epigrafe databile a età giulio-claudia, in cui si fa specifica menzione dell’impiego nelle stesse terme del marmo e nel cui testo si legge: postea uetus(t)a(te) / consumpto balineo / respublica thermas a sol(o) / fecit marmorauitq(ue). Cfr. S. Luppino, L’iscrizione inaugurale delle terme di Copia, in Senatvsconsvltvm Copiensium et aliae inscriptiones mvnicipi a Felice Costabile, Silvana Luppino, Stephania Romeo, Antonio Zvumbo descriptae et recognitae, in Minima Epigraphica et Papyrologica. Anno XI. 2008, a cura di F. Costabile, Roma 2008, pp. 51-56.

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Luciana De Rose

“Isole di Pietra”. Città, mura e strade nella Calabria antica.

Introduzione Blocchi di granito scolpiti e assemblati con perizia, a formare cinte muraria a protezione delle poleis; mattoni squadrati nel tufo dorato che compongono gli imponenti templi e colonne, basole di pietra levigata dal passaggio di uomini, bestie e carri, nelle “strade a schiena d’asino” tipiche della maestria romana, sono chiari esempi del modo di rendere piacevole l’architettura e di raggiungere le “isole di pietra” della Calabria antica. Cave a cielo aperto e miniere, montagne ferite o scavate, passaggi incuneati tra le rocce, sono testimonianza di un’operosa attività edilizia che, pur adoperando a volte schiavi o soldati, aveva dato vita a un indotto economico di notevole entità e creato corporazioni di maestranze specializzate1. La Calabria antica era una regione a scontata vocazione rurale, rinomata per la fecondità e la qualità della produzione agricola. Verso questa penisola i Greci, nell’VIII secolo a.C., veleggiarono in cerca di terre e di fortuna. Trovarono ambedue: l’Italia meridionale era una regione fertile e ricca di terra nera, di acque abbondanti, dolci e salate, di pascoli per le mandrie e di foreste per la caccia. Il clima era clemente, adatto alle coltivazioni, apportatrici di orti rigogliosi e alberi carichi di frutti, perciò fu un asilo generoso per i nuovi giunti, che diedero alla nuova patria il nome di Megàle Hellàs, Magna Graecia. Le colonie greche fondate in Calabria, le prime poleis della Calabria magno greca sulla costa ionica, Sibari, Crotone, Caulonia, Locri e Reggio diventarono città opime, ammirate ma più spesso invidiate, di volta in volta ambite da potenze concorrenti, furono dimora di ricchezza, cultura, giurisprudenza, arte, architettura e letteratura. Le conseguenze avrebbero stravolto l’assetto sociale indigeno, creando poleis che gareggiarono in splendore, potenza e traffici commerciali, con la madrepatria. Sibari, Crotone e Locri, sorte sulla parte ionica della penisola calabra, ben presto, per ragioni di sfogo ed esigenze di nuove terre, fondarono sub-colonie sul litorale opposto, a occidente, in punti strategici per gli approdi e per le attività mercantili, raggiungibili facilmente, evitando il periplo della penisola, da vie istmiche. In Calabria Laos e Skydros furono le filiazioni di Sibari; Temesa, Terina e Hipponion rientrarono sotto il controllo di Crotone; Medma e Metauro di quello Locrese. In alcuni casi si trattò di vera e propria fondazione, in altri vi esisteva già una comunità indigena.

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Città e mura L’opulenza delle colonie greche della Calabria era nota nel panorama del Mediterraneo antico, e la “ricchezza” si traduceva in un benessere, sovente sconfinante nel lusso, nell’eccesso. “Eccessivo” sembra essere l’attributo dominante delle colonie italiote. La sovrabbondanza si manifestava in tutte le forme: prosperità, cultura, arte, architettura, salute. Un detto molto noto narrava che l’ultimo degli atleti crotoniati fosse il primo della Grecia, leggendaria era l’opulenza di Sibari e numerosi gli aneddoti raccontati da logografi e mitografi un po’ troppo di parte sulle “mollezze” dei suoi abitanti2. Il compito dei miti è quello travalicare i tempi e Victor Hugo, nel descrivere la metropoli francese de Les Misérables (1862), scrisse: Parigi è sinonimo di Cosmos. Parigi è Atene, Roma, Sibari, Gerusalemme… (III, 1, 10), accostando così la città calabrese a grandi capitali del passato e del suo presente. A proposito dell’eccessiva raffinatezza che rappresentò, per la cittadina calabrese l’inizio del declino, lo scrittore francese, lamentando il comportamento dei parigini, portò nuovamente ad esempio la polis ionica: … un popolo civilizzato deve restare un popolo maschio… non Sibari… in materia di civiltà non si deve essere troppo raffinati… (V, 1, 20); e sulla famosissima oziosità attribuita ai sibariti dichiarò: A Parigi anche i netturbini sono sibariti (III, 4, 4)3. Inevitabile conseguenza delle prosperità furono la gelosia, i conflitti, le distruzioni. Altrettanto celebri furono le lotte intestine: Locri contro Crotone, Sibari contro Siri, Crotone contro Sibari. Già all’epoca della fondazione nacquero i primi dissidi. Il famoso episodio di Miscello da Ripe a Crotone ne è un esempio. Miscello da Ripe, novello ecista, sbarcando a Sibari, già prospera e felice, avrebbe voluto stabilirsi là, dimenticando Crotone. L’oracolo di Delfi richiamò all’ordine l’invidioso Miscello, obbligandolo ad attenersi alle indicazioni divine, e il celebre gobbo andò a fondare la colonia che avrebbe in seguito distrutto l’odiata Sibari. Sibari fu sconfitta nel 510 da Crotone, il sito fu sommerso dalle acque del Crati, deviate a tale scopo4, al fine di cancellare per sempre una delle poleis più fiorenti del passato. La sua distruzione costituì una grave contumelia alla bellezza e all’architettura magno-greca. Il cuore della città era costituito dall’imponente tempio di Era. Le poleis, costituite da templi, edifici, strade, mura, erano edificate, al di là delle determinazioni ipoodamee, con la pietra locale. I massi granitici dell’altopiano della Sila, le dolomie della catena del Pollino, gli affioramenti di calcarenite nella piana di Sibari, ancora graniti provenienti dal massiccio delle Serre, marmi dall’Aspromonte, formazioni magmatiche presenti un po’ dovunque, compreso l’Appennino costiero5, hanno costituito l’impalcatura solida e cromatica dell’architettura magno-greca. Città vicine potevano essere contraddistinte da tonalità molto differenti: si pensi ad esempio al bianco abbacinante di Siracusa e Selinunte e alla calda pietra tufacea dorata che caratterizza la valle dei templi di Agrigento. Gradazioni di grigio dovevano modulare i blocchi agglomerati dei nove kilometri di cinta muraria che la tradizione delle fonti voleva proteggesse la prima Sibari e che resistettero per ben settanta giorni prima di capitolare sotto l’assedio dei Crotoniati. Nel VI secolo a.C. Sibari era all’apice del suo splendore, estesa per cinquanta stadi6, con una popolazione di oltre 100.000 abitanti7. La polis poté reggere a lungo, perché poteva approvvigionarsi dall’interno e per la sua 47


posizione strategica, essendo stata costruita tra due fiumi, in una “mesopotamìa”, ossia il Crati e il Sibari (odierno Coscile). Come la seconda, anche la Sibaria arcaica, quella fondata nell’VIII secolo a.C., verosimilmente aveva lo zoccolo con un basamento di ciottoli di fiume accostati a secco. La medesima piattaforma qualificava l’area di Stombi, attiva nel VII secolo a.C., quartiere popolare, abitato dagli artigiani, mastri vasai soprattutto, ma si può presumere anche la presenza di operai attivi nel campo edilizio, scalpellini, muratori e costruttori, manovalanza a servizio degli architetti dell’epoca. Le pietre più accessibili della zona provenivano da affioramenti locali e dal vicino Pollino, per la maggioranza doveva trattarsi di dolomie, difficili da lavorare e delle più tenere calcareniti, oltre che, ovviamente, i detriti forniti dalle aree fluviali. L’assemblaggio di ciottoli a secco è utilizzato altresì per la costruzione di muri, ne è esempio un resto della Thurii di V secolo a.C., dove, certamente, sono stati utilizzati anche materiali già tagliati e squadrati in precedenza prima della distruzione crotoniate, per riedificare edifici. Alleata di Annibale, l’antica Thurii conobbe la terribile vendetta romana, e sul suo sito, nel 194 a.C. fu dedotta la colonia romana di Copia. In epoca romana, la città ha vissuto l’apice di slancio edilizio tra il I secolo a.C. e il I d.C., godendo ampiamente di materiale edile già usato in precedenza, in alternanza di ciò che offriva il territorio circostante: ne sono testimonianza le scale laterali del teatro nel Parco del Cavallo in calcare. Di nuova c’è la pavimentazione a mosaico, tipicamente di gusto romano, con le tessere policrome di marmo dell’edificio delle Terme. La fondazione di Crotone è famosa per episodio di Miscello da Ripe a Crotone: si narra che Miscello da Ripe avrebbe preferito stabilire la propria colonia a Sibari, piuttosto che a Crotone: la prima, appena fondata, si era mostrata all’invidioso ecista come già prospera, grazie alla felice ubicazione e alla fertilità del territorio. L’oracolo di Delfi richiamò invece il gobbo di Ripe alla stretta osservanza del volere divino; ed una fonte parallela fornisce addirittura gli estremi della triangolazione topografica verso la quale si doveva indirizzare la rotta8. L’apogeo di Crotone si ebbe, ovviamente, dopo la vittoria su Sibari. La polis accrebbe in gran misura il suo territorio, e i villaggi appartenenti al suo temenos arrivavano sino al cuore della Sila. A livello internazionale, dotata di porto, a differenza di Sibari che utilizzava quello fluviale, ebbe un florido periodo di egemonia sulle rotte commerciali che facevano tappa sulle coste calabresi. Celebre per la sua salubrità (l’ultimo degli atleti crotoniati era il primo dei Greci), la città ebbe sicuramente un impianto urbano grande e ordinato, con strade larghe intorno ai cinque metri. Tito Livio ci fornisce le dimensioni del perimetro cittadino ammontante a circa diciotto chilometri. La cinta muraria, cui tratti ascrivibili al IV secolo sono stati scavati sulla collina di Santa Lucia, era stata realizzata in grossi blocchi di arenaria. La pietra prevalente nel caso di Crotone è la calcarenite. Anche in questo caso le fonti sono reticenti riguardo le attività edilizie. La capacità tecnica degli ingegneri Greci è testimoniata dal celebre tetto dalle tegole in marmo del tempio di Era Lacinia. Divelti dalla furia Romana, i coppi erano destinati ad abbellire un tempio a Roma, ma nonostante le grandi capacità edilizie romane, nessuno fu in grado di “rimontare” il tetto. 48


Secondo la tradizione riferita da Strabone, Locri fu fondata poco dopo Crotone, con assetto urbanistico ordinato secondo la razionalità greca. Gli edifici templari e i relativi culti erano rinomati per tutto l’ecumene. Nel secolo delle grandi battaglie Crotone combatté anche contro Locri, e il VI secolo a.C. conobbe il lato più deteriore delle lotte intestine. La sconfitta di Crotone segnò un periodo di monopolio Locrese e di fervore edilizio, nonostante l’assetto demografico non raggiunse mai i livelli della rivale. Infatti un secolo dopo la polis fu preda delle mire espansionistiche di Reghion, per fortuna evitate dall’intervento diplomatico di Gerone di Siracusa. Dopo l’intervento di Pirro Locri divenne socia navaliis romana, pur mantenendo una sua indipendenza e continuando a coniare monete proprie. Alla fine del terzo secolo, la presenza di Annibale costrinse i Locresi a mutare alleanza. La polis tentò di rifugiarsi entro le possenti mura di protezione, per resistere all’assedio, ma Annone inviò la cavalleria e i Locresi capitolarono in quanto la velocità dell’azione aveva portato ai Cartaginesi un ingente numero di prigionieri: si trattava di quelle persone che fuori dalle mura cercavano di recuperare risorse alimentari per l’imminente isolamento. I captivi furono utilizzati come merce di scambio per garantire il sodalizio locrese-cartaginese. I riluttanti abitanti riuscirono però a salvare i membri del presidio romano, che si rifugiarono a Reghion9. L’avversione per i Punici si risolse quando i Locresi, stanchi dei soprusi subiti, affiancarono i Romani proprio contro Annibale10. Nonostante tutto anche Locri subì la violenza della vendetta Romana. I blocchi granitici prevalgono nell’antico sito degli “artigiani” di Centocamere, quartiere di Locri Epizephirii. Qui il corpus delle maestranze era certamente a prevalenza di manifatture ceramiche e laterizi, come dimostra presenza di più fornaci. Ma la sofisticata tecnica edilizia dei resti delle abitazioni, della stoà, della plateia implica la presenza di una alacre lavoro in questo campo. Gli sciti granitici dell’area aspromontana hanno ampiamente fornito la materia prima. Anche la cinta muraria presenta grossi parallelepipedi squadrati in prevalenza granitici.

Le strade Secondo Strabone le attività edilizie tipiche dei Romani e sottovalutate dai Greci erano tre: strade, acquedotti e cloache11. Costruite principalmente per scopi militari, le ampie strade romane, regimentate dalle Leggi delle XII tavole, ebbero anche un indotto politico e commerciale non indifferente. La tendenza era quella di preferire le zone diritte, ma non furono disdegnati tratti ripidi e curvi. Le strade erano destinate a durare nel tempo, e ancora oggi si possono ammirare. La composizione consisteva nello scavo di un fosso che affondava nella terra più o meno cinquanta centimetri, riempita di strati di terra battuta, pietrisco e sabbia, amalgamati dalla calce. Raggiunto il livello della strada e creato un leggero rialzo, la cosiddetta “schiena d’asino” che consentiva il refluire delle acque piovane ai lati, si creava il rivestimento che grandi lastroni di basalto o di calcare, perfettamente assemblati e incastrati, con le fughe riempite di pietre, brecciolino e sabbia compattata. Anche l’utilizzo del pietrisco nei profondi avvallamenti posti a fondamento delle strade aveva il compito di far filtrare l’acqua e impedire 49


l’agglomerarsi della scivolosa fanghiglia. L’ampiezza delle strade era determinata dal passaggio in contemporanea di due carri, pertanto andavano dai quattro ai sei metri (otto piedi). Dalla via Popilia a strade di collegamento, è possibile a tutt’oggi vedere resti di queste antiche carreggiate in tutta la Calabria. A Sibari è possibile ammirare la strada che pur essendo ampia i canonici otto piedi, si restringe a tre metri e mezzo circa, all’altezza della porta d’ingresso della città, per consentire il controllo nel far passare un solo carro la volta. Sulle basole sono visibili i solchi lasciati dai carri.

Conclusioni Molto delle antiche poleis calabresi è andato perduto, non solo per il tempo, l’incuria e le incursioni di età medievale, ma soprattutto per le esigenze difensive, cui erano sottoposti gli abitanti delle coste dopo la caduta dell’ordine Romano. Cave a cielo aperto erano i templi pagani, i teatri, gli edifici civili. Gran parte dei blocchi già pronti per l’uso sono stati utilizzati per alzare mura, per edificare chiese, senza l’onere di trasporti, di maestri scalpellini, con il conseguente risparmio di tempo, di fatica, e di costi.

Note 1  Per questo breve intervento voglio ringraziare l’amica e archeologa Maria D’Andrea e l’amica e geologa Giuseppina (Pina) Adriani, per avermi “illuminato” la strada. 2  Sugli episodi relativi a Sibari cfr. J.S. Callaway, Sybaris, Baltimore 1950, pp. 106-117; C. Ampolo, La città dell’eccesso: per la storia di Sibari fino al 510 a.C., in Sibari e la Sibaritide, «Atti XXXII CSMG [Taranto-Sibari 1992]», Taranto 1993, pp. 213-254; F. Liguori, Grecia e Magna Grecia. Il cammino degli dèi, a cura di M. Tucci, Cosenza 2001, passim. 3  Cfr. L. De Rose, La civiltà della Magna Grecia in Calabria: insediamenti, storia e cultura, fino alla conquista romana, in Tra storia e letteratura. Atti del Primo Decennio (1993-2003) del Premio “Galeazzo di Tarsia”, a cura di F. Cozzetto, editoriale progetto 2000, Cosenza 2004, pp. 291-309; L. De Rose, Miti oracoli e miracoli a Cosenza, Pandosia e Sibari, in Indagini e studi su Cosenza e la Calabria, a cura di Tobia Cornacchioli, Amm.ne Com.le di Cosenza 1997 [Cosenza 2001], pp. 131-160; 4  Strabone, VI, 1, 16. 5  Cfr. G. Lena, Costituzione geologica e clima, in Foreste di Calabria, Regione Calabria 2003, pp. 64-81. 6  Cinquecento ettari circa. Ps.-Scymn., 340; Strab., VI, 253. 7  Aumentati anche a 300.000 secondo Diodoro, o forse da interpretare complessivamente se si considera l’estensione del temenos a 25 città. 8  P. G. Guzzo, L’archeologia…, cit., p. 145. 9  Livio, XXIV, 7, 1-15. 10   Livio, XXIX, 6, 17. 11   V, 3, 8.

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Mariarosaria Salerno

“Facere et portare petra”: l’economia della pietra nella Calabria medievale

Costruzione di una cattedrale (sec. XIV)

Uno sguardo ai castelli medievali, alle loro strutture imponenti, ai monasteri e alle chiese, con i loro portali arricchiti da statue, le sculture sul timpano soprastante, i capitelli rendono lo spettatore di oggi stupefatto dinnanzi a opere di mani umane, appartenenti ad un’epoca che conobbe capacità di rinnovamento diffusa sin nelle masse degli artigiani, nella quale, come ha detto Marc Bloch, si deve riconoscere una delle fonti della grandezza europea1. L’attività umana plasmatrice e modellatrice dei luoghi, attraverso insediamenti laici e religiosi, passa dall’uso della pietra, con delle connotazioni diverse dall’alto medioevo al basso medioevo quanto a modalità lavorative: dall’attività artigiana limitata all’essenziale, svolta nelle campagne per le esigenze della comunità, in cui monaci e laici si adattavano a fare un po’ di tutto, alla specializzazione del lavoro dell’economia bassomedievale, con la diversificazione delle mansioni svolte. Alcune modalità e ruoli sono esemplificati nel Chronicon dell’abbazia di Montecassino, laddove si parla della ri-fondazione del cenobio avvenuta alla metà dell’XI secolo ad opera del famoso abate Desiderio. Il testo mostra un abate che conduce in prima persona tutte le operazioni di forte impatto sui luoghi: lui progetta, sbanca le montagne, taglia la roccia; quando la natura è stata domata, il suo ruolo cambia, e passa alla scelta delle maestranze. L’abate è il vero artefice di tale processo, un ruolo che nel pieno medioevo sarà affidato agli architetti2. Uno dei momenti “cruciali” della fondazione dei monasteri è rappresentato dal reperimento del materiale e dalle difficoltà connesse, che richiedono l’“intervento divino” e rientrano nelle narrazioni dei miracoli riguardanti tali eventi: anche questo compito, ora svolto dall’abate, solo nel pieno medioevo sarà delegato agli architetti3. Scelta del materiale, reperimento, sono tra gli aspetti riconducibili all’ “economia della pietra”, un ambito piuttosto difficile da cogliere nelle sue varie sfumature per quanto attiene alla Calabria medievale, stante le fonti disponibili: si proveranno pertanto a fornire alcune “coordinate”, necessariamente corredate da supposizioni.

I giacimenti, l’estrazione, il trasporto del materiale lapideo Materiale di recupero o pietre da trovare in loco, in età altomedievale si preferiva utilizzare pietre tenere, anche quando i materiali più vicini erano di migliore qualità, l’uso di pietra locale sembra prevalere nei casi in cui meno agevole doveva essere il trasporto di materiale diverso4. 51


Miniatura, Bibbia delle Crociate, sec. XIII

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Le cave di estrazione potevano essere di diverso tipo: quando i giacimenti affioravano sui rilievi l’estrazione a cielo aperto determinava l’apertura di cave cosiddette “ad anfiteatro” (a gradoni); le cave “a galleria”, per estrarre materiali pregiati che affioravano poco all’esterno; “a fossa”, nelle zone pianeggianti; “a pozzo”, per giacimenti individuati in profondità. Riferimenti alle cave di tufo, o di pietra, talvolta soltanto menzionati come toponimi, si riscontrano in qualche atto di donazione o testamento in greco del XII secolo, attinenti alla zona della Calabria ionica5. La prassi della Tallata infra Fossam, cava a galleria, uso che dà il nome ad una località nell’area del Pollino occidentale, è testimoniata in un altro documento greco6. Nelle indagini storico-geografiche sulla Calabria inaugurate nel XVI secolo da Gabriele Barrio7 e proseguite da Girolamo Marafioti8, è segnalata la presenza di particolari pietre nelle località della Calabria, non soltanto utilizzate nell’attività edilizia e ornamentale. Limitandosi alla parte centro-settentrionale della regione, si ritrova il lapis phrygius, una pietra utilizzata anche dai tintori che si trovava a Cirella, San Donato di Ninea sul Monte della Mula, a Bocchigliero, nei casali di Martirano, nei dintorni di Fuscaldo, nella zona di Malvito, a Sant’Agata d’Esaro, Morano e monte Pollino, Verbicaro, Scalea9. La pietra per mole olearie e frumentarie si cavava a Scalea, ad Orsomarso, San Marco Argentano, Regina, Montalto Uffugo, Paola, Bocchigliero, Scala Coeli, Campana, Cariati10. Le pietre ad uso dei fabbri e carpentieri, per affilare “ferri” in acqua o olio (cos aquaria et olearia) si trovavano a Bocchigliero, Scala Coeli, Campana e Marafioti aggiunge Calopezzati, dove erano “niente minori a quelle, che vengono da Genova” e a Crucoli, nel territorio tra Rende e San Fili, a San Lucido, a Regina, anche qui definite “perfettissime”, nella zona di San Donato di Ninea11. La selce (bianca o nera) è segnalata a Cirella, San Marco Argentano, Regina, Mendicino, Bocchigliero, Campana, tra Rende e San Fili, San Lucido, San Donato di Ninea, Verbicaro12. A Bocchigliero gagates lapis optimum, pietra nera ornamentale13. Pietre più pregiate, come l’alabastrite si estraevano a Saracena, Regina, Montalto, ma anche nel territorio di Umbriatico, insieme al “gesso marmoroso”, e Cerenzia; il marmo tra Celico e Spezzano, ad Aiello, insieme al “gesso marmoroso”, a Belmonte; la serpentina a Sant’Agata d’Esaro e a Belvedere, la stessa molto nota nelle Serre calabresi, in particolare a Serra San Bruno, dove gli scalpellini la chiamavano granitum; il lapis specularis, un tipo di gesso pregiato e facile da lavorare, nei territori di Saracena e Altilia; tra i monti di San Donato di Ninea e Altomonte il cristallo nobilissimo e perfettissimo; generico gesso si cavava a San Lucido, nei dintorni di Cetraro, nelle zone di Malvito, Altomonte, Orsomarso e Cropalati14. Delle pietre bianche, delle quali gli Cittadini fabricano le case il Marafioti segnala a Verzino15. Altro potrebbe derivare da un’analisi puntuale della documentazione notarile, comparata con la toponomastica locale: un esempio è relativo al territorio di Laurignano, lungo il versante del crinale che degrada verso il torrente Jassa, dove la presenza di cave per l’estrazione della pietra è documentata almeno dal XVI secolo, in particolare la “cava di S. Maria”16. Nello stesso contesto anche il toponimo Minera, che si riferisce probabilmente ad una delle cave di pietra presenti sul territorio, è attestato in un atto cinquecentesco17. Anche il toponimo popolare Parrèra (‘cava di pietra’, forse di derivazione francese) è riferito alle numerose


Miniatura sec. XI (da un codice di Rabano Mauro)

cave di pietra di tufo rosata e bianca presenti sul versante dello Jassa, e nella zona di Altilia, ma non si è certi quando il termine sia entrato nell’uso dialettale. Nella zona di S. Mango d’Aquino, in un’area interessata da mineralizzazioni a rame e ferro, ancora oggi è presente una cava aperta per la coltivazione della serpentina verde, pietra ampiamente utilizzata sia per scopi ornamentali che come materiale da costruzione e selciati. Tale pietra, largamente attestata a Nicastro, Platania, lungo il Savuto e al Monte Reventino, ha caratterizzato buona parte dell’edilizia storica di questo territorio sia per opere civili che difensive come nel caso del Castello Normanno-svevo di Nicastro18. La situazione osservata nelle regione nella seconda metà del Settecento farà dire a Giuseppe Maria Galanti, che nella Calabria gli appennini racchiudono un granito, non inferiore in bellezza all’orientale. … Generalmente nelle province si fabbrica colla pietra calcarea, e vi sono cave copiose di gesso19. I tipi di estrazione tradizionale erano due: si faceva franare una porzione di parete rocciosa per eliminare cercando di non distruggere i frammenti detritici e i grandi blocchi lapidei, oppure il distacco controllato, a mano, che si effettuava soprattutto sulla roccia tenera come il tufo o il travertino, ma anche su roccia dura o semidura come l’ardesia, calcari e marmi. Si preparavano due piani ortogonali che formavano le due facce del blocco da staccare mentre poi si procedeva con l’uso del piccone a punta o con la mazzetta o scalpello. Il taglio orizzontale si eseguiva sostenendo il blocco in punta con i ceppi di legno e forzando con cunei per favorirne il distacco. Questo avveniva per ribaltamento o per varata. Gli strumenti per la lavorazione delle pietre, spesso ritratti nell’iconografia medievale, erano di diverso tipo: mazze, mazzuolo di ferro dolce per scalpellare, maglio, martelli a due punte, mazza a testa concava per squadrare, testa per sbozzare gli spigoli, martello a taglio dritto per le pietre tenere, martello a taglio dentellato per pietre più dure, martello a taglio misto, martellina, bocciarda a testa piana, bocciarda a testa convessa. Accanto a questi vi erano gli strumenti per affinare la lavorazione, come la subbia a punta fine o grossa, lo scalpello, scalpelli a taglio stretto e largo, calcagnolo, gradina, ugnetto, gorbia o ferro tondo per conferire alla superficie a vista un aspetto gradevole e realizzare paramenti in assetto regolare e piani di contatto più possibile levigati. Nei manuali di fabbrica del periodo aragonese, risulta documentato anche in Calabria l’uso di zapponj e zappe con li qualj se cavano li fossi e pale immanicate con marugij, mentre si evidenzia l’approvvigionamento di sportj per riporre savurra (pietrisco). Oltre alle sporte, altri strumenti usati per il trasporto della terra e delle pietre grosse erano lj bayardi, sorta di barelle di legno condotte da una coppia di lavoratori. Impiego simile avevano le casse con li qualj se carriya la calce arena et savorra alla fabrica, analoghe alle moderne carriole20. Taglatori seu perratori erano equipaggiati con cugnj (cunei) fatti con il legno di leccio, con macze de ligno immanicate da maruchj che servivano per macziyare li cugnj. Il distacco del materiale si realizzava versando acqua sopra i cunei di legno che, dilatandosi, provocavano la frattura. Un distacco che era favorito dai lavoratori agendo con levj de castagni. Per rimuovere il materiale cavato venivano utilizzate sportj o carrectj. Per demolire si evidenzia l’uso di maczi grandi de ferro necessarj per rumpere le petre. Di ferro erano macze de petra, spinnolj de rumpere petra, landj de rumpere petra, czappuni e picunj21. Le pietre, dopo essere state estratte e ridotte alle dimensioni richieste, venivano trasportate sui carri dalle cave ai cantieri, dove spesso erano rifinite, con 53


faticoso lavoro manuale. Il trasporto costituiva una delle voci di bilancio più consistenti e veniva ovviamente privilegiato, quando possibile, il trasporto per vie d’acqua. Per realizzare edifici di una certa imponenza era assolutamente necessario fare attenzione al tipo di pietra utilizzato che non doveva essere né troppo duro –avrebbe offerto difficoltà di lavorazione allo sbozzo e avrebbe rischiato di rompersi- né troppo morbido – si sarebbe sbriciolato- e per questo uno dei materiali privilegiati era proprio quello che comunemente si definisce calcare.

L’organizzazione del lavoro e le maestranze

Miniatura, Bibbia delle Crociate, sec. XIII

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Ci sorprende pensare a quegli artisti mirabili che hanno creato nella pietra meravigliose figure. Lo scalpellino aggrediva la pietra già scavata nella cava e sbozzava i massi tenendoli sdraiati orizzontali al terreno. Per la maggior parte degli scultori il nome resta ignoto. Sembra d’altronde che tali artisti non abbiano ricevuto una particolare formazione e non si siano molto distinti, in generale, dal grande gruppo di coloro che tagliavano la pietra: a partire da quelli che la estraevano dalle cave fino a quelli che davano forma alle opere. A partire dal tardo medioevo i ruoli iniziarono a distinguersi22. Nel Mezzogiorno, stante la scarsa diversificazione sociale, erano spesso i contadini ad avere l’onere di riparare case, raccogliere legna per le calcare e le costruzioni etc.; anche i monaci dovevano lavorare attivamente nei cantieri, insieme a lavoratori occasionali. Al lavoro nelle cave, saltuario, si dedicavano principalmente gli agricoltori nei periodi di minor lavoro nei campi, affiancati da muratori e scalpellini temporaneamente disoccupati per la chiusura invernale dei cantieri23. D’altra parte la monarchia normanna e quella sveva si erano opposte alla formazione di associazioni di artigiani e mercanti, come emerge dall’Edictum contra communia civium et societates artificum di Federico II e dalla costituzione Magistros mechanicorum artium con la quale il sovrano svevo precisò i doveri, ma non i diritti, degli artigiani24. Per la Calabria medievale si hanno poche testimonianze di magistri locali e alcune fonti attestano il ricorso a maestranze straniere, in particolare per lavori di una certa importanza. Per l’età bizantina, negli Additamenta alla Vita dei SS. Alfio, Filadelfio e Cirino si attesta che architetti e capimastri siriaci venivano abitualmente in Calabria e Sicilia per costruire chiese25. Alcuni edifici sacri, come San Marco di Rossano, la cattedrale vecchia di Santa Severina e la ex cattedrale di Umbriatico presenterebbero, nelle loro strutture architettoniche, caratteristiche che farebbero pensare a maestri forestieri più esperti ai quali fu affidata la realizzazione delle opere. Il reimpiego è presente in S. Maria del Patir (XII sec.), ma anche l’uso di elementi, oltre che la prestigiosa conca battesimale che recano segni di influenze – e molto probabilmente di mani – forestiere. Nel S. Adriano a San Demetrio Corone (fine XI sec.) una conca, fontana o fonte battesimale, potrebbe essere invece assegnata a botteghe locali26. Le fonti greche fanno riferimento a coloro che nella cava lavoravano, attraverso l’indicazione locativa Lithocopum (antico greco “tagliapietre”) riferibile all’area di Oppido e all’anno 1188, e a forme contaminate da influssi arabi, atte ad indicare scalpellini e tagliapietre (metà dell’XI sec.)27.


Il normanno Ruggero I, a dire del cronista Goffredo Malaterra, affidò la realizzazione del suo programma edilizio in Calabria e Sicilia ad artifices scelti e condotti dall’esterno28, ma per il resto, religiosi e laici, ci si organizzava localmente. Tra il 1095 e il 1096 Roberto, figlio del Guiscardo, concede all’abate di S. Maria della Matina, in territorio di San Marco Argentano, il diritto di impiantare le calcare, ossia le fornaci per calce, necessarie per i restauri della chiesa29. Nello stesso frangente, nel sud della regione, è menzionato il medesimo termine in greco e più tardi carcara30 (a.1491). Tuttavia i termini indicanti costruzioni con pietre grezze, sabbia e calce, riscontrati raramente nelle fonti di quell’epoca, sarebbero riferimenti superflui, se l’uso della calce fosse stato costante nella costruzione di edifici privati31. Non si può affermare con certezza che nella Calabria normanna l’arte di tagliare la pietra fosse sparita completamente; è tuttavia evidente, a giudicare dalle superstiti architetture, come l’utilizzo della pietra da taglio (conci e blocchi regolari) sia stato spesso limitato alla realizzazione di elementi architettonici specifici (capitelli, finestre, archi etc.) e sia stato invece abbastanza comune il reimpiego di grossi blocchi già a partire dal IV secolo32. La spesso decantata “cura edilizia” di Federico II si tradusse essenzialmente nella costruzione di castelli, attestati dalle fonti, per la cui manutenzione anche i calabresi furono costretti a contribuire pesantemente: gli abitanti di Cosenza rappresentano un esempio riguardo al castello della medesima città, così come gli abitanti di Cutro, Mesoraca, Rocca Bernarda erano tra i territori soggetti a fornire prestazioni per il riparo del castrum di Santa Severina, prassi che continuerà nei secoli a venire33. In effetti nelle Constitutiones non si menzionano muratori, tagliapietre, carpentieri impiegati nell’edilizia. Il motivo è probabilmente quello appena esposto: si trattò per lungo tempo di lavori non svolti a tempo pieno e con scarsa specializzazione, tanto che, in caso di bisogno, ci si rivolgeva ai forestieri. Che in Calabria il ricorso a magistri forestieri fosse piuttosto comune è testimoniato anche dalla politica edilizia di Carlo I d’Angiò che dalla Provenza, dalla Francia, dalla Borgogna faceva venire nel regno boni fabri, carpentatores, magistri lapidum, boni laboratores et ingeniatores34. Saba Malaspina racconta infatti che per costruire all’interno della cattedrale di Cosenza un degno sepolcro per la regina Isabella, moglie di Filippo III l’Ardito, morta nei pressi della città nel 1271 mentre ritornava dalla crociata di Tunisi, venne chiamato un magister francese formatosi nei cantieri di Saint-Denis e di Nôtre Dame, il quale raffigurò la regina e il re inginocchiati ai lati della Madonna col bambino35. Dalla documentazione angioina siamo comunque in grado di ricostruire aspetti importanti dell’organizzazione del lavoro nei cantieri calabresi di edifici pubblici (in particolare castelli), come in quelli dell’intero regno: i responsabili erano i magistri fabricatores accuditi da manipuli, i quali avevano il compito di preparare apparatus calcis, arene, lapidum et aliarum rerum; al taglio delle pietre, invece, erano destinati certos magistros che lavoravano con contratto ad extaleum, con un compenso forfettario. La Regia Curia prevedeva un lavoro continuo da parte di maestri e manovali, con l’ausilio di cursus, tombarelli, carrette et animalia prescripta. Il salario era definito tenendo conto che le giornate lavorative mensili erano fissate in 24, salvo impedimenti meteorologici, in particolare invernali. In quei giorni non veniva corrisposta alcuna paga, così nel caso in cui gli operai si assentassero maliciose vel fraudolenter, e trattenute venivano effettuate per assenze a causa di 55


malattia, per scarso rendimento o disobbedienza. Gli stipendi: ai maestri tarì 2 e grana 5; ai manovali grana 6, agli scalpellini grana 12, ai carrettieri grana 6. Ogni magister era accudito da 3 manovali e doveva produrre ogni giorno cannamunam muri, mesurandam per quatratum. In un cantiere per una fabbrica di un castello di medie dimensioni si trovavano 21 magistri; 63 manipuli, 15 incisores lapidum, 6 receptores lapidum e una cinquantina di asini adibiti al trasporto dei materiali con una dozzina di carrettieri36. In età aragonese, quando la documentazione si fa più consistente, le notizie relative all’attività edilizia in Calabria da una parte continuano ad evidenziare una manodopera locale costituita da lavoratori generici, come quegli uomini che nel 1491 si recavano a Crotone dalle terre vicine per guadagnare in le fabriche del castello37; dall’altra sembrano comunque di più le maestranze locali abili nel lavoro della pietra, scavo e demolizione, i cosiddetti taglatori seu perratori; la notevole richiesta di pietra e cantoni da parte della Regia Corte fece inoltre aumentare il numero di coloro che furono impegnati nelle forniture. Nel corso dei secc. XV-XVI, il cantiere di lavoro edile divenne una struttura piramidale sempre più gerarchizzata e rigidamente controllata, dove ogni categoria di lavoratori occupava un posto preciso nell’ambito delle mansioni che gli erano riconosciute e del lavoro assegnato. Al vertice di questa piramide vi erano i mastri, depositari del sapere relativo alla loro arte. Ai manipulj che avevano il compito di servire i mastri, spettava, ad esempio, il taglio dei cantoni che seppure, in genere, giungevano dalla cava a misura, in alcuni casi necessitavano di essere tagliati o adattati sul posto38. Per costruire un acquedotto importante come quello di Corigliano vediamo gruppi di muratori, di falegnami, di operai che cuocevano la calce, scavavano arene, venivano talvolta da luoghi lontani qualche decina di chilometri39. Non è facile riscontrare nomi di magistri e architetti locali rilevanti in Calabria. Si conosce, per esempio, il nome di Giovanni Donadio, detto per nascita il Mormanno, ma vissuto quasi sempre a Napoli40. In documenti del XV secolo è la descrizione dell’allestimento delle calcare necessarie per la produzione della calce attraverso la cottura della pietra de calce, sempre presenti intorno alla fabbrica. Le calcare erano di pianta circolare e forma troncoconica, dotate di una volta che separava una camera di combustione detta fundello dalla pietra sovrastante. La realizzazione di una calcara iniziava con lo scavo del terreno, scegliendo il luogo in ragione della sua vicinanza a quello di costruzione, ma anche in base alla sua esposizione ed alle possibilità di approvvigionamento ed evacuazione dei materiali. Quindi si passava a frabbicare lo fondello, provvedendo ad jntonicarse seu investire la calcara utilizzando petra arena et creta. La calcara poteva essere dotata di una o più bocche, attraverso le quali si provvedeva ad alimentare il fuoco, fino a raggiungere la temperatura necessaria per la cottura della pietra. In alcuni casi si menziona l’esistenza di un parapecto de la calcara la cui funzione appare quella di proteggere dal vento la bocca della calcara. La sistemazione della pietra calcarea nella calcara avveniva sotto il controllo dei mastri calcarari da parte dei lavoratori di carcara che provvedevano a inserire la pietra nella sua parte superiore detta lo cappello. In questa maniera si formava un cumulo conico che seguiva la forma della volta e delle pareti della calcara che, alla sua sommità, era chiuso e ricoperto con uno strato di creta. Prima di essere introdotta nella calcara, la pietra calcarea era macziata per ridurne le dimensioni e migliorarne la sistemazione e la cottura. Troviamo così i lavoratori intenti a 56


macziyare savurra e ammacziyare petra per lo cappello dela calcara. Per le operazioni di carico e scarico, i lavoratori utilizzavano zappe e sporte, mentre per alimentare il fuoco usavano i forconi. Sono noti gli acquisti della Regia Corte i termini di fulconj di legno per la calcara, oltre che di tiyilli per immanicare le zappe dela calcara; poi zappi … grandi et grosse per necessario delj calcare fatte di ferro e forcatj de ferro grandi per jnfornare lj dictj calcare. Completato il ciclo di cottura che durava alcuni giorni, in base alle valutazioni del mastro carcararo, che dovevano tener conto delle condizioni del materiale e di quelle di lavoro, il fuoco veniva spento e dopo qualche giorno di raffreddamento, la pietra era scaricata utilizzando li bayardi. In alcuni casi si riferisce esplicitamente lo scarico della calce jn polvere mentre, in altri, si evidenzia una cottura insufficiente che definiva la calcara cruda. Considerato il loro utilizzo continuo, le calcare dovevano essere periodicamente ripulite e costantemente mantenute in efficienza. Nei documenti ricorrono quindi spesso le spese per havere annettato lo fundello de la Calcara, per annettare li carbuni della calcara, per ripulire lo cappello, per lo adconzo delo fundello. Dopo un certo periodo di esercizio esse necessitavano comunque di essere riedificate mentre, in alcuni casi, si interveniva solo parzialmente41. Al di là delle scarne – e per lo più tarde - testimonianze documentarie pervenute e dei resti materiali conservati, ancora molto resta da capire sulle origini e la storia delle scuole di scalpellini presenti in alcune località calabresi, come Rogliano, Altilia, Fuscaldo, San Giovanni in Fiore, che qualcuno vorrebbe – tutte o in parte – di origine bassomedievale.

Note 1  M. Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, ed. it. Roma-Bari, 20044, p. 210. 2  Die Chronik von Montecassino, ed. H. Hoffmann, MGH, Scriptores II, Hannover, 1980, p. 394. 3  F. R. Stasolla, L’organizzazione dei cantieri monastici, in Cantieri e maestranze nell’Italia medievale, Atti del Convegno di Studio (Chieti-San Salvo, 16-18 maggio 2008), Spoleto, 2010, pp. 75-76. 4  G. Coppola, La costruzione nel Medioevo, Avellino, 20062, p. 144. 5  Saint-Jean Théristes (1054-1264), ed. S. G. Mercati, C. Giannelli, A. Guillou, Città del Vaticano, 1972, pp. 80, 214; G. Caracausi, Terminologia dei mestieri, del lavoro e delle professioni nei testi, nelle carte e nelle continuazioni dialettali della Calabria, in Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale: tecniche, organizzazioni, linguaggi, Atti dell’VIII congresso storico calabrese, Soveria Mannelli, 1993, p. 90. 6  F. Trinchera, Syllabus Graecarum membranarum, Napoli, 1865, p. 213. 7  G. Barrio, De Antiquitate et situ Calabriae, Romae, 1571. 8  G. Marafioti, Croniche et antichità di Calabria, Padova, 1601. 9  G. Barrio, cit., pp. 87, 92, 369; G. Marafioti, Croniche, cit., p. 138v precisa che la “pietra frigia (è) spesso da noi ricordata quasi nella maggior parte delle terre di Calabria”, e pp. 200v, 223v, 273r, 277rv, 278r, 279rv, 280r. 10   G. Barrio, cit., pp. 85, 86, 100, 102, 103, 105, 378, 379. 11   Ivi, pp. 378, 379; G. Marafioti, Croniche, cit., pp. 200rv, 201r, 201v, 268v, 273r, 278r. 12   G. Barrio, cit., pp. 87, 100, 102, 127, 378, 379; G. Marafioti, Croniche, cit., pp. 200v, 201r, 268v, 273r, 278r, 279v. 13   G. Barrio, cit., p. 379; G. Marafioti, Croniche, cit., p. 200v. 14   G. Barrio, cit., pp. 89, 95, 102, 103, 125, 126, 142. Su Serra San Bruno anche Marafioti, Croniche, cit., p. 135v e poi pp. 203r, 204r, 251r, 252v, 268v, 273r, 274v, 277rv, 278rv, 280r, 298r. 15   Ivi, p. 203v. 16   Archivio di Stato di Cosenza, notaio Plantedi, anno 1590, scheda n. 49, in A. Scarcello, La devozione mariana a Laurignano (CS) nelle fonti documentarie locali, in I Passionisti a Laurignano – 1° Centenario della presenza dei Missionari Passionisti al Santuario Maria SS. della Catena, 1906 – 2006, Atti del Convegno nazionale di Studi, Laurignano (CS) 16/17/18 Novembre 2006, a cura di A. Sagaria, Paola, 2010, p. 214. 17   Il toponimo risulta attestato in un atto del 4 novembre 1574 rogato dal notaio Giustiniano (de) Aiello). Nel manoscritto è riportata la notizia che il magnifico Bernardino Telesio da Cosenza pagò a Matteo Bunello da Laurignano ducati 26, a saldo del prezzo di un podere in territorio di Laurignano, contrada la Minera, vendutagli a Napoli mesi prima da detto Bunello al prezzo di 60 ducati. Archivio di Stato di Cosenza, notaio de Aiello, anno 1574, scheda n. 125. 18   F.A. Cuteri, Risorse minerarie ed attività metallurgica nella Sila Piccola meridionale e nella Pre-Sila del versante tirrenico. Prime osservazioni, in Tra l’Amato e il Savuto, a cura di G. De Sensi Sestito, vol. II, Soveria Mannelli, 1999, p. 300. 19 G.A. Galanti, Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, vol. 3, Napoli, 1789, p. 255.

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Archivio di Stato di Napoli, Fs. 196, fasc. 2, inc. 1, ff. 23, 35, f. 31v; inc. 2, ff. 11, 26.   Ivi, Fs. 187 II, fasc. 3, f. 150. Fs. 196, fasc. 2, inc. 2, f. 17v; fasc. 6, f. 201v. Fs. 197, fasc. 2, f. 2. 22   R. Pernoud, Una giornata con un tagliatore di pietre del Medioevo, Milano, 1996. 23   G. Coppola, La costruzione nel Medioevo, cit., p. 114. 24   Constitutiones, ed. L. Weiland, in MGH, Leges, IV Hannover, 1896, pp. 191-194; Constitutiones, l. III, tit. 49, in J.-L.-A. Huillard-Breholles, Historia Diplomatica Friderici secundi, t. IV/1, Parigi, 1854, pp. 152-153. 25   Acta Sanctorum Maii,11, p. 548. 26   B. Cappelli, La chiesa di San Pietro presso Papasidero: sec. X. Asceterio dei Marcani, a. 1065, abbazia di S. Pietro de Marcanito, a. 1206, Chiesa di San Pietro de Grasso, Estr. da «Rivista storica calabrese» 4(1983), p. 50; P. Pensabene, Il riuso in Calabria, in F.A. Cuteri (a cura di), I Normanni in finibus Calabriae, Soveria, Mannelli 2003, pp. 88-89. 27   F. Trinchera, Syllabus…, cit., p. 298; A. Guillou, La Théotokos de Hagia-Agathè (Oppido, 1050-1064/1065), Città del Vaticano 1972, p. 128, 136; G. Caracausi, La terminologia…, cit., p. 91. 28   Gaufredi Malaterra De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, ed. E. Pontieri, RIS2, V.1 (1928), p. 77. 29   A. Pratesi, Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Roma 1958, pp. 16-18. La chiesa di S. Maria della Matina non permette molte notazioni sulle tecniche murarie per la mancanza delle strutture più antiche. 30   A. Guillou, Le Brébion de la Métropole byzantine de Règion (vers 1050), Città del Vaticano 1974, p. 141; F. Mosino, Glossario del calabrese antico, Ravenna 1985, sub voce. 31   A. Guillou, Le Brébion…, cit., pp. 521, 530 ; G. Caracausi, La terminologia…, cit., p. 91. 32   F. A. Cuteri, L’attività edilizia nella Calabria normanna. Annotazioni sui materiali e tecniche costruttive, in Idem (a cura di), I Normanni…, cit., p. 106. 33   J.-L.-A. Huillard Breholles, Historia…, cit., V,1, p. 588-9. A. Pratesi, Carte Latine…, cit., pp. 399-403. Alla metà del Cinquecento, durante i lavori di rifacimento del castello e delle mura della città di Crotone, l’università di Mesoraca contribuì ai lavori portando alla “fabrica” quantità prestabilite di materiale da costruzione che, per il quadrimestre luglio-ottobre 1542, assommò a 3.000 tomola di calce “ad ragione de ducatj sidichj lo miglaro” e 25 canne di pietra. Verso la fine del 1542, invece, in relazione ad un accordo stipulato con la Regia Corte, le università convennero di versare a quest’ultima una somma corrispondente al valore dei materiali che avrebbero dovuto consegnare (ASN, Fs. 196, fasc. 6, ff. 49v, 92). 34   M.S. Calò Mariani, L’arte del Duecento in Puglia, Torino, 1984, p. 167. 35   Die Chronik des Saba Malaspina, ed. W. Koller, A. Nitschke, in MGH Scriptores 35, Hannover, 1999, pp. 231-232. 36   P. De Leo, Mestieri, lavoro e professioni nelle fonti documentarie latine, in Mestieri…, cit., pp. 133-135. 37   Codice aragonese, Napoli, 1874, vol. III, p. 36. 38   Archivio di Stato di Napoli, Fs. 197, fasc. 2, f. 176. 39   G.R. Perrimezzi, La vita di S. Francesco di Paola, rist.an. dell’ediz. del 1855, Soveria Mannelli, 1998, pp. 230-231. 40   R. Pane, Giovanni Donadio e Francesco Di Palma, in Storia di Napoli, vol. IV, Napoli, 1974, pp. 409-415; cfr. S. Tramontana, Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale, relazione introduttiva, in Mestieri…, cit., pp. 42-45. 41   Archivio di Stato di Napoli, Fs. 197, fasc. 2, ff. 73v e 77v, 87v, 98, 114, 138, 152v, 193; fasc. 7, f. 172. Fs. 187 II, fasc. 3, f. 140. Fs. 196, fasc. 1, ff. 33v, 36v; fasc. 2, inc. 1, ff. 29v, 30, 31v, inc. 2, f. 19v, inc. 3, f. 1; fasc. 3, ff. 2, 13v; fasc. 4, f. 108; fasc. 5, ff. 79v, 202v, 222v, 280; fasc. 6, f. 229. 20 21

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Anna Cipparrone

Pietra locale e cantieri-scuola nelle testimonianze architettoniche dell’abate Gioacchino da Fiore

Lungi dal tracciare una storia dell’abate Gioacchino e senza pretesa di inserirsi in un dibattito assai ricco di interventi di chiara importanza per la ricostruzione della sua biografia e opera, il contributo aspira ad individuare, in aderenza al tema oggetto della mostra, un aspetto comune a tutte le fondazioni direttamente commissionate da Gioacchino da Fiore e strettamente rispondenti alla sua ideologia monastica: l’utilizzo della pietra e le maestranze locali. Tralasciando i siti di cui purtroppo non si ha traccia e le strutture sorte dopo la morte dell’abate fondatore (1202 circa), le prime abbazie che ospitarono Gioacchino da Fiore in terra natia furono quella della Sambucina, a Luzzi, e l’abbazia di Santa Maria di Corazzo3 entrambi insediamenti cistercensi utili alla comprensione dello stretto rapporto esistente tra l’abate florense e l’Ordine dei cistercensi cui, specie nei primi anni della sua predicazione, Gioacchino da Fiore cercò di aderire in ogni modo. Il 1186 fu una data importante nella storia di Gioacchino dal momento che questi decise di ritirarsi in un luogo più idoneo alle sue meditazioni intensificando la sua aspirazione a condurre un’esistenza più ascetica e ritirata. Fu in una località non bene identificata, denominata Pietra Lata, che egli creò il suo primo insediamento monastico4. Ritenuto un fuggitivo dall’Ordine dei cistercensi si addentrò ulteriormente nei monti della Sila alla ricerca di un ambiente più consono alle sue esigenze: raggiunse la località montana di Fiore, denominata poi Fiore Vetere per distinguerla dal successivo insediamento di San Giovanni in Fiore. Pur continuando a risiedere a Pietra Lata5, dal 1189 Gioacchino da Fiore ed i suoi seguaci intrapresero la costruzione del loro primo, effettivo, insediamento monastico, palesemente rispondente all’ideologia del fondatore sia per quanto riguarda la scelta del sito sia per le caratteristiche architettoniche che si ripeteranno nei successivi edifici (Figg. 1-2). La località in questione, posta a 5 km dall’attuale monastero florense, ben si accordava con le esigenze dell’abate Gioacchino e le notizie documentarie in nostro possesso riferiscono di un privilegio con cui il re Tancredi gli concesse il territorio nel luogo chiamato Fiore (1191). La donazione di Tancredi fu ulteriormente ampliata nel 1194 da Enrico VI che diresse un diploma imperiale a Gioacchino abbas de Flore intitolando al suo monastero una serie di nuove pertinenze territoriali. Le indagini al georadar compiute dagli archeologi hanno riportato in luce brani di architettura originarie sulle quali sono fiorite numerose ipotesi6 (Fig. 3). L’edificio emerso si presenta ad aula absidata e pianta rettangolare, realizzato con una tecnica costruttiva regolare basata sull’uso di conci di grandi di59


mensioni in granito grigio locale spianati e squadrati, disposti su corsi orizzontali (Fig. 4). I muri perimetrali dell’edificio maggiore presentano una tecnica costruttiva meno accurata rispetto all’opera absidata, poiché eretti con bozze irregolari e spezzoni di microgranito (estratto nei pressi della località), messi in opera su corsi irregolari e legati tra loro con una malta alquanto grossolana7.

Fig. 1 Fiore Vetere Sottano, avanzi dell’abside del protomonastero di Fiore, già in P. Lopetrone (1999)

Fig. 2 Fiore Vetere Sottano, avanzi dell’abside semicircolare del protomonastero di Fiore

Una simile differenza di tecnica edilizia ha lasciato ipotizzare che l’abside curva, proprio per le sue caratteristiche edilizie più raffinate ed equilibrate sia successiva alla più rozza costruzione squadrata – di gran lunga più ampia – il che parrebbe accreditato dalle informazioni in nostro possesso circa il rovinoso incendio8 che si abbatté sul neonato insediamento, del quale parlano anche alcune fonti regie. I danni apportati in quella occasione furono talmente gravi che i monaci, dapprima impegnati in un tentativo di reparatio e restauratio (di cui il rimpicciolimento della fabbrica e la nuova terminazione absidale potrebbero costituire un aspetto) decisero di migrare verso un nuovo sito trasferendosi in un monastero creato ex-novo per il quale conservarono l’antica denominazione di Flos (attuale San Giovanni in Fiore). Si trova menzione dei ruderi dell’antica struttura già nel XVIII secolo in una lettera del Principe di Cerenzia in cui vengono descritti brani di fabbrica in pietra lanova e scarpello9. Un elemento richiama la nostra attenzione nella direzione di studio che si sta tentando di delineare: la planimetria (Fig. 5). L’edificio risulta articolato in una navata centrale affiancata, sui lati nord e sud, da due ambienti speculari terminanti con due piccole absidi semicircolari. Inoltre, sia che la costruzione originaria fosse quella absidata sia nel caso Fig. 3 Fiore Vetere Sottano, resti delle mura perimetrali del protomonastero di inverso, le due diverse terminazioni della navata ricalcano progetti ripresi alternativamente nelle costruzioni gioachiFiore, già in P. Lopetrone (1999) mite: la terminazione rettilinea sarà presente in San Giovanni in Fiore mentre quella absidata in Fonte Laurato ed in altri edifici. In entrambi i casi – e questo è il dato più rilevante – la navata è unica e separata nettamente dalle cappelle laterali, speculari l’una all’altra. 60


Nella ricognizione architettonica delle strutture direttamente gioachimite, nostro intento è quello di delineare i materiali, le tecniche costruttive e le maestranze utilizzate dall’abate fondatore per formulare una proposta di lettura secondo cui l’uniformità delle planimetrie gioachimite sia stata determinata proprio dalla presenza di cantieri interni all’Ordine caratterizzati da una precisa gerarchia e parcellizzazione del lavoro (cavatori, squadratori, magister, scalpellini, maestri ecc.)10 assolutamente in grado di trasmettere e rispettare l’ideologia monastica del loro abate fondatore. Uno dei casi più interessanti, seguendo questa lettura rivolta ai materiali e alle maestranze, risulta la fabbrica di Bonoligno. Seppure scarne siano le noFig 4 Conci di pietra locale per: arco del portale, portale, rosone frontale e rosone absidale, tizie documentarie giunte sino a noi, sembra accorgià in P. Lopetrone (1999) data da tutti gli studiosi l’ipotesi che la struttura in questione possa coincidere con i locali dell’odierna cripta della chiesa di San Giovanni in Fiore11 (Fig. 6). Le ricerche condotte sulle strutture semi ipogee della chiesa consentono di ritenere che il vano dell’odierna cripta fosse originariamente più ampio e che, nel corso di rifacimenti, ampliamenti e restauri, furono costruite nuove murature di raddoppio all’interno della struttura muraria fondativa del vano principale. Gli avanzi dei sei mutoli in pietra calcarea sono riconducibili a questa seconda fase ovvero al momento in cui si resero necessari i lavori di irrobustimento della struttura preesistente nel momento in cui la più imponente fabbrica dell’attuale abbazia florense stava per essere costruita (Figg. 7-8-9). Secondo l’ipotesi di Pasquale Lopetrone i locali Fig. 5 Planimetria del protomonastero di Fiore Vetere Sottano, già in P. Lopetrone (1999) dell’attuale cripta erano un tempo quelli dell’oratorio della grancia di Faraclonio (monasterium Bonoligni) la cui fondazione fu immediatamente successiva alla donazione di Enrico VI del 1194. L’ipotesi è concretamente supportata dalle ricerche architettoniche ed archeometriche secondo le quali l’attuale abbazia florense sorge su un’area già occupata da un complesso monastico di epoca precedente, senza dubbio di dimensioni più ridotte. L’ipotesi è ulteriormente accreditata dagli studi sul toponimo Faraclonio12. Il fatto che la grangia di Bonoligno sia scomparsa o, stando alla suddetta ipotesi, sia stata inglobata nell’attuale archicenobio florense, non consente di effettuare campagne di scavo tuttavia, come nel sito di Jure Vetere, anche per la grancia risaltano la tipologia isolata del luogo scelto per la sua edificazione e la planimetria, che presenta uno schema compositivo improntato sulla netta separazione degli ambienti interni. Il vano principale è infatti visibilmente separato da quello secondario tramite un corridoio di accesso e anche all’interno del vano più grande gli spazi sembrano essere più o meno nettamente distin61


ti. Il che lascia supporre che questa fondazione fu anch’essa voluta dall’abate Gioacchino e che sia informata della sua ideologia, nonostante fu modificata in seguito dai successori. Gioacchino, prima che finisse il millennio, vantava un monastero madre e tre importanti filiazioni dipendenti, ciascuna caratterizzata da una serie di pertinenze territoriali, da seguaci, donazioni in grano ed esenzioni fiscali. Le pertinenze che di volta in volta arricchivano la casa madre dell’Ordine florense (che fu fondato nel 1196 con una bolla di Papa Celestino III) erano infatti in continua espansione; ad esempio, nel 1195, le dipendenze del monastero di Jure Vetere annoveravano i territori – con le rispettive grance – di Abate Marco, Bonoligno e TassitaFig 6. San Giovanni in Fiore, Archicenobio florense. Planimetria della attuale cripta, ex no13. Nello stesso tempo Gioacchino aveva incamegrancia di Bonoligno rato anche il monastero italogreco di Calabromaria con le sue relative pertinenze grazie al consenso dei monaci e del vescovo di Santa Severina (Cz) ed inoltre il monastero di Acquaviva in diocesi di Catanzaro. Del Duecento sono le due fondazioni florensi di Fontelaurato a Fiumefreddo Bruzio e di San Martino di Canale, in località Pietrafitta.

Fig. 7 San Giovanni in Fiore, Archicenobio florense. Vano principale della attuale cripta

Fig. 8 San Giovanni in Fiore, Archicenobio florense. Vano principale della attuale cripta, particolare del mutolo centrale 62


La fondazione dell’abbazia di Fontelaurato risale al 1201, data in cui Simone di Mamistra – feudatario di Fiumefreddo e potente giustiziere della Valle del Crati – donò a Gioacchino l’antico cenobio basiliano di Santa Domenica con i possedimenti circostanti14. Il complesso abbaziale sorge al termine di una valle stretta e difficilmente accessibile situata ai piedi del monte Pietraferuggia e, una volta ceduto all’abate florense, esso raggiunse un elevato splendore divenendo una delle più potenti case dell’Ordine. Tuttavia, già nel XIV secolo, si denunciarono i primi segni di decadenza che toccarono il culmine nel 1496 quando Papa Alessandro VI nominò, quale abate commendatario, un ragazzo di dieci anni15. Tra il XVI ed il XVII secolo il monastero dovette subire diversi interventi e manomissioni che non consentono oggi di analizzarlo nelle sue strutture originarie; inoltre, nel 1815, i ruderi dell’abbazia già soppressa dai francesi furono venduti alla famiglia Mazzarone (Figg. 10-11). Nella chiesa persiste la forma planimetrica ad unica navata con terminazione absidata. La vasta e semplice spazialità interna crea il senso di un’unica aula definita, sui lati, dalle pareti della navata principale ciascuna delle quali ospita quattro finestre a sesto acuto strombate (Fig. 12). Anche in questo caso le pareti laterali giungono senza soluzione di continuità fino alla zona absidale confermando la caratteristica del transetto chiuso: in effetti le cappelle laterali che formano i bracci del transetto, comunicano con il presbiterio tramite piccole porte. L’interno della chiesa assume conseguentemente un andamento a sala già riscontrato in altre strutture gioachimite; esso mostra come gli architetti Fig. 9 San Giovanni in Fiore, Archicenobio florense. Vano principale della attuale cripta, utilizzati dall’abate abbiano sostanzialmente seguito particolare del mutolo della parete orientale un’idea unitaria giungendo, di volta in volta, a soluzioni originali. Circa la piccola fondazione di San Martino di Canale L. Janauschek dice: San Martinus de Canale non abbatia sed grancia Florensis fuit, supra Petram Fictam (ubi nonnullum monasterium existit) in Episcopato Cosentino sita16. Alquanto ridotte sono le informazioni su questo insediamento la cui presenza è stata indicata in una impervia località presso Pietrafitta17 denominata Canale (Fig. 13). La grancia di San Martino di Canale mostra la perfetta aderenza alla tipica distribuzione planimetrica delle due cappelle affiancanti l’abside nonostante ne sia finora emersa una soltanto; la chiesa presenta infatti una navata unica terminante in un’absidiola semicircolare alla cui sinistra ne è visibile una seconda. Le due fondazioni gioachimite appena menzionate furono avviate sotto la 63


Fig. 10 Fiumefreddo Bruzio, Abbazia di Fonte Laurato

Fig. 11 Fiumefreddo Bruzio, Abbazia di Fonte Laurato, particolare delle arcate in pietra locale

guida dell’abate ma furono ultimate dopo la sua morte. Il fatto che si tratti di commissioni volute direttamente da Gioacchino spiega la coerenza dello schema planimetrico adottato rispetto alle precedenti strutture analizzate (Iure Vetere e Bonoligno). Esse, fin dalla scelta dei siti e per una serie di caratteristiche strutturali ed organizzative, riflettono le direttive dell’abate di Fiore. È a questo punto opportuno considerare che i florensi, nelle case madri come nelle grance più piccole, operarono un originale cambiamento di impostazione spaziale: alla contrapposizione tra navata e presbiterio dei cistercensi sostituirono una visione continua dello spazio che conferì alle chiese un andamento a sala pur restando su pianta a croce latina18. Lo schema compositivo di Jure Vetere e delle successive fondazioni commissionate da Gioacchino inducono a ritenere possibile la nascita di quello che potrebbe definirsi un plan Gioacchino, al pari del plan Bernardin dei cistercensi19.

Fig. 12 Planimetria dell’abbazia di Fontelaurato, già in P. Lopetrone, Atlante delle Fondazioni florensi 64

Avviandoci alla conclusione ci sembra opportuno ragionare sui fattori che hanno contribuito ad una simile coerenza stilistica tra le commissioni architettoniche volute da Gioacchino da Fiore. Il 1196 Papa Celestino III approvò l’Ordine monastico florense. Precedentemente, specie durante il soggiorno a Casamari, Gioacchino da Fiore aveva tentato di affiliare il suo monastero all’Ordine dei Cistercensi ma, impossibilitato a farlo a causa delle condizioni economiche del monastero di Corazzo, gli erano state riconosciute – in una disposizione del 1188 – le stesse libertà dell’Ordine cistercense ma non la piena


Fig. 13 Planimetria dell’edifico florense in San Martino di Canale, già in P. Lopetrone

ed effettiva appartenenza. Tale disposizione, emanata da Papa Alessandro III consentiva all’abate di non riferirsi a nessuna Regola permettendogli di rispondere soltanto alla Curia Pontificia. Da simili presupposti fu creato l’Ordine monastico florense anche se non ci è pervenuta alcuna notizia ufficiale circa la Regola definita per i suoi monaci. Riguardo le constitutiones florensi, o più precisamente il modus vivendi sul quale l’abate impostò la vita dei suoi seguaci, sono tuttavia utili le notizie tramandateci dalla Vita dell’abate scritta da Luca Campano, le opere di Gioacchino nonché gli elementi architettonici emersi in questa ricognizione e ricorrenti nei cenobi florensi commissionati dal fondatore. Mi meravigliavo – dice il protomagister Luca Campano riferendosi all’epoca in cui conobbe Gioacchino a Casamari – poi che un uomo di tanta fama, dalla parola così efficace, indossasse vestiti tanto logori e dimessi e in parte corrosi alle estremità: seppi poi che per tutto l’arco della sua vita non si curò della qualità dei suoi abiti20. Il carattere dell’abate emerge in altri passi della Vita: (…) trascorreva la notte pregando assiduamente e scrivendo, e tuttavia si affrettava alla recita comunitaria del mattutino, cantando con umiltà e vegliando tanto che non l’ho mai visto addormentarsi nel coro di Casamari. Non si curava affatto della qualità o della scarsità del cibo o della bevanda e in alcuni giorni non saggiava pietanze cucinate a tavola (…). Questi elementi sono utili alla comprensione della personalità di Gioacchino e, soprattutto, dell’irrigidimento che egli attuò sulla vigente Regola cistercense. La Regola florense emerge anche dagli scritti autografi d Gioacchino21; ad esempio, nel Psalterium vengono presentate, in ordine ascendente, le tre principali attività dell’uomo. Nel grado inferiore si colloca il lavoro manuale – mezzo di sostentamento e di salvezza –; ad un livello superiore la dottrina – indispensabile per un’adeguata istruzione –; al vertice è invece posta la preghiera. Agli occhi del mistico di San Giovanni in Fiore nei tre esercizi si riflette l’immagine della Trinità, costantemente presente nelle sue opere e prioritaria nella sua concezione teologica22. Un’altra idealità gioachimita, espressa nel libro Concordia del Vecchio e del Nuovo Testamento, consiste nell’affermazione della povertà quale elemento distintivo degli ecclesiastici. Oltre a queste già note, tuttavia fondamentali, testimonianze relative al modus vivendi di Gioacchino da Fiore, appare interessante che uno degli ambiti in cui tale austera ideologia si manifestò fu proprio l’architettura. Ciò risulta assai più evidente dalla concordanza delle planimetrie, dalla costante scelta dei siti impervi e dall’utilizzo delle risorse locali23. Esse, difatti, mantennero caratteri costanti utili alla comprensione delle esigenze spirituali e degli ideali dell’abate fondatore ma anche dei suoi seguaci24. È evidente che il fondatore dei florensi avesse concepito una nuova religio monastica che accentuava, rispetto alla primitiva Regola di San Benedetto da Norcia e alla successiva riforma di San Bernardo da Chiaravalle, le connotazioni eremitiche, la pratica della vita ascetica, le istanze escatologiche e la propensione alla povertà. Dalla Charta Caritatis Posterior apprendiamo utili notizie sull’ordinamento monastico cistercense da cui l’abate Gioacchino prese le mosse. In essa è sancito che le strutture monastiche siano indipendenti, ciascuna sui iuris, e autosufficienti anche economicamente. Inoltre vi si impone il rispetto e l’osservanza della Regola di San Benedetto ed una esistenza improntata sulla modestia (tradotta in architettura, nelle aule uniche rettilinee con piccolo coro poligonale edificate 65


secondo il principio di un’edilizia povera e dimessa)25. Gli edifici conventuali voluti dai cistercensi furono coerenti soprattutto nella pianta: tre navate, transetto e coro a terminazione rettilinea furono gli elementi costitutivi con la successiva aggiunta delle cappelle terminali che divennero la caratteristica principale degli edifici dell’Ordine. Tale schema fu seguito quasi sempre rigidamente anche grazie all’istituzione dei cantieri-scuola presenti nei vari insediamenti monastici dell’Ordine. Il plan bernardin, come è stato definito lo schema compositivo alla base degli edifici cistercensi, va inteso come un vero e proprio exemplum, come un progetto di città e di vita monastica ideali, in contrapposizione con le città secolari. Le maestranze dovevano di volta in volta riprodurre in architettura i concetti guida delle nuove unità monastiche al fine di realizzare edifici spogliati da qualsiasi elemento che non sia forza statica o fonte di luce e concepiti con chiarezza usando una struttura modulare basata su una modernissima programmazione matematica26. Essa consisteva nell’applicazione di un modulo ad quadratum quale nucleo generatore e unità compositiva dell’intera costruzione, esteso ad informare anche i capitelli, le vetrate e qualunque altro elemento. La cosiddetta pianta-tipo, ripetuta in tutte le chiese dell’Ordine con poche eccezioni, doveva quindi riflettere le funzioni della casa monastica, le sue necessità e le aspirazioni religiose. Non dissimile da questa correlazione Regola-Architettura, ci appare quella vigente per l’edificazione delle case madri e delle grance volute dall’abate Gioacchino. Innanzitutto la scelta dei luoghi divenne scelta tipologica e previde uno stretto legame con l’elemento naturale dell’acqua27. Inoltre, i siti prescelti da Gioacchino colpiscono in quasi tutti i casi per le loro connotazioni impervie ed isolate: zone scoscese o comunque difficilmente raggiungibili, lontananza dai centri abitati e, in alcuni casi, luoghi di natura selvaggia ed incontaminata. Elementi, questi, utili ancora una volta alla comprensione della sua spiritualità eremitica e della sua Regola austera e rigida. Bernardo aveva introdotto l’istituzione dei cosiddetti cantieri-scuola28. destinati alla realizzazione degli edifici monastici costruiti per l’Ordine ma, soprattutto, finalizzati all’insegnamento e alla diffusione di un progetto architettonico unico da utilizzarsi in qualunque circostanza, in qualunque luogo e con tutti i tipi di manovalanza. I cantieri-scuola cistercensi resero il plan bernardin un progetto architettonico ampiamente sfruttato anche perché esso univa la massima facilità e rapidità esecutiva ad un minimo di costo. Inoltre, dato particolarmente importante, i cantieri-scuola formarono monaci-costruttori che vennero impiegati di volta in volta nelle campagne architettoniche, mostrando una intensa e sentita condivisione con l’ideologia del fondatore. L’analisi delle commissioni direttamente gioachimite si arricchisce, adesso, di un ulteriore tassello relativo all’indagine sulle maestranze circolanti all’interno dell’ordine florense che – e neppure questo ci sembra un caso – ebbero in tutti i luoghi di edificazione la possibilità di avvalersi di risorse pietrifere locali (in primis San Giovanni in Fiore e Fiumefreddo Bruzio). Il caso più interessante, ragionando in tale direzione, risulta proprio l’abbazia sangiovannese che, pur nel lunghissimo arco temporale in cui fu edificata e nonostante il susseguirsi di numerose “mani” e maestranze a partire dal 1195 (data di fondazione dell’insediamento 66


di Bonoligno/attuale cripta), vide assicurarsi la coerenza stilistica e la chiara e fedele rispondenza all’ideologia monastica del fondatore (morto già da qualche decennio alla data di conclusione dei lavori), proprio grazie alla continuità dei saperi che le maestranze interne all’Ordine garantirono. Le rispondenze riscontrate nei cantieri gioachimiti sia dal punto di vista tecnico sia da quello propriamente edilizio lasciano quindi supporre la presenza di un capo-maestro appartenente all’Ordine, seguito da scalpellini e lapicidi che ne diffusero il linguaggio proprio come accadeva alle cosiddette Scuole. Le fonti in nostro possesso ci confermano questa possibilità poiché nel 1223 la supervisione dei lavori presso l’abbazia sangiovannese risulta affidata ad un certo frate Giuliano sacerdote e maestro di fabbrica della Chiesa di Fiore29. Sembra verosimile che a quella data i lavori dovettero essere a buon punto se vi fu traslata la salma dell’abate fondatore; inoltre la continuità della costruzione sangiovannese con quelle analizzate fino a questo punto (risalenti al periodo in cui l’abate era ancora in vita) consentono di ritenere che tale Frà Giuliano – che portò a compimento i lavori del complesso florense – avesse iniziato come scalpellino o squadratore proprio all’epoca di Gioacchino, ricevendo direttamente da lui le disposizioni iniziali. Sulla personalità di frate Giuliano non sono state trovate molte notizie anche se la sua formazione sembra essersi effettuata tra l’abbazia di Casamari e i cantieri cistercensi francesi30. In effetti alcuni prototipi tra i quali quelli dei trafori e delle cornici presenti in più d’una costruzione gioachimita, sono certamente di importazione francese e trovano conferma in uno studio comparato dell’archicenobio florense e della casa madre di Fonte Laurato con l’architettura dell’abbazia di Lodéve nella Francia Meridionale31. Sotto di lui doveva verosimilmente essersi costituito un cantiere, con relativa Scuola finalizzata alla promozione e alla diffusione di un linguaggio architettonico e decorativo, nel quale gli artigiani lasciarono i segni del proprio passaggio, rivendicando uno status di maggiore autonomia nel lavoro. Nella cripta di San Giovanni in Fiore, ex fabbrica di Bonoligno, su due conci di pietra granitica lavorata sono evidenti alcune incisioni realizzate a scalpello dal maestro lapicida. Esse ripropongono un motivo figurale riconducibile ad una forma stilizzata di “ombrellino a tre punte”32 (Fig. 14). Lo stesso motivo figurale, sempre inciso su conci di pietra granitica lavorata, è presente su quattro conci lapidei che costituiscono l’arcata di sostegno della scala d’accesso alla cripta ove sono altre quattro incisioni che ripropongono la stilizzazione della lettera “beta” (Figg. 15-16)33. Queste tracce fanno pensare alla presenza di manovali che operarono contemporaneamente o comunque in fasi ravvicinate sulle strutture dell’edificio e che tesero a diversificare ed identificare il loro operato tramite le firme34. La segnatura delle pietre, tra l’altro, ampiamente indagata da Eduardo Bruno, consente di confermare la struttura gerarchica del cantiere e la parcellizzazione del lavoro35. Le affinità esistenti tra la Regola cistercense e quella florense, la comune scelta dei luoghi per l’edificazione delle strutture monastiche, la vicinanza dei modelli architettonici dei due Ordini ed infine l’uso di maestranze interne, consente di ipotizzare che Gioacchino da Fiore, al pari Fig. 14 San Giovanni in Fiore, Archicenobio florense, cripta. Sti- di Bernardo, creò un modulo architettonico florense presente in tutti gli edifici da lui commissionati. Il modello cistercense fu il punto di partenpite destro della finestra, particolare dell’anagramma del lapicida 67


za ma Gioacchino creò un progetto del tutto autonomo che rese la geometria dei suoi edifici un unicum nel panorama architettonico medievale. In essi si fece ricorso agli archetipi dell’architettura romanica e di quella cistercense anche se l’unicità delle chiese gioachimite risiedette essenzialmente nella distribuzione dei diversi ambiti sacrali. Essi, per nulla relazionati tra loro (come invece accadeva nelle chiese cistercensi) erano separati nettamente l’uno dall’altro da possenti muri. Una simile impostazione fu probabilmente la traduzione in architettura delle esigenze spirituali e delle aspettative riguardo il futuro prospettate dall’abate Gioacchino (Fig. 17). La tavola XII del Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore esprime il concetto della Dispositio – o progetto – del nuovo Ordine monastico e si presenta come la pianta della comunità monastica perfetta36. Creata secondo i principali ideali gioachimiti essa fa riferimento alle membra del corpo umano e agli animali e si propone come l’interessante piano di un nuovo Ordine da realizzarsi in attesa che giunga l’età dello Spirito37. Il titolo esatto della tavola è Dispositio novi ordinis pertinens ad tercium statum, ad instar superne Ierusalem e raffigura una croce poggiante su un doppio basamento laddove i bracci della croce ospitano gli edifici monastici mentre i due basamenti spettano al clero ed ai laici. Al centro dell’immagine-pianta domina l’Oratorio della Colomba, simbolo dello Spirito Santo e sede del Padre Spirituale mentre attorno ad essa si dispongono i quattro oratori che corrispondono alle diverse tipologie di vita monastica. Più in basso è posizionato l’oratorio dei sacerdoti e dei chierici che hanno scelto di vivere in comunità e, infine, alla base c’è l’oratorio dei laici che però vivono in casa propria38. È evidente che si tratta della rappresentazione di tre comunità distinte eppure strettamente collegate le quali vivono ciascuna nel proprio ambiente: quella dei monaci, del clero e dei laici. La Tavola della Dispositio, proprio nell’organizza-

Fig. 15 San Giovanni in Fiore, Archicenobio florense, cripta. Arcata della scala con anagramma dei lapicidi, già in P. Lopetrone, Atlante…, cit.

Fig.16 Iscrizioni e segnatura dei conci da parte dei maestri lapicidi nei cantieri florensi, già in P. Lopetrone, Atlante…, cit. 68


re questa convivenza consente di verificare l’ideologia di Gioacchino e la sua convinzione che in un solo Ordine dovessero coesistere coloro i quali si occupano rispettivamente della contemplazione, del lavoro, dello studio e così via. Infatti secondo Gioacchino la Nuova Comunità Monastica non avrebbero dovuto escludere nessuno; anche il clero ed i coniugati devono collaborare – come accade con le membra del corpo umano – alla realizzazione dell’età dello Spirito e della nuova Gerusalemme sulla terra. È chiaro, quindi, il motivo della divisione degli spazi: all’interno del novus ordo, così come nei cenobi e nelle grance florensi, esiste una specifica spartizione dei compiti e delle disposizioni che si riflette nella ricorrente, netta, separazione degli spazi interni alle chiese e chiarisce il senso di isolamento degli oratori posti intorno ai monasteri. La spazialità delle chiese gioachimite parrebbe riproporre – anche se non sono state conferme documentarie al riguardo – lo schema della tavola XII della Dispositio Novi Ordinis ma non si tratta solo di un parallelismo bensì di un modello schematico riferibile alla giusta organizzazione e pianificazione della retta società cristiana. È per questa ragione che la tavola XII del Liber va letta sotto diversi punti di vista: come esempio di architettura monastica, come piano di sistemazione urbanistica, come soluzione dei problemi di lavoro e come realizzazione della nuova città degli angeli39. Lo spirito di attesa che anima Gioacchino e i suoi seguaci è stato infatti rintracciato anche nella pianificazione territoriale di alcune Fig. 17 Gioacchino da Fiore, Liber Figurarum. Tavola XII città messicane. Affermare che la tavola XII del Liber Figurarum sia alla base delle commissioni architettoniche gioachimite è cosa priva di documentazione ma affermare che essa sia il riflesso delle speculazioni teologiche di Gioacchino è evidente e che per questo abbia trovato applicazione anche in architettura è molto plausibile. Quanto detto fino a questo momento si riflette nella casa-madre dell’Ordine florense: San Giovanni in Fiore. Non si tratta di un insediamento realizzato quando Gioacchino era in vita anzi (risale al 1215-1234) e i monaci, guidati da Matteo I, vi si trasferirono dopo la morte del fondatore. Tuttavia, l’edificio si presenta come la summa di tutti i precedenti riflettendo l’adesione all’ideologia gioachimita e alle scelte edilizie e costruttive, compreso l‘uso dei materiali locali volute dal fondatore (Figg. 18-19).

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Fig. 18 San Giovanni in Fiore, Archicenobio florense, aula unica

Fig. 19 Planimetria della chiesa di San Giovanni in Fiore, giĂ in P. Lopetrone (1999)

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Note 1  Gioacchino da Fiore, stando alle due Vite contemporanee scritte su di lui (da Luca Campano e Ruggero da Aprigliano), nacque intorno al 1130-1135 a Celico, in provincia di Cosenza e fu avviato dal padre alla carriera di notaro. Ben presto egli si accorse che la sua indole richiedeva un periodo di meditazione ed intraprese un viaggio in Terra Santa, viaggio cui egli stesso fa riferimento nei suoi trattati. Nonostante lo spirito bellico delle Crociate fosse a quel tempo particolarmente sentito, egli rese questo peregrinaggio un momento di intensa e profonda riflessione maturando la decisione di predicare ed operare nella sua terra natia in attesa di una nuova età felice. Cfr. P. De Leo, Gioacchino da Fiore, Cosenza 1998, pp. 3 e ss; F. D’Elia, Gioacchino da Fiore, un maestro della civiltà europea, Catanzaro 1999, pp. 15 e ss; P. Lopetrone, Gioacchino da Fiore, San Giovanni in Fiore 2000, pp. 3 e ss.; S. Oliverio, Vita Beati Joachimi Abbatis in “Florensia” nn. 16-17, 2002-2003, pp. 233 e ss. 2  L. Dal Prà, Abbazie cistercensi in Italia in Lekai L. J., I cistercensi. Ideali e realtà, Firenze 1989, pp. 541 e ss. 3  Santa Maria di Corazzo, di cui restano i muri perimetrali nelle vicinanze di Carlopoli, era situato nell’entroterra catanzarese e, fondata dal conte Ruggero di Martirano, apparteneva all’Ordine dei Benedettini. Tra il 1171 ed il 1173, anni in cui vi entrò Gioacchino, i monaci del monastero furono autorizzati a conformarsi alla regola cistercense. Cfr. G.L. Potestà, Il tempo dell’Apocalisse, Vita di Gioacchino da Fiore, Roma-Bari 2004, p. 25. 4  Anche se non si conosce l’origine di questo piccolo fondo – appartenente forse ad Ugo Lupinus conte di Catanzaro o al Pietro Oliveto di cui parlano le fonti – fu a Pietra Lata che Gioachino fu raggiunto da Luca Campano e Raniero di Ponza. Si veda P. Lopetrone, Il protomonastero …, p. 41. L. Falbo, Pietralata, in “La Provincia di Cosenza”, a. 2011 pp. 36 e ss. Leonardo Falbo sostiene, dai suoi studi sui toponimi, sulle fonti e sulle peculiarità de luogo, che Pietralata potrebbe essere un sito dell’attuale zona di Rogliano-Marzi. 5  P. Lopetrone, Gioacchino da Fiore…, cit. 6  D. Roubis-F. Sogliani, Lo scavo archeologico a Jure Vetere, in “Provincia di Cosenza”, a. 2011, pp. 45-46. 7  P. Lopetrone, La cripta dell’archicenobio florense: strutture originarie e interpretazioni storiche, in “Floresia”, n. 13-14, a. XIII-XIV, pp. 200, 203, 258. 8  V. De Fraja, “Post combustionis infortunium”. Nuove considerazioni sulla tradizione delle opere gioachimite in “Florensia”, VIII-IX, 1994-1995, pp. 129 e ss.; I documenti relativi al monasterii florensis incendio sono pubblicati da P. De Leo in “Reliquiae” florensi. Note e documenti per la ricostruzione della biblioteca e dell’archivio del protocenobio di San Giovanni in Fiore in Storia e messaggio in Gioacchino da Fiore, Atti del I Congresso Internazionale di studi gioachimiti, San Giovanni in Fiore 1979, San Giovanni in Fiore 1980. 9  D. Roubis, F. Sogliani, Scoperte archeologiche a Jure Vetere, in “Gioacchino da Fiore”, in La Provincia di Cosenza, 2011 p. 46. 10   La pratica di istituire cantieri architettonici risulta ravvisabile in quella della segnatura delle pietre che, per ciascuna epoca storica, presenta caratteri e specificità significative. In epoca Normanno-Sveva, ad esempio, è stato documentato grazie al confronto dei segni lasciati dai lapicidi sulle pietre del cantiere, la presenza di alcune maestranze in Italia e n altre realtà europee. E. Bruno, I marchi di palazzo Pazzi, Firenze. 11   P. Lopetrone, L’abbazia di San Giovanni in Fiore, caposaldo dell’architettura florense, in Gioacchino da Fiore, in “la Provincia di Cosenza”, 2011 p. 51. 12   Le notizie desunte dai documenti del XII-XIII secolo danno certezza di un monastero fondato da Gioacchino nel territorio di Bonoligno mentre non risulta nulla di un eventuale edificio nei territori di Faraclonio. Il sito di Boniligno, a quel tempo, era posto tra Jure Vetere e Faraclonio e pare strano che Gioacchino avesse deciso di fondare allo stesso tempo due grance così vicine fra loro; in effetti le pertinenze abbaziali erano allora poste a notevole distanza dalla casa madre: Verdò, Canale, Abate Marco, Tassitano ecc. Da queste considerazioni è emerso il dubbio che dovessero esistere relazioni molto strette tra il toponimo Bonoligno e quello di Faraclonio quasi come se il secondo fosse una sorta di contrada nella quale il tenimento di Bonoligno era situato. Pur restando un’ipotesi è possibile che il micro-toponimo Faraclonio – già allora inglobato nel macro-toponimo Bonoligno – sparì per sempre quando fu sostituito con Fiore, luogo dell’odierna casa monastica; allo stesso modo il toponimo Bonoligno, allora maggiore ed inglobante la contrada Faraclonio, continuò ad esistere ma venne fortemente ridimensionato. P. Lopetrone, Atlante delle fondazioni florensi, vol. I. 13   D. Roubis-F. Sogliani, Lo scavo….cit., p. 10. 14   C. D’Adamo, Verifica su una tipologia ricorrente in alcune fondazioni florensi: Santa Maria di Fontelaurato, San Martino di Canale, Santa Maria della Gloria in Federico II e l’arte del Duecento italiano, a cura di Angiola Maria Romanici, Atti della III settimana di studi di Storia dell’Arte Medievale dell’Università di Roma, Maggio 1978, Voll. II, Galatina 1980. 15   F. Del Buono, Fonte Laurato, Amantea (Cs) 1993; A. Frangipane, Le rupi e le arti a Fiumefreddo in “Brutium”, 1964, n. 4, pp. 8 e ss.; P. Toraldo, Fiumefreddo Bruzio ed il suo cenobio florense in “Brutium” 1927, nn. 4-5-6; L. Verardi, Le abbazie florensi, Fonte Laurato, anno 1201, Cosenza 1995. 16   L. Janauschek, Originum cistercensium. Tomus primis et solus editus, Vienna 1877. 17   G. Martelli, L’organismo architettonico florense in “Archivio storico per la Caòabria e la Lucania”, 1956, pp. 63 e ss. 18   Esistono dunque, nel patrimonio architettonico dell’Italia meridionale e della Calabria, una serie di punti di riferimento che in parte possono spiegare l’architettura delle più importanti fondazioni florensi. 19   Sarebbe utile, in tal senso, verificare quanto seguano questo schema organizzativo le costruzioni florensi fuori dalla Calabria per le quali, molte volte, la presenza di Gioacchino non è stata attestata. È certa invece la diffusione della sua ideologia nella scultura di due importanti architetture religiose quali il Duomo di Assisi e la Basilica di San Marco a Venezia. F. Prosperi, La facciata della cattedrale di Assisi. La mistica gioachimita prefrancescana nella simbologia delle sculture, Perugia 1978. 20   F. D’Elia, Gioacchino da Fiore, un maestro della civiltà europea, Catanzaro 1999, pp. 21 e ss. 21   I testi più importanti scritti dall’abate fondatore sono: Concordia tra il nuovo e il Vecchio Testamento; il Commento all’Apocalisse; il Salterio delle dieci corde; una serie di scritti minori e il Liber Figurarum che è una raccolta delle sue tavole ideologiche. Cfr. F. Troncarelli, Gioacchino…cit., pp. 37 e ss.; P. De Leo, Gioacchino…cit. 22   F. D’Elia, op. cit., p. 69. 23   A. Cipparrone, Cosenza preziosa. Introduzione alla mostra, in Cosenza preziosa. Maestri e opere dell’arte orafa, cat. Mostra a cura di Anna Cipparrone, Cosenza 2012, p. 8 e ss. 24   I suoi seguaci, tuttavia, alla morte del fondatore chiesero una parziale modifica delle istanze originarie (visibile in alcuni cambiamenti architettonici delle fabbriche) ed uno spostamento della casa madre dal luogo impervio prescelto da Gioacchino ad un altro più comodo. P. Lopetrone, La chiesa abbaziale florense di San Giovanni in Fiore, San Giovanni in Fiore 2002, p. 31. 25   Enciclopedia dell’Arte Medievale, Roma 1993, vol. IV, p. 816. 26  Ibidem. 27   A.M. Adorisio, Recuperi florensi. Tradizioni dimenticate nelle relazioni di una visita di Giusto Biffolati, priore di Casamari, ai monasteri di San Giovanni in Fiore e Santa

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Maria di Altilia nella Sila di Calabria in “Rivista cistercense”, XVII, 2000, p. 283. 29   L’accertamento dell’estrazione monastica degli ideatori delle abbazie così come degli architetti, degli scalpellini e dei muratori è una questione molto importante relativa al rinnovamento linguistico avvenuto in Italia al principio del 1200. Cfr. A. Cadei, Scultura architettonica cistercense e cantieri monastici in I cistercensi e il Lazio, Atti delle giornate di studio dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Roma, Maggio 1977, Roma 1978, pp. 157 e ss. 30   R. Napoletano, San Giovanni in Fiore monastica e civica, vol I; F. Troncarelli, La scrittura dell’abate Matteo, in “Florensia” VI, 1992, pp. 33 e ss. 31   P. Lopetrone, La chiesa abbaziale…cit., pp. 27 e ss. 32   La chiesa abbaziale di Silvanès presso Lodéve in Francia meridionale, costruita tra il 1144 ed il 1161, mostra tutti gli elementi architettonici presenti nell’abside di San Giovanni in Fiore. Elementi francesi non mancano inoltre nella seconda importante chiesa florense a Fiumefreddo Bruzio. Cfr. P. Lopetrone, op. cit.; G. Martelli, L’organismo architettonico florense…cit., pp. 447 e ss.; P. Lopetrone, La cripta…cit. 33   P. Lopetrone, La cripta…cit., pp. 221 e ss. 34   P. Lopetrone, La cripta…cit., p. 224; F. Troncarelli, Note sull’interpunzione dei codici gioachimiti del XII secolo, in Storia e teoria dell’interpunzione, Atti del Seminario (Firenze 1988), a cura di E. Cresti, N. Maraschio, L. Taschi, Roma 1992, pp. 39-48. 35   E. Bruno, I marchi di palazzo Pazzi, Firenze. 36   Lo specchio del mistero,le tavole del Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore, cat. mostra permanente San Giovanni in Fiore, San Giovanni in Fiore 2000; E. Pazstor E., Architettura monastica, sistemazione urbanistica e lavoro nel “novus ordo” auspicato da Gioacchino da Fiore in I cistercensi e il Lazio…cit.; P. De Leo, Gioacchino…cit., pp. 21 e ss. 37   Tipico di Gioacchino è infatti un atteggiamento di attesa positiva del futuro, realizzabile soltanto con la nascita di un nuovo ordinamento monastico e di una società ideale basata sulla divisione dei compiti e su una sorta di convivenza “separata”. 38   E. Pazstor, op. cit., p. 114. 39   S. Castellanos de Garcìa, Concretizaciòn de la ciudad de los Angeles: su traza y paralelismo con la Jerusalèn Celeste, su escudo, in “Florensia”, 1999-2000, pp. 45 e ss.

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Fonti


Cinzia Altomare

L’utilizzo della pietra per l’uso quotidiano tra XVI e il XIX secolo: Mastri fabbricatori, Muratori e Manipoli semplici

La roccia (o la pietra), nel nostro ambiente è il materiale più facile da reperire in natura. In Calabria diverse sono le rocce e le cave conosciute da cui si estraeva e si lavorava sin da tempi antichi. Una ricca bibliografia1 dimostra che già nel ‘600, nei diari di viaggio di studiosi ed esploratori in tutta la Calabria, si narravano le qualità e gli usi locali delle rocce. Per la sola provincia di Cosenza, ad esempio: il Marafioti presentava nel suo testo una ricchezza di indicazioni a riguardo, scriveva che presso Pietra Paola […] si cavano le pietre d’acutare ferri in acqua niente minori a quelle, che vengono da Genova […]2; a Bocchigliero […] vi nasce la pietra Silice, e’l vitriolo […]3; presso Aiello […]si ritrova ‘l marmo4, e’l gesso marmoroso […]5; presso S. Donato […] un monte detto Mula […] qui nasce ‘l christallo perfettissimo; si ritrova in questo territorio ‘l sale terrestre; nascono i berelli, la pietra silice, e la pietra frigia […]6; a Sibari ricordava che anche Plinio citava in uno dei suoi libri il […] gesso Turino in quelle parole; Gypsum calci cognatum è lapide coquitur Thurus […]7. Delle miniere segnalava quelle di […] l’solfo, ‘l marmo, l’alabastro, ‘l mischio, le pietre d’oglio, d’acqua, le calamite, la pietra ofite, frigia, piombina, etite, emetite, marchasita smiride, obsidama, gagate, indice, e l’agate, la quale si ritrova in Ierace8. Nel 1786 Bartels annotava che nel territorio di Sibari […] il sottosuolo contiene […], gesso e specchio d’asino […]9. Il più recente Pagano, nel 1901, ricordava che: […] nel 1598 il Tufarello, che nel territorio di Morano “diverse pietre preziose (cioè pregevoli) come… il bianchissimo marmo simile a quello di Carrara, … Pietre di varii colori a guisa di varianti porfidi, e particolarmente la pietra negra, la pietra specolare, della qual sottilmente tagliata si adornano le finestre di pomposi palagi e sontuosi edificii, […]10. Sulle miniere Galanti nel 1792 scriveva […] Nella Sila vicino Acri e vicino Longobucco vi sono miniere di Talco. La miniera di talco è vicino Acri nel luogo detto la Cresta fuori della Sila, a Longobucco vi sono miniere d’argento. A Macchia Sacra territorio dè casali di Cosenza si vuole che vi sia una miniera d’argento. Nel luogo detto Pisarelli territorio di taverna vi si cava la scagliola […]11. Nella provincia di Cosenza, alla fine nell’Ottocento, le cave erano 21, differenziate per materiali: pietra comune, travertino, arena e sabbia, pietra macina. […] la pietra comune e il brecciame erano venduti nei luoghi stessi dove si producevano mentre il travertino, che veniva adoperato per la decorazione degli edifici e per le strade, veniva esportato anche nelle province limitrofe. La sabbia si estraeva nel solo comune di Verbicaro e serviva per la preparazione delle malte. Cave di pietra per macine si trovavano invece ad Aieta, Belmonte Calabro, Cassano, Cropalati e Lattarico, ma solo le ultime due avevano una certa importanza, poiché le altre 74


erano di poca o nessuna utilità […] le fornaci attive nel 1890 erano 205, delle quali 103 per calce, 4 per gesso, 82 per laterizi diversi […]12. La lavorazione della pietra richiama alle maestranze più conosciute e studiate della storia dell’arte. Tra queste, gli scalpellini. Le facciate e i portali di chiese e abitazioni, statue ed effigi nobiliari sono state l’opera di mastri architetti, scalpellini e stuccatori, opere che ancora si possono ammirare grazie alla resistenza del materiale, ma, mentre le opere dei grandi e riconosciuti artisti del campo sono una storia studiata e esaminata, l’opera dei minori, dei semplici operai che facevano parte della folta schiera dei muratori semplici, ci rivela l’utilizzo della pietra come mazzacani saurri, pietra tufara e tufi. Grazie alla ricerca presso l’Archivio di Stato di Cosenza, è stato possibile reperire documenti di un certo interesse storico, che in parte fanno luce ad un universo più vasto e sconosciuto ai molti. Il primo esempio è quello di uno scalpellino che nel suo testamento lascia in eredità gli strumenti della sua professione, in cui è interessante notare che di questo patrimonio faceva parte un libro di architettura a dimostrazione del fatto che tale professione prevedeva non solo l’apprendimento in cantiere, ma anche lo studio. Il testamento risale al 1608 e mastro Antonio Grasso, fiorentino abitante a Cosenza in [...] loco ditto la piaza grande seu ruga de li morti [...] fa così rogare al notaio [...] Item lassa a bartolomeo fragolino de pisa per servicij recivuti li ferri de l’arte di scarpellino di esso testatore [...]13. E a seguire, [...] uno paro de piramide di petra miscia conpiedi […] un altro libro de architettura [...] palli tra grandi e piccoli de petra nigra dentro una sportella unalta sopracarta de pietra nigra [...] Item in la potega dove lavorava detto quondam antonio sono trovate le infrascitte robbe videlicet sei mole de ammolare quali dice essere di santo sacco Item doi pezi de marmore in tabula et ce ne è un altro in paula quali hanno da servire per uno pitaffio et armi con li ornamenti di petra misca dentro una cascia vecchia dentro la quale sono li ferri et stigli de l’arte di scarpellino [...]14. Nel 1729 l’inventario del defunto Andrea Crispino abitante [...] proprio sopra il Convento di S. Francesco d’Assisi [...] in cui si trovano elencati gli attrezzi del muratore […] uno scrittorio due libri di Architettura; […] quattro manipolo, due squadri = uno squadrono = due mazzoli, due scarpelli = una regola di ferro uno palo di ferro = una ascia di carpentiere quattro scarpelli = due piombi cioè uno di assetto e l’altro di fabrica due fila[…]15. In abitazioni e botteghe si potevano trovare complementi di arredo in pietra e oggetti, soprattutto in marmo lavorato, ovviamente questi erano oggetti di pregio. Riportiamo di seguito alcuni esempi. Nel ricchissimo inventario del defunto Antonio d’Afflitto, Arcivescovo di Cosenza, molti gli oggetti interessanti e di notevole valore oltre che di ottima manifattura, non è però dato stabilirne la provenienza: […] due tonni piccoli indorati di Marmo fino col fondo di pietra dura amatista, in uno de quali è la testa di S. Teresa, e nell’altro quello di S. Chiara […] un quadro di Marmo col rilevo intagliate col nome di Gesù e Quattro Angioletti di legno attorno indorati. Due Volti di Marmo con Fondo di Pietra di Pietra (sic) amatista, uno col volto di S. Pietro, e l’altro col volto di S. Paolo […] Boffettini di Legname indorati colle Tavole di Marmo tutti a concerto […] Pietre Sacre numero Trentanove […]16. Nel 1768, nell’inventario di Nicolò Greco, con casa sita […]nel luogo detto li Padulisi […] in diversi ambienti della casa si trovavano […] Nella prossima camera 75


Fig. 1 Mortaio

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tre tondini di legno indorati a mistura con piede di marmo color m****(Sic) di sopra […] due tavolini di legno dorati a mistura con pietre ad uso di marmo, […] quattro tavolini di legno dorati a mistura con pietre di marmo bianco venato nero […]17. Nell’inventario eseguito ad istanza di donna Francesca Pingitore, nel 1793, vedova del fu don Carlo Ferraro, nella casa posta davanti all’Arcivescovile si trovava […]Un quadretto di Marmo […]18. Per quanto riguarda gli oggetti, questi erano per lo più di uso domestico, ad esempio nel 1560 per un inventario dei beni e della bottega del fu Francesco Mayelluzio di cui si precisa «[...]in qua exercebat artem pulveris [...]» si trovavano «[...] tre mortara di marmore [...]»19. Nell’inventario dei beni del defunto Domenico Perri, con abitazione presso […] luogo detto Sopra la Piazza, Seu Sopra il vico delle Ricotte […] ed in particolare in cucina si trovava […] un mortaio di bronzo colla sua manuzza, ed un altro piccolo di marmo […]20. In casa di Francesco Antonio Mazzei, […] posta innanzi il Monasterio di Santa Maria delle Vergini […] in un bauglio21 della cucina si trovava un […] piccolo Mortario di marmo[…]22; invece, per l’inventario di Pietro Grillo, sempre tra gli oggetti della cucina, si segnava un […] mortaretto piccolo di pietra bianca e suo pistillo […]23 (Fig. 1). Per le botteghe, interessante è l’inventario dei beni del 1593, in cui ritroviamo notizie del fabbro Bonadeo Ferrato, con l’abitazione in […] loco ditto li revocati seu alle forge […] in cui si trovava […] uno scifo24 di pietra dove stanno le tinaglie […]25, infatti, quello in pietra, era l’unico recipiente che poteva contenere strumenti arroventati. A confronto si riporta l’inventario del 1701 di Sebastiano Petrozzo mastro orefice, nella cui bottega d’oreficeria si trovavano, oltre agli strumenti del mestiere: […] Una Pietra Seu Ticola di designare, una Pietra di Porfido, Griscioli26 di Soriano Rossi numero due di Gesso […]27. Nell’inventario della spezieria di Carlo Mario de Simoni, si trovava un […] Mortaio di Marmo usato […]28. Quasi tutti oggetti di marmo, probabilmente d’importazione. Per l’impiego delle pietre, nella sistemazione delle opere pubbliche cittadine, si propone un atto riguardante il restauro delle fontane, infatti nel 1760 il notaio Pietro Assisi rogava un atto riguardante la sistemazione delle stesse. La decisione di dovere sistemare le fontane viene presa già nel 1750 dal Parlamento cittadino, ma i lavori protratti sino al 1751, avevano subìto il passaggio di consegna degli incarichi del nuovo Parlamento: erano stati eletti per i sindaci dei nobili, Benedetto Sambiase e Raffaello d’Aquino, e per gli eletti del popolo, Gaetano Orsi e Michele Ferraro. A Giuseppe Carroccio e Giacomo Pelegrino erano stati affidati i compiti di sovrintendere alle ricostruzioni o al restauro della fontana chiamata Sotto il


sedile, al reperimento dei materiali e al pagamento dei lavoranti; questi per potersi difendere da un qualsiasi problema durante il restauro, decisero di stilare una testimonianza scritta, di cui si trascrive solo una parte: […]Si fa fede anche congiuramento (sic) da me sotto Giuseppe Carroccio Maestro Fabricatore, e Maestro di questa città qualmente per spettarsi, ed accomodarsi il publico fonte sito avanti la chiesa Metropolitana sotto il sedile di essa città, e per l’altro sito nel mezo tumolo29 vi è corsa la seguente spesa al fonte sotto al sedile= Per giornate ventisette di Manipoli30 doc. otto Per una lapide e corvelli nel di stillaturo carlini diece Per la chiavetta a detta lapide grana venti Per una scaletta di legna affin di scendere al distillaturo grana trenta Per oglio litre due e mezza grana sessanta cinque Calce grana quaranta […]31 Il 9 settembre del 1750 Giuseppe Carroccia riceveva […] In tutto docati sedici, e grana sessantanove su ordine degli amministratori della città, per il materiale e le giornate lavorative. Si passa ora alla testimonianza di Giacomo Pelegrino, addetto alle condutture dell’acqua, che il 25 febbraio 1751, sottolineava la necessità di aumentare la portata dell’acqua della Fontana Nuova creando una nuova conduttura che doveva attingere dalla […] fontana detta Misserandrea32 luogo detto Molisi […] con l’evidente necessità di acquistare materiali […]consistenti in calce, Arena, pietre, ceramili, catusi33, votanti, mattoni, Beviere, ed altro come pare il materiale per componerle colla, consistente inseve34, corda, Bambace, tela carboni […] e […]come che le mie fatiche erano esorbitanti, ed eccessiva fu giudicato così dall’ingegnero don Domenico di Michele che fu destinato da detti Signori affinché l’opera seguisse sotto la sua direzione […]35 per la sua opera veniva pagato 18 ducati. Per il restauro della Fontana Nuova36 venivano affidati i lavori al già citato Gregorio Medaglia definito architetto che veniva pagato con […]carlini quatto per la pietra e condutture della medesima (Fontana Nuova), e carlini quindici per lo lavoro […]37. Lo stesso notaio Pietro Assisi, ordinario cancelliere di Cosenza, scriveva che il 4 marzo del 1751 si erano riuniti tutti i maggiori rappresentanti del Parlamento cittadino e avevano stabilito che si doveva restaurare la Fontana Nuova38. A seguire una serie di fogli raccolti nell’atto, nei quali tutti dichiaravano cosa avevano ricevuto per i lavori eseguiti: mastro Domenico Misiti riceveva ducati quattro e grana due per i catusi e in più carlini sette e grana quattro per i graniti39; mastro Geronimo Vercillo e mastro Giacinto Gullo, ducati sette per la tromba40; mastro Domenico Milano per le pietre portate carlini venti e grana otto41; mastro Giacomo Pelegrino42 per […]la compra di duecento ceramili, portaturo di calce e menatura di calce, e portaturo di rena […]43. Tutto questo per quanto riguarda i materiali utili alla realizzazione o al restauro di una fontana, ma l’opera non era conclusa, la fontana, se importante, era rifinita anche con sculture o decorazioni, come quella dell’ospedale di Cosenza, che nel 1714 era situato presso l’attuale municipio della città, e da un inventario si apprende che c’era […] una fontana di marmo nero44 lavorato col scudo dell’armi di detto Spedale […]45. Al 1800 risale la convenzione tra città di Paola e i mastri muratori Domenico Crocco, Francesco Argento, Nicola Ciodaro, Fedele e Antonio Romano per innalzare […]una Croce di marmo in mezzo alla Piazza maggiore delli Pioppi, e di formare un nuovo Pulpito nella Chiesa Madrice; ma inoltre di riparare, e ridurre in forma più elegante la Fontana vecchia, la quale per l’ingiuria del tempo, si veda molto guasta, e quasi dell’intutto rovinata; a qual’oggetto avendo chiamati li suddetti Costituiti Maestri muratori Argento, 77


Crocco, Ciodaro, e Romano, gli stessi si sono offerti di applicare la loro opera nella formazione dello nuovo cavalletto di pietra, ed in tutt’altro necessario per la riattazione, ad abbellimento dell’anzidetta fontana, come pure nella situazione della divisata Croce di marmo col patto di doversi pagar loro lo cavalletto più largho a regione di grana quattro il palmo, misurata alla Napoletana46, cioè in modo quadruplicato per quanto corre il lavoro; […]si obligano di formare e lavorare le canalette di pietra necessarie alla restaurazione, ed accomodamento della Fontana Vecchia, cioè palmi novantuno e mezzo dello più larghe in cui cade l’acqua de canali, a raggione di grana quattro al palmo, misurandola all’uso Napoletano, cioè a dire quadruplicando la misura per quanto è il lavoro dalla cavalletta; ed altri palmi sessantacinque di cavalletta di pietra più stretta, che servono a pianterreno la detta Fontana, misurandola secondo la loro lunghezza, e senza quatriplicazione alla raggione di grana dieci il palmo […]47. I Sindaci dovevano, inoltre, fornire tutto il necessario tra calcina, sabbia e pietre. La canaletta di pietra veniva consegnata per il mese di Luglio e i mastri per il lavoro ricevevano 11 ducati e 30 grana. Tra le opere pubbliche: le vie di comunicazione, le piazze o gli slarghi, erano strettamente legate all’utilizzo di materiali in pietra. Nell’estate del 1699, a causa di ripetute e abbondanti piogge le strade della città di Cosenza e non solo così come le condutture dell’acqua, avevano riportato gravi danni, tanto che gli sbocchi delle fontane erano asciutti; gli amministratori della città si impegnavano per la ricostruzione con atti pubblici, quindi […] che se fussero liberati per beneficio di questa città docati cinquecento dalli denari pervenuti;48[…] e quelli applicarsi nelle rispettive della fontana, e reparazione delle strade più principali di questa città in esecuzione della relazione di quella Regia Audienza, […]49. Inoltre si lamentava la grande quantità di cloache e […] pietre scoverte che sono nelle strade guaste […]. Per sistemare il tutto si calcolava che i ducati da spendere dovevano essere 650, senza tener conto delle strade secondarie, che per il momento non rientravano nelle spese. Una descrizione più tecnica dei danni così dichiarava: […] Che le lamie50 delli condotti principali s’abbiano da rompere e messervicci li catusi, quali poi s’habbiano da fabbricare a volte di lamia, o come meglio si stimerà, e di sopra ricoprirsi la terra, e farvi nelle buche, e rotture le selciate come primo, acciò le strade non patiscano. / Che il medesimo a chi vesterà detto partito habbia da pagar subbito così li catusi fatti, come l’oglio, bambace, cannevacci, cordelle, calce, mattoni pesti, tufi, chiare, e tutto il di più che fin’hora si e fatto, e la mastria, e giornate dell’operarij di sorte che soddisfacciano tutta le spese fatte sin hora […]51. Per tutti questi motivi, veniva allestito un bando di gara per affidare i lavori al migliore offerente. In pratica chi fosse stato capace di sistemare tutti i danni con la minore spesa avrebbe avuto la concessione dei lavori. Si accendeva quindi una candela che col passare delle ore si consumava lentamente, l’asta continuava fino a quando la stessa non si spegneva52. Per due volte la gara iniziò e si chiuse senza un vincitore, la terza volta mastro Antonio Bove53 rilanciò per ducati 210 e vinse. Il lavoro doveva essere compiuto per il mese di settembre. La pavimentazione delle strade a Cosenza era in selciato decorato con motivi regolari e talvolta geometrici, il materiale proveniva dalle rive dei fiumi54 ed era composto dalle rocce più disparate, solo il colore della pietra determinava la posizione della stessa per crearne il disegno decorativo soprattutto negli slarghi prospicienti le chiese o i palazzi gentilizi, alternando pietre chiare a pietre scure55; 78


Fig. 2 Selciato antistante la chiesa di S. Chiara

nelle vie secondarie i ciottoli erano disposti seguendo, a volte, uno schema geometrico) (Fig. 2). Sicuramente le opere più evidenti di questi artisti della pietra sono rappresentate delle chiese le quali sia all’interno che all’esterno presentano una grande varietà di pietre lavorate, senza contare la costruzione di per se. Su questo argomento, di notevole interesse, sono le convenzioni tra i rappresentanti del clero di piccole comunità cittadine e gli artisti impiegati per la realizzazione delle opere. Tra i primi documenti reperiti sembra che molti artisti fossero di località differenti dalla Calabria, infatti al 1536 risale il pagamento del magistro Antonio de Nicolo […]fiorentino scarpellino […], ma abitante a Montalto, di 96 ducati da parte di Pietro de Ciaccio per […] quendam cappellam marmoream de marmore qui reperit in territorio montis alti ipsi domino petro intus maiorem ecclesiam consentinam […]56; è interessante apprendere che il materiale, presumibilmente marmo57, era stato reperito in loco. Nel 1564 veniva stilata una convenzione tra frate Angelo, priore del Convento dell’Annunziata dei predicatori di Bisignano e mastro Bartolomeo Bendini, scalpellino fiorentino per […] de costruenda quandam rosa supra portam ditte ecclesie de lapidibus terre lactaracj juxta forma et modulum inter eos factam et conventam pro pretio ducatorum centum […]58. Nel 1775 veniva rogata la convenzione per la ristrutturazione di un’intera chiesa, il monastero di S. Maria del Soccorso a Scalzati, nel Casale di Cosenza, l’abate Michele Andreotti e Giovan Battista Michele, stuccatore della Bagliva di Rogliano, stipulano un lunghissimo e descrittivo contratto59 di restauro per l’intero edificio, in cui punto per punto l’abate non si limita ad ordinare l’opera, entra nel merito dell’idea progettuale della chiesa, ma manca il disegno60 con cui si sarebbe potuto ammirare la maestria del mastro stuccatore, ma sicuramente costruttore in genere, poiché gli erano stati affidati nell’intera chiesa lavori differenti dallo stucco. Per l’intero lavoro il mastro avrebbe ricevuto la somma di 1000 ducati (Fig. 3). Nel 1838 a Bisignano, si stipulava un atto di convenzione tra Gennaro Calabria, muratore orginario di Fuscaldo, con Giovanni Curcio, scarpellino nativo di Santi Lorenzo della Padula, e l’arciprete Tommaso Vita, economo del vescovo di S. Marco e Bisignano, mons. Felice Greco, per la costruzione […]di formare 3 portini di questa Chiesa Cattedrale di pietra, e propiamente di questa e nel territorio di Santa Sofia, dove si sono fatti i pezzi del ponte di Crati, per il prezzo di Docati Cento 100. Detti tre portini devono essere nel modo che si descrivono. Quello di mezzo della larghezza di palmi dieci, e della larghezza di palmi Venti, Cioè le Colonne fuori delle Cimase, e Bassi palmi Undeci, le Cimasi palmo Uno, e mezzo; Le Basi palmi due, e mezzo, il Resto la Volta dell’arco. La larghezza delle Cimasi palmi tre, e mezzo, la larghezza del tufo della facciata palmi due, e mezzo, la fronte palmi due. / Gli altri due portoni devono essere di palmi otto l’uno di larghezza, di altezza palmi sedici, il tufo della larghezza palmi due, le Cimasi palmi due, e mezzo, la larghezza delle basi palmi due, e mezzo, la grossezza delle fronte palmi due. / E finalmen79


te il resto di finimento di base ad arrivare ai palmi ottanta dell’intiera langhezza, deve esser dell’istessa proporzione delle Basi dei Portoni, eccetto della doppiezza, la quale basta, che sia di un palmo, a formare anche il primo gradino lungho palmi Novantuno, dell’altezza di oncie nove, e larghezza di un palmo, per le quali ultime opere si a Convenuto il prezzo di Docati quindici[…]»61. Il compenso dell’opera era 115 ducati da pagarsi in quattro parti: la prima di ducati 30, altri ducati 30 ad inizio dei lavori, ducati 25 quando sono stati […] portati i pezzi avanti questa cattedrale e finalmente ducati 30 […] dietro la consegna dell’opera compiuta […]. Quali e quanti erano i materiali utilizzati per la costruzione lo dimostra un atto che tratta la costruzione del monastero di S. Maria di Costantinopoli a Cosenza, chiesa ormai inglobata nella struttura del palazzo sede della Provincia di Cosenza, si riporta un allegato all’atto notarile vero e proprio, in cui si documentano i rimaneggiamenti e le opere di manutenzione ordinaria subite dalla chiesa tra il 1741 e il 1742, un vero e proprio quaderno delle giornate lavorative, dei materiali utilizzati e delle relative spese, di seguito si riporta solo una parte del documento: «Spesa di Materiali che si fanno nella Fabbrica del Venerabile Monasterio di S. Maria di Costantinopoli. Tufi per la Porta del Giardino dato ad Antonio d’Aiello________________________________2-1-18 Per Centoquarantotto tumula62 di Calce dato a Gaetano VilFig. 3 Atto notarile del notaio Francesco Carusi: Convenzione per il restauro della Chiesa lalla___________________________7-3-16 Sporta 63 numero sette a sette tornese64 l’uno____0-1-046 di S. Maria del Soccorso a Scalzati Per due Cati65__________________________0-0-11 Passamuri numero Ventisei a grana66 sei l’uno__________________________1-2-16 Rena67 due cento, e diece some68 ad un grano ad un grano la Soma portatola Carmino Persaverito___________________________________________________2-0-10 A Lorenzo di Napoli per Trecento, e sedici some di Rena a cavalli69 novi, e metà ad un grano la Soma__________________________________________________2-3-166 A Lorenzo di Napoli per trecento, e sedici soma di Rena metà a cavalli novi, e metà ad un grano la Soma______________________________________________2-3-166 Pietre Canne otto a carlini 17 la Canna70____________________________13-3-0 Mazzacane71 canne tre, e meza quarta a carlini tredici la canna_______________4-0-063 Saurri72 una Canna, e una quarta, e meza a carlini 17 la Canna_____________2-1-139 Rena ad un grano la soma, soma _________________________________87-4-07 Che in tutto sono ___________________________________________23-3-036 Per Centonovantauno a mezo Tumulo di Calce a docati dieci il Centinaro portatola Michele Cucunato, e Marco Caruso _____________________________________19-0-15 66-4-14 Per Cinquecento e otto Soma di Rena metà a cavalli novi, e metà ad un grano portatola Genna80


ro Parise_________________________________________________04-2-046 Pietre una Canna carlini 17, Mazzacani una meza quarta a ragione di carlini 13 la Canna dato a Domenico Cozza_______________________________________01-4-063 A Mastro Carlo Fortino per accomodatura di quattro Ferriate carlini 25 e portatura grana cinque___________________________________________________02-2-15 Tufi per Cinque Ferriate________________________________________05-4-0 Ad Ignazio di Sienzo, e Pietro di Rende per sei Canni meno meza quarta di Pietra grossa a carlini 17 la Canna, e una meza quarta a carlini 13 la Canna _________0-4-013 Saurri una Canna, e una quarta a carlini 17 la Canna___________________2-0-126 Che in tutto sono____________________________________________12-4-126 Per Centonovanta cinque Tumula di Calce a docati dieci mano grana 25 il Centinaro portatola Saverio Cucunato______________________________19-0-013 A Gennaro Parise e sessanta sette soma di Rena_________________________0-3-07 Saurri canne tre e meza a 17_____________________________________5-4-15 Mazzacani una canna e meza quarta a carlini 13 la Canna ________________1-2-063 […] Per Cento a quindici Tumula di Calce, a docati dieci il Centinaro portatola Francesco Furgiuele ____________________________________11-2-10 […] Per Centoventi tumula e mezo di Calce dato a Carmino Pulice______________12-0-05 Per apparare un Camerone di Sterro dato a Francesco d’Angelo, e Giacomo Pelegrino_______________________________________________________07-0-0 Per Centosessanta sette Tumula di Calce dato a Saverio Cucunato____________17-3-10 A Francesco le Piane per Travi per la Intempiata di rimpetto a paradiso, e altri per la Lamia dato a Francesco le Piane_______________________________________13-3-168 Per tufi dalla Porta del Furno, e Rifinerio, per la Scala del Pulpito, e per la Voltatina del Arco della Scala dato a Francesco Perrozza__________________________11-1-026 A Pietro di Rende, e Ignazio di Sanzo per sette cento sessanta some d’Arena ad un grano la Soma ____________________________________________________7-3-03 Pietra Mortizza Canne tre, e meza a docati quattro la Canna________________14-0-0 Pietra Viva canne otto_________________________________________13-3-0 Che in tutto sono____________________________________________35-1-03 A Francesco Antonio Mirabelli per Novanta quattro Tumula di Calce_________09-2-0 A Francesco Furgiuele per Novantotto Tumula di Calce___________________09-4-0 A Salvature Spanarello per Centoventi/cinquo tumula di Calce_____________12-2-10 Dato ad Andrea Marino per una quartia di Saurri a ragione 17 carlini la Canna______________________________________________2-0-126 Rena Quattrocento e sei soma _____________________________________4-0-06 Che in tutto sono ___________________________________________06-0-186 282-3-143 A Ignazio di Rosa per Quattro mila e cento Mattoni d’Astraco73, a venticinque carlini il Migliaro___________________________________10-1-05 Mattoni di Fabrica altri quattro Mila / e cento a carlini trenta il Mihliaro_____12-1-10 Ceramili74 ordinarij numero duecento________________________________01-0-0 Ceramili novi centoottantadue, a ragione di docati otto il Migliaro______________07-4-05 Che in tutto sono_____________________________________________31-2-0 A Diego Anselmo Villella per novanta uno Tumulo di Calce______________09-0-10 A Gennaro Parise per Canne due e meza di Saurri a ragione di 81


17 Carlini la Cann___________________________________________4-1-05 Paraturi some diece a grana due la soma, e Votanti some 14 a tornisi cinquo la Soma______________________________________________0-2-15 Rena sei cento sittanta una soma __________________________________6-3-11 Ad Andrea Pirrello per cento venti Tumula di Calce_____________________12-0-0 A Tomaso Caterina per due Canne e meza ed una quarta di pietre Mortizza a docati quattro la Canna________________________________________11-0-0 Pietre Vive una Canna _______________________________________01-3-10 Rena some quaranta uno, e Gisso75 some due carlini tre____________________0-3-11 Che in tutto sono ____________________________________________13-2-01 Ad Antonio d’Aiello per Tufi del Lavaturo76 Focolaro, e Scala_____________03-2-12 363-3-083 A Gennaro Parise per tre quarti di Pietre_____________________________1-1-076 Rena some ottantadue__________________________________________0-4-02 Ad Ignazio di rose Mattoni Grandi cinquanta carlini quatro; Altri Mattoni cento carlini cinque e sono _____________________________0-4-10 Mattoni di Fabrica sei cento sessanta a carlini tre il Centinaro________________1-4-18 […] A Giuseppe Mannarino per Pietre Tufara__________________________005-1-10 Per Rena________________________________________________000-3-10 Per otto Some di Tufi________________________________________001-1-08 Chiodi__________________________________________________000-0-14 Per Mattoni______________________________________________001-0-10 Per una quarta di Saurri______________________________________000-2-033 427-3-09 Di d(ett)o materiale si trova essere stata superflua la Calcina, e li travi, e però il Procuratore ha venduta a m(astr)o Saverio Bova calcina carlini dodeci, e travi n(umer)o sei carlini venti sei, e grana cinque; che a tutto sono ducati 3=4=5, q(ua)li si levano dalla sud(dett)a somma 3.4.5 e però resta il detto materiale__________________________ _423:4:4 Si osservi che i tufi77 erano usati per la porta del giardino, per le inferriate, per la porta del forno, per la scala del pulpito, per la voltatina dell’arco della scala, per il lavaturo, focolaio e scala. Mentre tra gli altri materiali usati si trova: calce, rena, pietre, mazzacane, saurri, pietra grossa, pietre mortizze, pietra viva, mattoni d’astraco, mattoni di fabbrica, ceramili ordinari, ceramili novi, mattoni, pietra tufara, chiodi, gisso78 (Fig. 4). Nel libretto, allegato all’atto, sono stati elencati anche i mastri e gli operai semplici che lavorarono alla costruzione della chiesa, con meticolosità di calcoli per giornata lavorativa e per persona. Infatti, ogni 4 o 5 giornate, mastro Bova o mastro Crispino ritiravano la paga per tutti, una somma complessiva, da dividere persona per persona, come si evince all’atto: Io Pietro Antonio Crispino faccio fede come sopra di docati nove e carlini sette di averli pagati il signor Don Marzio Muto e dati sono per tanti fatige fatte in Costantinopoli Cosenza li 5 (oppure 9) maggio 174179. Alla fine dei lavori, le spese complessive, tra mastri80 e manipoli semplici, ammontarono a 679:3:14:8 ducati. Sui mastri e i manipoli elencati nel libretto succitato, non si hanno che poche notizie e qualche raro caso di notorietà effettiva, come Saverio Bova81, Giu82


Fig. 4 Esempi tipici di pietre mazzacane e saurri

seppe Smiraglia82 e Nicola Catalano83. Per una continuità del testo riportiamo l’elenco in appendice. Sui tutti i questi mastri si può fare un confronto con i muratori e i fabbricatori presenti nel Catasto Onciario della città di Cosenza del 1756. Gli operai registrati erano: Francesco Iantorno, Giovan Battista Sganga, Giuseppe(?) Mercurio, Giuseppe Viola, Giuseppe Carroccia84 e Pierantonio Crispino definiti muratori; Francesco Gargano, Gregorio Medaglia85, Giuseppe Arturi, Pasquale Cavaliere, Saverio Bova86, Serafino D’Acri, Saverio Manfreda tutti mastri fabbricatori e per finire Saverio Patituccio unico manipolo. Quattro sono i mastri presenti in entrambi gli elenchi: Pierantonio Crispino, Francesco Gargano, Saverio Bova, Serafino D’Acri; sicuramente questi abitavano a Cosenza, gli altri abitavano altrove. Dal punto di vista economico chi stimava il valore della pietra erano soprattutto i muratori, come nel caso della testimonianza del 1581 in cui i mastri fabbricatori Quinto Artesio di S. Stefano e Matteo Belsito di Rogliano dichiaravano a proposito della casa di G. Leonardo Gaudio [...] loco detto le porte [...] che [...] sta 83


in periculo di cascare perché lo muro de la parte de lo fiume è abuffato et li astrachi jaccati87 et li travi sono allargati da le mura et fanno molinelli et si ad essi loro fosero dato mille ducati per uno non ci dormiriano una notte che alla prima china che porterà detto fiume dubitano che detta casa non caschi [...]88. Andava ricostruito quindi un muro per evitare danni peggiori all’intera abitazione. Singolare la protesta di Lorenzo de gruerio contro mastro Francesco di Costanzo di Rogliano, che nel 1560 si era impegnato a costruirgli la casa ma ne aveva sospeso i lavori, mastro Francesco rispondeva […]che li tempi non so atti ad fabricare et quando sera tempo atto a fabricare[…]89, essendo stato il documento redatto in dicembre i tempi non erano propizi alla costruzione. Al 1606 risale un intervento di restauro su un importante edificio della città di Cosenza, si tratta del monastero di Santa Maria delle Vergini in cui […]Mastro Gio Andrea de birurdo et mastro Sansonetto90 Belsito mastri fabbricatori della città de Cosenza[…] essendo stati chiamati et richiesti[…] dalla Reverenda ducessa Abbasessa et monache dello Reverendo monasterio delle vergine della città di Cosenza dentro detto monasterio […] fratture et Rotture de mura che si ritrovano dentro detto monastero et per più nello palazzo che fu dello quondam barone della Sellia et In quello essi mastri hanno reconosciuto In detto palazzo dello appartamento de bascio per Insino allo appartamento de sopra et proprio per Insino alle Coperta si sono retrovati dui appartamenta verso le case de Cesare Sersale tutti spurga scuiti che minacciano ruina che si non fussero state acconciate et ref***nute per dette munache furriano Caschate, et anco dicono havere visto uno et altro appartamento che confina nello monasterio predetto similmente vi e grande motivo di tanto pericolo […]91. Per i lavori eseguiti il compenso era di 6300 ducati. Nel 1612 i muratori Giacomo e Gasparo Belsito, Ottavio Arabia e mastro Francesco Mangerio92, nel documento homo experto, deponevano a proposito dei lavori di restauro e consolidamento effettuati nel palazzo di Lodovico della Cava e Sabella Gulla, curatori di Lelio Caputo. Il palazzo era posto in […]loco ditto la Garruba[…] ed ai lavori partecipava anche Sansonetto Belsito, definito […]homo espertissimo videro essi mastri Insieme con detto Sansonetto li detti motivi dello detto palazo per li quali Giudicorno che il detto palazo havesse bisogno di subitaneo riparo accio che non Ruinasse in tutto Et Per ciò dissero ad detti **** Calce, Pietre et altri cimenti per che era necessario fare gran spesa Bisognando fare spontoni93 dentro terra di tufi et fare altra fabrica costi come effettivamente da essi mastri et altri mastri per dui anni continui in circa che fabricorno in detto palazo se fecero li detti spontoni dentro terra di tufi che fu necessario trovare fondamento saldo, et anchora sopra terra fare archi anchora di tufi et altra fabrica cossi come evidentemente appare. Et de più in detto palazo in detto tempo si, e, fabricato un altro appartamento rotto insino al tetto cossi come evidentemente appare nelli quali fundamenti fabriche et appartamento havendose considerazione alla grande quantità di tufi, Calce Pietre et arena et altre cose necessarie et maxime alle giornate de mastri et manipuli […]94, i lavori durarono due anni per un corrispettivo di 1000 ducati. Dopo il terremoto del 1638, molti erano i fabbricati che presentavano crepe di lieve o di grossa entità, oppure vere e proprie demolizioni, in quel caso i mastri muratori erano chiamati a risolvere il danno compiuto dalla natura, e per la stima dei danni mastro Giovanni Vercillo, fabbricatore esperto di Rogliano, viene convocato assieme ad altri esperti per la stima complessiva degli edifici di Cosenza95; un anno dopo, nel 1639, lo stesso Vercillo, assieme a mastro Pietro Giovanni Belsito, architetto di Rogliano, faceva fede che avevano sistemato uno dei palazzi di appartenenza al monastero delle Vergini sito presso i Padolisi96. 84


E ancora, nel 1645, per l’abitazione di Raimondo Dattilo in zona Giostra Vecchia, Francesco Antonio Minardo, Gasparo Belsito, Vincenzo Maurello e Tommaso Greco di Rogliano […] mastri fabbricatori et fulvio pelegrino manipolo […] per causa del terremoto si ruinarono dette case […] come anco per finire detta fabrica […] per quello che si ha da fare in dette Case per la scala di tufi […] astrachi, tufi per una scala lunga e Cinque camere e bassi[…]97 per una stima di 200 ducati. Questi ultimi atti che trattano le stime sulle abitazioni dei mastri, colgono un aspetto poco studiato che fornisce notizie ulteriori all’impegno e alla responsabilità degli stessi. Non solo la convenzione per la costruzione di un’opera era da segnalare al notaio, ma anche l’opinione ad eseguire un lavoro oppure a fermarlo era importante e consente di avere dei dati sulla loro professionalità.

Note 1  Per i suggerimenti archivistici, consigli e aiuti desidero ringraziare Maria Paola Borsetta, Francesco Caravetta, Maggiorino Iusi e Amalia Mazzuca, già funzionaria dell’Archivio di Stato di Cosenza. Per i suggerimenti bibliografici vorrei esprimere la mia gratitudine a Marilena De Bonis, senza la quale non sarei riuscita a reperire tutti i riferimenti. I rimandi archivistici sono introdotti da AScs per l’Archivio di Stato di Cosenza. 2  G. Marafioti, Croniche et Antichità di Calabria, Padova, 1601, op. cit., p. 200v. Sulla pietra di Genova anche il Galanti riportava che […]L’olio si conservava in vasi di creta o cisterne fatte di pietra di Genova […] si approfondisca su Galanti M. G., Giornale di Viaggio in Calabria (1792) su Scritti sulla Calabria a cura di Augusto Placanica, Di Mauro Editore, Cava dei Tirreni, 1993, p.159. Evidentemente la pietra di Genova era conosciuta per la sua qualità e la sua lavorazione, per questo forse anche importata in Calabria. 3  G. Marafioti, op. cit., p. 200r. 4  Sul marmo Calabrese: «[…]Mentre studiosi e cultori vantano i marmi delle varie regione d’Italia, per la Calabria nessuno erudito scrive sulle rocce che le appartengono “… Pure, i calcarei «antichi» di Parghelia, i graniti grigi e rossi di Nicotera, di Stalettì, di stilo, di serra, di Longobucco, i marmi verde e carneo di Gimigliano (è celebre il «Verde di Calabria» adoperato per secoli in molte città del Mezzogiorno) i marmi di Falconara, quelli di Palizzi etc. etc. sono ricchezze naturali che abbiamo. Ma, per l’uso di mezzi primitivi le cave sono pochissimo lavorate o addirittura restano silenziose! Chi ha considerato la convenienza dell’industria pietrifera in Calabria? Ebbene, in altre regioni i progressi e le iniziative fervono dappertutto. E’ vero che il cemento ha… ucciso la pietra; ma il marmo anche nelle ricostruzioni delle nostre città è stato adoperato e sarà adoperato. Però si farà arrivare la pietra di Biella, o la diorite di Anzola d’Ossola!!![…]». Cfr. F. Dattilo, La produzione pietrifica italiana… ed i nostri marmi in Brutium. Giornale d’Arte, anno III -1924, n.3. 5  G. Marafioti, op. cit., p. 200v. 6  G. Marafioti, op. cit., p. 278. 7  G. Marafioti, op. cit., p. 278v. 8  G. Marafioti, op. cit., p. 208v. 9  J.H. Bartels, Lettere sulla Calabria, Rubettino, Soveria Mannelli, 2007 (1787), p. 110. 10   L. Pagano, Studi su la Calabria, Napoli, D’Auria, Vol. II, 1901, p. 37. 11   M.G. Galanti, op. cit., pp. 295-296. 12   G. Sole, Viaggio nella Calabria Citeriore dell’800, Amministrazione Provinciale di Cosenza, 1985, pp. 355-356. 13   AScs, Fondo Notarile, notaio Angelo de Paola, 11aprile 1608, cc. 184r-186r: 186r. 14   AScs, Fondo Notarile, notaio Angelo de Paola, 16 aprile 1608, c. 188. Di questo scalpellino si da notizia in B. Mussari-G. Scamardì, Artisti architetti e “Mastri Fabbricatori”, in S. Valtieri, a cura di, Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella Storia, Roma Gangemi, 2002, p. 167. 15   AScs, Fondo Notarile, notaio Filippo Sicilia, 26 aprile 1729, cc. 130r-131v, con allegati non numerati: 131rv. Riguardo agli strumenti dello scalpellino: Deni e Lico scrivono che i modi per lavorare la pietra sono tre e per ogn’uno di essi si usavano strumenti diversi. […]Gli scalpelli di varia forma e taglio, soprattutto per i calcari, battuti con le mazze ed i mazzuoli, servono per fare saltare dal blocco schegge più o meno grandi; i trapani di vari tipi vengono impiegati per forare la pietra; le lime ed abrasivi naturali (pomice, smeriglio, ecc.) ne levigano la superficie, dalla sbozzatura alla modellazione, mentre quello a taglio rifinisce e segna i bordi netti delle palpebre e delle labbra, i solchi della barba e dei capelli, le pieghe delle vesti, ecc. La levigatura più accurata è ottenuta mediante le lime, mentre per le parti situate in profondità, vengono usati scalpelli a testa piatta, a testa curva ed il trapano. Le misure sul blocco di pietra vengono riportate con il filo a piombo… la pietra eccedente viene asportata con lo scalpello fino a scoprire la superficie voluta […] Lo scalpello a punta è importante per tutte le fasi della lavorazione[…]. Con i secoli gli strumenti non sono cambiati. Cfr su C. Deni, e A. Lico, Il Cantiere delle Maestranze Roglianesi. Una proposta di restauro: La chiesa di S. Ippolito (XVIII sec), Alinea Editrice, Firenze, 1994, p. 134. 16   AScs, Fondo Notarile, notaio Giovanni Giacomo Trocini, 27 ottobre 1772, c. 185v. 17   AScs, Fondo Notarile, notaio Pasquale Assisi, 18 gennaio 1768, c. 45v. 18   AScs, Fondo Notarile, notaio Carmelo Maria Trocini, 23 aprile 1793, c.117. 19   AScs, Fondo Notarile, notaio G. Andrea Giordano, 6 luglio 1560, cc. 86r-91r: c. 91r. 20   AScs, Fondo Notarile, notaio Pasquale Assisi, 13 agosto 1756, c. 69r.

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Baule: Baùllu o bagùllu, s. m. baule, Cfr. L., Accattatis L., Vocabolario del Dialetto Calabrese, Edizioni Brenner, Cosenza, 1991, p. 88.   AScs, Fondo Notarile, notaio Pasquale Assisi, 13 giugno 1779, c. 149r. 23   AScs, Fondo Notarile, notaio Pietro Assisi, 12 febbraio 1731, c. 87v. 24   Scifo: scfu, s. m., trògolo, truogo, truogolo: vaso per lo più di legno incavato, bislungo, in cui si da mangiare ai porci, ai polli e simili bestie. Cfr. L. Accattatis, op. cit., p. 679. 25   AScs, Fondo Notarile, notaio Giacomo Maugeri, 15 dicembre 1593, c. 442. 26   Griscioli: Grisciuòlu, s.m. crogiuolo. Cfr. Accattatis L., op. cit., p. 334. 27   AScs, Fondo Notarile, notaio Salvatore Malatesta, 2 dicembre 1701, c. 63. 28   AScs, Fondo Notarile, notaio Pasquale Assisi, 16 marzo 1773, c. 75v. 29   Mezzo Tumulo è oggi nella zona di piazzatta Toscano. 30   Manipoli: manìpulu, …Manovale: operaio che porta al muratore la calcina stemperata ed altro materiale. Cfr. Accattatis L., op. cit., p.409; Manipula, s.f. Cazzuola che serve al mestiere dei muratori per prendere la calcina. Cfr. Accattatis L., op. cit., p.409. 31   AScs, Fondo Notarile, notaio Pietro Assisi, 12 maggio 1760, c. 100 (inserto cc. 22-22v). 32   Per comprendere dove era posta la fontana conosciuta con l’appellativo Messer Andrea, si può consultare il Fondo Notarile su notaio Giuseppe de Zazzo, 26 febbraio 1619, c. 20, in cui si riporta: […] nella città di Cosenza loco ditto Misser Andrea confine la via publica che va alla fontana seu via di Messer Andrea et la strata che si va in Santa lucia […]. 33   Catùsi: …s.m. tubo di terracotta, doccione / di catusi si fanno i condotti di acqua, o di materie fecali… L. Accattatis, op. cit., p. 138. 34   Inseve: nsivare per il G. Rohifs, Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria, Longo Editore, Ravenna, 1977, p. 915; oppure Nsivare, v. tr. Spalmare di Sego, ungere con sego. Cfr. L. Accattatis, op. cit. p. 509. 35   AScs, Fondo Notarile, notaio Pietro Assisi, 12 maggio 1760, c. 111 (inserto cc. 33-33v). 36   Fontana nuova situata presso l’attuare piazza dei Valdesi. 37   AScs, Fondo Notarile, notaio Pietro Assisi, 12 maggio 1760, c. 113 (inserto c. 35). 38   AScs, Fondo Notarile, notaio Pietro Assisi, 12 maggio 1760, c. 114 (inserto c. 36). 39   AScs, Fondo Notarile, notaio Pietro Assisi, 12 maggio 1760, c. 119 (inserto 9 settembre 1751, c. 45). 40   AScs, Fondo Notarile, notaio Pietro Assisi, 12 maggio 1760, c. 120 (inserto 12 febbraio 1751, c. 46). 41   AScs, Fondo Notarile, notaio Pietro Assisi, 12 maggio 1760, c. 121 (inserto 10 novembre 1750, c. 47). 42   Domenico Misiti, Geronimo Vercillo, Giacinto Gullo, Domenico Milano e Pelegrino Giacomo: tutti Mastri sconosciuti che per il momento compaiono solo in questo documento per la costruzione della Fontana Nuova. 43   AScs, Fondo Notarile, notaio Pietro Assisi, 12 maggio 1760, c. 122 (inserto 16 novembre 1750, c. 48). 44   A proposito di marmo nero segnaliamo che Galanti scriveva che: […] A Gimigliano, 8 miglia da Catanzaro, vi sono marmi neri perfetti, bianchi, verdi i quali sono più abbondanti. Vi è anche il verde antico. Nel palazzo di Bagnara in Napoli e nelle case di Tiriolo si possono vedere i marmi di Gimigliano.[…], Cfr. M.G. Galanti, op. cit., p. 150. 45   AScs, Fondo Notarile, notaio Antonio Conti, 23 agosto 1714, c. 342. 46   Palmo misurata alla Napoletana: il palmo era un’unità di misura della lunghezza in uso prima dell’adozione del sistema metrico decimale. Il palmo napoletano valeva 0,2633 (dal 1480 al 1840). Cfr., F. Caravetta, Un orto accanto alla casa. Scorribande storiche, antropologiche e demografiche in una piccola comunità: Scalzati dal XVIII secolo, Falco Editore, Cosenza, 2007, p. 10. 47   AScs, Fondo Notarile, notaio Giovan Battista di Iorio, 29 Giugno 1800, c. 53v. 48   Con denaro pervenuto dalla Gabella delle Bocche ovvero la tassa sulla farina. 49   AScs, Fondo Notarile, notaio Antonio Conti, 20 settembre 1699, c. 470v. 50   Lamie: «làmia, s.f. lamia, volte delle camere, delle sale, e simili costruzioni» Cfr. L. Accattatis, op. cit, p. 367. 51   AScs, Fondo Notarile, notaio Antonio Conti, 20 settembre 1699, c.470v. 52   Alla gara comparvero Antonio Bova, Antonio Crispino, Pietro Domenico Mangieri e Pietro Giovanni Pulletta. 53   Antonio Bove o Bova, mastro attivo a Cosenza tra il 1696 al 1723. Eseguì diversi lavori importanti per alcune Chiese. Si consulti B. Mussari e G. Scamardì, Notizie sul’attività di architetti, artisti e costruttori in Calabria Citra nei secoli XVI-XVIII, Università degli Studi di Reggio Calabria Dipartimento P.A.U., anno VII, 13-14, p. 45. 54   M. De Bonis, Restare di sasso, Amministrazione Comunale di Cosenza, 1997, p. 9. 55   R. Chimirri, Architettura popolare del Tirreno Cosentino, Rubettino, Soveria Mannelli, 2007, p. 144. 56   AScs, Fondo Notarile, notaio Angelo Desideri, 10 maggio 1536, c. 135rv a penna. 57   E probabile che con il termine marmo indicassero anche rocce differenti, ma dalla qualità molto dura. In alcuni casi però erano vere e proprie misture, infatti nelle tecniche esecutive: […] Paraste, lesene, architravi, timpani, cornici, false cortine a mattoni, sono elementi riproposti in materiale povero come intonaco, ad imitazione sia nelle linee che nella superficie apparente e nei materiali più pregiati come il finto marmo. La sostituzione della pietra con l’impasto che ne imitava i caratteri estetici, si riproponeva per la durata che era legata alla perfezione esecutiva» inoltre in queste misture […] L’impasto a base di calce e/o gesso e polvere di marmo, infatti, sono sostanzialmente simili a quelli utilizzati per le decorazioni plastiche, la differenza stava nella maggiore o minire fluidità del composto… cfr. su P. Luberto, Le finiture in architettura: intonaci e stucchi per una ricerca tra fonti e manufatti, in Indagini e Studi su Cosenza e la Calabria a cura di Tobia Cornacchioli, Amministrazione Comunale di Cosenza, novembre 1997, pp. 221-222. 58   AScs, Fondo Notarile, notaio G. Lorenzo Greco, 1 maggio 1564, c. 322v. 59   AScs, Fondo Notarile, notaio Domenico Carusi, 23 settembre 1775, c. 76v. 60   Per il disegno, rarissimo da reperire in allegato all’atto, si propone l’esempio di una convenzione per la costruzione di un altare maggiore in marmo, tra i frati della chiesa di S. Biagio di Spezzano Grande e Domenico Palmieri di Napoli, all’atto era allegato il disegno di come sarebbe dovuta essere l’opera. Il soggetto non è un’opera in marmo calabrese. L’altare venne eseguito a Napoli e poi fatto arrivare per mare a Paola, ecco i fatti […] tenendo bisogno della Custodia, ove sta nostro Signore Gesù Sacramento, sendo l’antica tutta diruta, e scioccamente lavorata; An pertanto detti signori Parrochi, e Procuratore risolto farla lavorar nuova di marmo; Ed avendone parlato con esso Signor Don Domenico professor di simili opre, sendosi dato il caso di esser lo medesimo trovato in questa Padria di Spezzano Suddetta, per piantar nel Venerabile Convento di San Francesco di Paola di detto Casale, e nella Chiesa dello Stesso, il nuovo Altare di Marmo, dico nuovo maggior Altare di Marmo, da esso lui lavorato in Napoli suddetta; Si offrì pronto, e convennero farla del seguente modo /cioè/ che la Custodia suddetta sia intiera, colle rivolte squarciata, di palmi tre, ed un quarto di altezza, a 21 22

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palmi due, ed un quarto di larghezza, di marmo, del più migliore puosi avere in essa città, biondo giallo di Verola, Breccia di Francia, verde antico, e li due specchietti di lapis lazzaro fittizio, ed altri Colorati Marmi, giusta, e tale quale detto Signor Professore, ne ave formato il disegno, di sua mano, e di essi Signori Parrochi, e Procuratore sottoscritto, qual’anno consegnato a noi inserirlo nel presente contratto […] E più farci la Cascetta di Rame Cipro, ma non il Portellino, quale resta a cura, e spesa di essi Signori Parrochi; e Procuratore farselo fare. E per la fine del mese Novembre, dell’andante anno 177sette, esso Signor Professore, dico esso Signor don Domenico a sue […] spese consegnarla nella citta di Paola a detti Reverendi Parrochi, e Procuratore, o a di loro messo; E ciò per prezzo di docati cinquantacinque […] di cui 10 ducati in contanti e i restanti 45 ducati da pagare in Spezzano Grande. AScs, Fondo Notarile, notaio Ignazio Ranieri, 17 agosto 1777, c.21v. Qu esta e l’unica testimonianza dell’altare di cui non rimane nessuna traccia. Per approfondimenti si consulti: Via P., Spezzano Grande. Storia, folklore e nobiltà, Edizioni Orizzonti Meridionali, 1994, p. 25 e p. 240. 61   AScs, Fondo Notarile, notaio G. Battista Dionisalvi, 3 luglio 1838, c. 115r. 62   Tumula: Tùmminu, s.m. Tomolo: Antica misura per gli aridi corrispondente a circa 50 litri dell’ettolitro italiano. Cfr. Accattatis L., op. cit., p. 782. Il Rohlfs riporta le seguenti varianti: Tùmminu tùmmulu, tùmanu, tùminu,…tomolo, antica misura per aridi» p. 735; …tùmminu, tùmeno, tùmunia, Cfr. Rohlfs G., op. cit., p. 912. 63   Sporta: Cesta. Cfr. Accattatis L., Vocabolario del dialetto Calabrese, Pellegrini, 1977, p. 96. 64   Tornese: Moneta in rame del valore originale di 6 cavalli, usata già nel periodo anteriore al 1790. Cfr. F. Caravetta, op. cit., p. 11. 65   Cati: Catu …Mastello, Vassoio: secchia di legno a doghe, di zingo od altro metallo, che serve trasportare calce, acqua e simili liquidi L. Accattatis, op. cit., p. 138. 66   Grana: fino al 1814 si divideva in 12 cavalli, ovvero la dodicesima parte di un grano napoletano. Cfr. F. Caravetta, op. cit., p. 9. 67   Rena: Sabbia Cfr. G. Rohlfs, op. cit. p. 580. 68   Some: Soma. Sarma, Cfr. L. Accattatis, op. cit., p.710; e Sarma, …Salma, Soma, carico, fardello. Cfr. L. Accattatis, op. cit., p. 660. 69   Cavalli: Cavallo Fino al 1814, il cavallo era la dodicesima parte di un gran napoletano. Con la legge del 14 agosto 1814 divenne la decima parte di un grano napoletano e valeva 0,0042 lire italiane. Cfr. Caravetta F., op. cit., p. 9. 70   La Canna cubica ovvero di 512 palmi cubici. Cfr. Zuccagni Orlandini A., Corografia Fisica, Storica e Statistica dell’Italia e delle Due Isole, supplemento al volume undicesimo, Firenze, 1845, p.518. 71   Mazzacane: Grosse pietre per eguagliare i vuoti della muratura. Crf. G. Rohlfs, op. cit., p. 400; Pietra o sasso di media grandezza, di figura informe necessario nelle fabbriche in pietra per eguagliare i vuoti della muratura, L. Accattatis, op. cit., p. 424 72   Saurri: Pietrame minuto, pietruzze. Cfr. G. Rohlfs, op. cit., p. 606. 73   Astraco: Astràcu, s. m. lastrico, pavimento di calce, o Batturo…. Cfr. L. Accattatis, op. cit., p.72. 74   Ceramili: Tegole. Cfr. Rohlfs, op. cit., p. 158. 75   Gissu: Gesso. Cfr. Rohlfs, op. cit., p. 302. 76   Lavaturo: «Lavatoio, luogo fatto per lavare i panni». Cfr. Rohlfs, op. cit., p. 358. 77   Sui tufi si riporta che presso Carolei si trovava «[…] le cave di una pietra calcarea porosa rossiccia di natura tufacea, che impiegasi a Cosenza ed in gran parte di quella provincia nella fabbrica degli edifizi. Anche presso Mendicino[…] in effetti ne abbiamo riconosciute due varietà: una più compatta di color bianco, che gli scalpellini distinguono col nome di biancholella, e l’altra di grana più grossolana e di colore rossiccio[…] Questo secondo, per esser più tenero, può segarsi in lastre della spessezza di un pollice e mezzo, e somministra ottimi quadroni per i pavimenti delle abitazioni; della stessa pietra si tagliano anche le imposte delle porte,[…] mentre per le girelle, per gli archi, per le mostre, e tutto altro, che deve rimanere nell’aria aperta si preferisce la pietra bianca, per meno della prima soggetta ad essere attaccata dalle meteore». Petagna, Terrone, Tenore M., Viaggio in alcuni luoghi della Basilicata e della Calabria Citeriore effettuato nel 1826, Napoli (1827) Ed. Prometeo 1992, p.71 78   Galanti scriveva «[…] il gesso vi abbonda sotto Maida. A Gimigliano stato di Tiriolo vi è un bel marmo che si approssima al serpentino, ma non si sa lastrere. A Marcellinara vi è abbondanza di lapis specularis[…]», di cui dava una spiegazione in nota 4 della stessa opera: «Lapis specularis: la selenite trasparente, usata come vetro nell’antichità previo taglio a stati», cfr su Galanti M. G., op. cit., p. 268. 79   In Altomare C., Il palazzo della Provincia di Cosenza dal ‘500 al ‘800, Edizioni Erranti, Cosenza, 2011. AScs, Fondo Notarile, notaio Filippo Sicilia, anno 1742, c.122v. in allegato alla carta 141 e alla c. 145 80   Con l’appellativo di Mastri si indicavano i capi di una bottega o chi praticava l’artigianato specializzato. 81   Saverio Bova operò a Cosenza tra il 1713 e il 1739 per la realizzazione della Chiesa di S. Maria delle Grazie, la progettazione della sacrestia dell’Arciconfraternita del SS. Nome di Maria nella Cattedrale, terminata poi da Gregorio Smiraglia. Sempre insieme con Smiraglia, realizzò portale e scalinata della Congregazione di S. Giovanni Battista nel quartiere di Portapiana. Notizie estratte dall’elenco degli artieri pubblicato da Mussari B. e Scamardì G., op. cit., pp.43-60. 82   Giuseppe Smiraglia era presente nel 1734 per il completamento del ponte dei Pignatari a Cosenza. Cfr. Mussari B. e Scamardì G., op. cit., p. 50. 83   Catalano Nicola era presente a Cosenza nel 1730 per la progettazione del ponte dei Pignatari con la collaborazione di Saverio Piscitello. Cfr. Mussari B. e Scamardì G., op. cit., p. 45. 84   Carroccio oppure Carroccia Giuseppe: Impiegato dal Parlamento cittadino per il restauro delle fontane di Cosenza, infatti in un documento, che si propone di seguito, veniva indicato come Mastro e Fabbricatore, anche questo lascia presupporre che fosse riconosciuta la sua grande validità lavorativa. 85   Sul Catasto Onciario veniva registrato come Mastro Fabricatore di anni 50, con casa davanti la parrocchia di S. Lorenzo nella zona dei Pignatari, un’altra abitazione in affitto e un terreno nel territorio di Zumpano. 86   Sul Catasto Onciario veniva registrato come Mastro Fabricatore di anni 67, con casa propria situata sotto il Monastero della SS. Trinità di Cosenza, inoltre proprietario di bassi e una torre nel territorio di Caricchio, 87   Jaccati: «jàccare: v. tr. Spaccare, flaccare, rompere…». Cfr. Accattatis L., op. cit., p. 348. 88   AScs, Fondo Notarile, notaio Angelo de Paola, 28 ottobre 1581, c. 72r. 89   AScs, Fondo Notarile, notaio G. Andrea Giordano, 5 dicembre 1560, c. 367r 90   Sansonetto Belsito proveniva da Rogliano ed era uno dei Mastri più conosciuti dell’epoca. Di lui si sanno molte notizie, si consulti Mussari B. e Scamardì G., op. cit,. p. 44 e su Deni C., e Lico A., op. cit. p. 128 in cui si trova questa notizia:«…Costruì sul Savuto il ponte detto “Balzata” o “Iscaromana”, di cui oggi restano solo i due piloni». 91   AScs, Fondo Notarile, notaio Giovanni Domenico Scarpelli, 3 marzo 1606, c.81. 92   Maugeri o Vangeri Francesco Giuseppe, originario di Rogliano era presente nel 1610 a Cosenza per la stima dei lavori del Castello. Cfr. Mussari B. e Scamardì G., op. cit., p. 50. 93   Spontone: «spuntuni: s. m. Canto o angolo di strada o casa». Cfr. Accattatis L., op. cit., p. 723.

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AScs, Fondo Notarile, notaio Patrizio Tavernese, 7 giugno 1612, c. 241v.   AScs, Fondo Notarile, notaio Francesco Maria Scavelli, 21 settembre 1639, all’atto è allegato un lungo elenco dei danni subiti da ogni edificio di Cosenza. I mastri chiamati ad effettuare la perizia dei danni erano: mastro Orazio Valente, mastro Francesco Abruzzino, mastro Polibio Belsito e mastro Giovanni Vercillo. 96   AScs, Fondo Notarile, notaio Giovanni Battista Tavernise, 8 Luglio 1656, c. 178. 97   AScs, Fondo Notarile, notaio Mercurio Cacciola, 10 febbraio 1645, c. 22r a matita. 94 95

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Indice dei nomi Mastri Fabbricatori, Muratori e Manipoli ANSELMO MARIO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); ARABIA OTTAVIO, muratore attivo a Cosenza (1612); ARGENTO FRANCESCO, mastro muratore che lavorò alla fontana di Paola (1800); ARCURI (o Arturi) GIUSEPPE, mastro muratore che lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); ARTESIO QUINTO di S. Stefano, mastro fabbricatore (1581); ARTURI FRANCESCO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); BELSITO GASPARO, mastro fabbricatore attivo a Cosenza fra il 1612 e il 1645; BELSITO GIACOMO, muratore attivo a Cosenza (1612); BELSITO MATTEO di Rogliano, mastro fabbricatore (1581); BELSITO PIETRO GIOVANNI, architetto di Rogliano, attivo a Cosenza nel 1639; BELSITO SANSONETTO, mastro che lavorò al monastero di S. Maria delle Vergini (1606) ancora attivo a Cosenza nel 1612; BENDINI BARTOLOMEO, scalpellino fiorentino lavorò alla facciata del Convento dell’Annunziata di Bisignano (1564); BIRURDO (di) GIO ANDREA, mastro che lavorò al monastero di S. Maria delle Vergini (1606); BONAFACI SERAFINO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); BOVA ANTONIO, mastro che eseguì la ricostruzione delle condutture e le strade a Cosenza(1699); BOVA SAVERIO,mastro fabbricatore che lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); BRANCA (o Brancha) DOMENICO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); CAFERRO DOMENICO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); CAFERRO GIUSEPPE, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); CAIRO ANTONIO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); CAIRO FRANCESCO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); CALABRIA GENNARO, muratore orginario di Fuscaldo, lavorò alla chiesa Matrice di Bisignano (1838); CARROCCIO GIUSEPPE, mastro che lavorò alla restauro della Fontana Nuova (1750) e al restauro della fontana sotto il sedile (1760); CARUSO MARZIO, mastro che lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli(1741-42); CASCITELLA NICOLA, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); CATALANO GIUSEPPE, mastro che lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); CATALANO NICOLA, mastro muratore che lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); 89


CATALANO RAFAELE, mastro che lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); CAVALIERE PASQUALE, mastro fabbricatore (1756); CAVALIERI DIEGO, Mastro muratore lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); CIODARO NICOLA, mastro muratore lavorò alla fontana di Paola (1800); COSTANZO (di) FRANCESCO mastro di Rogliano (1560); CRISPINO ANDREA, muratore di Cosenza (1729); CRISPINO PIERANTONIO, mastro muratore lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); CROCCO DOMENICO, mastro muratore lavorò alla fontana di Paola (1800); CURCIO GIOVANNI, scalpellino di S. Lorenzo di Padula, lavorò alla chiesa Matrice di Bisignano (1838); D’ACRI SERAFINO, Mastro muratore lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); D’ANGELO FRANCESCO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); DE NICOLO ANTONIO, scalpellino di Firenze lavorò alla cappella della chiesa Matrice di Montalto (1536); FORNO GIACINTO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); GARGANO FRANCESCO, mastro fabbricatore che lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); GARRITANO HIPPOLITO, mastro che lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); GENTILE DOMENICO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); GEROLIA GENNARO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); GRASSO ANTONIO, scalpellino fiorentino abitante a Cosenza (1608); GRECO TOMMASO, mastro fabbricatore attivo a Cosenza nel 1645; GULLO GIACINTO, mastro che lavorò alla Fontana Nuova (1751); IANTORNO FRANCESCO, muratore (1756); MAIDA RAFAELO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); MANFREDA GIUSEPPE, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); MANFREDA SAVERIO, mastro fabbricatore (1756); MARZIO CARUSO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); MAUGERIO (o Vangeri) FRANCESCO, muratore ovvero homo experto attivo a Cosenza (1612); MAURELLO VINCENZO, mastro fabbricatore attivo a Cosenza nel 1645; MEDAGLIA GREGORIO, Architetto e mastro fabbricatore lavorò al restauro della Fontana Nuova (1760); MERCURIO GIUSEPPE(?), muratore (1756); MICHELE (di) DOMENICO, ingegnero che sovrintese i lavori di restauro della Fontana Messerandrea (1750); MICHELE GIOVANNI BATTISTA, Stuccatore di Rogliano lavorò al restauro della chiesa di S. Maria del Soccorso di Scalzati (1775); MILANO DOMENICO, mastro che lavorò alla Fontana Nuova (1751); MINARDO ANTONIO, mastro attivo a Cosenza nel 1645; MISITI DOMENICO, mastro che lavorò al restauro della Fontana Nuova (1751); 90


ORLANDO OTTAVIO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); PATITUCCIO SAVERIO, manipolo (1756); PELEGRINO FULVIO, manipolo attivo a Cosenza nel 1645; PELEGRINO GIACOMO, mastro che lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42) e per la costruzione fontana Nuova(1750) e il restauro della fontana sotto il sedile (1760): PERRELLO GENNARO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); PIRRELLO ANDREA, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); PIRRELLO PIETRO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); PISCITELLO DOMENICO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); RIZZO DOMENICO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); RIZZO DOMENICO, mastro che lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); ROMANO ANTONIO, mastro muratore lavorò alla fontana di Paola (1800); ROMANO FEDELE, mastro muratore lavorò alla fontana di Paola (1800); SCONZA FRANCESCO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); SGANGA GIOVAN BATTISTA, muratore (1756); SMIRAGLIA GIUSEPPE, mastro che lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); SPINELLO DOMENICO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); SPROVIERO ANTONIO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); VALENTE LUPO ANTONIO, lavorò al restauro del Monastero di S. Maria di Costantinopoli (1741-42); VERCILLO GERONIMO, mastro che lavorò alla Fontana Nuova (1751); VERCILLO GIOVANNI, mastro fabbricatore di Rogliano che fece la perizia dei danni del terremoto nel 1638; VIOLA GIUSEPPE, mastro fabbricatore (1756);

Manipoli semplici o trasportatori di materiale per il Monastero di S. Maria di Costantinopoli Caruso Marco, Caterina Tomaso, Cozza Domenico , Cucunato Saverio, Cucunato Michele, D’Aiello Antonio, Di Napoli Lorenzo, Di Rende Pietro, Di Rose Ignazio, Di Sienzo Ignazio, Furgiuele Francesco, Le Piane Francesco, Mannarino Giuseppe, Marino Andrea, Mirabelli Francesco Antonio, Parise Gennaro, Perrozza Francesco, Persaverito Carmino, Pirrello Andrea, Pulice Carmino, Spanarello Salvatore, Villalla Gaetano, Villella Diego Anselmo

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Pietre di Calabria: le scuole, i cantieri e le maestranze. Il mestiere e l’arte del decorare nella provincia di Cosenza


Giorgio Leone

Pietre di Calabria: una introduzione storiografica per lo studio del patrimonio degli scalpellini dell’attuale provincia di Cosenza in età medioevale e moderna

Alla ricerca di una sintesi Non è facile tracciare le linee del recupero storiografico delle attività artistiche della pietra legate alla Calabria in età moderna. A partire dalla seconda metà del Cinquecento, cioè da quando nasce e si sviluppa la tradizione erudita delle storie regionali – da Gabriele Barrio1 e Girolamo Marafioti2 fino a Giovan Battista Pacichelli3 alla fine del Seicento –, è costante il riferimento all’attività estrattiva e lavorativa della pietra nella regione. Semmai capiterà di riscontrare maggiore attenzione, in un autore rispetto a un altro, nello specificare il materiale estratto e lavorato oppure la segnalazione di un luogo invece di un altro dove queste lavorazioni sono attestate. La stragrande produzione di articoli e saggi in cui è affrontato l’argomento per tutto il Novecento, su riviste locali, più o meno specialistiche, non ha ancora ricevuto particolare attenzione da parte della critica e degli storici, cosicché ci si trova di fronte a un mare magnum tutto ancora da esplorare e conoscere per capire esattamente come l’interesse verso tale produzione si sia sviluppato e tenuto costante. Pochissime sono le opere di sintesi e le uniche che, a parere di chi scrive, dimostrano un certo interesse che esula dalla più pretta divulgazione o pubblicistica sono lo studio di Concetta Deni e Amedeo Lico, incentrato nello specifico sulle maestranze roglianesi e sul rilievo architettonico di un edificio della cittadina4, e quello di Eduardo Bruno sugli scalpellini di Calabria, un’opera per molti versi meritoria che ha cercato di mettere ordine sullo stile e sulla diffusione di talune maestranze5. Entrambi, però, pur mostrandosi importanti per lo studio e l’analisi di cantieri e maestranze, non chiariscono l’evoluzione critica di talune convinzioni e di alcuni pregiudizi, cosicché ancora oggi è difficile discernere la reale consistenza di certe controverse informazioni storiche e critiche, tipo la presenza di scalpellini o tagliapietre calabresi in costruzioni napoletane di età aragonese oppure il nesso ‘lavorazione del legno-lavorazione della pietra’ e finanche i modi e le motivazioni di talune ‘migrazioni’ e spostamenti stabili di maestranze sullo stesso territorio, nonché l’effettivo ruolo di determinate personalità all’interno dei cantieri e delle maestranze e se cioè di progettista, di capomastro o di esecutore. Rimangono, dunque, in tal campo di interesse globale al fenomeno, ancora essenziali i contributi di Alfonso Frangipane del 19506 e del 19517 che, sebbene per quegli anni risultino certo meritevoli per la situazione degli studi calabrese, oggi, si converrà, senza nessun giudizio valutativo rispetto allo studioso, si dimostrano indubbiamente datati e forieri di domande e dubbi più che di certezze. 94


Gran parte di queste lacune, così come gran parte dei chiarimenti attesi, però, sono state colmate dalla ricerca archivistica che, nell’ambito specifico della provincia di Cosenza, vanta un inizio abbastanza precoce con Mario Borretti8, poi continuata da altri ricercatori a cui si debbono parziali ritrovamenti e studi9, e finalmente ripresa e rinvigorita, a distanza di quasi cinquant’anni, ma con giudizio, talento e sistematicità, da Bruno Mussari e Giuseppina Scamardì10. Su tali importantissimi risultati si sviluppano gli studi successivi che hanno portato alla migliore conoscenza del fenomeno e il riferimento va sicuramente alla pubblicazione dei due considerevoli volumi miscellanei, avvenuta per entrambi nel 2002: Storia della Calabria nel Rinascimento: le arti nella storia curato da Simoneta Valtieri11 e Calabria curato da Rosa Maria Cagliostro12 per la collana “Atlante del Barocco in Italia”, diretta da Marcello Fagiolo. Con questi testi è stato coperto tutto l’arco cronologico dell’età moderna calabrese e in essi si trovano interessanti contributi tipologici e documentari che informano sulle effettive realtà della lavorazione della pietra in Calabria e dei rapporti con altre aree del Viceregno di Napoli e certamente pongono le basi ad analisi future più approfondite, atte alla conoscenza sistematica della lavorazione della pietra per finalità artistiche nella regione. Tali pubblicazioni si avvantaggiano anche degli ottimi contributi di sintesi delle curatrici nei quali sono state individuate e tracciate le direttrici stilistiche e culturali di queste lavorazioni e delle personalità maggiori in esse recuperate, sia per il Quattrocento e il Cinquecento13 sia per il Seicento e il Settecento, con una larga appendice nell’Ottocento14. L’indagine sistematica e tipologica delle lavorazioni in pietra, in assenza di documentazioni archivistiche, è risultata finora quella in grado di dare maggiori e più significativi risultati nel campo dello studio dei manufatti in pietra, e allora vanno senz’altro indicati il Corpus tipologico dei portali prodotto da Giuseppina De Marco e Giuseppina Scamardì nel predetto volume dedicato al Rinascimento in Calabria15 e quello degli arredi liturgici pubblicato dalla sola De Marco nello stesso libro16; le schede tipologiche del volume sulla Calabria barocca17. Uno dei primi risultati di questa nuova situazione di studi è senz’altro l’indagine di Giuseppina De Marco su Francesco Belmonte e Raffaele de Bartolo18 attraverso cui la studiosa riesce finalmente a dare concretezza a delle personalità che fino ad allora erano rimaste avvolte nelle nebulosità di citazioni tradizionali ripetute ab libitum; su tale scia si sarebbe certo dovuto continuare a indagare per rendere disponibili più aggiornate monografie sugli altri protagonisti di questo campo, recuperati o resi più consistenti grazie allo spoglio delle fonti archivistiche, come Niccolò Ricciulli a esempio che fu certo un esponente importante della cultura tardo barocca locale e al quale spesso si riconnettono lavori di grande perizia strutturale e abilità decorativa e contestualmente viene segnalato all’opera in edifici dove sono documentate attive altre personalità, anche napoletane, e del quale certo si attende ancora un contributo di carattere monografico19. È poi da segnalare il contributo di Maria Letizia Fazio20, che segue e ragguaglia sulla mostra documentaria tenutasi nell’Archivio di Stato di Cosenza. Sicuramente molto importanti, infine, sono i contributi pervenuti dallo studio scientifico della pietra da parte del dipartimento di Scienze della terra dell’Università della Calabria di Arcavacata di Rende, capitanati in particolare da Gino Mirocle Crisci e Caterina Gattuso, tra cui si segnala specificatamente quello relativo allo studio delle calcareniti presenti in alcuni monumenti del centro sto95


rico di Cosenza21, che pongono le basi a un nuovo approccio alle cave di pietra calcarea e arenaria documentate in Calabria sin da tempi antichissimi e attive fino all’Ottocento.

Alcuni aspetti e problemi della ricerca La pietra per costruire, come è ben chiaro agli architetti, non è tutta uguale e le diverse pietre che si trovano sulle sponde e nel greto dei fiumi oppure vengono frantumate da rocce sono utili a diversi scopi, come riempitivi di pareti tra i cantonali e i muri maestri di un edificio oppure di acciottolati per strade e lastrici, questi ultimi anche originalmente decorati22. Tutt’altra cosa è la pietra da taglio, che proviene dalle cave, ed è senz’altro necessaria per la realizzazione dei sopraddetti cantonali ovvero per la costruzione di pareti continue in cui la presenza della pietra tagliata e squadrata diventa a volte essa stessa motivo decorativo, tra l’altro efficace anche per la lavorazione ornamentale. La pietra da taglio a volte la si ritrova mista alla pietra dei lastrici, per creare effetti decorativi più complessi e raffinati, ed essa serve anche per la realizzazione di suppellettile di uso quotidiano, come mortai e vasche, in questo caso precisamente la pietra dura che, come il marmo, non assorbe le spezie e l’acqua, nonché per le macine dei frantoi. La diversità delle pietre, se granitiche o calcarenitiche, inoltre, può favorire il diverso esito stilistico delle maestranze, perché una cosa è lavorare il duro granito e un’altra la morbida arenaria. Ciò è stato notato in particolare nel confronto tra il repertorio stilistico degli intagliatori e degli scalpellini: nelle aree dove il granito o materiale affine risulta la pietra più lavorata spesso si avverte la persistenza di modelli più classicistici o almeno la realizzazione di motivi decorativi barocchi più ampi e lineari, geometrici e scarni23, in quelle dove è più profusa la calcarenite, facile alla lavorazione, di conseguenza, il decoro lapideo è del tutto simile a quello dell’intaglio: gonfio, morbido e abbondante. Nella provincia di Cosenza questa diversità si coglie sicuramente fra gli scalpellini attivi nell’area settentrionale, quella del Pollino, e quelli operosi nella parte meridionale della Val di Crati e della Valle del Savuto, cosicché si distinguerebbero due grandi aree di lavorazione della pietra così come è avvenuto per l’intaglio del legno, facendo in tal modo capo rispettivamente alle maestranze di Morano Calabro e di Castrovillari e a quelle di Rogliano24. In realtà, gli studi sulla lavorazione della pietra hanno rilevato più estese specificazioni e, specialmente nell’area più meridionale, cioè della Val di Crati e della Valle del Savuto, risultano in essere diverse maestranze che prendono il nome del centro in cui risiedono e sono attive25: ciò, però, sembrerebbe verosimile per il periodo più recente, tra la fine del Settecento e l’Ottocento soprattutto, mentre precedentemente non pare possa aver luogo perché tali maestranze e specialmente le personalità a esse legate sembrano attive su largo raggio e anche oltre gli attuali confini della provincia cosentina. È possibile che le attività di quelle maestranze che soprattutto tra Seicento e Settecento si definiscono roglianesi, per la provenienza della maggior parte dei loro esponenti, siano l’esito moderno di quelle precedenti anonime maestranze della Val di Crati che dal Medioevo fino al Cinquecento hanno tenuto viva in questa parte della regione l’arte della lavorazione della pietra. Per poterlo sostenere con maggiore concretezza e minore contraddittorietà bisognerebbe possedere uno 96


studio sugli scalpellini medievali, impostato come quelli del Rinascimento e del Barocco prima citati, che purtroppo ancora non esiste sebbene in molti contributi l’argomento è sotteso e trattato alquanto parzialmente. Il discorso che si intrattiene, si badi, impianta questioni puramente storiografiche e critiche, volte alla corretta denominazione di tali maestranze o almeno alla corretta interpretazione del termine che oggi si utilizza per indicare alcune specificità stilistiche sul territorio cosentino della lavorazione della pietra e, quindi, alla corretta individuazione del bacino interessato alla loro attività. Il modello stilistico che si definisce roglianese, anzi i modelli stilistici perché come noto sono ben più di uno, sono perfettamente riconoscibili dal Cinquecento al Settecento e la maggior parte delle volte si tratta della originale rielaborazione di modelli ed elementi presenti già nell’area come persistenze ovvero giunti nella regione attraverso altre presenze regnicole o toscane, la cui attività in Calabria, nel Cinquecento e nel Seicento, fu certo mediata dalla contemporanea presenza o passaggio da Napoli, la capitale del Viceregno. È risaputo, infatti, che, a seguito della crisi che nel Cinquecento si abbatté sulla Toscana toccando proprio le cave, molti scalpellini e scultori si trasferirono al Sud26: Napoli, Messina e Palermo furono le mete più ambite, ma certo in Calabria è stata documentata una forte presenza di tali personalità forestiere del Viceregno27 che, forse, andrebbe meglio indagata per comprenderne appieno la motivazione, la quale a primo acchito per il luogo dove tali professionisti della pietra appaiono per la prima volta sembrerebbe proprio legata alle grandi imprese di ammodernamento degli edifici religiosi, in particolare le cattedrali, e all’esigenza della committenza nobiliare di mostrare modelli aggiornati a quelli della Capitale, dove spesso risiedevano e si facevano tumulare, ovvero alla nobiltà locale e alle classi emergenti che la prima prendevano a modello. Uno dei fenomeni più interessanti ed esemplificativi è senz’altro quello dei portali che avviene proprio a Cosenza nella seconda metà del Cinquecento. Nel 1546 Bartolomeo della Scala e Bartolomeo Bendini, già noti in città per aver lavorato nella Cattedrale e in altri luoghi circonvicini, furono chiamati per realizzare il portale del palazzo della Regia Udienza28; insieme a loro compare Carlo Mannarino di Catanzaro, dove i primi due a quel tempo risiedevano. Da questo portale, in cui appare evidente il recupero della classicità, che, sebbene di tradizione toscana e in chiave già manierista, doveva essere ancora ben apprezzato a Cosenza, sono evidenti molte derivazioni: dalle più simili della chiesa della Riforma a quelle decisamente rielaborate e commiste con elementi di più schietta derivazione locale. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un gruppo di portali detti a incorniciatura commissa o ad arco di trionfo29, tipicamente roglianesi, per continuare a usare tale denominazione, che prevedono il fornice ad arco di trionfo e le figure di angeli o vittorie ai lati uniti a elementi più schiettamente derivati dalla tradizione esornativa locale, come le colonnine laterali a torciglione su zampe leonine e l’incorniciatura modanata, che parrebbe derivata dai portali quattrocenteschi ma composta in modo del tutto nuovo. Di questi portali, la cui tipologia è stata ben individuata sul territorio30, ancora si discute sulla possibile opera prima che viene spesso indicata in quello della chiesa del monastero delle Cappuccinelle (Fig. 1)31 ma che potrebbe invece avere un ottimo pretendente anche in quello della chiesa attualmente detta di San Gaetano. Questo modello di portale, da quanto risulterebbe all’indagine tipologica su cui si basano queste 97


osservazioni, parrebbe restare in voga almeno fino al 1638, anno di un fatidico terremoto che determinò la ricostruzione di molti edifici dell’area del Savuto e del Crati, in particolare di Rogliano, e che certo causò l’ammodernamento della tipologia che, in ogni modo, sopravvivrà nei suoi elementi portanti, quali il fornice ad arco di trionfo accompagnato da vittorie o angeli, fino al Settecento. Il cambiamento più appariscente che avviene nei portali che si ascrivono alle maestranze roglianesi all’inizio del Settecento, infatti, riguarda più che altro la decorazione che diviene a sfondo vegetale e sovrabbondante32, come del resto lo era diventata nel corso del Seicento l’ornamentazione geometrica. Questa mutazione viene ragionevolmente addebitata alla personalità di Niccolò Ricciulli33, il quale, come si apprende dalla documentazione archivistica, oltre l’arte di fabbricatore fa professione di disegnatore34: va subito detto, però, che essa ha un interessante parallelo nella pressoché contemporanea lavorazione del legno che si ascrive all’altro roglianese Nicolò Altomare35. Questo parallelo certamente tende a far supporre interessanti travasi di stile dall’uno all’altro ambito oppure a dare un ruolo a Niccolò Ricciuli anche nel campo dell’intaglio ligneo, appunto come disegnatore e quindi diffusore di modelli, non dimenticando che egli è documentato nel 1705 a Napoli nei cantieri del palazzo Reale36 e, dunque, anche se non si conosce con precisione con quale qualifica, almeno tale attestazione potrà giustificare viaggi e presenze fuori dalla Calabria che possono aver generato gli aggiornamenti al proprio repertorio, seguendo in tal modo una costante fenomenologica già individuata e chiarita negli studi37.

Fig.1 Cosenza, Chiesa delle Cappuccinelle: portale (XVI secolo)

Una caratteristica che andrebbe rilevata per i modelli di portale soprattutto seicenteschi è la corrispondenza delle loro conformazioni con quelle dei fastigi degli altari, venendo così a creare un originale comparazione tra la porta di accesso all’edificio e la porta del cielo cui potrebbe alludere il fastigio che ostende 98


la pala, recuperando così un’antichissima tradizione. Ciò è stato ipotizzato per gli intagliatori e gli scalpellini cosiddetti ‘moranesi’38, ma può ben sussistere anche per questi ‘roglianesi’, guardando esempi costruttivi in cui sia il portale sia il fastigio dell’altare si compongono con il modello dell’arco di trionfo, come per esempio nella cappella della chiesa di san Nicola di Bari a Pietrafitta dove sull’altare il motivo delle vittorie alate che decora l’arco d’acceso si trasforma in una originale Annunciazione; la datazione di questi manufatti dovrebbe cadere nella prima metà del Seicento39. Un altro modello di portale settecentesco dell’area cosentina è quello che si alleggerisce dell’impalcatura ad arco di trionfo e presenta la mostra realizzata da piedritti resi come paraste o lesene capitellate oppure rigonfia: originali esemplari si trovano a Cosenza, sulla facciata della chiesa delle Vergini, e a Rende, dove mostra particolare adesione alle architetture di Francesco Belmonte e Raffaele de Bartolo (Fig. 2). L’evoluzione stilistica del portale è uno dei fenomeni più complessi nell’ambito degli scalpellini, persistenze e inFig. 2 Rende, Chiesa di Santa Maria Maggiore: facciata (XVI-XVII secolo) novazioni si uniscono in modo tale da creare forme a volte originalissime, che spesso hanno particolare fortuna, mentre altre volte rimangono isolate. Quest’ultimo parrebbe il caso, per la matura età moderna, del bellissimo portale principale della chiesa di Santa Maria Assunta di San Giovanni in Fiore (Fig. 3), in cui il modello dell’arco di trionfo roglianese si evolve fino ad accogliere le colonne laterali inalveolata, sono colonne scanalate, rudentate e capitellate sistemate nell’incasso di un pilastro secondo un modello che, nel caso, forse deriva dalle articolazioni plastiche della zona absidale della chiesa di San Francesco di Paola a Cosenza o dell’arco trionfale della cappella del Rosario della chiesa di San Domenico della stessa città; in tal modo plausibilmente denuncerebbe la sua fattura nei primi decenni del Settecento piuttosto che nel Seicento a cui in ogni modo rimanderebbe la compagine d’insieme40. Per la tarda età medievale e la prima età moderna, invece, si registra la sopravvivenza dell’arco acuto di tradizione svevo-cistercense fino all’originalissima combinazione con l’arco ribassato e la riquadratura che contraddistingue i portali durazzeschi, creando una tipologia ben definita41 che talora si combina con inserti di ispirazione classicistica, specie verso la fine del secolo. Il problema inerente lo stile, la diffusione e la persistenza di taluni modelli di portali medievali calabresi, in particolare di quelli sopravvissuti nell’attuale provincia di Cosenza, è stato affrontato più volte in sede critica, tanto da costituire un vero e proprio Leitmotiv di siffatti studi. Un altro interessante aspetto della ricerca finora approfondito è stato quello dei rosoni, i cui esempi più antichi calabresi dovrebbero essere quelli legati alle costruzioni di ambito svevo-cistercense di quel ‘triangolo’ storiograficamente definito che è l’Abbazia di San Giovanni in Fiore (Fig. 4), la Sambucina di Luzzi e la Cattedrale di Cosenza: purtroppo nessuno di questi esemplari è pervenuto intatto e dunque le ipoFig. 3 San Giovanni in Fiore, Chiesa di Santa Maria Assun- tesi di ricostruzioni sono spesso contrastanti o addirittura inconciliabili. ta: portale (XVII-XVIII secolo) Il discorso, quindi, deve per forza di cose partire dal rosone della chiesa 99


Fig. 4 San Giovanni in Fiore, Abbazia florense: facciata (XIII secolo)

di Santa Maria della Consolazione di Altomonte (Fig. 5-6). Quello che attualmente si vede in facciata è un’abile copia fatta da uno scalpellino di San Giovanni in Fiore, mentre dell’originale rimangono cospicui frammenti nel chiostro dell’attiguo convento. Un recente studio ha finalmente chiarito la dipendenza dello schema asimmetrico della facciata dalle costruzioni del Midi de France42, dove pure si coglierebbero analogie per i decori del portale, del rosone e di altri dettagli decorativi; interessante è notare che i cantieri di questa area della Francia meridionale dove meglio sono state colte queste vicinanze sono proprio quelli cistercensi43 e ciò porterebbe quindi a riconsiderare e integrare quelle letture che hanno accostato l’architettura della chiesa in esame a quella Florense, dunque di tradizione cistercense, e poter congetturare un momento di ripresa e ammodernamento per le maestranze della Val di Crati attive nella scia della stessa componente. È difficile ora sostenere se le sopravvivenze cistercensi intraviste nel grande rosone della chiesa di San Domenico di Cosenza possono essere ricollegate a un voluto diretto riferimento all’esemplare di Altomonte, che sarebbe motivato dal legame comune sia con i Sanseverino sia con i Domenicani, ovvero alla perpetuazione di determinati stilemi negli scalpellini locali, ma in ogni modo il progredire dei tempi è dimostrato nelle decorazioni di carattere aragonese, catalanofiammingo in particolare, e nel bellissimo cordolo intrecciato che chiude la leggera strombatura della rosa44. Queste singolari decorazioni ricompaiono poi in altri rosoni dell’area cosentina, risultando magnificamente connessi alla ripetizione della facciata del Duomo di Cosenza nelle parrocchiali dei Casali45: infatti, nella chiesa di Santa Barbara di Rovito,

Fig. 5 Altomonte, Chiesa di Santa Maria della Consoloazione: rosone (XIV secolo) 100

Fig. 6 Altomonte, Chiesa di Santa Maria della Consoloazione: rosone (XIV secolo, rifacimento del XX secolo)


che già unisce di per sé architetture e decori di origine svariata – dalla cupola a embrici di tradizione bizantina, alla finestrella gotica e al portale archiacuto con piedritti classicistici –, il rosone pare unire il modello di quello del Duomo, come apparirebbe chiaro nei laterali, con quello di San Domenico, giacché nelle parti di raccordo degli elementi radiali con il cerchio sono ben visibili gli stessi motivi ornamentali che, a questo punto, sono chiaramente derivati da quelli della chiesa domenicana, da dove trae origine anche il torchon di chiusura. Questo cordolo intrecciato ricompare in seguito nel rosone della già richiamata chiesa delle Cappuccinelle di Cosenza, dove sicuramente lavorano maestranze roglianesi come chiarito per il portale, così come i decori della ghiera nel rosone della chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Pedace (Fig. 7); in quest’ultimo il modello degli elementi radiali è molto simile a quello schizzato nel 1577 da Francesco Nicoletta su un foglio custodito presso l’Archivio diocesano di Cosenza ed esprimente il progetto per la chiesa di San Pietro di Rogliano46. Il torchon di Rovito (Fig. 8), però, ha un andamento più libero e originale nell’intrecciatura rispetto a quello di Cosenza – Cappuccinelle – e all’altro di Pedace dove appare più controllato e disegnato; inoltre nella chiesa delle Cappuccinelle è unito a una rosa senza elementi radiali che al momento è difficile affermare se mancanti sin dall’origine, Fig. 7 Pedace, Chiesa dei Santi Pietro e Paolo: rosone (XVI secolo, ultimo come in realtà parrebbe, ma che certo nelle ghiere si conforquarto) ma al supposto modello del Duomo – ora ricostruito – e a quello di San Giovanni in Fiore. A Pedace, invece, si riutilizza un po’ tutto: le ghiere di tradizione cistercense e i decori di ispirazione catalano-fiamminga combinandoli con elementi del repertorio classicistico e tardo manieristico. Purtroppo, è andato perso il rosone che nel 1564 venne commissionato a Bartolomeo Bendini per la facciata della chiesa dei Domenicani di Bisignano47, che doveva essere realizzato in pietra di Lattarico, quindi non è dato sapere se questi elementi esornativi classicistici e tardo manieristici possano pervenire da simili tipo di opere. In ogni modo, con la storia di questi rosoni, forse, si potrà chiarire e comprendere come elementi della tradizione delle maestranze della Val di Crati siano entrati nel patrimonio degli scalpellini di Rogliano che, allora, ne costituiscono effettivamente il diretto prolungamento. Fig. 8 Rovito, Chiesa di Santa Barbara: rosone (sec. XVI, prima metà)

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Note 1  G. Barrio, De Antiquitate et situ Calabriae, Roma 1571. 2  G. Marafioti, Croniche et antichità di Calabria, Padova 1601. 3  G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, I-III, Napoli 1703 (cfr. G. Valente, La Calabria dell’Abate Pacichelli, Chiaravalle Centrale 1977). 4  C. Deni-A. Lico, Il cantiere e le maestranze roglianesi: una proposta di restauro: la Chiesa di S. Ippolito (XVIII sec.), Firenze 1994. 5  E. Bruno, Scalpellini di Calabria: i cantieri e le scuole, (“Scalpellini di Calabria”; 1), Fuscaldo Marina 1996. 6  A. Frangipane, Maestranze di Calabria, in «Il Ponte», VI (1950), pp. 1136-1143. 7  A. Frangipane, Maestranze di Calabria, in «Brutium», XXX (1951), 1-2, pp. 6-8; 30 (1951), 3-4, pp. 5-7. 8  M. Borretti, Fonti per la storia dell’arte in Cosenza e nella provincia cosentina, in «Brutium», XXI (1941), 3-4, pp. 38-39; Idem, Documenti per la storia delle arti nella provincia di Cosenza durante il viceregno (1503-1734), in Atti del 3° Congresso Storico Calabrese, [(Cosenza: 19 - 26 maggio 1963)] Napoli 1964, pp. 505-520. 9  Si segnala almeno il caso molto importante di D.G. Donato, Chiese di Cosenza: l’età barocca, Cosenza 1982 in cui la studiosa pubblica e commenta, con acume, alcuni importanti ritrovamenti archivistici relativi ad alcuni edifici religiosi della città di Cosenza. Ancora, A. Tripodi, In Calabria tra Cinquecento e Ottocento: ricerche di archivio, Reggio Calabria 1994; Idem, Scalpellini in Calabria, in «Esperide», 1 (2008), 1, pp. 76-94. 10   Sono veramente molti i titoli che, negli scorsi anni Novanta, Bruno Mussari e Giuseppina Scamardì, da soli o in coppia o con altri autori, hanno presentato la loro ricerca effettuata presso l’archivio di Stato di Cosenza sulle maestranze della provincia nei secoli moderni, ma in questa sede è necessario segnalare almeno: B. Mussari B.-G. Scamardì, Scultori toscani a Cosenza tra XVI e XVII secolo: il sepolcro di Ottavio Gaeta; sull’attività cosentina di Andrea Maggiore da Carrara a Cosenza, in «Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università degli Studi di Reggio Calabria / Quaderni PAU», 4 [1994 (1995)], pp. 169-180; G. Scamardì, Stefano Vangeri “ingegnero e capo mastro della Eccellentissima Casa di Bisignano”, in «Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università degli Studi di Reggio Calabria / Quaderni PAU», 5 [1995 (1996)], pp. 115-128; B. Mussari, Maestranze toscane nella Cosenza del XVI secolo: Bartolomeo della Scala e Bartolomeo Bendino, in «Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università degli Studi di Reggio Calabria / Quaderni PAU », 6 [1996 (1997)], pp. 17-30; G. Scamardì, Il barocco a Cosenza: Giovanni Calieri “neapolitano”, in Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università degli Studi di Reggio Calabria / Quaderni PAU », 6 [1996 (1997)], pp. 31-52; B. Mussari – G. Scamardì, Notizie sull’attività di architetti, artisti e costruttori in Calabria Citra nei secoli XVII-XVIII tratte da protocolli notarili, in «Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università degli Studi di Reggio Calabria / Quaderni PAU », 7 [1997 (1998)], pp. 43-60; Eidem, Artisti architetti e “mastri fabbricatori”, in S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria nel Rinascimento: le arti nella storia, Roma 2002, pp. 147-188. 11   S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria… cit. 12   R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria, (“Atlante del barocco in Italia”; diretto da M. Fagiolo), Roma 2002. 13   S. Valtieri, I linguaggi e i modelli, in S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria… cit., pp. 189-240. Della studiosa, che è stata colei che ha senz’altro avviato siffatti studi in Calabria in chiave scientifica contemporanea, è necessario citare, inoltre, per l’interesse all’area di ricerca in essere e per la lucida sintesi: Eadem, L’attività costruttiva e artistica in Calabria Citra durante il Viceregno come espressione delle maestranze “roglianesi” e “straniere”, in «Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università degli Studi di Reggio Calabria / Quaderni PAU », 5 [1995 (1996)], pp. 99-100; Eadem, La Calabria nel Rinascimento e il Rinascimento in Calabria, in A. Anselmi (a cura di), La Calabria del Viceregno spagnolo: storia arte architettura e urbanistica, Roma 2009, pp. 303-319. 14   R.M. Cagliostro, Linguaggi e personalità dell’architettura barocca in Calabria, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., pp. 67 ss. 15   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus tipologico dei portali, in S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria… cit., pp. 825-920. 16   G. De Marco, Gli Arredi liturgici: Fonti battesimali e acquasantiere, in S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria… cit., pp. 957-976. 17   R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., pp. 215 ss. 18   G. De Marco, Osservazioni e documenti sull’architettura barocca nel territorio cosentino: Francesco Belmonte capomastro muratore e Raffaele de Bartolo regio ingegnere, in «Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università degli Studi di Reggio Calabria / Quaderni PAU», 11 [2001 (2003)], pp. 93-106. 19   Interessanti spunti su Niccolò Ricciulli e altre personalità attive nel campo della lavorazione della pietra si colgono in R.M. Cagliostro, Linguaggi… cit., pp. 67 ss.; M. Panarello, I protagonisti della decorazione: mastri marmorari e professori di stucco, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., pp. 130 ss. e, ovviamente, nei brevi profili biografici raccolti nello stesso volume. A Mario Panarello, inoltre, vanno riconosciuti alcuni ritrovamenti archivistici relativi a lapicidi calabresi e regnicoli attivi nella regione pubblicati e discussi in particolare in M. Panarello, In sublime altare tuum: osservazioni sull’evoluzione dell’altare marmoreo in Calabria tra Seicento e Ottocento, in G. Leone (a cura di), Pange lingua: l’Eucaristia in Calabria; Storia Devozione Arte, Catanzaro 2002, pp. 491-557; Idem, Artisti della tarda maniera nel Viceregno a Napoli: mastri scultori, marmorari e architetti, Soveria Mannelli 2010. 20   M.L. Fazio, Committenze e maestranze tra il XVI e il XX secolo attraverso le fonti dell’Archivio di Stato di Cosenza, in «Esperide», 3 (2010), 5-6, pp. 182-206. 21   G.M. Crisci-C. Gattuso-A.M. De Francesco-D. Miriello, Le calcareniti del centro storico di Cosenza: uso e provenienza, in Anselmi A. (a cura di), La Calabria… cit., pp. 841-847. Si vedano anche, a titolo esemplificativo: Eidem, Un metodo geochimico per la determinazione della provenienza di lapidei macroscopicamente omogenei: un esempio di applicazione sui monumenti del centro storico di Cosenza, in «Arkos», IV (2003), pp. 52-59; C. De Giacomo-C. Gattuso-P. Gattuso, La provincia di Cosenza: architetture nel territorio, Cosenza 2005. 22   M. De Bonis, Restare di sasso, Cosenza 1997; R. Chimirri, Architettura popolare del Tirreno Cosentino, Soveria Mannelli 2007. 23   G. Leone, Scuola serrese, in Iannace R. (a cura di), L’intaglio ligneo in Calabria dal XVII secolo al XVIII, Cosenza: 1991, Catalogo mostra 1981, Cosenza 1991, p. 35. 24   G. Leone, Appunti per una storia (s)conosciuta: intaglio ligneo e maestri nell’attuale provincia di Cosenza, in A. Cipparrone (a cura di), L’intaglio ligneo nella provincia di Cosenza: mostra sulla storia e la lavorazione del legno nella provincia di Cosenza; Dalle risorse naturali agli attrezzi da lavoro; Dagli strumenti musicali alle pipe alle opere del maestro d’ascia; Dalle fonti d’archivio agli intagli artistici, Cosenza: 2013, Catalogo mostra 2013, Cosenza 2013, pp. 100-123. 25   S. Valtieri, L’attività costruttiva e artistica in Calabria Citra… cit., pp. 99 ss. 26   F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale: il Cinquecento, Roma 2002, p. 199. 27   B. Mussari-G. Scamardì, Scultori toscani a Cosenza… cit., pp. 169 ss.; B. Mussari, Il «Regio Palazzo» di Cosenza, in «Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università degli Studi di Reggio Calabria / Quaderni PAU », 5 [1995 (1996)], pp. 101-114; Idem, Maestranze toscane… cit., pp. 17 ss.; B. Mussari-G. Scamardì, Notizie… cit., pp. 43 ss. 28   B. Mussari, Il «Regio Palazzo»… cit., pp. 103-104. 29   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., p. 889; M. Panarello, Il portale ad arco di trionfo, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., p. 234.

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G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., pp. 889-896; M. Panarello, Il portale… cit., p. 234.   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., p. 889. 32   G. Leone, Appunti… cit., pp. 111-112. 33   R. Iannace, Le maestranze roglianesi, in M.P. Di Dario Guida (a cura di), Itinerari per la Calabria, Roma-Vicenza 1983, p. 300 (cfr. G. Leone, Appunti… cit., pp. 111-112). 34   Citazione tratta dalla documentazione (lettera del 19 settembre 1704) inerente la costruzione della chiesa di Montevergine a Paola, per la quale si rimanda a F. Samà, La chiesa di Montevergine a Paola, in «Calabria letteraria», 43 (1995), 7-9, pp. 63-65. 35   G. Leone, Appunti… cit., p. 112. 36   R.M. Cagliostro (a cura di), in Calabria… cit., p. 717 (cfr. M. Panarello, I protagonisti della decorazione… cit., pp. 77-80). 37   R. Iannace, L’intaglio in legno nel cosentino dal XVI al XVII secolo, in I beni culturali e le chiese di Calabria: atti del Convegno ecclesiale regionale promosso dalla Conferenza episcopale calabra; Reggio Calabria-Gerace, 24-26 ottobre 1980, Atti 1980, Reggio Calabria 1981, pp. 315-319 (cfr. G. Leone, Appunti… cit., pp. 111 ss.). 38   G. Leone, Per la storia dell’intaglio ligneo in Calabria: appunti sulla cosiddetta “scuola di Morano”, in «Daedalus», 7-8 (1991/1992), pp. 55-56. 39   G. Leone Appunti… cit., pp. 109-110. 40   M. Panarello, Il portale … cit., p. 236. 41   G. Leone, Osservazioni sulla tipologia dell’arco gotico inquadrato in Calabria, in G. Ceraudo, Tesori d’arte: la cappella della Madonna della Grazia di Carpanzano, Soveria Mannelli 2000, pp. 54-61. 42   S. Paone, Santa Maria della Consolazione ad Altomonte: un cantiere gotico in Calabria, Roma 2014, pp. 35 ss. 43   S. Paone, Santa Maria… cit., p. 48. 44   M.P. Di Dario Guida, La cultura artistica in Calabria: dall’Alto Medioevo all’età Aragonese, Roma 1999, p. 118. 45   G. De Marco, Le chiese parrocchiali dei casali di Cosenza, in S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria… cit., pp. 485 ss. 46   B. Mussari-G. Scamardì, Artisti… cit., pp. 163, 175. 47   B. Mussari-G. Scamardì, Artisti… cit., p. 160. 30 31

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Ludovico Noia

Qualche annotazione su alcuni portali medievali di Calabria Citra

Fig. 1 San Giovanni in Fiore, abbazia Florense: facciata e portale (secolo XIII, secondo decennio) 104

Il portale medievale per eccellenza della provincia di Cosenza può essere ritenuto quello di ingresso dell’abbazia di San Giovanni in Fiore (Fig. 1), edificio legato al nome di Gioacchino da Fiore ed eretto dopo che l’incendio del 1214 aveva distrutto il precedente protocenobio, collocato nella zona denominata Jure Vetere1. Il portale in conci, strombato e leggermente avanzato rispetto alla facciata, presenta un arco acuto ed è inquadrato da una struttura rettangolare. Sui due plinti si innalzano i piedritti sormontati dalle fasce capitellari continue, decorate con un motivo di foglie di quercia, le cui modanature un tempo proseguivano anche nella facciata, come testimoniano alcune tracce residue. L’arco è sistemato attraverso più archivolti composti dalla soluzione toro, gola diritta, fascia piatta, e dalla fascia decorata con il motivo detto a “gambi di sedano”2, ricorrente parimenti nella cigliatura. L’incorniciatura, concepita con blocchi di granito quadrati e rettangolari, è alleggerita dall’inserimento di colonnine nei due comparti. Oltre alla già richiamata modanatura che lascia immaginare un differente incastro del portale con il disegno della facciata nel passato, allo stesso modo altri elementi caratterizzavano la struttura nei secoli scorsi. Sicuramente un tempo, sui piedritti, erano poste le tipiche colonnine anellate3, mentre ulteriori decorazioni sono state cancellate dall’incendio del XIX secolo – si notano ancora gli annerimenti – e da altri eventi catastrofici4. Un restauro del manufatto risale sicuramente ai lavori condotti dalla Soprintendenza tra il 1929 e il 19315, inoltre i piedritti e alcune modanature sono stati integrati nel 1938 durante altri restauri6. Ancora, Eduardo Bruno


sostiene come una ricostruzione sia avvenuta nel XV secolo, quando il portale ha subito modifiche7 con l’aggiunta di una massa compatta che, partendo dai piedritti, incornicia tutto l’arco8. Da sempre la storiografia, sovente in contributi di trattazione più ampia riferiti al complesso di appartenenza, ha segnalato il portale florense come un’opera degna di nota9, talvolta gli è stata anche attribuita una derivazione arabosicula o influssi derivanti dagli avori bizantini, in riferimento all’arco acuto e alle decorazioni vegetali10. Giuseppe Occhiato, in una disamina sulle architetture normanne, cita anche l’abbazia di San Giovanni ravvisando connessioni architettoniche col gusto gotico, seppure non cita direttamente il portale, probabilmente sottintendendolo11. Tuttavia, negli ultimi decenni sono stati affrontati studi che hanno restituito al portale una centralità nella temperie culturale di riferimento dell’abbazia stessa, in quanto si è proceduto in una messa a fuoco scientifica e pertinente dei diversi elementi strutturali e decorativi che lo compongono Maria Pia Di Dario Guida, nella fase conclusiva dei lavori portata avanti dal protomagister Matteo Vitari dopo la morte di Gioacchino, percepisce nei motivi decorativi una “ventata di impronta gotica”, come nei “gambi di sedano” presenti, ancora, sulle campane dei capitelli e terminanti nei perduti crochet12. Edoardo Bruno non si trova molto d’accordo con quanto la storiografia asserisce circa la collocazione cronologica del portale. Lo studioso fa notare come un portale con incorniciatura simile ad un arco di trionfo non ha ragione di esistere in Calabria prima del XV secolo, ragione per il quale – dopo aver spiegato che in precedenza l’ingresso era preceduto da un portico simile a quello dell’abbazia di Fonte Laurato, seconda filiazione dell’ordine13 – asserisce che in quel secolo, come peraltro già richiamato, il portale ha subito modifiche e l’aggiunta dell’incorniciatura, con l’aspetto che tradisce un gusto vagamente rinascimentale14. In una pubblicazione successiva, Bruno, seppure dichiara controversa la datazione, ammette che si può fare risalire il portale al secondo decennio del XIII secolo15. Tuttavia Giorgio Leone, in un saggio dedicato alla tipologia dell’arco gotico inquadrato in Calabria, sfrondando … i luoghi comuni irrigiditi in parte dell’aggiornata storiografia locale16, fa risalire l’arco gotico inquadrato già ai primi del XIII secolo, e più precisamente proprio al portale dell’abbazia florense17, che la Di Dario Guida colloca sotto il periodo dell’abate Matteo Vitari, nella fase conclusiva della costruzione della fabbrica18. Ad ogni modo il portale in questione, allo stesso modo dell’intero complesso, presenta una linea sobria e rigorosa, riflesso della severa regola di Gioacchino più che conseguenza del luogo isolato dove è ubicata l’abbazia19. Evidentemente non può essere ritenuto secondario l’aspetto ascetico anche nella concezione architettonica della struttura. Si accennava in precedenza alla scuola di San Giovanni in Fiore, ebbene è riconosciuta una tradizione locale di scalpellini abbastanza radicata, che generalmente viene suddivisa in tre periodi e di cui il primo è quello che va dal XII a XVI secolo. Dunque, i primi scalpellini si sono formati al seguito delle maestranze attive nell’abbazia, con i connotati propri dell’arte cistercense mitigata dalla semplicità dettata dalla lavorazione sulla semplice pietra. Il modulo decorativo prediletto, in questa prima fase, era quello severo in attuazione della regola gioachimita, mentre veniva utilizzato l’arco ogivale che poteva essere mutato di proporzioni a secondo delle esigenze. Gli scalpellini di San Giovanni in Fiore, 105


con la caratteristica adozione della linea gotica furono chiamati ovunque nella regione20. Il portale florense ha svolto un ruolo di archetipo per la realizzazione di altri esemplari, sicuramente nel caso di quello ad arco acuto dell’abbazia di filiazione dell’ordine a Fonte Laurato21, nel territorio di Fiumefreddo Bruzio – purtroppo attualmente in stato di abbandono –, ma è stato anche messo in relazione dagli studiosi con quelli della cattedrale di Cosenza (Fig. 2) e dell’abbazia della Sambucina, entrambe costruzioni cistercensi. Sempre a Fiumefreddo si possono cogliere riflessi con il portale della chiesa del Carmine che si presenta con i piedritti strombati impostati su semplici plinti, e con l’arco a ogiva composto dalla soluzione toro, gola dritta, fascia piatta22. La tipologia del portale a ogiva si riscontra, dunque, anche nei portali degli edifici cistercensi, dei quali il primo in ordine cronologico dovrebbe essere l’abbazia della Sambucina a Luzzi23 (Fig. 3). Il portale, inserito su un avancorpo in opus quadratus, si presenta strombato, con due piedritti, una colonnina e un pilastrino ottagonale per lato che sorreggono capitelli a nastro e con la soluzione a doppio toro caratterizzanti gli archivolti; insistono una fascia decorativa ad archetti, ed altre due a bugnato e a onde sorrette da coppie di colonnine terminanti con capitelli a crochets. In realtà, il portale come lo vediamo adesso è il risultato di

Fig. 2 Cosenza, duomo: portale di destra (secolo XIII, inizi) 106

Fig. 3 Luzzi, Abbazia della Sambucina: portale (secolo XII, ultimi decenni secolo XIII, inizi


diversi rimaneggiamenti nel corso dei secoli. Sicuramente è stato ricomposto nel XVII secolo, come attesta un’iscrizione24 – Frangipane riferisce anche di un rifacimento quattrocentesco25 – ma ancora, grazie all’analisi stilistica, sembrerebbe possibile riconoscere elementi risalenti a più fasi costruttive, tenendo presente che nel 1184 l’edificio fu ricostruito dopo un terremoto26. A tal proposito fondamentali sono gli studi in merito di Maria Pia di Dario Guida che rileva come nella ricomposizione del portale dell’abbazia sono stati forse assemblati sia elementi della prima fase romanica, sia quelli posteriori al 1184, probabilmente inglobando un successivo portale più piccolo27. La studiosa individua nella fascia a piccole onde una testimonianza di una fase più antica – mettendola in relazione con un portale del priorato di Berzé-la-Ville, fondazione dai monaci di Cluny –, mentre alcune riserve sono rivolte alle coppie di colonne esterne e sulle fasce a bugnato e ad archi, forse riutilizzazioni di elementi rettilinei come gronde; peraltro il motivo ad archetti terminanti a lobi può essere accomunato agli oculi polilobati dell’abside di San Giovanni in Fiore e nel duomo di Cosenza28. Riguardo la decorazione a nastro dei capitelli del portale, Maria Pia Di Dario Guida ed Emilia Zinzi richiamano anche il capitello collocato in quello che doveva essere un tempo il transetto; la prima trova affinità con motivi antichi presenti nell’abbazia francese del Thoronet, seppur reinterpretati secondo un modulo più barocco29, la seconda, parallelamente ad altri elementi dell’abbazia, fa rientrare la tipologia di decorazione nella renovatio attuata dal protomagister Luca Campano30. Ancora, vengono individuate affinità tra la fascia bugnata e le decorazioni dei portali delle chiese della Trinità e di Santo Spirito a Palermo, filiae della Sambucina31; queste vengono messe in stretta relazione con il portale in esame, conseguentemente alla provata sosta in Sicilia dell’abate della Sambucina Luca Campano – che nel 1196 e nel 1197 fu ospitato a Santo Spirito insieme a Gioacchino da Fiore –, il cui ritorno ipotizzato nel 1200 potrebbe coincidere con la fine dei lavori32. Eduardo Bruno, dopo aver evidenziato come quello della Sambucina fu il prima cantiere organizzato in Calabria, con la sovrintendenza di un protomagister, riporta una valida idea di programmazione del lavoro in un ambiente cistercense. All’interno del cantiere gli scalpellini erano divisi in squadratori, modellatori e decoratori mentre all’esterno in cavatori e sgrossatori; ognuno di questi gruppi aveva funzioni precise ed era gestito da un capomastro33. Lo studioso asserisce come il cantiere della Sambucina – si riferisca alla fondazione o alla ricostruzione post 1184 – e in genere quelli cistercensi siano a circuito chiuso e poco accessibili a maestranze esterne, con una prevalenza di lavoratori dello stesso ordine34. A tal proposito Giuseppe Marchese, che per primo si occupò in maniera organica della Sambucina, riferì l’attività di uno “studium artium” locale, sulla scorta di alcuni documenti, fin dai tempi della fondazione35, pertanto i figli di S. Bernardo … furono quelli che subito, secondo gl’imperativi della Regola, introdussero l’architettura borgognone sia pure con i necessari temperamenti dovuti alla tradizione locale36. L’insigne studioso sostenne come lo “studium” si occupò anche della riedificazione cistercense subito dopo il terremoto del 1184, anche se mostrò molte ritrosie – oltre che sugli influssi culturali esterni – sul ruolo guida di Luca Campano37; ciò non è sostenibile, però, soprattutto alla luce di quanto discusso sopra riguardo gli elementi decorativi del portale, che sembrerebbero confermati indirettamente dai documenti rilevati nello sviluppo degli studi. Ad ogni modo, paiono evidenti, oltre alle diverse fasi leggibili negli elementi 107


del portale, la commistione di più stili e le molteplici influenze, non ultima la continuità tra la decorazioni cluniacensi e cistercensi. Dopotutto, Emilia Zinzi aveva riconosciuto l’inserimento della Sambucina nel quadro dell’architettura cistercense con una lettura che vi ha individuato i segni di un’originaria forma “bernardina” e quelli d’un successivo rapporto coi modi protogotici borgognoni38. I moduli stilistici cistercensi caratterizzano anche la struttura dei portali archiacuti del duomo di Cosenza (Fig. 2), con i tipici piedritti composti da fasci di colonnine inanellate39. Problematica è la cronologia dei diversi rimaneggiamenti che hanno interessato l’edificio. La chiesa fu ricostruita dopo il terremoto del 1184 – i lavori cominciarono l’anno seguente – e fu consacrata nel 1222 alla presenza di Federico II; inoltre vari altri interventi di restauro, molti dei quali consistenti, si sono susseguiti nel corso dei secoli40. Fondamentale nella ricostruzione post-terremoto si rivela, ancora la figura di Luca Campano, il quale dopo essere stato protomagister della Sambucina, sarà vescovo di Cosenza dal 1202 al 122241. Invero, riflessi della sua influenza nel cantiere si ravvisa dall’analisi stilistica e dal confronto tra i portali del duomo con il portale proprio dell’abbazia di Luzzi (Fig. 2), ma anche con l’altro di San Giovanni in Fiore (Fig. 1). A proposito di quest’ultimo – avvalorata la possibilità che possa essere stato completato negli anni del protomagister Vitale, agli inizi del XIII secolo – Dario Guida propone una probabile concomitanza con i portali di Cosenza, in virtù della analoga composizione, soprattutto nel centrale, della soluzione toro, gola, fascia piatta ripetuta due volte con gli stessi motivi vegetali stilizzati42. Differenti invece sono le decorazioni dei capitelli, a campana con foglia di ulivo nel portale florense, a “gambi di sedano” ed a crochet in quelli cosentini (Fig. 4)43. Attualmente risultano particolarmente deteriorati i crochet del portale di sinistra. Se, come viene riportato, nell’abbazia della Sambucina i lavori venivano svolti maggiormente dai monaci cistercensi in un ambiente considerato chiuso, secondo Bruno il cantiere di Cosenza doveva essere abbastanza aperto alle maestranze locali, fatto rilevante per lo sviluppo successivo nell’architettura e nella proposizione del modello44. Ciò è davvero plausibile se sono state utilizzate le pietre delle cave di Altilia, e la pietra arenaria rosata di Mendicino45. Questo aspetto permette di abbozzare una riflessione sulle diverse maestranze della provincia di Cosenza attive nel Medioevo. Oltre la scuola di San Giovanni in Fiore, della quale si è già accennato, un ruolo considerevole, a questo punto, potevano averlo proprio quelle di Altilia e di Mendicino. Per la prima si è individuata una “età dei cavatori” che Fig. 4 Cosenza, Duomo: portale di destra, particolare (secolo XIII, inizi) (ph. Ludovico si fa risalire ai secoli XIII-XVI46, inoltre, in una delle Noia) undici cave della zona denominata “Parrere” risulta 108


iscritta la data 131647; la seconda è da sempre ritenuta una delle cave più importanti della provincia. Allo stesso modo è da prendere in considerazione la scuola di Fuscaldo, i cui blocchi di pietra sarebbero stati utilizzati anche per l’abbazia della Matina48, mentre un discorso a parte merita quella di Rogliano – che avrà una vicenda ed esiti notevoli dal XVI secolo in avanti49 – se si vogliono accostare le iscrizioni nei pilastri di due chiese, ma che tutt’al più potrebbero fare riferimento al centro vicinioro di Altilia50. Al di là di pleonastiche congetture, in considerazione delle esigue conoscenze dagli studi, non sarebbe peregrino azzardare un ruolo attivo delle maestranze locali nelle realizzazioni dei portali nei secoli in questione, sia quelli tuttora esistenti, sia quelli che gli eventi tellurici e le varie ricostruzione ne hanno cancellato memoria. Anzi, è plausibile un’osmosi tra gli stilemi provinciali e i dettami stilistici più colti, soprattutto quello dei cistercensi attivi nella Valle del Crati51, che fornirà un modello da seguire e sarà alla base anche per gli sviluppi successivi52. L’abbazia della Matina di San Marco Argentano era sorta come fondazione benedettina tra il 1059 e il 1061 per volere di Roberto il Guiscardo53. I portati stilistici dei portali si riferiscono alla rifondazione cistercense del complesso normanno, risalente probabilmente al terzo decennio del XIII secolo54. Purtroppo i segni del tempo e dell’incuria non permettono di leggere al meglio gli elementi decorativi che connotano i portali55, sebbene sono evidenti segni di quelle forme cistercensi progredite intonate a moduli francesi e laziali che sono pure presenti nel transetto e nella fronte occidentale del Duomo di Cosenza56. Notevole il portale che conduce all’aula capitolare, con piedritti angolari e i diversi archivolti a sesto acuto, mentre quello utilizzato per l’uscita dai monaci presenta due colonnine sagomate con capitelli a uncino (Fig. 5); interessante anche il portale ogivale che dal chiostro dava l’accesso al parlatorio (Fig. 6). Se, come davvero sembra, i cistercensi della Sambucina abbiano ricostruito l’abbazia, si ripropone il problema delle maestranze della pietra che hanno lavorato sui portali e la possibilità che nel cantiere, insieme ai monaci, possano avere interagito anche mestieranti locali57. Tuttavia, come fa notare a ragione Bruno – sebbene consideri il cantiere a circuito chiuso – gli influssi cistercensi si palesano nella stesso territorio nel portale dell’attuale convento dei riformati58. Il portale laterale del santuario della Madonna del Castello di Castrovillari presenta un arco ogivale sul quale corre un fregio elegantemente decorato da una serie di foglie di palme. L’esemplare, che comunque non sembra integro, è prospiciente all’altare della Vergine ed è stato inserito nella ricostruzione barocca settecentesca59. Gianluigi Trombetti60 e, prima di lui, Francesco Russo non hanno dubbi sulla derivazione del portale dagli influssi cistercensi della Valle del Crati tra XIII e XIV secolo, secondo quest’ultimo risalante al secondo rifacimento del complesso61. Sopra di esso si trova una formella marmorea raffigurante la Madonna con Bambino attribuita a Tino da Camaino o a un suo stretto collaboratore, probabilmente da identificare col cosiddetto “Maestro di Detroit” che, però, non è escluso non sia lo stesso Tino in un momento diverso del suo stile62. Peraltro nel portico del Santuario, spicca una coppia di portali, uno murato, riferibili probabilmente alla originaria costruzione normanna e all’antico accesso alla chiesa. Gli esemplari sono composti da semplici piedritti poggianti direttamente sul muro, con archi a tutto sesto e cordonatura a fasce di palmette stilizzate, sormontati da una serie di cinque 109


Fig. 5 S. Marco Argentano, Abbazia della Matina: portale (secolo XIII, terzo decennio)

Fig. 6 S. Marco Argentano, Abbazia della Matina: portale aula capitolare (secolo XIII, terzo decennio)

trilobi con archetti acuti, decorati da coppie di rosette63. Gli ultimi virgulti cistercensi si colgono senz’altro nel portale della cattedrale di Bisignano (Fig. 7), che pare di stretta discendenza da quello del duomo di Cosenza, come dimostrano se non altro i fasci di colonnine dei piedritti. Sebbene la storiografia più recente propende per una datazione al XV secolo64, non c’è certezza alcuna sulla esatta collocazione cronologica del manufatto, già datato al XIII secolo da Gaetano Gallo65, e in maniera generica al XIV-XV – assegnata alle maestranze della Valle del Crati – da Alfonso Frangipane66, tra i primi studiosi dell’edificio sacro67. Ad ogni modo, il portale, a sesto acuto, si presenta con una strombatura marcata mentre a metà delle colonnine sono impostati astragali ornati con motivi vegetali; i capitelli esibiscono decorazioni fogliacee a basso rilievo. Giorgio Leone – tenendo ben presente le diverse manomissioni – non è convinto che l’intero manufatto sia stato eseguito in epoca aragonese, tuttavia ravvisa un motivo tipicamente cistercense negli anelloni manomessi delle colonne esterne che riproducono grossolanamente quelli ancora visibili sulle colonnine più interne databili tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo68. Ancora, a parere dello studioso, alla stessa datazione sembrano rimnandar la deco110


Fig. 7 Bisignano, concattedrale di S. Maria Assunta: portale (secolo XIV, seconda metà - secolo XV, primi decenni)

razione naturalistica dei capitelli, e delle mensole d’imposta d’ogiva, che addirittura parrebbero ricordare esempi di età sveva»69. Se la dinastia normanna, in un certo senso, si è servita degli ordini mendicanti per un controllo più agevole dei territori – con i benedettini nel caso della prima fondazione della Matina, ma particolarmente, come si è visto, con i cistercensi nella valle di Acri – è anche vero che la loro cultura artistica, dopo l’insediamento, si è amalgamata con i sostrati locali, per lo più influenzati dagli stilemi orientali70. Il complesso abbaziale di Santa Maria del Patir, nel territorio di Rossano, fu fondato da Bartolomeo da Simeri negli anni tra il 1101 e il 110571 e godette di benefici e donazioni da parte di Ruggero II e della corte Normanna72. Al contrario del monastero ridotto a ruderi, risulta ben conservata la chiesa che, malgrado i rimaneggiamenti subiti nel corso dei secoli, rimane una preziosa testimonianza dal 111


punto di vista figurativo e architettonico. Pregevoli i due portali decorati laterali, utilizzati dai fedeli durante le feste religiose73. Il portale settentrionale presenta due colonnine adagiate agli stipiti in arenaria che si collegano direttamente ad un arco a bastone, senza capitelli. I conci esibiscono una particolare ornamentazione dentellata, che Paolo Orsi definisce doppia saetta incisa e riempita di materia bianca e mette in relazione con esempi dell’arte araba74. Il portale meridionale, invece, propone una decorazione a tarsie policrome dell’arco a tutto sesto, con un motivo a doppio ordine di archetti e piccole cuspidi che racchiudono una sequenza di dischi. A differenza dell’altro portale sono presenti i due capitelli decorati a motivi fogliacei e terminanti a volute negli angoli e, ancora, due mensole, quella di sinistra a scacchiera e quella di destra a triplice toro. Anche il complesso di Sant’Adriano, in origine cenobio fondato da san Nilo di Rossano, è strettamente legato al nome di Roberto, le strutture architettoniche vennero rifondate proprio nel periodo normanno e rimaneggiate diverse volte in seguito75. Se il portale della facciata di Mezzogiorno (Fig. 8) – deturpato dal campanile posto di fianco alla chiesa alla fine del XIX secolo – mostra stipiti con conci e arco ogivale, quello utilizzato dai monaci per entrare nella basilica presenta elementi tufacei soltanto negli archivolti. Tuttavia potrebbero essere reliquie decorative del portale principale, purtroppo soppresso, i leoni stilofori litici che attualmente sono collocati nella navata centrale. Questa ipotesi è davvero credibile se si fa fede a quanto riportato già da Paolo Orsi a suo tempo76. Ciò viene confermato da Maria Pia Di Dario Guida che tuttavia li colloca, alla stregua di altri elementi architettonici dell’interno della chiesa tra presupposti sasanidi e propensioni occidentali77, contribuendo a definire le caratteristiche della scultura normanna che ornavano abbazie e cattedrali un vero trapianto di forme franco-cluniacense nell’estremo Sud78. Due leoni aggettanti si trovano anche nel lato anteriore delle basi degli stipiti del portale della chiesa del Purgatorio di Tortora. Questo, con arco a tutto sesto impostato su due mensole, è composto da sei conci decorati da animali in rilievo, alcuni a coppie affrontate79. Il manufatto sembrerebbe avvicinarsi al portale settentrionale di San Demetrio, soprattutto per quanto riguarda le affinità stilistiche e iconografiche con la decorazione marmorea di quest’ultimo, sebbene la datazione appare più protratta. Ancora, questa volta alle estremità della trabeazione, i leoni accucciati fanno Fig. 8 S. Demetrio Corone, Chiesa di S. Adriano: portale laterale (secolo bella mostra nella trabeazione del portale inquadrato di paXIII) lazzo Citino a Longobucco, che pare non sia stato preso in considerazione dalla storiografia. Il portale, che esibisce un arco a tutto sesto, è molto particolare e ricco, grazie alla presenza di due teste mostruose negli stipiti e di palme stilizzate nei pennacchi; ancora la chiave di volta è decorata da una fontana in rilievo, mentre sulla trabeazione a forte aggetto, tra i leoni si vede uno stemma che raffigura uno scudo a due scomparti, in uno si scorge un albero 112


Fig. 9 Altomonte, Chiesa di S. Maria della Consolazione: portale (secolo XIV, quarto-quinto decennio

stilizzato, nell’altro un albero con ai lati due leoni rampanti, anche in questo caso la datazione è forse più tarda. La cultura angioina ha lasciato una testimonianza notevole nella chiesa di Santa Maria della Consolazione di Altomonte80 (Fig. 9) . Il portale dell’edificio sacro è impostato sopra un basamento – che continua ai lati dello stesso – mentre nei piedritti sono ricavate nicchie sopra le quali insistono edicole traforate; l’arco è ogivale e fortemente strombato, decorato da una fascia con elementi vegetali81. La particolarità del portale è dovuta soprattutto alla presenza di un arco ribassato innestato nella cornice interna, che sottende l’arco ogivale e inquadra una lunetta82, sormontato da un architrave ornato sempre da motivi vegetali di stampo gotico. A tal proposito è stato evidenziato come una tendenza filo-occidentale si sia affermata con l’arrivo dei normanni ed abbia avuto un seguito in ambito svevo-cistercense83, sicuramente «la componente filo-francese costituì una costante nell’estremo Sud lungo il secolo XIV … soprattutto ad Altomonte dove le ornamentazioni vegetali del portale sottolineano tale accentuata propensione»84. L’opera spesso viene definita di derivazione senese per la tipologia dell’arco ribassato85 – e tempo addietro riferita addirittura a quelle maestranze86 –, ma Maria Pia Di Dario Guida ha precisato che l’intelaiatura architettonica in realtà presuppone una mediazione napoletana–senese, pur tuttavia la studiosa rileva come la presenza dell’architrave rettilineo sopra l’arco ribassato non è una caratteristica propria dell’arco senese87. I lavori che hanno interessato la chiesa, voluti da Filippo Sangineto, certamente si sono protratti oltre il 1336, stante anche ad alcuni documenti, motivo per il quale non si conosce la precisa datazione del portale88. Recente è l’interessante e conveniente interpretazione di porre il portale di Altomonte più direttamente in rapporto con esemplari francesi dell’area di Avignone89.

Note 1  Il primo impianto fondato da Gioacchino risale agli anni 1189-1198, seppure persistono diverse interpretazioni sulle datazioni. Si veda a tal proposito V. De Fraja, L’Ordine Florense dai normanni agli svevi (1190-1266), in P. Lopetrone P.-V. De Fraja, Atlante delle Fondazioni Florensi, II, Soveria Mannelli, 2007, pp. 203-207; cfr. P. Lopetrone, L’abbazia florense di San Giovanni in Fiore, in “Daidalos” a. III, 2003, 4, pp. 20-33 . Distrutto l’originario cenobio da un incendio nel 1214, venne presa la decisione di costruire la nuova abbazia in un luogo non molto distante dal precedente ma sicuramente più mite. I lavori che interressarono la chiesa cominciarono nel 1215 e si protrassero almeno fino al 1223 (V. De Fraja, L’Ordine Florense… cit., pp. 220-222). 2  Cfr. E. Bruno, Scalpellini di Calabria. I cantieri e le scuole, Fuscaldo 1995, p. 172. 3  G. Leone, Osservazioni sulla tipologia dell’arco gotico inquadrato in Calabria, in Ceraudo G. (a cura di), Tesori d’Arte. La Cappella della Madonna della grazia di Carpanzano, Soveria Mannelli 2000, p. 60. Cfr. A. Ceccarelli, Cronologia dei restauri dell’abbazia Florense, in F. Russo, Storia e messaggio in Gioacchino da Fiore. Atti del I Congresso Internazionale di studi gioachimiti. San Giovanni in Fiore 19- 23 Settembre 1979, Atti 1979, San Giovanni in Fiore 1980, p. 537; E. Bruno, Scalpellini di San Giovanni in Fiore, San Giovanni in Fiore, 1993, p. 18; Idem, Scalpellini di Calabria… cit., p. 172. 4  E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 172. Cfr. E. Barillaro, Calabria. Guida Artistica e Archeologica (dizionario corografico), Cosenza 1972, p. 216. 5  A. Ceccarelli, Cronologia… cit., p. 537. 6  E. Galli, Le Reliquie dell’Arcicenobio florense, Roma 1938, p. 19. 7  E. Bruno, Scalpellini di San Giovanni… cit., pp. 19-20. 8  E. Bruno, Scalpellini di San Giovanni…cit., p. 20.

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A. Frangipane, Elenco degli edifici monumentali. LVIII-LX Catanzaro Cosenza Reggio Calabria, Roma 1938, p. 147.   C. Valente, Calabria Citeriore in A. Frangipane-C. Valente, La Calabria, Bergamo 1929, p. 17; E. Barillaro, Calabria… cit., p. 216. 11  G. Occhiato, Le chiese dall’età normanna alle forme rinascimentali, in I beni culturali e le chiese di Calabria: atti del Convegno ecclesiale regionale promosso dalla Conferenza episcopale calabra, Reggio Calabria-Gerace, 24-26 ottobre 1980, Atti 1980, Reggio Calabria 1981, p. 349. 12   M.P. Di Dario Guida, Gli svolgimenti della scultura cistercense dalla Sambucina ai conventi mendicanti, Luzzi 2003, p. 27. 13   Cfr. A. Ceccarelli, Cronologia… cit., p. 536. 14   E. Bruno, Scalpellini di San Giovanni… cit., pp. 19-20. Nella scheda, alla voce “epoca”, il portale viene datato ‘XII e XV secolo’. 15   E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 172. Lo studioso afferma che la datazione del portale, a motivo dello stato di degrado dello stesso, è controversa ed oscilla tra la fine del XII secolo e il secondo decennio di quello successivo. 16   G. Leone, Osservazioni… cit., p. 60. 17   G. Leone, Osservazioni… cit., p. 60. Lo storico dell’arte afferma come l’arco gotico si sia perpetuato e rinnovato nel XIV secolo e cristallizzato, prevalendo, in quello successivo. 18   M.P. Di Dario Guida, Gli svolgimenti… cit., p. 27. 19   Cfr. E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 172. 20   E. Bruno, Scalpellini di San Giovanni… cit., pp. 5-7; Idem, Scalpellini di Calabria… cit., p. 157-158. 21   Il primo documento che fa riferimento all’abbazia di Fonte Laurato risale al 1201, allorché Simone di Mamistra, signore di Fiumefreddo, e la sua consorte si rivolsero a Gioacchino per scegliere insieme le terre idonee per la costruzione. In quello stesso sito esisteva in passato un monastero e la chiesa di Santa Domenica. Per una panoramica relativa al processo di fondazione, alla storia documentaria e gli sviluppi del nuovo complesso florense si veda: F. Russo, Gioacchino da Fiore e le fondazioni florensi in Calabria, Napoli 1959, pp. 151-177; P. De Leo (a cura di), Documenti florensi. Abbazia di Fonte Lauratoe altri monasteri dell’Ordine, Soveria Mannelli, 2004; V. De Fraja, L’Ordine florense… cit, pp. 203-264. 22   Cfr. L. Verardi, Fiumefreddo Bruzio e il suo castello, Soveria Mannelli, 1989, p. 57. 23   P. De Leo, La Sambucina di Luzzi. Prima abbazia cistercense dell’Italia meridionale, in “la Regione Calabria emigrazione” a. X, 1997, 12, pp. 58-60. Lo studioso riporta che la fondazione è databile tra il 1145 e il 1550 sulla verifica di alcuni documenti. Il primo riguarda la donatio alla chiesa di Santa Maria Requisita, vecchio titolo della Sambucina, il secondo la protezione di papa Enrico II. Cfr. G. Marchese, La Badia di Sambucina (saggio storico sul movimento cistercense nel Mezzogiorno d’Italia), Lecce 1932, pp. 37-65; E. Zinzi, I Cistercensi in Calabria. Presenze e memorie, Soveria Mannelli 1999, p. 29, il quale afferma che l’abbazia sia diventata cistercense nel 1160 come filiazione della casa Madre (Abbazia di Casamari), basandosi sulle interpretazioni documentarie di altri studiosi precedenti, per i quali si rimanda alla stessa pubblicazione per una sintesi (p. 29). 24   “D.o.m. Caesar Calepinus Prios Terrae Lutiur f. f. 1626 Dccpee - 1625.” I restauri sono stati fatti eseguiti dal monaco Cesare Calepano. 25   A. Frangipane, Elenco… cit., p. 121. 26   G. Marchese, La Badia… cit., p. 73. 27   M.P. Di Dario Guida, Gli svolgimenti… cit., p. 10. Riguardo l’archivolto più interno, viene proposta una relazione con gli archi del transetto, nella soluzione toro-gola-fascia, coincidente alla seconda fase costruttiva dell’edificio (pp. 12-14). 28   M.P. Di Dario Guida, Gli svolgimenti… cit., pp. 10-12-15. La studiosa mette in rilievo come il motivo ad archetto sia ricorrente fra i secoli XII e XIII (p. 15). Cfr. Mollo F.S., L’Architettura cistercense e florense in Calabria, in M.P. Di Dario Guida (a cura di), Itinerari per la Calabria, Roma-Vicenza 1983, p. 152. 29   M.P. Di Dario Guida, Gli svolgimenti… cit., p. 14. 30   E. Zinzi, I Cistercensi… cit., p. 33. 31   M.P. Di Dario Guida, Gli svolgimenti… cit., p. 18. 32   M.P. Di Dario Guida, Gli svolgimenti… cit., pp. 18-22. Sicuramente nel 1196 i lavori non erano ancora completati (cfr. A. Pratesi, Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Roma 1958, p. 114, doc. 48). Viene, altresì discussa la tipologia decorativa del goudron in diversi edifici orientali a partire dal VI fino ad arrivare all’XI secolo con relativa bibliografia (pp. 19-20 e nota n. 13). 33   E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 44. 34   E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 44. 35   G. Marchese, La Badia… cit., pp. 113-117. 36   G. Marchese, La Badia… cit., p. 116. 37   G. Marchese, La Badia… cit., pp. 114, 116-117. 38   E. Zinzi, Problemi di Conservazione e di recupero storico-critico dell’architettura monastica in Calabria, in M.P. Di Dario Guida (a cura di), I beni culturali… cit., p. 398. 39   G. De Marco, Cosenza. Cattedrale di Santa Maria Assunta in Valtieri S. (a cura di), Cattedrali di Calabria, Roma 2005, p. 248. 40   Il Duomo di Cosenza ha subito diversi rimaneggiamenti, soprattutto – ma non solo – per causa dei molteplici terremoti che spesso hanno provocato danni ingenti. Non si conosce con esattezza in che modo possono essere stati deteriorati i portali, sebbene risultino danni alla facciata nei sismi del 1230 e del 1870. Inoltre terremoti violenti furono anche quelli del 1638 e del 1783. Al discorso legato alle calamità naturali va affiancato anche quello relativo ai “cambiamenti dei gusti” che hanno interessato il Duomo. Nel 1883, il vescovo Sorgente affidò all’architetto Giuseppe Pisanti il restauro, il quale ebbe l’idea per fortuna non concretizzatasi, di inserire sculture di angioletti nei pennacchi dei portali. Per le notizie sui rimaneggiamenti nel corso dei secoli, compresi quelli eseguiti tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà di quello successivo si rimanda per una sintesi a L. Bilotto, Il Duomo di Cosenza, Cosenza 1989, pp. 21-69; cfr. A. Frangipane, Elenco… cit., p. 121; F.S. Mollo, L’Architettura… cit., p. 164. Si procedette ad un abbassamento dei portali, in conseguenza del ripristino dell’antico livello del pavimento della chiesa, durante i lavori di restauro del 1759, a quanto riportato in una relazione, si veda L. Bilotto, Il Duomo… cit., p. 172. 41   L. Bilotto, Il Duomo… cit., p. 24, nota n. 15. 42   M.P. Di Dario Guida, Gli svolgimenti… cit., pp. 27, 31. Cfr. F.S. Mollo, L’Architettura… cit., p. 164; G. Leone, Osservazioni… cit., p. 58 che propone l’analogia decorativa tra i portali, rivelandone l’importanza, nell’analisi stilistica del portale quattrocentesco di Carpanzano. 43   E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 172. 44   E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 45. 45   A. Frangipane, Elenco… cit., p. 102; E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 45. 9

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E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., pp. 8, 213.   G. Ferrari, Altilia e la sua gente. Cenni storici e personalità di un Comune della Valle del Savuto, Cosenza 1997, p. 33. Peraltro sarebbero incise anche due iniziali: J. M. 48   E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 65. 49   Si signala C. Deni-A. Lico, Il cantiere e le maestranze roglianesi. Una proposta di restauro: la Chiesa di S. Ippolito, 18. sec., Firenze 1994. 50   E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 191. 51   Fulvio Terzi, afferma che l’architettura cistercense si caratterizza per la modularità e serialità degl’impianti dovuta, tra le altre, ad una razionalità nell’impostazione progettuale e ad una robustezza strutturale; pertanto il tutto si traduceva in una complessiva economicità della costruzione che oltre a ridurre i costi dell’opera, consentiva un controllo dei tempi di esecuzione e la possibilità di ricorrere ai materiali e alle maestranze locali, sotto la guida di maestri che ne controllavano l’esecuzione F. Terzi, Cosenza. Medioevo e Rinascimento, Cosenza 2014, p. 315. 52   A tal proposito si cita anche il portale maggiore della chiesa di Sant’Anna a Caloveto, ad arco acuto e collocabile alla prima metà del XIV secolo. Sebbene sia stata messo in relazione con la cultura gotica della vicina Rossano, soprattutto per quanto riguarda le decorazioni floreali sulla cornice esterna e sui capitelli (cfr. L. Bilotto, La Provincia di Cosenza. Una guida: storia, arte, tradizioni popolari, Mendicino, 1996 p. 318), è verosimile che alcuni riflessi siano provenuti proprio dalla Valle del Crati. Sugli sviluppi successivi, oltre il XIV secolo, si rimanda in questo testo al contributo di Alberto Pincitore. 53   A. Pratesi, Carte latine… cit., pp. 3-8 (docc. 1-2). Si rimanda a E. Zinzi, I cistercensi… cit., p. 50 per una disamina sui documenti e per la sintesi riguardo la successiva storiografia che ha ritenuto attendibili le scoperte del Pratesi. Cfr. F.S. Mollo, L’architettura… cit., 1983, p. 152. 54   Da quanto si evince dai documenti, nel 1221 Onorio III autorizza i monaci dell’Abbazia della Sambucina a trasferirsi a Santa Maria della Matina, in quanto «in loco ruinoso et alias valde inepto». Nel 1222 Federico II in un diploma diretto all’abate della Sambucina Bono, diede il suo beneplacito. Si veda A. Pratesi, Carte latine… cit., pp. 298-303 (docc. 127-128). Bisogna tenere presente i danni provocati dai terremoti del 1184 e del 1221. Sulla completa riedificazione da parte dei cistercensi provenienti dalla Sambucina vengono posti alcuni interrogativi, anche in virtù di alcune riflessioni su base stilistica, in F. Parise, Gli insediamenti cistercensi lungo la Valle del Crati, in A. De Sanctis (a cura di), Monasteri di Cosenza. Fabbriche complesse per un sistema informativo, Rende 2004, pp. 60-61 dove, tutt’al più, viene ipotizzata una datazione cistercense più tarda e dipendente da Casamari. 55   Situazione già rilevata in F.S. Mollo, L’architettura… cit., 1983, p. 154:«Purtroppo il degrado avanzato della pietra ha reso quasi irriconoscibili i particolari dei capitelli, che rischiano di scomparire, se non verranno attuati tempestivi trattamenti conservativi» 56   G. Occhiato, Le chiese… cit., p. 351. 57   Cfr. G. Santagata, Calabria Sacra. Compendio storico-artistico della monumentalità chiesastica Calabrese, Reggio Calabria 1974 [ristampa anastatica Locri 2003], p. 407; E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 44. 58   E. Bruno, Scalpellini di Calabria… cit., p. 44. 59   F. Russo, Il Santuario di S. Maria del Castello in Castrovillari, Pinerolo 1956, p. 38. 60   G. Trombetti, Castrovillari nei suoi momenti d’arte, Castrovillari 1989, p. 20. 61   F. Russo, Il Santuario… cit., p. 38. Cfr. A. Frangipane, L’arte in Calabria, Messina 1927, p. 19, che lo data al XV secolo e E. Miraglia, Castrovillari nei suoi monumenti, Castrovillari 1929, p. 19 che ritiene, invece, come il portale sia un rifacimento settecentesco, risalente alla ricostruzione voluta del parroco Vito Chiaromonte. Il primo documento riguardo il Santuario è un diploma del 1114, si tratta di un diploma conservato nell’Archivio di Stato di Palermo che conferma una donazione di Ruggero II del 1109 al monastero di S. Maria di Josafat a Corigliano di tre chiese, tra cui quella di Santa Maria del Castello, si veda a tal proposito G. Trombetti, Castrovillari… cit., p. 17, a cui si rimanda anche per una sintesi aggiornata sulle vicende e sui rifacimenti che l’hanno interessato. 62   G. Leone, La Calabria dell’Arte, Soveria Mannelli, 2008, p. 26. 63   In A. Frangipane, Elenco… cit., p. 55, i portali sono definiti genericamente al XII-XIII secolo. Cfr. B. Cappelli, Recensione all’elenco degli edifici monumentali: Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria, del Ministero educazione Nazionale, in “Archivio Storico per la Calabria e la Lucania”, a. X, 1940, 2, p. 156; lo studioso riporta che il portale sia stato composto nel rifacimento del 1769 da frammenti del XII secolo, appartenenti a momenti e stili diversi, dalle maestranze della scultura meridionale con attingeva all’arte bizantini e mussulmana, fino agli influssi dell’arte settentrionale, palesati a suo dire, nelle parti interne a tortiglioni. Sempre Cappelli propone una datazione alle trifore al XIV secolo. 64   G. De Marco, Bisignano. Concattedrale di S. Maria Assunta, in S. Valtieri, Cattedrali… cit., 2005, p. 259. Viene spiegato come il portale sia un esempio raro di portali quattrocenteschi calabresi, secolo che predilige motivi rinascimentali non disdegnando le strutture della tradizione medievale. Ancora, la studiosa, trovando difficoltà a rintracciare un modello simile in considerazione dgli elementi di cultura artistica che rintraccia nel manufatto, propone qualche analogia strutturale con il portale della chiesa di Santa Maria Maggiore a Vall-de-Roures in Catalogna, della metà del XV secolo (pp. 259-260). 65   G. Gallo, Il Duomo di Bisignano, in “Brutium” VIII, 1929, 6, pp. 2-3. 66   A. Frangipane, Elenco… cit., pp. 85-86. 67   Per la storia e le vicende del Duomo, spesso influenzate negativamente dagli eventi catastrofici naturali, si rimanda a G. Dionesalvi, Memorie storiche sulla Cattedrale e sui Vescovi di Bisignano con una appendice di documenti, a cura di Rosalbino Fasanella d’Amore e Luigi Falcone, Rossano 1991. 68   G. Leone, Per una storia dell’arte sacra nella Valle del Crati, in R. Fasanella d’Amore-Falcone L.-Pugliese M. (a cura di), Bisignano e la val di Crati tra passato e futuro. Atti del convegno di studi. Bisignano 14-15-16 Giugno 1991. Sala Consiliare del Comune – duomo di S. Maria Assunta, Atti 1991, Soveria Mannelli 1991, pp. 118-119. 69   G. Leone, Per una storia… cit., p. 119. 70   Cfr. M.P. Di Dario Guida, Itinerario d’arte dai bizantini agli svevi, in M. P. Di Dario Guida, Itinerari… cit., p. 131. 71   P. Orsi, Le chiese basiliane della Calabria, 1929, [ristampa anastatica a cura di Carlino C., Catanzaro 1997], p. 109. 72   Per i documenti e vari benefici di cui ha goduto il complesso monastico si veda Batiffol P., L’Abbazia di Rossano. Contributo alla storia della Vaticana, traduz. G. Crocenti, Soveria Mannelli 1986. 73   G. Santagata, Calabria Sacra… cit., p. 374. 74   P. Orsi, Le chiese… cit., p. 120. L’ insigne studioso propone alcuni confronti stilistici riguardo la tipologia decorativa con altri edifici, come la moschea di Kalann e la porta di Futuh al Cairo e molti altri in Sicilia (p. 142, nota 17). Lo stesso riporta che durante lavori di restauro fu asportata la cornice esterna dell’arco che poggiava sopra due mensolette (p. 120). 75   G. Santagata, Calabria Sacra… cit., pp. 391-392. 76   P. Orsi, Le chiese… cit., pp. 153-154. 46 47

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M.P. Di Dario Guida, Itinerario… cit., pp. 132-133.   M.P. Di Dario Guida, Itinerario… cit., p. 133. 79   Cfr. M. De Marco, Lo “zodiaco” della Cappella del Purgatorio in Tortora in “Esperide” a. I, 2008, 1, pp. 4-19; L. Bilotto, La Provincia… cit., p. 53. 80   La chiesa fu fortemente voluta da Filippo Sangineto nel 1136, come si rileva già dal suo testamento del 1136, con l’intenzione di trasformare il precedente edificio intitolato “Santa Maria de’ Franchis”. Si rimanda per la ricostruzione storica della chiesa a Bozzoni C.-Villetti G., La chiesa ed il convento di S. Maria della Consolazione ad Altomonte, in “Rivista Storica Calabrese. Studi storici sulla Calabria Medioevale e Moderna in memoria di Ernesto Pontieri”, n. s., a. IV, 1983, 1-2, pp. 17-20. 81   G. Leone, Hortus Conclusus: per una lettura della simbologia floreale nei repertori decorativi della Calabria medioevale e moderna, in I giardini di Dio: simbologia floreale nell’arte sacra, [Catalogo della mostra (Catanzaro: 2001-2002)], a cura di M. Picciotti-O. Sergi, Soveria Mannelli 2002, p. 9 intende il motivo vegetale come d’alloro e quindi in riferimento alla Vergine. 82   All’interno della lunetta era collocata una scultura di stampo gotico raffigurante la Madonna con Bambino, attualmente custodita nell’ attiguo museo di Santa Maria della Consolazione; cfr. M.P. Di Dario Guida, Calabria Angioina, in M.P Di Dario Guida. (a cura di), Itinerari… cit, p. 178. 83   M.P. Di Dario Guida, Pregiudizi e revisioni per una storiografia artistica in Calabria e problemi operativi, in Per un atlante aperto dei beni culturali della Calabria: situazione, problemi, prospettiva, Atti 1982, II, Roma 1986, p. 445. 84   M.P. Di Dario Guida, Pregiudizi… cit., p. 445. 85   Si veda C. Bozzoni-G. Villetti, La chiesa… cit., p. 21. 86   B. Cappelli, Note marginali all’Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, vol. II. Calabria, in “Archivio Storico per la Calabria e la Lucania” a. IV, 1934, p. 121. 87   M.P. Di Dario Guida, Calabria… cit., p. 178. Cfr. C. Bozzoni-G. Villetti, La chiesa… cit., p. 20: «lo stesso modulo usato ad Altomonte contraddistingue i portali durazzeschi del XV secolo, in cui però l’arco ribassato è sormontato anzicché da un arco acuto, da un riquadro a terminazione rettilinea. Negli esempi francesi, come pure a Siena, l’arco ribassato è sorretto da sostegni autonomi, che non proseguono a incorniciare la lunetta». 88   Secondo Di Dario Guida il termine post quem potrebbe essere tra gli anni 1342-1345, sulla base delle interpretazioni di documenti e della analisi stilistica riguardo l’affresco raffigurante la Madonna della Consolazione che dovette essere dipinto a lavori ultimati (M.P. Di Dario Guida, Calabria… cit., pp. 178180). Cfr. C. Bozzoni-G. Villetti, La chiesa… cit., p. 20, in cui si pone il dubbio se la facciata con il portale fosse compiuta nel 1377 quando furono deposte le spoglie di Filippo II, successivamente ad un completamento dell’edificio e p. 31, nota 27 dove si riconosce una “parziale affinità” con i portali architravati napoletani a lunetta architravata. Inoltre «lo stesso modulo usato ad Altomonte contraddistingue i portali durazzeschi del XV secolo, in cui però l’arco ribassato è sormontato anziché da un arco acuto, da un riquadro a terminazione rettilinea. Negli esempi francesi, come pure a Siena, l’arco ribassato è sorretto da sostegni autonomi, che non proseguono a incorniciare la lunetta». 89   S. Paone, Santa Maria della Consolazione ad Altomonte. Un cantiere gotico in Calabria, Roma, 2014, pp. 32 ss. 77 78

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Alberto Pincitore

Portali del Quattrocento e del Cinquecento

Il territorio con cui oggi si circoscrive l’attuale provincia di Cosenza è caratterizzato dalla cospicua presenza di portali in pietra scolpiti nel Quattrocento e nel Cinquecento. In questo contributo saranno presi in esame alcuni dei più significativi esempi nell’intento di indicare le tipologie e gli influssi culturali che ne hanno determinato la conformazione architettonica e decorativa. Il portale, nella sua accezione monumentale di acceso, è un elemento architettonico caratterizzante lo stile di un edificio, principalmente perché connette un ambiente interno con quello esterno, dunque relazionandosi con lo spazio urbano, e poi generalmente perché tramite un corpus esornativo ostende motivi di rappresentanza. Frutto di ingegno e di fatica i portali realizzati per palazzi nobiliari e, soprattutto, chiese, trasmettono un’ulteriore prova di un passato locale ricco di fermenti artistici e culturali1. Nel Quattrocento convivono diverse tipologie di portale le cui linee strutturali e gli apparati ornamentali palesano chiari riferimenti a modelli di persistenza ancor medievale. La soluzione dell’arco a sesto acuto, come tipologia strutturale, e formule decorative della tradizione locale bizantina e sveva-cistercense furono ampiamente adoperati nell’architettura sacra del periodo in esame da scalpellini locali sulla cui formazione incide la koinè culturale postulata nei moduli e nei modelli dall’arte cistercense2. Di grande esempio per questi “maestri della pietra” furono senza dubbio i portali della Cattedrale di Cosenza3 e più specificamente quelli cistercensi, in quanto si possono valutare le riproposizioni degli elementi distintivi, propri di cultura gotica, con tale vitalità da permettere di varcare gli stessi limiti storici4. La persistenza di elementi tardo gotici uniti a un sottile sostrato di cultura bizantina affiora nei maestosi portali della Cattedrale di Santa Maria Assunta e dell’Episcopio di Bisignano5 (Fig. 1), realizzati tra il XIV e il XV secolo da maestranze attive nella Valle del Crati6. La facciata della Cattedrale presenta un portale tufaceo archiacuto con un’accentuata strombatura, composta da tori ravvicinati di piccole dimensioni; i piedritti, composti da fasci di colonnine, sono inframmezzati da astragali a motivi vegetali mentre i capitelli sono decorati da foglie eseguite a bassorilievo che esemplificano stilemi esornativi di manifattura cistercense7. Medesime caratteristiche strutturali e decorative sono espletate nel Fig. 1 Bisignano, Episcopio: Portale, fine XIV-inizi XV secolo. (ph. Alberto portale che da accesso al Palazzo Vescovile. Il pregevole manufatto proverrebbe dall’antico monastero Benedettino di Pincitore) 117


Regina dal quale venne staccato e ricomposto all’ingresso del cortile dell’Episcopio8. Il sottile grafismo del motivo a palmette, prezioso e di superficie, che orna i suoi capitelli mostra chiare analogie con la decorazione che ricorre sui capitelli del portale della basilica di San Francesco a Paola9. Negli edifici sacri degli Ordini Mendicanti di fabbricazione quattrocentesca persiste per i portali maggiori l’impiego dell’arco ogivale, mentre si diversificano le formule adottate per l’apparato strutturale e decorativo. Sulla scia dei portali di ascendenza cistercense si segnala l’esemplare della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Cetraro10 accentuato dall’arco acuto distinto da una serrata successione di tori impostati su piedritti movimentati da colonnine che plasmano, nell’insieme, una raffinata strombatura. I capitelli sciorinano una decorazione a motivo floreale che rimanda alla cultura bizantina11 per i quali sono state valutate le affinità con l’ornato della fascia continua che raccorda i piedritti con l’arco acuto del portale di Santa Maria della Stella a Castrolibero12, realizzato in “tufo nerastro”13, memore nel complesso costitutivo del portale della Sambucina a Luzzi14. Si differenzia da questi esempi per caratteristiche architettoniche il portale del Santuario di San Francesco di Paola a Paterno Calabro, datato 1444, che propone elementi afferenti a contesti artistici e culturali diversi. Il portale archiacuto, in ossequio alla tradizionale struttura degli ordini mendicanti, si caratterizza per l’inserimento di un architrave che, con il giro dell’arco, forma una lunetta tamponata, soluzione diffusa in Calabria e che trova riscontri nei modelli napoletani di età angioina15. Sull’architrave è incisa l’iscrizione «IESUS/ 1477/ SFDP»16; le ultime cifre della data sono state sovrapposte a quella originaria del 1444, ancora visibile, nell’anno in cui il portale venne adeguato al nuovo ingresso della chiesa17. I piedritti si raccordano all’arco privo di concio di chiave, particolarità costruttiva propria dell’architettura catalana, attraverso dei piccoli capitelli a crochet, ereditati dalla cultura cistercense, motivo esornativo utilizzato nel corso del secolo come testimoniano i capitelli dei portali di San Bernardino a Rossano e di Sant’Agostino a Cosenza, databili alla seconda metà del secolo18. Il portale della chiesa conventuale di Sant’Agostino, oltre alle peculiarità esornative dei precitati capitelli, mostra un elegante trama a motivi vegetali e simbolici assieme, nella cornice interna dell’arco e a palmette in quella esterna, infine, sulla fascia intermedia dell’arco, corre un iscrizione a caratteri gotici: «Franciscus De Vuono di Panatteri hoc ops fieri fecit»19. Verso la metà del Quattrocento, contemporaneamente all’instaurarsi del regno aragonese, ebbe luogo l’introduzione dell’Ordine Domenicano a Cosenza nel 1447, grazie alla munificenza di Antonio Sanseverino20. La chiesa di San Domenico (Fig. 2) a Cosenza fu senza dubbio la più importante dell’Ordine presente in tutta la regione21. L’edificio, rimaneggiato nei secoli, conserva della struttura del XV secolo il portale e lo splendido rosone che lo sovrasta22. L’ingresso all’eFig. 2 Cosenza, Chiesa di San Domenico: Portale, metà XV secolo dificio è preceduto da un protiro archiacuto, impreziosito 118


da una dentellatura di bordo di ispirazione classica23, racchiuso da due cappelle rinascimentali concepite come tempietti albertiani con paraste e architrave a timpano che lo mettono in relazione con alcune cappelle partenopee in Santa Maria di Monteoliveto24. Il portale a sesto acuto è composto da larghi conci strutturali incorniciati da colonnine terminate da esili capitelli dalla semplice modanatura classica. Di recente, inoltre, è stata avanzata la congettura che il portale in origine fosse dotato anche di un architrave in pietra, rettilineo o ad arco ribassato, a ragione della ricomposizione lapidea visibile in corrispondenza dei piedritti25. La soluzione dell’arco ribassato con riquadratura contraddistingue i portali durazzeschi26, poi accolta e notevolmente sviluppata nell’ambito della cultura catalana27. In Calabria questa unione, nel corso del XV secolo, è stata sviluppata dalle maestranze locali che, in alcuni esempi, concretizzano «un’eccentrica combinazione con l’arco ogivale»28. Le persistenze della tradizione locale svevo-cistercense unita alle moderne sperimentazioni di estrazione catalano-napoletano, genera un modus operandi originale, che gli scalpellini locali elaborano con sapienza nei portali della seconda metà del Quattrocento; ne sono un esempio eloquente la cosiddetta Porta piccola della Cattedrale di Rossano e il portale del Santuario di Carpanzano29 (Fig. 3). Il portale laterale del Duomo di Rossano mostra un arco a sesto acuto lievemente strombato, inquadrato da una cornice aggettante che palesa una soluzione strutturale geometrico-compositiva più rettangolare che quadrangolare30. Sulla sommità della cornice rinquadrante, in asse con l’arco acuto, è posto un tondo in pietra incorniciato che allude ad un rosone, che, come asFig. 3 Carpanzano, Santuario della Madonna della Grazia: Portale, seconda metà XV secolo serisce Giorgio Leone, un tempo poteva 31 anche essere aperto . Le basi dei piedritti e i capitelli cono costituiti da una semplice modanatura; le colonnine, intersecate negli spigoli dei blocchi, mostrano una semplificazione delle forme e dell’ornato che si ravviva con un sottile motivo a palmetta in una ghiera dell’arco. Sulle lunette sono poste due piccole mensole che potevano un tempo ospitare due sculture32 o più verosimilmente due lanterne. Il portale, secondo gli storici municipali33, fu costruito per volere dell’arcivescovo Domenico Lagonessa che governò la diocesi rossanese dal 1452 al 1458, come confermerebbe il suo nome inciso assieme ad una variante antica dello stemma della città e a gigli angioini, su una lapide posta entro l’inquadratura. La Porta piccola della Cattedrale di Rossano trova raffronti con il portale della chiesa Matrice a Zagarise34, e ricorda, attraverso la severità della sua struttura, il portale dell’abbazia florense di San Giovanni in Fiore35. Il portale archiacuto della chiesa dell’Annunziata di Carpanzano, meglio nota come Santuario della Madonna della Grazia, mostra una soluzione strutturale e ornamentale che a confronto del portale di Rossano palesa una «fresca 119


leggerezza nelle proporzioni e nei particolari decorativi»36. L’arco a sesto acuto è inscritto entro una cornice a doppio listello poggiante su piedritti composti da esili colonnine, tre per ogni lato, così vicine e scandite equilibratamente nel volume che rendono quasi impercettibile lo sguincio. Nello spazio creato tra la cornice e l’ultimo giro dell’arco trova posto un affresco raffigurante l’Annunciazione; i capitelli e due nodi che decorano la cornice nella parte superiore, si diversificano per grandezza e sono decorati con un motivo a mazzetto floreale che rimandano a modelli esornativi adottate nelle architetture catalane. Tra gli esempi che meglio aiutano a comprendere la diffusione della cultura architettonica durazzesco-catalana nell’immediato hinterland cosentino si annovera il portale della chiesa della Riforma a Bisignano37 (Fig. 4) nota come Santuario di Sant’Umile. Le peculiarità principali del portale sono ravvisabili nell’arco ribassato fregiato da una cornice che si innalza al centro formando un elegante arco a chiglia. Questa tipologia di arco, frequente nelle architetture catalane in Sicilia, trova riscontri nella splendida nicchia dell’edicola votiva che decora il prospetto di Palazzo Giannuzzi-Savelli su piazza del Duomo a Cosenza38. All’interno dell’arco a chiglia è intagliato lo stemma dei Sanseverino mentre sul vertice il monogramma cristologico. I piedritti sono composti da colonnine che culminano in capitelli a foglie e pulvino doppio, e si ergono da una pesante base squadrata assieme ad una cornice arrotondata che racchiude il portale aggirando i capitelli e si raccorda alla cornice aggettante che articola la facciata mediante esili capitelli. Tra gli scarni riferimenti cronologici a disposizione il 1493 è certamente una data emblematica per comprendere le coordinate culturali delle maestranze locali. Tale data infatti la ritroviamo incisa in quattro portali della provincia di Cosenza: a Paola, chiesa degli Agostiniani, a Corigliano Calabro, chiesa dei Carmelitani, ad Aiello Calabro, chiesa Matrice, a Cosenza, palazzo di Gaspare Sersale (Fig. 5). Questi esemplari, pur trattenendo espedienti propri della tradizione locali, si dimostrano aperti agli influssi moderni della cultura Fig. 4 Bisignano, Santuario Sant’Umile da Bisignano: Portale, seconda metà durazzesca-catalana rivolta a stilemi classicisti. XV secolo. (ph. Alberto Pincitore) Il portale della chiesa di Santa Caterina degli Agostiniani a Paola ricorda, nella struttura architettonica, le elaborazioni delle abbazie florensi per la soluzione ad arco a sesto acuto decorato e cadenzato da una lieve strombatura. A tali persistenze antiche si affermano al contempo timidi elementi di cultura rinnovata; ne sono segno tangibile le colonnine tortili nella parte laterale dei piedritti, chiaro riferimento di cultura catalana, e soprattutto la cornice a dentelli rinascimentale, che corona i capitelli sapientemente ornati. Nell’archivolto è inciso l’anno 1493, annotato da Alfonso Frangipane39, e anche il nome dello scalpellino che lo realizzò, tale «Frater Antonius … de Paula»40. I portali della chiesa del Carmine di Corigliano Calabro, intitolata alla Santissima Annunziata, sono gli elementi architettonici che maggiormente caratte120


rizzano la facciata dell’edificio, e costituiscono interessanti esempi della produzione locale in età aragonese41. Il portale maggiore dimostra quanto i tempi siano progrediti attraverso la particolare unione di elementi afferenti alla cultura catalana racchiusi nel rigore di un’inquadratura esplicitamente classicista42. Il portale, dalle notevoli dimensioni, si erge attraverso due colonnine poggianti su leoni stilofori e culminate da capitelli finemente ornati sui quali sono disposti due telamoni che reggono la mensola dell’architrave decorato con una fine cornice dentellata. Nell’architrave si legge un iscrizione che riporta la data 1493, il nome e l’insegna araldica dell’arcivescovo Giovanni Battista De Lagni. Sopra l’architrave si imposta l’arco a sesto acuto che racchiude l’affresco della Madonna del Carmine; l’archetto pensile è finemente impreziosito da una serie di angeli musicanti sospesi in volo e disposti nel raggio dell’intradosso43. Tutta questa decorazione a sua volta si ritrova inquadrata da due paraste sormontate da una mensola aggettante; infine, nelle lunette create tra il riquadro e l’arco acuto, sono poste le sculture dell’Angelo Gabriele e della Vergine Annunziata. Nel suo complesso strutturale il portale trasmette un’intensa adesione ai modelli realizzati a Napoli sul crinale del XV secolo, che trova ragion d’essere, come asserisce Giorgio Leone, anche nelle mutata realtà dei Carmelitani calabresi che nel 1488 vennero annessi alla provincia napoletana44. Il portale in tufo della chiesa Matrice di Aiello CalaFig. 5 Cosenza, Palazzo Sersale: Portale, 1493. (ph. Alberto Pincitore) bro, intitolata a Santa Maria Maggiore mostra negli elementi strutturali evidenti analogie con il precitato portale di Corigliano Calabro, distaccandosene però da questi per la diversa e più incisiva concezione disegnativa45. Il rigore e la geometria predomina le linee compositive del manufatto; queste forniscono un’importante testimonianza sugli sviluppi artistici degli scalpellini locali che estendono i propri orizzonti culturali in direzione dei modelli del Rinascimento dell’Italia centrale46, in questo esempio giustificato dalla soluzione a cornice spezzata che distingue gli stipiti. I piedritti, inoltre, sono caratterizzati da un esile colonnina, culminano in capitelli riccamente intagliati a motivo vegetale. L’architrave, che reca data di esecuzione «A.D. MCCCCLXXXXIII»47, è sormontato da un arco acuto inquadrato da una cornice che, pur impostandosi su capitelli, si concretizza come un elemento unitario che si eleva dalle basi dei piedritti, e regge un all’estremità una cornice aggettante finemente lavorata con una decorazione a dentelli. Le lunette formate tra l’arco e la cornice sono intagliate da un prezioso decoro con fiore e foglie di cardo che si ritrova similmente nei portali cosentini di palazzo Giannuzzi-Savelli e di palazzo Gaspare Sersale48. Quest’ultimo palazzo mostra i tratti caratteristici del Rinascimento meridionale a Cosenza49. La peculiare articolazione della facciata a tre livelli, scandita in campi orizzontali mediante cordoli marcapiano, è segmentata dall’inquadratura del portale in tufo entro uno spazio, questa volta verticale, che contiene in altezza due dei tre livelli orizzontali. Anche se asimmetrico a riguardo dell’intero prospet121


to del palazzo, il portale, concepito secondo l’antico stilema catalano-durazzesco, rappresenta un episodio di grande raffinatezza formale ed esornativa che trova precisi riferimenti nell’architettura napoletana del XV secolo50. Il portale oggi si presenta con l’ingresso tamponato, è contraddistinto dal tipico arco ribassato con estradosso in conci, inquadrato da una cornice modanata che piega verso l’intradosso dell’arco e termina come se fosse tagliata. I piedritti sono composti dallo stesso motivo a cornice modanata che si imposta su un basamento a piccoli plinti degradanti. Le cornici laterali si interrompono quasi a mezz’altezza, con capitellini decorati a foglie di quercia, per poi proseguire in altezza e racchiudere l’arco. Tra gli spicchi creati tra il fianco dell’arco e la cornice, è intagliato un raffinato motivo a foglie di cardo. Sopra l’arco è posta l’epigrafe con lo stemma nobiliare dei Sersale, perfettamente in asse con il portale, e l’iscrizione con il motto araldico, che trasmette un certo sapere umanistico51, il nome di Gaspare Sersale e la data 1493. Il Quattrocento si chiude con il bel portale in tufo realizzato per la chiesa di San Francesco di Paola, o della Santissima Trinità a Corigliano Calabro nel 1496. Il portale rientra nella tipologia dei trabeati con mensole; gli stipiti sono formati da conci rettangolari, che reggono l’architrave mediante due mensole modanate. Sui lati corre una cornice capitellata che orna e regge la soprastante mensola aggettante. Lungo l’architrave corre la seguente iscrizione trascritta da Teresa Gravina Canadè: «HOC OPUS AERE FECIT BERNABO DE ABENANTE ANNO M.o CCCC L XXXX 6»52. La studiosa, inoltre riferisce che nel tempo il portale subì danni all’architrave, denotabili in due punti di rottura, che presupporrebbe la rimozione per il restauro e una successiva ricollocazione53. Osservando il portale, infatti, si può notare l’assenza delle basi su cui si dovrebbero impostare i piedritti e la cornice laterale. Al contempo riesce ad emanare un forte senso plastico e disegnativo che distingue i portali rinascimentali della regione. Si può considerare che il portale, nella sua conformazione attuale, ostende diverse analogie con le strutture dei portali degli Ordini Mendicanti dello stesso periodo, o di poco successivi. Questi esempi differiscono dal portale di Corigliano, per la presenza di un arco sopra l’architrave – sebbene i vari rimaneggiamenti subiti dalla chiesa dei Minimi, specie nella facciata54, permetterebbe di non escludere la possibilità che anche questo esemplare in origine ne fosse dotato – come nel portale dei Minimi a Paterno Calabro, datato 1444 ma ricomposto nel 1477, dei Minori Osservanti a Dipignano, dei Cappuccini a Belvedere e fors’anche con il portale delle Vergini di Cosenza (Fig. 6). I portali realizzati nel Cinquecento si contraddistinguono per la progressiva rinuncia ai sistemi di ascendenza medievale e l’affermarsi, invece, come tipologia architettonica, dell’adozione dell’arco a tutto sesto e delle strutture trabeate eseguite in diverse varianti, nonché di un repertorio esornativo classico che evolve da esperienze locali e dall’apporto di 55 Fig. 6 Cosenza, Chiesa di Santa Maria delle Vergini: Portale, 1515-1517 espressioni non locali . È documentata la presenza nel terricirca. (ph. Alberto Pincitore) torio cosentino di architetti, capomastri, e scalpellini prove122


nienti da regioni diversi ad esempio dalla Sicilia, Campania e dalla Toscana che lavorarono affianco alle maestranze locali56 distinte dall’area geografica di provenienza. Si distinguono infatti le tradizionali e secolari maestranze di scalpellini provenienti da Aieta, Altilia, San Giovanni in Fiore, Fuscaldo, Cosenza e la più nota Rogliano57. Quest’ultima cittadina è soprattutto famosa per le maestranze operose nell’intaglio ligneo che vide, per i secoli XVII e XVIII, la contestuale affermazione di singole personalità58. Proprio nell’ambito roglianese, inoltre, è stata evidenziata la connessione tra i maestri lapicidi e gli intagliatori, nell’uso comune di repertori tecnici e iconografici59. Ciò ha permesso di poter distinguere una tipologia di portali che prende il nome di roglianese proprio per i modi artistici profusi da questi artieri60. Cosenza fu senz’altro il centro più evoluto in Calabria per l’architettura del Rinascimento, poiché con i suoi palazzi testimonia la subitanea adesione al clima culturale di Napoli, decisamente rinnovato in senso classicistico anche per la presenza di artisti toscani e anche napoletani61. Nel fervore edilizio, dovuta alla riqualificazione del tessuto urbano che dovette caratterizzare Cosenza tra Quattrocento e Cinquecento62, si può ravvisare l’influsso della cultura mormandea nella conformazione di alcuni palazzi63 che perpetuano il passato di un ambiente il cui tono culturale fu di netta impostazione classicistica e umanistica64. Uno degli esempi più importanti di questa fase storica è sicuramente il portale che dà sul largo Vergini a Cosenza, posto in asse con il prospetto frontale della facciata di Palazzo Sersale permette l’accesso alla corte quadrangolare antistante la chiesa di Santa Maria delle Vergini. Si tramanda che gli artefici che realizzarono l’intero complesso delle Vergini, tra il 1515 e 151765 – sicuramente completato nel 151866 –, furono i capomastri Domenico La Cava e Pietro Celeste appartenenti alle maestranze della Valle del Crati67. Il portale dovrebbe ascriversi al periodo di costruzione del monastero68, come d’altronde confermano gli elementi architettonici e decorativi che lo caratterizzano. Il manufatto si conforma con stipiti fatti da conci disposti verticalmente, e reggenti, mediante una mensola modanata, un architrave arricchito da una cornice leggermente aggettante. Una fascia tripartita, caratterizzata al centro da un elegante bugnato a punta di diamante e decorato ai lati da due motivi a ovoli e fogliette, inquadra l’intera struttura del portale e segue la ghiera dell’arco a tutto sesto disposto sopra l’architrave. Il carattere compositivo rinascimentale che lo contraddistingue esprime chiari riferimenti alla cultura mediterranea di marca aragonese-ferrarese69, inoltre trova analogie con il bugnato a punta di diamante del palazzo Sanseverino a Napoli70. Sentori della cultura del Mormando si ravvisano nei portali di palazzo De Matera e di palazzo Galeazzo di Tarsia (Fig. 7) per i motivi classicistici manifestati particolarmente dall’inserimento di busti clipeati71, soluzione cara e risconFig. 7 Cosenza, Palazzo Galeazzo Di Tarsia: Portale, metà XVI secolo. (ph. trabile in alcune facciate di edifici progettati dall’architetto Alberto Pincitore) calabrese a Napoli72. 123


Il portale di palazzo De Matera, ad arco a tutto sesto incorniciato, presenta sulla liscia superficie marmorea un iscrizione con la data 1520; ai lati dell’apertura dell’arco risaltano i due clipei, che racchiudono le armi nobiliari. Sebbene l’impostazione architettonica complessiva del portale di palazzo Galeazzo Di Tarsia differisca da quello di palazzo De Matera, i due manufatti si accomunano per la soluzione dei medaglioni di gusto classico. Il portale in tufo di palazzo Galeazzo Di Tarsia, datato alla prima meta del XVI secolo73, potrebbe rientrare in quei restauri eseguiti al palazzo nel 1557, per volontà di Tiberio Di Tarsia, come testimonierebbe un’iscrizione su una lapide, ora perduta, ma tramandata da una fonte edita settecentesca74. Caratteristica principale del portale è il maestoso arco a tutto sesto, intagliato con varie fasce di modanatura risultanti in tre ghiere, che si imposta su piedritti a tripla specchiatura che prosegue idealmente nell’arco. Sui lati, all’altezza dell’arco, sono scolpiti due busti, che si ritiene raffiguranti Marte e Minerva, all’interno di eleganti medaglioni abbelliti mediante un motivo a encarpo. Un altro medaglione contenete una figura a mezzo busto, è sistemato sul prospetto verso il fiume Crati75. Il gusto classico concretizzato nel linguaggio del portale trasmette una sensibilità legata sia alla tradizione locale sia al gusto e alla cultura umanista del committente. Al fervore artistico e culturale cinquecentesco appartiene la costruzione di palazzo Arnone (Fig. 8), a spese dei fratelli Bartolo ed Ascanio Arnone, per essere successivamente venduto alla Regia Corte, affinché diventasse sede della Regia Udienza76. Nel 1546 agli scalpellini fiorentini, Bartolomeo della Scala e Bartolomeo Bendini, noti per aver lavorato nella Cattedrale77 e in altri Casali di Cosenza78, insieme a Carlo Mannarino di Catanzaro fu dato l’incarico di realizzare in pietra di tufo e marmo il portale maggiore79. Ciò dimostra la compartecipazione tra “mastri” della pietra, forestieri e locali, nella realizzazione di opere. Le caratteristiche principali del portale di palazzo Arnone, oggi sede della Galleria Nazionale, rimandano al recupero delle architetture dell’antichità ravvisabile sia nella scelta del modello ad arco di trionfo sia nei motivi ornamentali. Su alti basamenti si impostano due paraste coronate da capitelli di ordine ionico; la trabeazione presenta tre modiglioni nella parte interna e una coppia posta in asse con i capitelli. L’arco a tutto sesto si imposta su un abaco che culmina gli stupiti; le lunette, ricavate tra il fianco dell’arco e la cornice dell’architrave, sono abitate da due vittorie alate sapientemente intagliate. Il portale si distingue nel panorama cosentino, e di certo rappresentò con le sue chiare formule del classicismo toscano, un prototipo per gli scalpellini locali80. Nel 1567 venne realizzato il portale della chiesa del Santissimo Salvatore (Fig. 9) o di Sant’Omobono a Cosenza, come recita l’iscrizione che corre sull’architrave81. Il portale si presenta trabeato con arco a tutto sesto inscritto; i piedritti Fig. 8 Cosenza, Palazzo Arnone: Portale, documentato 1546. (ph. Alberto sono costituiti da paraste scanalate e termina con una corPincitore) nice modanata con lievi scanalature su cui si imposta l’arco, 124


caratterizzato dalla medesima specchiatura dei piedritti, racchiuso da una cornice ornata da un elegante motivo a ovoli e dentelli. Negli spazi tra l’arco e la cornice sono raffigurati due angeli che recano ognuno un cartiglio con scritto, «Salvator», quello di sinistra, e «Mundi», quello di destra. La trabeazione, lievemente aggettante, è decorata dallo stesso motivo della cornice, ovoli e dentelli, e su di essa una lunetta ornata da tre testine d’angelo, disposte alla base e in chiave, al cui interno sono ancora visibili tracce di affresco. Il portale, pienamente rinascimentale, per le forme e per la ricca composizione esornativa è assegnabile allo scalpello delle maestranze roglianesi, come d’altronde è stato già asserito da Edoardo Bruno, che attribuisce, addirittura, specificatamente il portale al maestro Giliberto82. Numerosi sono i portali riconducibili alle maestranze roglianesi, catalogati in una tipologia ben definita per le caratteristiche strutturali e ornamentali83, tra i quali si segnalano a Cosenza quello della chiesa dello Spirito Santo84, datato 1585 come recita l’iscrizione posta sull’architrave85, e della chiesa delle Cappuccinelle, quest’ultimo riprodotto fedelmente a Rossano nella cappella di San Luigi presso il Seminario vescovile86. Convivono in essi elementi tradizionali, come i motivi a torciglione di cornici e colonnine, unite alle soluzioni di piedritti a paraste e capitelli classici unita ad una vibrante decorazione, avvalorata da altre predilezioni ornamentali come il motivo degli angeli che ornano gli spicchi ricavati tra l’arco a tutto sesto e la trabeazione, che, come detto, si riallacciano all’esempio offerto dal portale di palazzo Arnone87. Si differenzia da questi ultimi esemplari, per le sue quaFig. 9 Cosenza, Chiesa del Santissimo Salvatore: Portale, 1567 lità formali, il portale della chiesa di Santa Chiara a Cosenza, databile agli ultimi anni del ottavo decennio del Cinquecento ovvero intorno al 1578, quando le Clarisse risultano già trasferite nel complesso conventuale88. Gli stipiti sono composti da una larga fascia modanata con una sottilissima decorazione a dentelli; al lato stretti piedritti specchiati culminano in raffinate mensole che sorreggono la trabeazione, composta da un fregio e dal timpano spezzato che ingloba al centro un’edicola probabilmente successiva89. Le peculiarità esornative del fregio a festoni e raffinate teste di cherubini, lo pone a confronto con le decorazioni cinquecentesche realizzate a Napoli90. A testimoniare il vasto repertorio di formule e modelli rinascimentali elaborati dagli scalpellini locali nello stesso periodo, è il portale della chiesa di San Giuliano (Fig. 10) a Castrovillari91. Il manufatto, realizzato in pietra chiara, è costituito da due ordini di colonne lisce binate di diversa grandezza. Nel primo ordine le colonnine, formanti i piedritti, separate da conci quadrati su cui sono scolpite rosette di grandezza diversa, terminano con un capitello decorato a fiori. Nel secondo ordine le colonnine presentano un collarino associato ad un capitello ionico e sorreggono una trabeazione; diversamente queste sono intervallate da conci non decorati su cui, in alto a destra, è incisa una targa con la data 1568. La 125


trabeazione è contraddistinta da un fregio a cuscino non decorato e racchiude, assieme alle colonnine, un arco a tutto sesto con chiave di volta. Allo stesso anno risale la realizzazione del porta lignea della chiesa, che è stata attribuita a Silvestro Schifino, viste le analogie con il portone del Santuario di Santa Maria delle Armi a Cerchiara (Fig. 11), firmato e datato 1570 dall’intagliatore moranese92. Come osserva Giorgio Leone, l’ornato che contraddistingue le porte lignee di Schifino, ancora di essenza rinascimentale, sono relazionabili con il medesimo motivo espletato nel portale lapideo, ciò, seppur con cautela, permette di ipotizzare che l’autore del portale e della porta lignea realizzate nel 1568 sia la stessa persona93. La tipologia del portale con colonne binate è poco diffusa in Calabria ma si ritrova a pochi chilometri da Castrovillari nel portale laterale di San Leone a Saracena. Il manufatto, databile alla seconda metà del XVI secolo, mostra diverse analogie con il portale di San Giuliano, rilevabili non solo nell’idea strutturale, ma anche nelle scelte esornative. L’esempio di Saracena, però, si contraddistingue per la marcata monumentalità espletata sia dalle possenti colonne scanalate

Fig. 10 Castrovillari, Chiesa di San Giuliano: portale, 1568 126

Fig. 11 Cerchiara di Calabria, Santuario di Santa Maria delle Armi: portale Maggiore, 1577


con capitello ionico sia dall’intenso corpus decorativo rinascimentale. Sempre nella stessa area geografica del Pollino sono presenti due interessanti esemplari di portali rinascimentali. Si tratta del portale maggiore e di quello della sacrestia della chiesa del Santuario di Santa Maria delle Armi a Cerchiara94. Il portale maggiore, datato 157795, scolpito in pietra bianca locale, presenta due leoni stilofori alle basi di sostegno dei piedritti, retaggio delle persistenze locali, composti da colonnine con motivi fitomorfi e scanalate culminanti in capitelli intagliati a foglie e volute che reggono un architrave. Sugli stipiti modanati si imposta l’arco a tutto sesto contornato dalle colonne e dalla trabeazione, quest’ultima caratterizzata da un elaborato fregio e da una cornice a ovoli. Sulla sommità sono disposte alcune sculture; sui lati due piccoli angeli sorreggono gli stemmi di Cerchiara, a sinistra, e dei Pignatelli96, a destra, al centro la Madonna col Bambino, affiancata da testine alate. Gli spicchi creati tra l’estradosso dell’arco e l’architrave sono abitati da due angeli alati reggenti un cartiglio, che rimanda ad un motivo ornamentale assai diffuso nelle maestranze locali e particolarmente adottato dalla “scuola” roglianese. È stato osservato, inoltre, come alla base dell’idealizzazione del portale ci sia lo studio degli altari lignei che vengono elaborati nel ambito moranese97. Meno ricco di ornamentazione, ma capace di restituire al contempo un equilibrio disegnativo di gusto classico, è il portale d’accesso alla sacrestia. I piedritti, caratterizzati da una doppia cornice sottile, si impostano su basi ornate da una rosetta intagliata, e sorreggono l’architrave su cui è incisa un’iscrizione98 recante l’anno di esecuzione, il 1599.

Note 1  G. Leone, …di porta in porta: un percorso storico-teorico per i portali di Cosenza, in I portali di Cosenza, Cosenza 2012, p. 3. 2  E. Bruno, Scalpellini di Calabria: i cantieri e le scuole, Fuscaldo Marina 1995, p. 45. 3  Per l’analisi dei portali si veda il contributo di Ludovico Noia in altra parte di questo volume. 4  G. Leone, Osservazioni sulla tipologia dell’arco gotico inquadrato in Calabria, in G. Ceraudo, Tesori d’arte. La cappella della Madonna della Grazia di Carpanzano, Soveria Mannelli 2000, pp. 54-61. 5  M.P. Di Dario Guida, Itinerario aragonese, in M.P. Di Dario (a cura di), Itinerari per la Calabria, Roma-Vicenza 1983, p. 222; G. Leone, Per una storia dell’arte nella Valle del Crati, in R.F. D’Amore-L. Falcone-M. Pugliese (a cura di), Bisignano e la Val di Crati tra passato e futuro. Atti 1991, Soveria Mannelli 1993, p. 119; E. Bruno, Scalpellini… cit., p. 46. 6  A. Frangipane, Elenco degli edifici monumentali: Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria, Roma 1938, pp. 85-86. 7  G. Leone, Per una storia… cit., p. 119; S. Valtieri, Cattedrali di Calabria, Roma 2002, p. 259. 8  L. Pagano, Bisignano, in Il Regno delle Due Sicilie: Calabria Citeriore, Napoli 1857, p. 67; G. Gallo, Bisignano, Cosenza 1983, p. 14. 9  G. Leone, Per una storia... cit., p. 119. 10   A. Frangipane, Edifici… cit., p. 96. 11   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus tipologico dei portali, in S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria nel Rinascimento: le arti nella storia, Roma 2002, pp. 828, 833. 12   F. Terzi, Cosenza: Medioevo e Rinascimento, Cosenza 2014, p. 344. 13   A. Frangipane, Edifici… cit., p. 91. 14   Per l’analisi del portale si veda il contributo di Ludovico Noia in altra parte di questo volume. 15   G. De Marco, L’architettura catalana: un linguaggio rinascimentale anticlassico, in S. Valtieri (a cura di), Storia della… cit., p. 268; G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., p. 829. Si fa riferimento in particolare al portale del chiostro dei Minimi nel monastero di Santa Chiara a Napoli. 16   R. Benvenuto, Il Santuario di San Francesco di Paola in Paterno, Paterno Calabro 2005, p. 53. 17   Il portale venne eseguito nel 1444 per l’oratorio dalla antica confraternita dei Disciplinati. Questo edificio successivamente venne ampliato nei lavori di costruzione del convento, a cui partecipò lo stesso San Francesco tra il 1461 e il 1472. Cfr. F. Russo, Storia della chiesa in Calabria: dalle origini al Concilio di Trento, I-II, Soveria Mannelli 1982, II, pp. 622, 663; R. Benvenuto, Il Santuario… cit., pp. 18, 53. 18   M.P. Di Dario Guida, Itinerario… cit., p. 210 scrive in merito all’edificio di San Bernardino a Rossano che dovette essere costruito verosimilmente, o ricostruito, agli inizi del sesto decennio del Quattrocento. F. Terzi, Cosenza… cit., p. 337 riporta l’anno 1462. La chiesa di Sant’Agostino a Cosenza, come si evince da fonte documentaria, dovette essere restaurata nel periodo ante 1480 (cfr. F. Russo, Regesto Vaticano, II, doc. 12564) come riporta G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., pp. 828, 833. 19   La trascrizione è di C. Minicucci, Cosenza sacra, Cosenza 1933, p. 174. 20   F. Russo, Storia… cit. p. 613; M.P. Di Dario Guida, Itinerario… cit., p. 218; O. Milella, I Domenicani in Calabria. Storia e architettura dal XV al XVIII secolo,

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Roma 2004, p. 19. 21   M.P. Di Dario Guida, Itinerario… cit., , p. 218. 22   C. Minicucci, Cosenza… cit., p. 129. 23   F. Terzi, Cosenza… cit., p. 467. 24   M.P. Di Dario Guida, Itinerario… cit., p. 218. 25   F. Terzi, Cosenza… cit., p. 468. 26   M.P. Di Dario Guida, Itinerario… cit., pp. 220-224. 27   G. De Marco, L’architettura catalana: un linguaggio rinascimentale anticlassico, in Valtieri S. (a cura di), Storia della… cit., pp. 257-261. 28   G. Leone, Osservazioni… cit., p. 55. 29   G. Leone, Osservazioni… cit., pp. 54-61. 30   G. Leone, Osservazioni… cit., p. 57. 31   G. Leone, Osservazioni… cit., pp. 56-57. 32   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., p. 844. 33   F. Russo, Cronotassi dei vescovi di Rossano, Rossano 1989, pp. 104-105; L. Renzo, Arcidiocesi di Rossano-Cariati. Lineamenti di storia, Rossano 1990, p. 75. 34   G. Leone, Osservazioni… cit., p. 56. 35   Per l’analisi del portale si veda il contributo di Ludovico Noia in altra parte di questo volume. 36   G. Leone, Osservazioni… cit., p. 57. 37   M.P. Di Dario Guida, Itinerario… cit., p. 222. 38   G. Leone, Per una storia… cit., p. 120; G. Leone, Santi di strada: edicole votive nel centro storico di Cosenza, Cosenza 2000, pp. 29-30, 97-98 scheda 1. 39   A. Frangipane, Edifici… cit., p. 132. 40   M.P. Di Dario Guida, Itinerario… p. 216; E. Bruno, Scalpellini… cit., p. 49. 41   G. Leone, La facciata del Carmine, in «il Serratore», V (1992), 19, pp. 37. 42   M.P. Di Dario Guida, Itinerario… cit., p. 216; Eadem, Pregiudizi e revisioni per una storiografia artistica in Calabria e problemi operativi, in Per un atlante aperto dei beni culturali della Calabria: situazione problemi prospettive, [atti del VII Congresso Storico Calabrese (Vibo Valentia-Mileto: 1985)], Reggio Calabria 1985, p. 441; G. Leone, La facciata… cit., p. 37. 43   L’utilizzo delle formule di matrice durazzesca-catalana sono riproposte, fedelmente, nel portale laterale destro della chiesa. Interessante è il motivo dei gigli penduli che discerne da esempi colti e preziosi come il monumento sepolcrale di Ladislao di Durazzo in San Giovanni a Carbonara a Napoli. Cfr. M.P. Di Dario Guida, Itinerario… cit., p. 216; G. Leone, La facciata… cit., p. 37. 44   G. Leone, La facciata… cit., p. 37. 45   G. Leone, Osservazioni… cit., p. 54. 46   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 846. 47   A. Frangipane, Edifici… cit., p. 78. 48   G. Leone, Osservazioni… cit., p. 54. 49   F. Terzi, Cosenza… cit., pp. 520-521. 50   M.P. Di Dario Guida, Itinerario… cit., p. 220; F. Paolino, Esempi di palazzi del Cinquecento in Calabria, in Il palazzo dal Rinascimento a oggi: in Italia, nel Regno di Napoli in Calabria, [atti del convegno internazionale (Reggio Calabria: 1988)] Roma 1989, pp. 171-172; G. Scamardì, La dimensione dell’abitare, in S. Valtieri (a cura di), Storia della… cit., p. 309; G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., p. 852. 51   G. Scamardì, La dimensione… cit., p. 309. 52   Gravina Canadè T., Le Chiese Raccontano: Note di storia, arte, tradizioni di Corigliano Calabro, Soveria Mannelli 1995, p. 151. 53   T. Gravina Canadè, Le chiese… cit., p. 149. 54   R. Bianchini, L’architettura dei francescani e dei Minimi di S. Francesco di Paola, in S. Valtieri (a cura di), Storia della… cit., pp. 643-644. 55   S. Valtieri, I linguaggi e i modelli, in S. Valtieri (a cura di), Storia della… cit., pp. 227-228. 56   Si veda a tal proposito, B. Mussari-G. Scamardì, Artisti, architetti e “mastri fabbricatori”, in S. Valtieri (a cura di), Storia della… cit., pp. 147-188; A. Tripodi, Scalpellini in Calabria, in «Esperide», I (2008), 2-6, pp. 76- 94. 57   E. Bruno, Scalpellini… cit.; A. Tripodi, Scalpellini… cit.; P. Pontieri, I portali di Calabria, Cosenza 2010. 58   F. Iannace, Le maestranze roglianesi, in M.P. Di Dario Guida (a cura di), Itinerari… cit., pp. 300-304; Eadem, Scuola roglianese, in L’intaglio ligneo in Calabria dal XVII secolo al XVIII, [catalogo della mostra (Cosenza: 1991], Cosenza 1991, pp. 9-10; G. Leone, L’intaglio barocco in Calabria: annotazioni a margine di problema di storiografia artistica, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria, (“Atlante del Barocco in Italia”, diretto da Marcello Fagiolo), Roma 2002, pp. 164-165; Idem, Appunti per una storia (s)conosciuta: intaglio ligneo e maestri nell’attuale provincia di Cosenza, in A. Cipparrone (a cura di) Il legno: Mostra sulla storia e la lavorazione del legno nella provincia di Cosenza; dalle risorse naturali agli attrezzi da lavoro; dagli strumenti musicali alle pipe, alle opere del maestro d’ascia; dalle fonti d’archivio agli intagli artistici, [Catalogo della mostra (Cosenza: 2013)], Cosenza 2013, pp. 109-115. 59   F. Iannace, Le maestranze… cit. pp. 300-304. 60   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., p. 889. 61   M.P. Di Dario Guida, La Calabria del XVI secolo, in M. P. Di Dario Guida (a cura di), Itinerari… cit., p. 235. 62   Si veda per l’argomento: C.G. Canale-P. La Spina, Cosenza: sintesi compositiva e geometria progettuale nell’architettura mendicante, Messina 1990; F. Terzi, Cosenza… cit. 63   M.P. Di Dario Guida, La Calabria… cit., p. 235; S. Valtieri, Il Mormando architetto, in S. Valtieri (a cura di), Storia della… cit., pp. 134-148. 64   M.P. Di Dario Guida, La Calabria… cit., p. 236. 65   F. Passalacqua, L’architettura cistercense e florense, in S. Valtieri (a cura di), Storia della… cit., p. 513. 66   F. Molezzi, Monasteri e istituti religiosi attraverso i documenti d’archivio, in A. De Sanctis (a cura di), Monasteri di Cosenza. Fabbriche complesse per un sistema informativo, Rende 2005, p. 108. 67   C. Fanelli, La chiesa e il monastero di S. Maria delle Vergini, in G. Ceraudo-G. Leone (a cura di), Le chiese di Cosenza, Cosenza 1999, p. 23. Domenico La Cava

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e Pietro Celeste sono segnalati come scalpellini di Rogliano in Bruno E., Scalpellini… cit., p. 51, 191; A. Tripodi, Scalpellini… cit., p. 76. 68   C. Fanelli, La chiesa… cit., p. 21. 69   G. Leone, …di porta… cit., p. 9. 70   F. Passalacqua, L’architettura… cit., p. 514. 71   M.P. Di Dario Guida, La Calabria… cit., p. 236; S. Valtieri, I linguaggi… cit., p. 212. 72   S. Valtieri, Il Mormando… cit. pp. 140-142. 73   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., p. 857. 74   Prendo la notizia da A. Travo, Ipotesi di lettura per un palazzo del centro storico, in Raccontiamoci la città: Cosenza tra storia, miti, leggende, Cosenza 2005, pp. 121-122 che riporta a sua volta le informazioni contenute in S. Spiriti, Le rime di Galeazzo Di Tarsia, Napoli 1758, p. 201, in cui si fa riferimento ad una lapide che all’epoca dello Spiriti era collocata nel cortile del palazzo e riportava la seguente trascrizione: «domum hanc tiberius de tarsi belmontis aliorumque oppidorum dominus restauravit vervis hermisque decoravit anno d. 1557». 75   A. Travo, Ipotesi di lettura… cit., p. 122. 76   B. Mussari, Il «Regio Palazzo» di Cosenza, in «Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università degli Studi di Reggio Calabria / Quaderni PAU», V (1995), pp. 101-114; M. Spizzirri, Fonti archivistiche per la storia dell’arte a Cosenza, in Raccontiamoci la città: Cosenza tra storia, miti, leggende, Cosenza 2009, pp. 131-132. 77   L. Bilotto, Il Duomo di Cosenza, Cosenza 1989, p. 33. 78   A. Tripodi, Scalpellini… cit., pp.77-78. 79   B. Mussari, Il «Regio Palazzo»… cit., pp. 103-104. 80   G. Leone, … Di porta… cit., p.10. 81   «salvatori aedem collegivm sartorvm fvndavit pio iiii pontifice maximo antistite consentino thoma thilesio qvi prima fvndamenta iecit a partv virginis mdlxvii». 82   Si veda E. Bruno, Scalpellini… cit., pp. 191, 198 nota 2. 83   G. De Marco-G. Scamardi, Corpus… cit., pp. 889, 890. 84   A. Frangipane, Edifici… cit., p. 107. 85   «Antonius belmustus fecit hac porta anno dni mdlxxxvii», la trascrizione è di C. Minicucci, Cosenza… cit., p. 76. Sull’identità di Antonio Belmusto si sono espressi M. Borretti-R. Borretti-G. Leone, Cosenza e la sua provincia: storia ed arte di cento località attraverso undici itinerari, Cosenza 1996, p. 38 che lo citano come banchiere genovese e committente del portale; diversamente E. Bruno, Scalpellini… cit., p. 191, lo qualifica come scalpellino roglianese ed esecutore del portale. 86   Per questi portali si veda il contributo di Marina Ameduri in altra parte di questo volume. 87   G. Leone, …di porta… cit., pp. 10-11. 88   C. Minicucci, Cosenza… cit., pp. 61-63. 89   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., pp. 873, 878. 90   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., pp. 873, 878. 91   G. Trombetti, Castrovillari nei suoi momenti d’arte, Castrovillari 1989, p. 56. 92   G. Leone, Per la storia dell’intaglio in Calabria: appunti sulla cosiddetta «scuola di Morano», in «Deadalus», IV-V, (1991-1992), pp. 54-55. 93   G. Leone, Per la storia… cit., pp. 54-55. Lo studioso, inoltre, riferisce che nel 1580 Silvestro Schifino è documentato per aver progettato un acquedotto a Castrovillari. Questa notizia è molto importante perché fornisce un ulteriore testimonianza che lo sviluppo delle maestranze attive nell’intaglio ligneo, non si dissocia da quello relativo ai capomastri e agli scalpellini (cfr. G. Leone, Giuseppe Schifino, alias Schitto, prete-pittore calabrese: aggiunte e precisazioni, in corso di stampa). 94   V. Barone, Storia società-cultura di Calabria: Cerchiara, Cerchiara di Calabria 1982, p. 143. 95   G. Leone, Per la storia… cit., p. 55. 96   L’analisi degli stemmi raffigurati sulle sculture si ritrova in V. Barone, Cerchiara… cit., p. 143. 97   G. Leone, Per la storia… cit., pp. 55-56. 98   «f.f.f. vespesian et pavlo frates de fvsca do. rcv re. ivlio cesare cirolla 1599», la trascrizione è di F. Russo, Il Santuario della Madonna delle Armi, Roma 1965, p. 19.

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Marina Ameduri

Su alcun portali litici barocchi dell’attuale provincia di Cosenza

Considerata la vastità tipologica dei portali in pietra di epoca barocca presenti nell’attuale provincia di Cosenza, non è possibile in questa sede rendere esaustiva la disanima dell’argomento, perciò ci si accinge a prendere in esame solo gli esemplari più rappresentativi. Gli studi recenti hanno tra l’altro messo in luce l’importante ruolo svolto da generazioni di scalpellini, attivi in questa area e spesso anche oltre i confini della stessa, nell’affermazione e divulgazione di modelli architettonici extraregionali, probabilmente conosciuti ed assimilati anche durante i viaggi a Roma e a Napoli. Si ritiene opportuno sottolineare che il portale è una struttura architettonica complessa, per sua natura bifronte, poiché provvista di un lato esterno e di uno interno, oltre ad essere composta da un insieme di elementi che devono essere sapientemente armonizzati tra loro, quali la cornice di inquadramento, la trabeazione, il frontone, le mensole e l’ordine architettonico. Dal punto di vista funzionale, inoltre, non è soltanto un semplice varco che permette di passare da un ambiente ad un altro, ma è anche il primo segno distintivo esterno di un palazzo o di una chiesa, e per tale ragione, ha una straordinaria valenza simbolica, che può essere celebrativa, rappresentativa o sacrale. Allo stato attuale è stata individuata una notevole varietà di exempla che, dal punto di vista strutturale perpetuano prototipi cinquecenteschi – legati quindi all’architettura classica – e quasi tutti sono riconducibili al sistema costruttivo archivoltato; ma accanto a tali richiami, l’aggiunta di espedienti e di particolari decorativi diventa di un moderato gusto barocco, che però, nel corso dei decenni non sfocerà mai nell’esuberanza di ascendenza napoletana o romana, piuttosto si dovrà aspettare l’inizio del Settecento per avere soluzioni di marca locale senz’altro di più leggiadre forme tardo barocche e rococò. Tali scelte stilistiche – legate alla tradizione – perdureranno quindi per tutto il Seicento e fino ai primi decenni del Settecento e sono diffuse ad ampio raggio in tutto il territorio provinciale e non solo, ciò vuol dire che sono da imputare al gusto e alle richieste della committenza religiosa e nobiliare del tempo, la quale tra l’altro, di certo era a conoscenza di quanto stava accadendo in ambito artistico sia a Napoli e sia a Roma. Occorre ricordare, inoltre, che il versante tirrenico cosentino era particolarmente ricco di cave, la cui presenza era già nota in passato ed è stata ampiamente documentata dagli eruditi locali, uno fra tutti Gabriele Barrio, il quale nel suo De antiquitate, et situ Calabriae, edito a Roma nel 1571, ha fornito una dettagliata elencazione dei centri in cui si rinveniva non soltanto materiale lapideo, ma anche cave di marmo e di gesso, miniere di argento e persino di oro1. Tale attività 130


estrattiva, oltre ad incrementare l’economia di tutti i centri dell’area, garantiva il basso costo e la facile reperibilità del materiale necessario, favorendo così l’apertura e la fioritura di vere e proprie stanzialità di scalpellini, tra le quali le più note sono quelle di Altilia, Fuscaldo, San Giovanni in Fiore e Rogliano. Ognuna di esse ha sviluppato un proprio personale linguaggio artistico, divulgando tipologie architettoniche differenti, seppure stilisticamente riconoscibili. I maestri altiliesi, ad esempio, hanno ripreso i modelli medievali importati dai Cistercensi ed infatti per quel che attiene i portali essi utilizzarono tre tipologie: quella appunto ad incorniciatura cirstercense, come è evidente nei portali di palazzo Federici ad Altilia e della casa Mannelli di Grimaldi; quella ad incorniciatura ad arco cigliato, basti citare il portale di palazzo Funari di Altilia, ed infine la terza, ad ordine semplice o doppio e serraglia araldica, che è propria di queste maestranze, e quindi, è stata la più utilizzata2. Gli scalpellini di Fuscaldo, invece, hanno caratterizzato il loro repertorio decorativo con volute fitomorfe, fiori penduli, frutta ed elementi vegetali, ma uno dei modelli più caratteristici è quello con cassettoni a scifo e rosette, con protome a decorazione fitomorfa che si ritrova in particolare nei portali di palazzo Valenza, Calabria e Martini a Fuscaldo, tutti databili al XVIII secolo3; o di palazzo Maiorani a San Marco Argentano o di casa Andreotti (o Panza) a Fiumefreddo Bruzio4. Le maestranze di San Giovanni in Fiore, infine, hanno proposto forme più semplici, certamente influenzati dal modello tradizionale florense5, ma anche dalla qualità della pietra più dura e meno morbida che esse utilizzavano. Per quanto attiene le maestranze roglianesi ci si soffermerà maggiormente perché grazie alla molteplice inventiva formale, al sapiente uso costruttivo e all’abilità di trattamento del materiale lapideo, da accomunare alla straordinaria capacità di intagliare il ligneo, esse hanno creare un linguaggio del tutto nuovo ed originale rispetto alle altre maestranze di scalpellini presenti sul territorio, distinguendosi in particolare per i delicati ricami scolpiti nella pietra tenera, per la finezza dei particolari definitivi e per la morbidezza e l’eleganza del modellato, mosso quasi sempre da una vento impetuoso6. La loro attività ha avuto maggiore sviluppo tra il XVII e il XVIII secolo, periodo in cui a seguito di vari terremoti, tra i quali quello violentissimo del 1638, si diede avvio a un’opera di ricostruzione di chiese, conventi e palazzi con conseguente ammodernamento e abbellimento degli stilemi e delle strutture fino ad allora usate. Stilisticamente i maestri roglianesi prediligono l’arco a tutto sesto e nei primi del Seicento producono tipologie ad incorniciatura, con la trabeazione aggettante decorata con dentelli e rosette, i capitelli figurati o in stile composito; il loro motivo decorativo più ricorrente è quello a meandri, costituito da due nastri intrecciati i quali formano degli anelli e al loro interno sono scolpiti dei fiori, come nel caso del portale della chiesa dei Santi Stefano e Lorenzo di Rogliano, databile al XVII secolo7. Accanto agli elementi innovativi, essi spesso utilizzano motivi arcaici, in particolare le colonnine tortili. Il portale della chiesa delle Cappuccinelle in Cosenza8 è ascrivibile intorno al 1582, quando appunto il monastero fu fondato per volere di padre Girolamo Dell’Oliveto, ed è stato considerato il modello formale per tutti gli altri portali della stessa tipologia, permettendone così attribuzione e datazione. Esso presenta una trabeazione esterna con fregio che alterna mensole a metope ornate da rosette; ai lati vi è un doppio ordine di colonnine tortili, mentre il tutto è chiuso 131


Fig. 1 Rogliano, chiesa di San Giorgio 132

da una cornice esterna con scanalature ed un motivo ad ovoli; l’arco ed i piedritti hanno un motivo a torchon che rimanda alle colonnine laterali, mentre l’intradosso è decorato con motivi floreali9. Le chiese di Santa Maria delle Grazie o della Sanità di Cosenza10, dei Santi Pietro e Paolo a Pedace11 e di San Gaetano nella stessa città12 hanno portali pressoché identici a quello delle Cappuccinelle; il primo aveva nelle lunette degli angeli purtroppo perduti, ma che secondo Giuseppina De Marco e Giuseppina Scamardì potrebbero essere identificati con quelli custoditi nel chiostro del convento di San Francesco di Assisi in Cosenza13; il secondo è databile all’ultimo quarto del XVI secolo14 e stilisticamente conserva la consueta decorazione ad ovoli, riprendendo il doppio ordine di colonne tortili ai lati, anche se il cornicione è maggiormente articolato nelle decorazioni; il terzo agli inizi del Seicento, con arco a tutto sesto poggiante su due pilastri; trabeazione con fregio ornato da piccole mensole alternate a metope con rosette. Non si è però affatto certi di tale successione cronologica mancando qualsiasi documentazione archivistica. Sempre a Pedace, il portale della chiesa di San Francesco di Paola15 pur presentando svariate analogie stilistiche con quello delle Cappuccinelle, è sicuramente più tardo rispetto a quest’ultimo ed è perciò databile nei primi decenni del XVII secolo, poiché ciò che lo differenzia, oltre alla semplicità dell’insieme, è l’assenza delle abituali colonnine laterali, qui sostituite da paraste specchiate. Tale tipologia architettonica, detta anche ad incorniciatura commissa, caratterizzò la scuola di Rogliano fino al 1638, anno in cui il terremoto distrusse la città. Rientrano in tale categoria vari portali, tra i quali ricordiamo quello della chiesa di San Pietro in Guarano16 del 1605 (data incisa sul portale), così come quello della chiesa di San Domenico a Campana17, pressoché uguale al portale delle Cappuccinelle di Cosenza tranne che per il doppio ordine di colonnine lisce invece che tortili; il manufatto lapideo di Campana, inoltre, assieme a quello della chiesa di San Luigi a Rossano ora in parte cappella del seminario vescovile18 è l’unico esempio di questo genere, esterno all’area dei Casali di Cosenza. Sempre ad ambito roglianese si devono ascrivere alcuni portali, dove all’interno di una semplice cornice rettangolare sono iscritti il portale vero e proprio ad arco a tutto sesto e due angeli sui fornici dello stesso. Quello della chiesa matrice di Zangarona del 1616, ad esempio presenta tale impostazione decorativa e permette di datarne altri simili, tra i quali è stato già segnalato quello del convento dei cappuccini di Rogliano19. Il portale della chiesa di Santa Maria Assunta a Trenta20, invece, ha le paraste laterali arricchite da una decorazione geometrica, così come l’archivolto ed i piedritti, ornati da un motivo a meandro; la trabeazione con cornice a dentelli è conclusa da un timpano spezzato e ha un alto fregio simile a quello della chiesa di San Giorgio a Rogliano21 (Fig. 1) (15641641); quest’ultimo è di stile tardo-rinascimentale con spunti


Fig. 2 Rogliano, chiesa dell’Assunta

barocchi; ed è caratterizzato da un arco a tutto sesto delimitato da una cornice dentellata a croce commissa con chiave a protome femminile; negli estradossi vi sono due angeli, ed infine, il fregio è delineato da volute scanalate alternate a testine d’angelo, rosette e festoni. Superiormente una finestra rettangolare anch’essa ornata, completa la facciata principale. Decisamente barocco è il portale della chiesa di San Domenico a Rogliano22 datato al 1652 e realizzato da maestranze locali subito dopo il disastroso terremoto del 1638, nel quale il distacco dai modelli rinascimentali si percepisce chiaramente e tra l”altro segnando anche il passaggio dal precedente modello a paraste aggettanti a quello a triplice ordine23; esso è costituito da due paraste rudentate aggettanti con capitello composito che sorreggono l’alta trabeazione sormontata da un timpano spezzato con al centro un’edicola riproducente in piccolo il disegno del portale; analogie stilistiche si notano nel portale della chiesa parrocchiale di Santa Maria Cum Adnexis di Fiumefreddo Bruzio, il quale reca incisa la data 1674; esso presenta un arco a tutto sesto poggiante su piedritti scanalati con capitelli compositi; il registro superiore ha una semplice trabeazione con modanature e dentellature, ed il frontone circolare è spezzato con al centro una nicchia24. Nei decenni successivi si nota una sempre maggiore semplificazione formale, anche se non è attestata da alcuna documentazione, e ne sono esempi il portale della chiesa di San Felice Martire a Carpanzano, datato 1648, che rimanda a stilemi di gusto classico, in particolare ai modelli a incorniciatura commissa, e nel quale sono inseriti pochissimi motivi decorativi nella trabeazione e nella cornice; mentre i portali laterali ripetono soluzioni analoghe a quelle del portale della chiesa dell’Assunta di Rogliano25 (fig. 2); e tra l’altro quello di sinistra, inoltre, reca la data 1650 ed un’iscrizione con i nomi dei fratelli Paolo e Claudio Mantocani; il portale minore sinistro della chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Pedace26, indine è datato 1673 – tale data è incisa nelle lunette –, ed è appunto estremamente semplificato nelle forme, essendo privo del consueto apparato decorativo. Per il Settecento di notevole interesse è il portale ad arco di trionfo della chiesa di Sant’Ippolito a Rogliano opera del maestro Nicola Nicoletta27, sul quale è incisa la data 1709, formato da un timpano spezzato al centro del quale vi è una finestra, anch’essa terminante con un timpano spezzato. Qui la straordinaria abilità tecnica acquisita dalle maestranze raggiunge l’apice e la novità non sta tanto nel portato decorativo, quanto nel complessivo effetto scenografico creato con la sovrapposizione decrescente delle finestre e dal gioco chiaroscurale che ne consegue; un secondo portale presente nella stessa chiesa è datato 1708, è sulla facciata laterale ed è opera di Antonio e Nicolo Noto28. Sempre a Rogliano, nella chiesa matrice intitolata ai Santi Pietro e Paolo (1717)29 (Fig. 3) vi sono tre ricchi portali eseguiti da Nicola Gatto30 nel 1713. Quello centrale, ad arco di trionfo, ha proporzioni monumentali e presenta angeli nell’ar133


Fig. 3 Rogliano, chiesa dei Santi Pietro e Paolo

Fig. 4 San Fili, chiesa della Santissima Annunziata 134

chivolto, paraste scanalate aggettanti e triplice fascia; nel registro superiore la decorazione è a grottesche, in quello inferiore si delinea una raffinata zampa di leone; il timpano è spezzato e all’interno di quest’ultimo vi sono due angeli affrontati che reggono uno stemma; il tutto è sapientemente armonizzato secondo le tecniche e la maestria dello scalpellino roglianese. Su quelli laterali sono ripetute le stesse decorazioni del portale centrale, ma al di sopra del timpano vi sono nicchie rettangolari, vuote e incorniciate. Nella chiesa dell’Annunziata31 vi è un portale la cui data di costruzione 1722 è incisa sull’architrave; la tipologia è a fornice inquadrato e a triplice fascia; l’arco ha una fitta decorazione ad intreccio con rosette e la chiave reca una testina d’angelo, mentre le cornici sono ornate da un delicato intaglio fitomorfo; in alto è affiancato da due piccoli rosoni dove è ripetuto il consueto apparato decorativo. Altra importante testimonianza sono i portali della facciata di Santa Maria della Serra a Montalto Uffugo32, opera di Niccolò Ricciulli33 del 1722, il quale progettò anche la chiesa e la scalinata, oltre a quella della chiesa della Santissima Annunziata a San Fili34 (Fig. 4); entrambe queste opere sono contraddistinte dalla ricca decorazione a foglie d’acanto che tra l’altro è tipica delle maestranze

Fig. 5 Montale Uffugo, chiesa di San Francesco di Paola


roglianesi; per analogie stilistiche, specie per i partiti architettonici e decorativi, in particolare per il gioco di foglie d’acanto, sono stati attribuiti allo stesso artista il portale della chiesa di Santa Maria di Montevergine a Paola, quelli centrale e laterale della chiesa di San Francesco di Paola e di San Domenico a Montalto Uffugo35 (Fig. 5). Alcuni espedienti decorativi di quest’ultimo portale, inoltre, si ritrovano in quello della chiesa della Congregazione della Immacolata di Fuscaldo, nel quale si ripete il timpano curvilineo spezzato ornato con dentelli; in quello della chiesa di Santa Maria delle Vergini a Cosenza36 – che ha avuto anche una significativa attribuzione al Ricciulli che in quel periodo era dimorante a Cosenza -, in quello della chiesa della Madonna del Carmine di Fuscaldo e, infine, della Casa natale di San Francesco di Paola nella sua cittadina37.

Note 1  G. Barrio, Antichità e luoghi della Calabria, [1571], trad. italiana di A.E. Mancuso, Cosenza 1979, pp. 154, 157, 160. 2  E. Bruno, Scalpellini di Calabria. I cantieri e le scuole, Fuscaldo Marina 1995, p. 216. 3  R.M. Cagliostro, I portali, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria, (“Atlante del Barocco in Italia”, diretto da Marcello Fagiolo), Roma 2002, p. 229. 4  R.M. Cagliostro, Linguaggi e personalità dell’architettura barocca in Calabria, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., p. 72; R. Scarpino, Schede architettoniche sulle tipologie di portali elaborati dagli scalpellini della scuola di Fuscaldo (XV-XIX), in E. Bruno, Scalpellini... cit., pp. 124-125. 5  F. Samà, Storia e cultura degli scalpellini a Fuscaldo, in «Calabria Letteraria», XXXII (1984), 10-12, p. 55; E. Bruno, Scalpellini... cit., pp. 8-10. 6  E. Bruno, Scalpellini...cit., pp. 8-10. 7  G. De Marco-G. Scamardì, Corpus tipologico dei portali, in S. Valtieri (a cura di), La Calabria nel Rinascimento: le arti nella storia, Roma 2002, p. 862. 8  A. Frangipane, Elenco degli edifici monumentali: Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria, Roma 1938, p. 107; G. Santagata, Calabria Sacra: compendio storico-artistico della monumentalità chiesastica calabrese, Reggio Calabria 1974, pp. 179-183; G. De Marco, Il territorio di Cosenza e dei suoi casali: sistema insediativo e patrimonio artistico rinascimentale, in «Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università degli Studi di Reggio Calabria / Quaderni PAU», IV (1994), pp. 117-128; E. Bruno, Scalpellini...cit., p. 53; G. De Marco-G. Scamardì, Corpus… cit., p. 889. 9  G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 892. 10   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 893; E. Bruno, Scalpellini... cit., p. 53. 11   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 894; C. Altomare, Schedatura dei centri urbani: Pedace, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., p. 650. 12   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 891; G. De Marco, Il territorio di Cosenza... cit., pp. 117-128; E. Bruno, Scalpellini...cit., p. 53. 13   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 893. 14   De Marco G.-Scamardì G., Corpus... cit., p. 894. 15   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 893; G. De Marco, Il territorio di Cosenza... cit., pp. 117-128; E. Bruno, Scalpellini... cit., p. 53. 16   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., pp. 861: 896; A. Frangipane, Elenco...cit., p. 150; G. De Marco, Il territorio di Cosenza... cit., pp. 117-128; R. Scarpino, Schede architettoniche sulle tipologie di portali elaborati dagli scalpellini della scuola roglianese, in E. Bruno, Scalpellini... cit., p. 200. 17   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 891; G. De Marco, Il territorio di Cosenza... cit., pp. 117-128. 18   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 891; G. De Marco, Il territorio di Cosenza... cit., pp. 117-128; E. Bruno, Scalpellini... cit., p. 53. 19   M. Panarello, Il portale ad arco di trionfo, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., p. 234. 20   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 890; G. De Marco, Il territorio di Cosenza... cit., pp. 117-128; E. Bruno, Scalpellini...cit., p. 53; R. Scarpino, Schede architettoniche sulle tipologie di portali elaborati dagli scalpellini della scuola roglianese...cit., p. 200. 21   «La fondazione della chiesa risale al 1544; l’esistenza su di un pilastro di un nome inciso, tale “Hyronimus”, ha fatto ritenere che si tratti del progettista ed esecutore, ma in realtà l’attribuzione non è certa» (B. Mussari-G. Scamardì, Notizie sull’attività di architetti, artisti e costruttori in Calabria Citra nei secoli XVII-XVIII tratte da protocolli notarili, in «Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università degli Studi di Reggio Calabria / Quaderni PAU », VII (1997), p. 45). Cfr. A. Frangipane, Maestranze calabresi in S. Giorgio di Rogliano, in «Brutium», II (1923), n. 3; A. Adami, Tra i monumenti della città di Rogliano e dei dintorni, Messina 1925, p. 18; 20; A. Frangipane, Elenco… cit., p. 138; G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 895; R. Scarpino, Schede architettoniche sulle tipologie di portali elaborati dagli scalpellini della scuola moglianese… cit., p. 200; C. Altomare, Schedatura dei centri urbani: Rogliano, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., p. 649; R.M. Cagliostro, Linguaggi e personalità dell’architettura barocca in Calabria, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., p. 55. 22   C. Altomare, Schedatura dei centri urbani: Rogliano… cit., p. 649; E. Bruno, Scalpellini... cit., p. 193. 23   E. Bruno, Scalpellini... cit., p. 192. 24   Calabria. Basilicata, (“Guida d’Italia del Touring Club Italiano”, 21), Milano 2005, p. 514. 25   G. Santagata, Calabria..., p. 97; R.M. Cagliostro, I portali, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., p. 228. 26   G. De Marco-G. Scamardì, Corpus... cit., p. 893; G. De Marco, Il territorio di Cosenza... cit., pp. 117-128; E. Bruno, Scalpellini...cit., p. 53; Calabria. Basilicata... cit., p. 514. 27   E. Bruno, Scalpellini... cit., p. 192. Nicola Nicoletta, mastro fabricatore ed architetto, è attivo nel 1709 per la chiesa di Sant’Ippolito a Rogliano dove realizza il portale principale: B. Mussari-G. Scamardì, Notizie… cit., pp. 49; 55; R.M. Cagliostro, Linguaggi… cit., p. 55; M. Panarello, Il nesso portale-Finestra, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., p. 241; Calabria. Basilicata... cit., p. 514; A. Tripodi, Scalpellini...cit., p. 84. 28   B. Mussari-G. Scamardì, Notizie… cit., p. 55; A. Tripodi, Scalpellini..cit., p. 84.

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A. Frangipane, Elenco… cit., p. 150; R. Scarpino, Schede architettoniche sulle principali tipologie di portali elaborati dagli scalpellini della scuola roglianese… cit., pp. 206209; E. Bruno, Scalpellini... cit., p. 193; M. Panarello, Il portale ad arco di trionfo, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria… cit., p. 236. 30   Nicola Gatto era uno scalpellino ed architetto di Rogliano. Della sua attività si sa poco e infatti al momento sono documentati soltanto i tre portali della chiesa di San Pietro in Rogliano (1713) (cfr. M. Panarello, Biografie, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria...cit., p. 712; B. Mussari-G. Scamardì, Notizie...cit, pp. 47; 55; A. Tripodi, Scalpellini...cit. p. 84). 31  C. Altomare, Schedatura dei centri urbani: Rogliano… cit., p. 649; R. Scarpino, Schede architettoniche sulle principali tipologie di portali elaborati dagli scalpellini della scuola roglianese… cit., p. 210. 32   A. Frangipane, Elenco...cit., p. 123; B. Mussari-G. Scamardì, Notizie… cit., p. 54; C. Altomare, Schedatura dei centri urbani: Montalto Uffugo, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria... cit., p. 640; E. Bruno, Scalpellini... cit., p. 191; A. Tripodi, Scalpellini in Calabria, in «Esperide», 2008, n. 1, pp. 76; 84-85; R.M. Cagliostro, Linguaggi… cit., p. 57; M. Panarello, Il portale a decorazione acantiforme, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria... cit., p. 238; cfr. per questa facciata si veda il contributo di Francesca Carvelli in altra parte di questo volume. 33   Niccolo Ricciulli era un architetto di Rogliano e la sua attività è abbastanza documentata. È opportuno ricordare che egli ebbe l’incarico di progettare la facciata e la scalinata della chiesa di Santa Maria della Serra a Montalto Uffugo nel 1722 da Don Alfonso Alimena, rappresentante della popolazione e sempre nel 1722 è impegnato a Fuscaldo per la costruzione della chiesa dell’Immacolata Concezione; nel 1704, infine, progetta e costruisce la chiesa di Montervergine a Paola (FIGURA) (cfr. M. Borretti, Per la storia dell’arte in Calabria Citra. Un inedito documento del XVIII secolo, in Calabria «Calabria Nobilissima» a. V, nn. 3-5, 1951, p. 124; F. Samà, La chiesa di Montevergine a Paola, in «Calabria Letteraria», a. V (1951), nn. 10-12, p. 124; B. Mussari-G. Scamardì, Notizie… cit., pp. 50; 55; M. Panarello, Biografie...cit. p. 717; A. Tripodi, Scalpellini..cit., p. 84. 34   G. Jusi, La ricostruzione della chiesa parrocchiale di San Fili (1748-1802), Cosenza 1974, p. 115; B. Mussari-G. Scamardì, Notizie… cit., p. 54; M. Panarello, Il portale… cit., p. 238; A. Tripodi, Scalpellini…cit., p. 87. 35   M. Panarello, Il portale… cit., p. 239. 36   A. Frangipane, Elenco...cit., p. 104. 37   B. Mussari-G. Scamardì, Notizie… cit., pp. 50; 55); M. Panarello, Il portale… cit., p. 238. 29

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Catia Salfi

Portali dell’Ottocento: tra documenti e storiografia

Un documento custodito presso l’Archivio di Stato di Cosenza, datato 7 gennaio 1891, attesta nella provincia l’esistenza di cave di pietra ancora attive nel periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento1. Nell’atto, l’ingegnere Capo del Distretto di Napoli scrive Consultando la Statistica delle cave nell’ultimo decennio 1871/80 si trova che in codesta Provincia erano attive una trentina di cave di pietra da costruzione e da macine con l’impiego di 300 operai circa e fra queste cave, quelle dei comuni di Belmonte Calabro, Cropalati, Longobucco, Mendicino e Rossano avevano una discreta importanza2. Altri documenti3 redatti dai sindaci di alcuni comuni della provincia di Cosenza in risposta al sopra citato atto, dichiarano l’esistenza delle cave di pietra e l’uso che se ne faceva. Tali comuni, nello specifico, sono: Aiello, Belmonte Calabro, Cellara, Fuscaldo, Lattarico, Mendicino, San Demetrio Corone, San Fili e Scigliano4. Il sindaco di San Fili, ad esempio, dichiara nel suo comune la presenza di tre cave di pietra arenaria i cui proprietari Francesco, Gaetano e Giuseppe Malfitano sono anche gli stessi esercenti e scalpellini5. Viene comunicata anche la produzione media giornaliera di pietra estratta per ogni cava e l’utilizzo che consisteva nella costruzione di basamenti per porte, portoni, finestre, balconi, scalinate e simili, piani e bocche per forni. La lavorazione della pietra, quindi, in questo periodo resta ancora molto attiva e specialmente per ciò che concerne l’utilizzo nella decorazione di palazzi e case, sebbene le varie “scuole” di scalpellini ormai affermate e sopravvissute ad un proprio stile, che si può ammirare nei vari portali diffusi per molti paesi della provincia, avvertiranno la necessità di servirsi di nuovi stimoli, come il caso di Fuscaldo dove i capomastri elaboreranno nuovi stilemi. Per i portali di Fuscaldo, Eduardo Bruno6 distingue tre correnti di ricerca associati al periodo che ci interessa: “tradizionalista”, “neocistercense” e “neoclassica”. Durante il periodo della corrente “tradizionalista”, che si può collocare tra la seconda metà del 700 e la prima metà dell’800, gli scalpellini di Fuscaldo continueranno a riprodurre i “modelli” tradizionali ma con alcune ragguardevoli varianti il recupero dell’arco cigliato a triplice ghiera con piedritti rudentati, tipici della tradizione “romana” comune a tutte le “scuole” 7 Fig. 1 Fuscaldo, portale in tufo del palazzo Sansone in via Croce con arco a calabresi, e ne è esempio il portale Sansone (Fig. 1), che oltre alle triplice ghiera e piedritti rudentati, maestranze locali, (secolo XVIII, fine – se- caratteristiche sopra citate, presenta un’incorniciatura molto semplice che poggia su due paraste affiancate ai piedritti a colo XIX, inizi). 137


partire tra capitello e plinto nella parte inferiore, sull’archivolto ai lati dell’arco risalta una decorazione plastica a volute vegetali. La corrente “neocistercense”, collocabile nella prima metà dell’Ottocento, presenta una matrice di ascendenza cistercense ispirata alle maestranze di Altilia8 e Rogliano le quali avevano una simile formazione comune che potrebbe ricondurre alla loro origine dei cantieri medievali della Valle del Crati. Ad Altilia modelli che aderiscono alla tipologia cistercense sono il portale di palazzo Funari (fig. 2) e quello di palazzo Federici (Fig. 3) nel centro storico9.

Fig. 2 Altilia, portale in pietra calcarenitica di casa Funari in via G.B. Caruso, con arco a tutto sesto a cassettoni listellati, maestranze locali, (secolo XVIII, fine – secolo XIX, inizi).

Fig. 3 Altilia, portale in pietra calcarenitica del palazzo Federici in via V. Federici, con arco a tutto sesto in conci lapidei modanati, maestranze locali, (secolo XVIII, fine – secolo XIX, inizi).

Il portale di Palazzo Funari in pietra calcarenitica delle vicine cave, è costituito da un arco a tutto sesto a cassettoni listellati incorniciati, nella parte estradossale da conci leggermente arrotondati sobriamente modanati a listellatura decrescente, con elementi floreali nel punto di imposta al di sopra dei piedritti; questi ultimi, a partire dai semplici capitelli, richiamano, in altezza, le medesime modanature fino all’alto zoccolo basamentale. La chiave di volta dell’arco, a mo’ di mensola, è rappresentata da un fregio a motivo floreale scolpito ad altorilievo, sormontato dallo stemma del casato. Il portale di Palazzo Federici, sempre ad Altilia, in pietra calcarenitica, nella sua semplicità è rappresentato da piedritti ed arco a tutto 138


sesto in conci lapidei che riportano le medesime modanature e decorazioni: la parte estradossale a listelli descrescenti, la zona intermedia a fascia lineare fino ai conci dell’intradosso leggermente arrotondati. Anche l’alto basamento, su cui è impostata l’intera struttura, segue l’andamento variamente aggettante e rientrante delle modanature superiori. La chiave di volta è rappresentata da una mensola in aggetto con foglia d’acanto scolpita ad altorilievo. Lo schema dell’intradosso aggettante è uno spunto che si ritrova anche nel portale di Casa Lentoa Rogliano (Fig. 4)10. Nel portale di casa Lento in Vico III Spani, annesso al più noto palazzo del Canonichino Ricciulli11 in Rione Spani oggi suddiviso fra tre proprietari, si può notare che l’accentuazione è realizzata nella massa compatta dei blocchi di pietra squadrata, segnata dalle paraste che nello spigolo racchiudono un cordolo atto alla smussatura. L’arco a tutto sesto è provvisto di ghiere scanalate di diversa misura e ampiezza sulle quali emerge la costa bombata proprio sul profilo dell’intradosso, capitelli e plinti formano una fascia rigonfia con andamento continuo, creando una soluzione originale che sembra derivi dagli antichi pilastrini “a fascio”. Elementi decorativi, a base floreale geometrica sono alla base della fascia capitellare e sulla chiave12. Questa tipologia di portale da Altilia e Rogliano si diffonderà in buona parte del territorio calabrese, verrà assorbita e rielaborata dalle maestranze di Fuscaldo e si può rintracciare negli esempi del portale di casa De Seta (Fig. 5) nel centro storico e nel portale di palazzo Cuomo alla Marina. Nel portale di casa

Fig. 4 Rogliano, portale in pietra calcarenitica del palazzo Lento in Vico III Spani con arco a tutto sesto e ghiere scanalate, maestranze locali, (secolo XVIII)

Fig. 5 Fuscaldo Marina, portale in tufo del palazzo De Seta con arco a tutto sesto formato da cannule continue, maestranze locali, (secolo XIX, inizi). 139


De Seta,13 sia l’arco a tutto sesto a triplice ghiera che i piedritti sono formati da cannule continue la prima delle quali è aggettante, la parte estradossale presenta una scanalatura che si ripropone sia sulla fascia che segna plinti e capitelli seguendone il rilievo, sia sulle paraste alla cui base dei plinti invece è inscritta una decorazione a forma di X. L’arco è interrotto dalla classica chiave (Fig. 6) a “protiride” sulla quale è scolpito uno stemma araldico con segni esoterici di tipo massonico.14 Il portale di palazzo Cuomo (Fig. 7) è formato da cannule continue, la prima delle quali aggettante. I plinti ed i capitelli formano una fascia che segue il rilievo plastico delle cannule: la struttura è inquadrata da una incorniciatura a mo’ di arco di trionfo che nella parte inferiore, tra capitello e plinto, si articola in otto finte bugne e nella parte superiore, che va dal capitello all’estradosso dell’arco, è limitata da una semplice cornice. All’arco a tutto sesto formato da conci lapidei modanati e nella parte dell’intradosso aggettante manca, come di consueto ai modelli di estrazione cistercense, la chiave. In alto conclude l’arco uno stemma araldico15 (Fig. 8). La corrente “neoclassica” racchiude tutto l’arco dell’Ottocento e concretizza le ideologie classiche rivedute e corrette secondo la tradizione della società del tempo. A questa tipologia si possono ascrivere due varietà di portali, entrambi in via Croce a Fuscaldo alla prima appartiene il portale del palazzo Montesani (Fig. 9) Ai Montesani si deve la costruzione dell’imponente portale d’ingresso di stile neoclassico, nuovo nel panorama dell’arte e della cultura fuscaldese utilizzato in seguito dalla stessa famiglia

Fig. 6 Chiave a “protiride” del palazzo De Seta sulla quale è scolpito uno stemma araldico 140

Fig. 7 Fuscaldo Marina, portale in tufo del palazzo Cuomo con arco a tutto sesto formato da conci lapidei modanati, maestranze locali, (secolo XIX, inizi)


Fig. 8 Stemma araldico del portale Cuomo

Fig. 9 Fuscaldo, portale in tufo del palazzo Montesani in via Croce con arco a tutto sesto e colonne laterali rudendate, maestranze locali, (secolo XIX)

nel palazzo che si farà costruire alla Marina e che acquisterà maggiore monumentalità grazie alle colonne binate poste ai lati dell’arco.16 Il modello si ispira a esempi di ascendenza romana «il portale a mo’ di pronao è realizzato in bugnato gentile e bozze di tufo, di forma irregolare. Due colonne rudentate, tipiche dell’architettura barocca, cosiddette per quei bastoncini che riempiono le scanalature fino ad un terzo della base, formano l’inquadratura in cui si inserisce il portale. Le forme sono sobrie, con arco a ghiera modanata impostato su due piedritti che poggiano su alti plinti e che seguono il motivo decorativo delle colonne»17. Alla seconda si può associare il portale della famiglia Cupolillo18 (Fig. 10) che ostende una linea molto austera e monumentale. Il portale, a tutto sesto, in doppio ordine mostra plinti e capitelli aggettanti e modanati; su ogni piedritto è scolpito un cassettone riempito al centro da una fascia listellata che si ripete sull’arco. Conclude la chiave a protiride decorata con fregio a motivi vegetali in rilievo.

Fig. 10 Fuscaldo, portale in tufo di casa Cupolillo in via Croce con arco a tutto sesto a doppio ordine di cassettoni, maestranze locali, (secolo XIX) 141


Note 1  Cosenza, Archivio di Stato [da ora in poi ASCS], Prefettura di Cosenza, Affari Generali, busta 507, fascicolo 4. Si tratta di una lettera inviata dal Corpo Reale delle Miniere del Distretto di Napoli e indirizzata alla Prefettura di Cosenza che invita i sindaci dei vari comuni della Provincia a fornire notizie esatte e precise circa le cave e le fornaci esistenti nei territori da loro amministrati, inoltre fa presente di richiamare gli esercenti delle cave all’esatta osservanza dell’Ordinanza del 30 luglio 1889 emessa dalla stessa Prefettura. 2  ASCS, Prefettura di Cosenza, Affari Generali, busta 507, fasc. 4. Sempre dalla stessa statistica risulta l’esistenza anche di numerose fornaci da gesso, calce e cemento, da laterizi, stoviglie etc. delle quali le più importanti erano nei comuni di Acquappesa, Ajello, Aprigliano, Cassano Ionio, Mormanno, Rossano, San Giorgio Albanese, San Giovanni in Fiore, etc. 3  ASCS, Prefettura di Cosenza, Affari Generali, busta 507, fascicolo 4. 4  ASCS, Prefettura di Cosenza, Affari Generali, busta 507, fasc. 4. Oltre ai sindaci che dichiarano l’esistenza di cave di pietra, ci sono diverse lettere in cui altri sindaci dichiarano la non esistenza nei loro territori di siffatte cave e al bisogno la pietra, certamente non per essere lavorata, veniva estratta dai letti di fiumi e torrenti. 5  ASCS, Prefettura di Cosenza, Affari Generali, busta 507, fascicolo 4. Documento datato 1 febbraio 1891 compilato dal sindaco del comune di San Fili in cui dichiara I lavoratori non stanno occupati continuamente, ma si prestano quando ne vengono richiesti da chi ne ha bisogno, essi sono gli stessi proprietari della cava. 6  E. Bruno, Scalpellini di Calabria: i cantieri e le scuole, Fuscaldo Marina 1996, pp. 67-68. 7  E. Bruno, Scalpellini... cit., p. 216. Palazzo di proprietà della famiglia Sansone sito in Rione Croce a Fuscaldo. 8  E. Bruno, Scalpellini… cit., p. 213: «In seguito, i maestri altiliesi sperimenteranno nuove soluzioni espressive: desumeranno dall’esempio dell’arco cigliato del Duomo cosentino una sorta di cordulo che incornicia tutto il portale e persino la chiave dell’arco, con un grande effetto di originalità». 9  E. Bruno, Scalpellini... cit., p. 216. 10   E. Bruno, Scalpellini… cit., p. 216. 11   G. Leone, in G. Ceraudo (a cura di); Un presidio di Civiltà , Dimore storiche vincolate in Calabria, Soveria Mannelli 1998, p. 129. 12   G. Leone, in G. Ceraudo (a cura di), Un presidio di…, cit., p. 129. 13   E. Bruno, Scalpellini… cit., p. 68. 14   R. Scarpino, in E. Bruno, Scalpellini… cit., p. 152: La tipologia De Seta, viene largamente utilizzata a Fuscaldo Marina, nelle case dei pescatori, dove spesso compare la chiave con il distintivo proprio del mestiere, cioè l’ancora e/o le iniziali della famiglia. 15   R. Scarpino, in E. Bruno, Scalpellini… cit., p. 152. 16   R. Scarpino, in E. Bruno, Scalpellini… cit., p. 90. Il palazzo situato nel quartiere Croce, sede del convento degli Agostiniani fondato nel 1735, fu soppresso nel 1787 da Ferdinando IV che lo concesse, con tutte le rendite all’Ospedale di Cosenza. Dieci anni dopo fu acquistato dalla famiglia gentilizia Montesani. 17   R. Boderone, Segni e arredi urbani a Fuscaldo, Paola 2000, p. 85. 18   E. Bruno, Scalpellini… cit., p. 90.

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Francesca Carvelli

Alcuni esempi di facciate di chiese realizzate in pietra dal Medioevo al Tardo barocco nell’attuale provincia di Cosenza

Fig. 1 Cosenza, Cattedrale, facciata

È assodato che il modello di riferimento delle chiese parrocchiali dei Casali di Cosenza sorte tra il tardo medioevo e il primo Quattrocento sia stato la Cattedrale della città1, un edificio di antica fondazione, ricostruito in età normanno-sveva, dopo il terremoto del 1184 che lo rovinò profondamente, sotto la direzione del monaco cistercense Luca Campano che nel 1202 venne eletto arcivescovo di Cosenza2. La facciata in pietra arenaria di questa costruzione è a salienti, con la parte centrale sensibilmente più alta in quanto ogni sezione corrisponde all’altezza della corrispettiva navata. Questo tipo di facciata, come è noto, deriva dalla semplice chiusura della sezione della navate seguendone il profilo e ha un recedente illustre nella basilica di San Giovanni in Laterano e nelle altre grandi basiliche romane. La facciata della Cattedrale di Cosenza (Fig. 1) è spartita in basso da quattro contrafforti che scandiscono tre portali in tufo, di forma ogivali che ripropongono negli archivolti, specie quello centrale, la stessa composizione: toro, gola, fascia piatta, fascia decorata, ripetuta due volte e gli stessi stilizzati motivi vegetali, originari romanici, di cultura casamariana e fossanoviana3, sormontati da rosoni4 improntati agli influssi dell’arte borgognona: grande rosone centrale, che oggi è di ricostruzione, e due laterali, con interno risolto a quadrilobo, che sono ancora gli originali. Affinità stilistiche si riscontrano con i portali della chiesa abbaziale di San Giovanni in Fiore5 (Fig. 2) e con quello della chiesa della Sambucina di Luzzi6 (Fig. 3), il quale ultimo tra l’altro costituisce la reliquia di una facciata in pietra locale che doveva essere, come la Cattedrale di Cosenza e l’abbazia di San Giovanni, esempi notevolissimi di architettura normanno-sveva7. Il punto nodale e fondante per la ricostruzione della primitiva abbazia della Sambucina e dell’antica Cattedrale di Cosenza dopo il terremoto del 1184 e per la costruzione di nuovi edifici, come l’abbazia florense, fu certamente lo stretto legame stabilitosi tra Gioacchino da Fiore e Luca Campano, che fu suo scriba8. Allo stato attuale delle conoscenze non esistono documentazioni che compro143


vano le date precise di ultimazione dei lavori: sicuramente entro la fine del XII secolo sarà ultimata la ricostruzione della Sambucina e negli anni venti del XIII secolo quella della Cattedrale cosentina9. Il protagonista in entrambi i casi fu il protomagister Luca Campano, abate della Sambucina dal 1193 al 1202 e arcivescovo di Cosenza dal 1202 al 122410. Fondamentali diventano gli elementi architettonici che è da presumere concludessero i lavori come quelli delle facciate e in particolar modo della decorazione dei portali. In riferimento al portale della chiesa della Sambucina a Luzzi questo presenta l’archivolto più interno a sesto acuto in una combinazione toro-gola-fascia piatta ma anche i capitelli con decorazioni a nastro che riproFig. 2 San Giovanni in Fiore, Chiesa abbaziale, facciata pongono motivi antichi di area francese con riferimenti all’arte casamariana e fossanoviana. E anche nella parte più esterna del portale: con arco a tutto sesto è possibile riscontrare elementi di originalità – a volte mal interpretati nella ricomposizione seicentesca – i capitelli astratti da ridurre a semplici sfere i crochets che si ritrovano più volte in ambito cistercense, inoltre l’elegante motivo a onde che ricorda l’arte borgognona11; il motivo di archetti terminanti in lobi che ritornano negli oculi polilobati della chiesa di San Giovanni in Fiore e della Cattedrale di Cosenza12. L’elemento più significativo è costituito dalla fascia a bugne di ascendenza islamica, utile anche al fine di individuare un possibile riferimento cronologico, infatti fra tante citazioni di cultura francese si pone come dato singolare in quanto richiama il tipo di decorazione più volte presente in edifici siciliani e adottata dai cistercensi13. Fig. 3 Luzzi, Chiesa della Sambucina, facciata Quest’ultimo potrebbe essere un elemento importante per datare la conclusione dei lavori sul crinale del XIII secolo, poco dopo cioè il ritorno dalla Sicilia di Luca Campano e di Gioacchino da Fiore che, come ricorda lo stesso abate sambucinese nei racconti della vita di Gioacchino, furono ospitati tra il 1196 e il 1197 nell’abbazia dello Santo Spirito a Palermo14. Si pongono cosi le basi perché procedono, forse in maniera contemporanea le costruzioni dei due monumenti emblematici dell’età federiciana in Calabria: l’archicenobio di San Giovanni in Fiore e la Cattedrale di Cosenza, per i quali la cultura della chiesa della Sambucina di Luzzi costituisce una premessa ineludibile15. Il modello della facciata della Cattedrale di Cosenza è stato quindi riscontrato in molte chiese del suo circondario16 e tale ripetizione perdura fino al Cinque144


Fig. 4 Rovito, Chiesa di Santa Barbara, facciata

cento inoltrato, arricchendosi via via di altri dettagli e ammodernamenti. La chiesa di Santa Barbara a Rovito17 (Fig. 4), in pietra locale, nella parte centrale è bipartita da una cornice poggiante sui contrafforti; nella parte superiore della fascia, sopra il portale, si trova la lunetta archiacuta e un grande rosone centrale che presenta fasce di pietra scanalate e un torchon raccordante i due semicerchi per mezzo di due piccoli capitelli molto simile a quello della chiesa di San Domenico a Cosenza, iniziata nel 1449; nella parte inferiore il portale con decorazioni di stile rinascimentale18. Si potrà trattare di segni di successivi rifacimenti, ma nel Quattrocento tali combinazioni tra elementi classici e gotici sono molto comuni nella decorazione lapidea, specie in quella delle facciate delle chiese19. Interessante e gradevole sulla facciata di Rovito è la particolare risoluzione dei rosoni, le cui lobature interne sono decorate da diversi ornamenti a traforo che denunciano la loro realizzazione al massimo nella prima metà del Quattrocento. Singolare, invece, la risoluzione originaria della facciata della chiesa di Sant’Agostino di Cosenza, che in particolare, come lasciano supporre i lacerti recuperati dal restauro, riprendeva il motivo decorativo della sezione centrale della cattedrale cittadina unendo il portale archiacuto direttamente alle colonnine che includono in alto il rosone20. Una simile soluzione parrebbe adottata per a chiesa del Carmine di Fiumefreddo Bruzio. A partire dalla metà del Quattrocento, però, i caratteri peculiari del linguaggio architettonico cosentino o meglio dei costruttori di Valle Crati, tradizionalmente legati al linguaggio cistercense, si arricchisce di nuovi modelli, elementi mutuati dal lessico classico e da quello anticlassico21. Interesse, quindi, per l’impaginazione è la facciata della chiesa di Santa Maria Maggiore a Rende22 che nella parte inferiore presenta tre portali con arco a tutto sesto, con colonne scanalate e rudentate, capitelli rinascimentali con volute e foglie, che sorreggono un architrave con triglifi e metope decorate da rosette. Altra tappa interessante nella ricostruzione stilistica e cronologica delle facciate in pietra di chiese dell’attuale provincia di Cosenza durante il Medioevo dipende dagli avvenimenti culturali di Altomonte e dal nuovo gusto della committenza orientata verso la cultura artistica della Francia meridionale23. Nello specifico la chiesa di Santa Maria della Consolazione (Fig. 5), fondata su un precedente edificio normanno, viene ricostruita in forme gotico-angioine per volere del conte Filippo Sangineto. La facciata a capanna è fiancheggiata sulla sinistra dalla torre campanaria ed è divisa in due zone da una sottile fascia marcapiano. Nella parte alta cuspidata è presente un grande rosone, composto da sedici colonnine disposte a ruota che sorreggono archi trilobi iscritti in archi acuti con rosette negli interstizi, inserito in un rincasso anch’esso cuspidato della muratura. Nella parte bassa, in ordine, il magnifico portale24 (Fig. 6) di cui si segnalano alcu145


Fig. 5 Altomonte, Chiesa di Santa Maria della Consolazione, facciata

Fig. 6 Altomonte, Chiesa di Santa Maria della Consolazione, portale

ni interessanti particolari plastici: il finissimo motivo vegetale che si rincorre con ambigua consistenza plastica nel mezzo della strombatura dell’arco ogivale, che è stato interpretato come d’alloro in riferimento alla Beata Vergine25, i tralci, i fiori, le rosette che ornano le nicchie26. Va annotato, però, che anche nella costruzione della chiesa di Altomonte sono state richiamate dalla storiografia significativi rimandi all’architettura locale di matrice cistercense e legami con San Giovanni in Fiore27 e non è del tutto impossibile che l’originale rincasso della facciata che accoglie il rosone non possa dipendere da questi presupposti. La cultura architettonica locale confluisce senza soluzione di continuità, nell’architettura del Quattrocento28. Un’estrazione culturale catalana è leggibile nelle parti originali del convento e della chiesa di San Domenico a Cosenza29 (Fig. 7), sia a livello architettonico sia a livello decorativo30. Nel convento convivono con equilibrio e creatività elementi della tradizione costruttiva locale e altri assorbiti da culture importate; nella facciata (Fig. 8), invece, si mostra una struttura del tutto singolare nel panorama architettonico del Regno, con forte valenza plastico-pittorica. Il prospetto a capanna, tipico della tradizione mendicante, è caratterizzato da un ampio rosone flamboyant, dove si coglie una forte insistenza su motivi catalani come archetti a chiglia, stelle, girandole – insieme con qualche presenza cistercense, evidente soprattutto nei capitelli dei pilastrini31 –, e da un 146


Fig. 7 Cosenza, Chiesa di San Domenico, facciata

Fig. 8 Cosenza, Chiesa di San Domenico:, facciata (particolare)

protiro fortemente aggettante, racchiuso da un arco acuto addossato alla facciata e affiancato da due corpi aggettanti, di comunicazione con gli ambienti laterali – oggi d’accesso alla chiesa e alle cappelle annesse –, che sono detti tempietti per il frontone che si imposta su lesene32. Una simile composizione non trova riferimenti nell’architettura coeva napoletana, mentre è piuttosto diffusa nella Catalogna, dove compare nella facciata della Cattedrale di Terragona della fine del Duecento33. Il grande rosone, inoltre, con sedici colonnine a sezione ottogonale raccordate al centro da un tondo decorato da otto archetti con gigli pensili, seppure ha un precedente in terra calabrese nella chiesa domenicana di Altomonte, potrebbe essere ricondotto ancora all’arte della Catalogna in quanto nella prima cornice sono collocati dei tondi a traforo con disegni diversi che riprendono i motivi decorativi della scala del palazzo della Generalitat a Barcellona, costruito nel 1416 da Marc Safont34. Il carattere peculiare del rosone domenicano è però il bellissimo torchon che lo racchiude raccordando due semicerchi per mezzo di due piccoli capitelli. Anche nel San Domenico di Cosenza, dunque, e maestranze di Valle Crati si caratterizzano per persistenze e innovazioni che sanno accogliere e ben temperate. Il linguaggio decorativo rinascimentale è leggibile nella facciata della chiesa di San Giorgio a Rogliano35. L’edificio, fondato nel 1544, nella veste attuale deve 147


credersi frutto del rifacimento successivo al terremoto del 163836. Hjeronimus, architetto di Rogliano, si ritiene sia il nome del progettista o dell’esecutore, perché su un pilastro interno appaiono scolpite in lettere «HYRM» ma allo stato attuale delle conoscenze non vi sono prove documentarie. Sulla facciata, riccamente decorata, si apre un finestrone che, nella forma e nella decorazione, ripete il disegno del portale. Il repertorio decorativo rinascimentale è presente nella fascia esterna a meandri, nella cornice a dentelli che corre intorno alla bucatura, nell’architrave a mensole decorate da ghirlande e cherubini con al centro un clipeo37. Il linguaggio esornativo proposto nel portale, in particolare per la protome figurata che compare anche come chiave di volta delle arcate interne, però, rimanda ad esempi maturi tipici di quella fase di trapasso al barocco38. Rogliano, borgo appartenente ai casali di Cosenza, diventa un centro artistico di grande rilievo con la presenza di scalpellini e intagliatori di antica fama e tradizione, in un periodo compreso tra il Seicento e il Settecento, queste maestranze si dedicheranno alla ricostruzione e all’abbellimento di chiese, conventi ed edilizia civile. La presenza di questo fermento artistico viene giustificato dalla continuità di contributi a partire dall’insegnamento dei protomagistri benedettini e cistercensi della Valle del Crati, con la permanenza di motivi saldamente collegati ad una tradizione locale che diventeranno ripetuti nel tempo, conservando una loro stabilità di forme fino a tutto il Settecento. A maestranze roglianesi è senz’altro da ricondurre la realizzazione della facciata a portico del Santuario di San Francesco a Paola39 (Figg. 9-10) che si apre sullo spiazzale attiguo al conven-

Fig. 10 Paola, Santuario di San Francesco, facciata (particolare)

Fig. 9 Paola, Santuario di San Francesco, facciata 148


to e che si caratterizza come scenografica facciata di raccordo che riorganizza e riqualifica in accezione barocca lo spazio preesistente40. Questo fronte rappresenta l’esempio più significativo di facciata a portico esistente in Calabria che si sviluppa su due ordini più frontone: nel primo ordine si trovano tre aperture - arcuata quella centrale, architravate quelle laterali -, intervallate da colonne tuscaniche; nel secondo si apre un loggiato la tripartizione si ripete inglobante la loggia e le membrature architettoniche sono animate dal movimento dell’ordine corinzio; nel frontone un motivo architravato a salienti porta in alto la statua marmorea del fondatore41. Non si conosce ancora con recisione il nome del progettista di questa straordinaria facciata che, a parere di chi scrive, potrebbe anche avere ispirazioni palermitane sulla scia di Paolo Amato. In territorio cosentino e nello specifico roglianese, in ogni modo, si registra l’attività di uno dei più importanti architetti dell’età barocca: Niccolò Ricciulli42. La conoscenza di questa figura si basa su poche notizie documentarie e sulla progettazione di rilevanti edifici, alcuni dei quali non sono mai stati completati, altri in parte alterati, altri danneggiati dai sismi. A lui, vero innovatore del linguaggio architettonico e decorativo locale, si ascrive la realizzazione, su struttura preesistente, della chiesa di Santa Maria della Serra a Montalto Uffugo43 (Figg. 11-12-13), della quale rimane la bellissima facciata in pietra, in particolare il primo ordine, essendo il resto andato distrutto dal terremoto del 1854. La facciata, preceduta da una scenografica scalinata anch’essa in pietra, esprime un linguaggio architettonico molto peculiare44: nel prospetto, suddiviso in cinque sezioni da lesene poco aggettanti e caratterizzato da tre ricchi portali che danno accesso alle rispettive navate, si susseguono ricche decorazioni del repertorio tardo barocco nell’ornamento che si sviluppa per nuclei45. Fig. 11 Montalto Uffugo, chiesa di Santa Maria della Serra, facciata

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Fig. 12 Montalto Uffugo, chiesa di Santa Maria della Serra, portale

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Fig. 13 Montalto Uffugo, chiesa di Santa Maria della Serra, facciata (particolare)


Note 1  G. De Marco, Le chiese parrocchiali dei casali di Cosenza, in Valtieri S., Storia della Calabria nel Rinascimento: le arti nella storia, Roma 2002, p. 486. 2  M.P. Di Dario Guida, La cultura artistica in Calabria: dall’Alto Medioevo all’età Aragonese, Roma 1999; in particolare, per lo specifico argomento, pp. 68-81. 3  M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., pp. 72-73. 4  A. Frangipane, Elenco degli edifici monumentali: Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria, Roma 1938, p.103. 5  A. Frangipane, Elenco… cit., p. 147. 6  A. Frangipane, Elenco… cit., p. 121. 7  Per questi portali si veda il contributo di Ludovico Noia in altra parte di questo volume . 8  M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 68. 9  M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 68. 10   M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 68. 11   M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., pp. 68- 69. 12   M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., pp. 69,71. 13   M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 69. 14   M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., pp. 69-70. 15   M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 70. 16   G. De Marco, Le chiese… cit., pp. 484 ss. 17   A. Frangipane, Elenco… cit., p. 143. 18   G. De Marco, Le chiese… cit., p. 488. Per questo portale si veda il contributo di Alberto Pincitore in altra parte in questo volume. 19   G. Leone, La facciata del Carmine, in «il Serratore», V (1992), 19, pp. 36-39. 20   Per questo portale si veda il contributo di Alberto Pincitore in altra parte di questo volume. 21   G. De Marco, Le chiese… cit., p. 486. 22   A. Frangipane, Elenco… cit., pp. 136-137; cfr. De Marco G., Le chiese… cit., p. 489. 23   Per il complesso di Altomonte, si veda il recente: Paone S., Santa Maria della Consolazione ad Altomonte: un cantiere gotico in Calabria, Roma 2014. 24   Per questo portale si veda il contributo di Ludovico Noia in altra parte di questo volume . 25   G. Leone, Hortus Conclusus: per una lettura della simbologia floreale nei repertori decorativi della Calabria medioevale e moderna, in I giardini di Dio: simbologia floreale nell’arte sacra, [Catalogo della mostra (Catanzaro: 2001-2002)], a cura di M. Picciotti-O. Sergi, Soveria Mannelli 2002, p. 9. 26   M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., pp. 101-102; S. Paone, Santa Maria… cit., pp. 43 ss. 27   Per una corretta disamina della precedente storiografia in merito: S. Paone, Santa Maria… cit., pp. 17 ss. 28   G. De Marco, L’architettura catalana: Un linguaggio rinascimentale e anticlassico; I caratteri dell’architettura del Quattrocento in Calabria, in S. Valtieri, Storia della Calabria… cit., p. 255. 29   A. Frangipane, Elenco… cit., pp. 104-105. 30   M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., pp. 116-124. 31   M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 118. 32   G. De Marco, L’architettura catalana… cit., p. 265. 33   G. De Marco, L’architettura catalana… cit., p. 265. 34   G. De Marco, L’architettura catalana… cit., p. 265, 279 nota 123. 35   A. Frangipane, Elenco… cit., pp. 138-139. 36   R.M. Cagliostro, Linguaggi e personalità dell’architettura barocca in Calabria, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria, (“Atlante del barocco in Italia”, diretto da M. Fagiolo), Roma 2002, p. 77. 37   G. De Marco, Le chiese… cit., pp. 489-492. 38   R.M. Cagliostro, Linguaggi… cit., p. 77. 39   A. Frangipane, Elenco… cit., p. 133. 40   R.M. Cagliostro, L’Architettura religiosa: Facciate a portico, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 297. 41   R.M. Cagliostro, L’Architettura religiosa…cit., p. 297 (per la scultura marmorea opera di Giuseppe Marino di Palermo, firmata e datata 1725: G. Leone, Restauro dell’antico: beni artistici medioevali e moderni tra regime di proprietà e intervento statale, in «Rivista Storica Calabrese», XXX (2009), 1-2, p. 123 fig. 7). 42   R.M. Cagliostro, Linguaggi… cit., p. 77. 43   A. Frangipane, Elenco… cit., pp. 123-124. 44   R.M. Cagliostro, Linguaggi… cit., p. 78. 45   R.M. Cagliostro, Festoni, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 521.

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Maria D’Ermoggine

Tra alcuni rosoni e finestre dal Medioevo in poi

Tra gli elementi funzionali e decorativi nell’architettura sia civile sia religiosa vi sono la finestra e il rosone. Entrambi con la funzione di consentire l’illuminazione e l’areazione dei vani interni, oltre che di permettere la visuale dall’interno verso l’esterno. La disposizione della finestra nella parete, quale sorgente di luce, riveste particolare interesse per quanto riguarda la qualificazione degli spazi interni, mentre in merito all’esterno, la sua collocazione acquista importanza come elemento per la sistemazione di eventuali elementi compositivi, relazionandosi con le altre componenti dell’edificio stesso. In certi casi può assumere il ruolo di sola decorazione ornamentale, come avviene per esempio con le finestre cieche o soprattutto con alcuni tipi di rosone. A seconda dei tempi e dei luoghi la finestra ha assunto e assume forme diverse, legate alla cultura e alle esperienze da cui essa proviene, indipendenti dalla sua mera funzione di areare o illuminare i locali. Ciò ha portato alla inevitabile varietà di modelli tipologici ognuno con le proprie caratteristiche e peculiarità. Dalle rare e piccole aperture ricavate nelle spesse murature romaniche in forma quadrata, orbicolare, a croce o a feritoia sino alle più complesse bifore, trifore e polifore che raggiungeranno, grazie agli sviluppi delle tecniche strutturali in epoca gotica il massimo splendore. Proprio in questo periodo si diffonderà l’uso della finestra come elemento principale della parete contenuta tra le strutture portanti, con la vetrata colorata e dalla tipica forma archiacuta, adatta ad esaltare la spazialità delle grandi navate. E sempre con il Gotico comincerà a ed essere utilizzata la finestra di forma rettangolare che diventerà, nelle sue molteplici variazioni, uno degli elementi architettonici caratterizzanti gli edifici religiosi e civili del Rinascimento ma soprattutto dal Barocco in poi. Ecco quindi la finestra architravata, centinata, a edicola, guelfa – cioè la cosiddetta finestra crociata, inginocchiata, lobata, ovale, rettangolare, a semicerchio, a stella. È dall’evoluzione della finestra orbicolare, ad anello o ad oculo rotondo, in uso fin dalla tarda romanità e adoperata nell’architettura paleocristiana e in quella romanica, con ghiere di pietra e forte strombatura, che si originerà, in epoca tardo-romanica, per poi trovare il suo massimo utilizzo con esempi di disposizione stellare, raggiata, lobi e ricche decorazioni a traforo in epoca gotica, l’articolato e composito rosone. Il rosone o anche detto “rosa” si riconosce, soprattutto nell’architettura religiosa, nel tipo di apertura circolare posta sulle facciate delle chiese in corrispondenza delle navate principali o laterali, oppure in corrispondenza di cappelle o transetti. Secondo la tradizione cristiana il rosone, figurativamente una ruota dotata di raggi, rappresenta il dominio di Cristo sulla Terra. In epoca medioevale, nelle architetture romaniche e gotiche, al centro degli stessi è spesso collocato il Cristo, il Salvatore al centro del progetto escatologico divino. Anche se, in al152


cuni casi, principalmente in esempi romanici, il rosone rappresenta la ruota della Fortuna, e quindi la ciclicità della fortuna umana limitata al tempo degli uomini rispetto all’incommensurabilità del tempo di Dio. Un notevole influsso alla prima diffusione del rosone, soprattutto nelle zone del centro Italia, si deve ai Cosmati, marmorari romani che lo interpretarono in forma molto particolare e con grande originalità. Nell’architettura romanica lo schema decorativo che utilizza il rosone come elemento per la facciata diventa fondamentale e con sviluppi diversi a seconda delle zone, per esempio i rosoni nelle aree in cui è ancora molto presente l’influenza bizantina, si caratterizzano per una maggiore complessità e ricchezza di dettagli, con trafori spettacolari incorniciati da archivolti sporgenti sostenuti da colonnine pensili e in dimensioni abbastanza importanti. Mentre in altre aree, soprattutto del nord Italia, i rosoni si presentano in forme più semplici e anche nelle dimensioni più ridotti. Sarà però nell’architettura gotica d’oltralpe che lo sviluppo figurativo e di realizzazione del rosone raggiungerà il suo apice, dal momento che il sistema costruttivo delle chiese permetterà un ampio sviluppo delle finestre e l’uso di imponenti rosoni sulle facciate, in corrispondenza delle arcate a sesto acuto a cui si raccorda il proprio sesto a tutto centro, in dimensioni spesso notevoli e impressionanti. In Italia la permanenza di esperienze di matrice romanica fa si che il gotico prenda piede soprattutto in alcuni elementi stilistici che andranno a innestarsi e a fondersi in un “gotico italiano” del tutto originale. Così le pesanti strutture del romanico saranno alleggerite e ingentilite da archi di raccordo a sesto acuto, colonnine tortili, forme polilobate, intrecci, tortiglioni e motivi floreali. Nei periodi seguenti il rosone continuerà la sua permanenza ma in forma meno ingombrante così nel Quattrocento lo si troverà soprattutto negli edifici che ancora risentono delle influenze gotiche, oppure in alcuni casi ritornerà alla semplice funzione di finestra orbicolare, sebbene ci saranno esperimenti sporadici di un ritorno a forme complesse e articolate fino ad una sua graduale sparizione nei secoli successivi. Ad un’analisi attenta dei percorsi artistici succedutisi in Calabria è possibile riscontrare la presenza di testimonianze significative legate ai tipi architettonici della finestra e del rosone, che in alcuni momenti hanno rappresentato proprio l’elemento di distinzione rispetto ad altre regioni e alle maestranze anche locali. Per tracciare un iter cronologico che sia sufficientemente esaustivo, soprattutto per quanto concerne la provincia di Cosenza, è necessario partire dal 1184, data in cui un terribile terremoto rase al suolo l’antica Cattedrale di Cosenza e l’originaria abbazia della Sambucina (Figg. 1-2). Proprio i cantieri per la ricostruzione di queste importanti realtà religiose, a cui si lega il nome di Luca Campano, e quelli per la realizzazione ex novo di altre, come l’abbazia di San Giovanni in Fiore, furono d’impulso all’attività di maestranze e artisti che lasciarono testimonianza in tutta la provincia. Come giustamente sottolinea Maria Pia Di Dario Guida l’archicenobio di San Giovanni in Fiore e la Cattedrale di Cosenza, per i quali la Sambucina costituisce una premessa ineludibile sono da considerarsi certamente i due monumenti emblematici dell’età federiciana in Calabria1. Originale è nell’abbazia florense l’interpretazione che si propone delle aperture poste sulla parete absidale, sette in tutto, dove è ripreso il motivo delle finestre lunghe e strette della Sambucina, ma vi si aggiungono i quattro oculi polilobati di cui uno più grande al centro2, la grande rosa in pietra a ruota lobale, come la 153


Fig. 1 Luzzi, particolare del portale e finestra Abbazia della Sambucina

Fig. 3 San Giovanni in Fiore, rosoni e finestre dell’Abbazia

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Fig. 2 Cosenza, Particolare del portale e rosone della Cattedrale

descrive Giuseppe Santagata3, riproponendo così un motivo di ascendenza francese ma con il fine di esprimere un nuovo significato teologico-trinitario (Fig. 3). Si ritiene, infatti, che la parete dell’abside con le sue quattro finestre orbicolari corrisponda alla figura del salterio delle dieci corde nel Liber Figurarum. Nella facciata, molto semplice a capanna, sopra il portale, è collocato il rosone con doppia cornice ad anello di cui la più esterna aggettante, senza fregio, e che originariamente si presume presentasse delle lobature andate perdute forse a causa di un incendio nel XIX secolo. La Cattedrale di Cosenza fu consacrata il 30 gennaio 1222 alla presenza di Federico II di Svevia, quando ancora non erano terminati tutti i lavori, seguiti dal 1202 dallo stesso Luca Campano, eletto arcivescovo della città. Inevitabili, pertanto, sono i legami culturali con la Sambucina, che fanno rientrare la Cattedrale in ambito romanico-gotico-cistercense, ma è in essa riscontrabile anche la presenza di una ricca e variegata decorazione plastica che rivela l’attività di più maestranze e cantieri dalle inclinazioni culturali e svolgimenti stilistici differenti. Il cantiere del Duomo, infatti, tranne pochi scalpellini provenienti da San Marco Argentano e dalla Sambucina, definiti cantieri chiusi, accoglie anche maestranze cosentine e diventerà uno dei centri propulsori dei moduli e dei modelli dell’arte cistercense4 la cui matrice resterà attiva fino ai primi anni dell’Ottocento. Il Duomo ha subito nel corso del tempo moltissimi rimaneggiamenti a causa di vari crolli ma anche per rispondere ai mutamenti di gusto e di cultura di chi lo governava. La facciata a salienti è caratterizzata dalla presenza di un grande rosone a ruota in corrispondenza del portale centrale, incorniciato da una larga fascia con su scritto: Restaurata et perfecta / Anno Dom. mcmxliv / Agnello Calcara Ar-


chiepiscopo, a memoria della conclusione dell’imponente lavoro di restauro che ripulì l’edificio dalle sovrastrutture barocche che ne avevano mutato l’aspetto. Probabilmente il finestrone centrale così come è visibile oggi sarebbe dovuto essere polilobato, riprendendo lo stesso stile che caratterizza i due oculi quadrilobati posti invece al di sopra dei portali laterali, che ricordano quelli dell’Abbazia Florense. La navata centrale riceve luce da finestre monofore di impostazione romanica, mentre le navate minori da finestre bifore5. Lo stesso tipo di impostazione dei tre rosoni, ma di dimensioni più ridotte e semplificati nella struttura è possibile ritrovarlo nella facciata della Cattedrale di Bisignano, mentre è interessante il richiamo agli occhi lobati dell’oculo posto al vertice della facciata nella chiesa del Carmine di Fiumefreddo Bruzio, in corrispondenza del principale rosone centrale. Con il subentrare degli Angioini e l’accentramento del potere nella capitale la situazione artistica in Calabria si viene a trovare in posizione periferica rispetto al centro, venendo quindi gestita quasi completamente dalle scelte del potere feudale uniforme ai gusti della corte. Sebbene esistano esempi artistici di notevole pregio sia a Cosenza sia in altri paesi della provincia è però Altomonte, sotto la guida “mecenatista” del conte Filippo Sangineto, il centro nevralgico della cultura artistica di questo periodo. A parte la collezione di notevoli opere d’arte, quali la famosissima tavoletta di Simone Martini raffigurante San Ladislao re d’Ungheria, e le tavolette di Bernardo Daddi, nonché i frammenti di affresco riferibili al cosiddetto “Maestro delle Tempere Francescane”6, di certo l’opera più importante, che attesta l’orientamento dei gusti verso la cultura artistica della Francia meridionale è la chiesa di Santa Maria della Consolazione. Il conte Sangineto fece costruire la sua chiesa al posto della normanna Santa Maria de’Franchi, a partire dal 1336. La complessa struttura mantiene molti dei riferimenti alle precedenti tradizioni “normanne e svevo-cistercensi”7, ma esprime rapporti molto forti con l’architettura angioina di Napoli e con le complesse implicazioni culturali in essa contenute specie sotto il profilo delle interpretazioni che da alcuni decenni si stavano dando dell’architettura gotica di Francia8. Uno degli elementi che attesta questo atteggiamento filo francese è certamente la scelta tipologica delle aperture: la grande bifora della torre campanaria, le finestre a ruota lobata dell’abside, le monofore ogivali delle pareti laterali e soprattutto il grande rosone traforato con raggiera di sedici colonnine ad archetti trilobati posto nella parte superiore del frontone cuspidato (Figg. 4-5). Proprio il rosone, insieme con la trifora dell’abside, negli anni settanta del XX secolo, è stato oggetto di restauro ed è stato riportato allo stato attuale dal mastro scalpellino Domenico Varca di San Giovanni in Fiore, uno dei più quotati artefici delle ultime generazioni insieme ad aiuti, come Giovanni Oliverio. In età aragonese il fermento artistico culturale in Calabria ritrova nuovo vigore grazie soprattutto alla diffusione e affermazione degli Ordini Mendicanti e al crescente potere della nobiltà locale, la quale se da una lato è promotrice di imprese edilizie a favore degli ordini religiosi, dall’altro ordisce ribellioni verso il potere centrale. Si assiste così alla creazione soprattutto di nuovi edifici conventuali dove su basi locali si innestano influenze catalano-napoletane: San Lucido, Paola, Fuscaldo, Amantea, Morano, Cariati, Rossano, Cosenza e tanti altri. Proprio a Cosenza, per volere di Antonio Sanseverino nel 1447, sorge una delle fabbriche conventuali più importanti e imponenti della Calabria, quella relativa alla edificazione del complesso di San Domenico che si protrasse per almeno un

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Fig. 4 Altomonte, Rosone della Chiesa di Santa Maria della Consolazione

Fig. 5 Altomonte, Bifore della Torre Campanaria della Chiesa di Santa Maria della Consolazione

ventennio. Il complesso subì diversi rimaneggiamenti nel corso del tempo, ma è possibile ancora ravvisarvi degli elementi originali di chiara ascendenza catalana, derivati dalle influenze della capitale, sia nella struttura architettonica che in alcuni degli aspetti decorativi. Oltre che ravvisare lo stile gotico nella bifora inserita in un arco a sesto acuto sulla parete di fondo della chiesa è soprattutto degno di nota, infatti, il magnifico rosone flamboyant dove si coglie una forte insistenza sui motivi catalani – archetti a chiglia, stelle, girandole – insieme con qualche persistenza cistercense, evidente nei capitelli dei pilastrini9. La magnifica rosa con i suoi 16 raggi è inscritta in una doppia ghiera a sua volta racchiusa da un torciglione esterno più grande e aggettante, diviso in due semicerchi uniti da un motivo decorativo simile a quello dei piccoli capitelli nelle colonnine-pilastrini, perfettamente in accordo con il portale sottostante. Non solo gli edifici religiosi riescono a testimoniare le nuove tendenze stilistiche appena descritte, ma notevoli appaiono anche alcuni esempi di architettura civile, come la particolare e originalissima decorazione di una finestra datata 1471 già nel Palazzo De Callis a Mormanno dominata da un elegante rosoncino a girandola che ricorda da vicino l’esempio di Mateo Forcimanya nella facciata della cappella di Santa Barbara in Castelnuovo a Napoli10. Il vano della finestra è inserito in un gioco di archi sovrapposti, quello più esterno a sesto acuto e quelli interni a ‘M’ come a voler formare una bifora, sostenuti da stipiti a forma di pilastri con capitelli, di cui quelli più esterni a torciglione e più sporgenti mentre in alto sovrasta il piccolo rosone con girandola finissima e apparentemente leggerissima. Un altro esempio degno di nota nell’architettura civile di Cosenza, è anche il Palazzo di Gaspare Sersale del 1493 dove appaiono finestre architravate in pietra da taglio, squadrate e arricchite agli angoli da motivi ornamentali come nei palazzi di Antonello Petrucci e di Diomede Carafa a Napoli11. Nel Cinquecento è ormai consolidata la presenza in Calabria di vere e proprie “stanzialità” di scalpellini e maestri artigiani in grado di realizzare capolavori di inestimabile pregio, sia nelle architetture religiose, sia in quelle civili e, muovendosi spesso in gruppi di lavoro, bravi a diffondere su tutto il territorio le loro idee e modelli originali che trovano soprattutto nel portale e negli elementi deco156


rativi esterni gli aspetti caratterizzanti. Fra gli ambiti di attività più noti emergono Fuscaldo, San Giovanni in Fiore, Rogliano, Altilia Serra San Bruno. A Rogliano, per esempio, ci si trova di fronte a scalpellini e intagliatori tra i più incisivi e rilevanti del contesto calabrese – secondo alcuni studiosi, tra cui Giorgio Leone, i veri eredi degli scalpellini della Val di Crati attivi tra Medioevo e Rinascimento – che hanno lasciato testimonianza in moltissimi centri della pre-Sila e della Sila, ma principalmente a Cosenza. Da ricordare, in questo periodo, è per esempio il grande rosone a torciglione che sovrasta il portale, con disegno a croce commissa, nella facciata della chiesa del complesso monastico detto delle Cappuccinelle, dedicata a Santa Maria di Gerusalemme o chiesa di Santa Croce, realizzato appunto da maestranze roglianesi sul finire del XVI secolo. Forse uno degli ultimi esempi tardo-rinascimentali con persistenze gotico-catalane, realizzato prima del terribile terremoto del 1638 che segnerà una vera e propria cesura nel processo di sviluppo tecnico-stilistico e diffusione delle opere degli artigiani calabresi. Proprio in seguito al sisma, infatti, molte maestranze roglianesi saranno impegnate in fervide attività di ricostruzione e ristrutturazione nei moltissimi centri rasi al suolo e in tali attività si svilupperanno i nuovi modelli che sfoceranno nel barocco tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento12. Il rosone, come elemento funzionale o decorativo, sarà riproposto solo occasionalmente nel Settecento, in dimensioni ridotte, privo di trafori o raggiere interne, con cornice esterna modanata e profilo interno cigliato, proprio da maestranze roglianesi che lo assoceranno al repertorio di portali ad arco di trionfo in alcune facciate chiesastiche13. Un esempio sono i rosoni posti ai lati della finestra che sovrasta il portale della chiesa dell’Annunziata a Rogliano, oppure il piccolo rosoncino, privo di funzione, che si trova sul fastigio della chiesa di San Domenico a Montalto Uffugo14. L’uso del rosone, pertanto, viene in un certo senso sostituito, da una sempre più massiccia presenza della finestra o del balcone, che diventano spesso elemento fondamentale delle facciate insieme al portale, al quale si legano indissolubilmente. Così molti sono gli esempi di portale-finestra, come quello che si incontra nella chiesa di S. Ippolito, sempre a Rogliano, ad opera di Nicola Nicoletta nel 1709; il ben più scenografico della chiesa di Montevergine a Paola su disegno di Niccolò Ricciulli del 1704 oppure quello della chiesa di San Giacomo ad Altomonte del 1742 e portale laterale della chiesa Matrice di San Giovanni in Fiore. Decisamente particolare è la scelta del Nicoletta di incastonare nel timpano spezzato del portale la finestra che, a sua volta, termina con un altro timpano spezzato nel quale viene inserita un’altra apertura più piccola, dotata di una ingombrante incorniciatura, che accentua l’inclinazione delle cornici del timpano rendendole rampanti. Inoltre la finestra grande non poggia direttamente sulla cornice del portale, ma è delimitata in basso da una coppia di leoni rampanti, recanti un blasone con lettere mariane che va in parte a stagliarsi sulla superficie vetrata, secondo una soluzione che accentua il verticalismo del fronte ed introduce una nota dinamica all’interno di un linguaggio architettonico altrimenti statico15. L’insieme portale-finestra della chiesa di Montevergine a Paola, non rimane un elemento isolato come per la chiesa di Sant’Ippolito, ma si inserisce in un progetto più ampio che comprende l’intera articolazione della facciata messa in relazione con lo spazio circostante, in un organico disegno architettonico comprendente anche la scala e la balaustra ad essa strettamente connesse, mentre tutta 157


una serie di volute fanno da fastigio e da elementi di raccordo dei piani16. Proprio le volute acantiformi di questa opera testimoniano un altro elemento decorativo generalmente usato in alcuni portali e finestre del periodo tardo-Barocco in Calabria dalle maestranze roglianesi, come accade anche nella finestra sovrastante il portale principale della Chiesa dell’Immacolata di Fuscaldo, anch’essa realizzata su disegno di Ricciulli. Di certo la forma più compiuta del modello portale-finestra è quella raggiunta nella chiesa di San Giacomo ad Altomonte dove due volutine acantiformi raccordano l’arco alla cornice di base della finestra17. Ma non è da meno nemmeno il gruppo della chiesa Matrice di San Giovanni in Fiore realizzato in pietra arenaria probabilmente da un maestro aggiornato sulle novità dei roglianesi. Il particolare disegno lega inscindibilmente le due membrature architettoniche (portale e finestra). Sul gradone poggiano i piedritti semplici che sostengono l’architrave, al centro un cartiglio con lettere non decifrabili e la data di esecuzione (1753). I piedritti sono incorniciati da una fascia che conclude verso il basso con motivo ornamentale a volute fogliate. Sopra, il cornicione aggettante, che funge da davanzale, continua la struttura plastica e decorativa della finestra formata da una cornice rettangolare e semplice modanatura e dalla cimasa sporgente. Ai lati si appoggiano elegantissime volute fogliate a motivi floreali18. I modelli di aperture che accompagneranno gli edifici lungo i secoli XVII, XVIII e fino al XIX, non faranno che ripetere la maggior parte dei modelli fin qui descritti, con minore o maggiore accento creativo a seconda delle rispettive maestranze e delle scuole di provenienza, che purtroppo andranno via via scomparendo una volta affermatesi le nuove e moderne tecniche di costruzione che renderanno la lavorazione della pietra sempre più rara e di difficile commercializzazione.

Note 1  M.P. Di Dario Guida, La cultura artistica in Calabria: dall’Alto Medioevo all’età Aragonese, Roma 1999, p. 214. 2  M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 215. 3  G. Santagata, Il Duomo di Cosenza, Chiaravalle Centrale 1983, p. 37 4  E. Bruno E., Scalpellini di Calabria. I cantieri e le scuole, Fuscaldo 1995, p. 45. 5  G. Santagata, Il Duomo… cit., p. 38. 6  G. Leone, Gli affreschi di Scalea e alcune considerazioni sulla cultura pittorica del Trecento in Calabria, in C. Gelao (a cura di), Studi in onore di Michele D’Elia: archeologia, arte, restauro e tutela, archivistica, Matera - Spoleto 1996, pp. 179 ss. 7  M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 244. 8  M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 244. Si vedano, però, le recenti interpretazioni di S. Paone, Santa Maria della Consolazione ad Altomonte: un cantiere gotico in Calabria, Roma, 2014. 9  M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 262. 10   M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 262. 11   M.P. Di Dario Guida, La cultura… cit., p. 262. 12   G. Leone, L’intaglio barocco in Calabria: annotazioni a margine di problema di storiografia artistica, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria, (“Atlante del Barocco in Italia”, diretto da M. Fagiolo), Roma 2002, pp. 159 ss. 13   M. Panarello, Il portale ad arco di trionfo, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., pp. 234-237. 14   R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., pp. 550. 15   R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., pp. 241. 16   R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., pp. 77. 17   R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., pp. 243. 18   E. Bruno, Scalpellini… cit., pp. 78

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Cecilia Perri

“Su questa pietra…”: annotazioni sulle decorazioni lapidee all’interno delle chiese nell’attuale provincia di Cosenza Per decorazioni interne si intendono le decorazioni in pietra dislocate all’interno delle chiese, su una sola parete, sull’arco santo o nello spazio di più estese cappelle1. La ricerca condotta ha subito messo in evidenza come la letteratura artistica sul tema generale di tali abbellimenti sia piuttosto scarna, fatta eccezione per quelle poche testimonianze, certamente tra le più rilevanti della regione, alle quali sono stati dedicati più approfonditi studi2. Dalle analisi dei più interessanti elementi rintracciati nel territorio provinciale, è da segnalare la presenza di diversi elementi decorativi nella chiesa di San Nicola a Lattarico3, edificio a tre navate che conserva degli antichi pilastri, degli ordini architettonici addossati alle pareti laterali e un arco santo a sesto acuto, che posa su fasci di colonnine con capitelli decorati a motivi vegetali (Fig. 1). Gli elementi risalgono alla metà del XVI secolo. Sul primo pilastro a sinistra di chi entra è posta un’iscrizione: «Hoc opus fecit valerio de yema an.o d.ni 1567» che documenta come la chiesa, la cui origine ha radici più antiche4, fu ricostruita nel XVI secolo dall’architetto Fig. 1 Lattarico, chiesa di San Nicola di Bari: navata centrale (XVI secolo, metà) Valerio de Yema, probabilmente originario di Cosenza5. Di particolare interesse sono i citati ordini architettonici conservati sulle navate laterali, resti di un colonnato in tufo, originariamente più esteso e mirabile esempio di maestranze provinciali. Un primo ordine architettonico6 (Fig. 2) si trova sulla navata laterale destra, addossato alla parete e caratterizzato da tre colonne composte da fasci con motivi a fogliame nella parte bassa e scanalate nella parte alta. Le colonne posano su pilatri decorati sul prospetto con motivi stilizzati e sono sormontate da capitelli di ordine composito, con foglie d’acanto. Tra le colonne si formano due archi a tutto sesto che posano su piccoli pilastri e presentano l’interno cassettonato e decorato con motivi a rosette entro cornici rettangolari, mentre ai lati, con elementi geometrici nell’arco di destra e motivi a baccelli nell’arco a sinistra. Sopra le colonne posa la trabeazione di guFig. 2 Lattarico, chiesa di San Nicola di Bari: ordine architettonico (1567) 159


sto classicheggiante, sulla quale sono presenti, al di sotto del cornicione, due iscrizioni; sull’arco a sinistra si legge: «Hoc opus fieri fecerunt ioes 2 aronius di+nicolai o -sub anno dommini 1567», mentre a destra: «Hoc pro se svosque consagos cesar pett…fieri fecit svb anno domini 1567». Tali iscrizioni permettono di comprendere come le edicole siano state commissionate da nobili famiglie locali, Di Nicolacio e Pettinato, nell’anno 1567. Un secondo elemento architettonico7 (Fig. 3), conservato sulla navata laterale sinistra, è composto da un solo arco a tutto sesto, sotto il quale è posizionato il fonte battesimale. Anche qui l’arco, che posa su colonne scanalate su piccole basi e con capitelli compositi, è decorato con cassettoni a rosette, eleganti motivi vegetali, ed è sormontato da un semplice cornicione. Gli esempi decorativi rientrano, dunque, nell’ambito della produzione regionale e ripropongono motivi del repertorio rinascimentale. Un interesse particolare, nell’analisi degli interni delle chiese, è certamente rivestito dalla presenza dell’arco santo, definito anche arco di trionfo, e riferito a quell’arco che separa la navata dal transetto, introducendo, dunque, verso la zona sacra del presbiterio. All’interno del territorio provinciale se ne conservano diversi esempi, realizzati in epoche diverse e di cui restano oggi esemplari quasi intatti o, qualche volta, molto frammentari8. Nella cattedrale di Cassano allo Jonio, ad esempio, dell’originaria struttura dell’arco si conservano i piedritti, composti da colonne binate gotiche addossate al pilastro. Questa, assieme a due arcate ogivali che collegano le navati laterali del presbiterio, sono testimonianza degli elementi architettonici quattrocenteschi, che gli storici riferiscono al rifacimento della cattedrale avvenuto sotto Fig. 3 Lattarico, chiesa di San Nicola di Bari: ordine architettonico (1567) il vescovo Marino Tomacelli, verso la fine del XV secolo, e che furono riportati alla luce durante i restauri eseguiti negli anni trenta del secolo scorso9. Allo stesso periodo cronologico, tra XV e XVI secolo, appartiene l’arco della chiesa di San Giovanni Battista di Figline Vegliaturo, un edificio definito dal Barillaro tra i più significativi esempi di architettura del rinascimento artistico calabrese, per struttura della pianta interna e per stile, con arcata maggiore dotata di elementi strutturali in pietra altiliese10. L’interno presenta pilastri e arcate in pietra che separano la navata centrale da quelle laterali e un imponente arco santo, in cui risultano particolarmente decorati i piedritti così come i basamenti della colonne centrali11. Per le sue caratteristiche strutturali l’arco è stato accostato alle intelaiature architettoniche dei grandi monumenti sepolcrali lombardi12. Nell’intero edificio predomina una monocromia della pietra e dell’intonaco, a cui si aggiunge la regolarità di tutta la struttura architettonica, non interrotta da alcun elemento aggettante, che certamente annovera la chiesa tra quei pochi esempi architettonici religiosi non condizionati dall’avvento delle decorazioni barocche. Nella chiesa di Santa Maria Assunta di Altilia, importante esempio per presenza di elementi tufacei risalenti sin dall’epoca medievale, l’arco santo presenta 160


la base in pietra modellata. Altri elementi interni in tufo riferiti a maestranze locali dei secoli XVII- XVIII, si ritrovano nei basamenti dei pilastri delle arcate simmetriche che dividono le tre navate13. Un bell’esempio di arco santo, in tufo finemente scolpito e dipinto, si conserva nella chiesa della Sanità di Cosenza (Fig. 4). L’arco14 è inquadrato da cornici concentriche, quella più interna e quella più esterna presentano una decorazione ad ovoli, mentre la cornice mediana è decorata da un motivo a tortiglione. La medesima decorazione continua nei due pilastri di sostegno, con cornicine su cui poso l’arco ed eleganti colonnine addossate e sormontate da capitello corinzio, che ripropongono il motivo a tortiglione. Sulla chiave dell’arco è presente cartiglio con iscrizione15, entro volute fitomorfe realizzate in stucco. La realizzazione dell’arco è riferita a maestranze del XVII secolo16, mentre l’iscrizione si riferisce ai lavori di riadattamento e di restauro eseguiti nel 1759. Esempi di archi a tutto sesto in pietra tufacea sono visibili nella chiesa dell’Assunta di Longobardi, comunemente nota come chiesa di San Francesco di Paola. Si tratta di tre archi che collegano alla navata laterale destra, la quale venne aggiunta a quella principale successivamente, intorno al 1697, per volontà di san Nicola da Longobardi, che vi portò le reliquie di Santa Innocenza ricevute in dono dalla nobildonna romana Luisa della Cerda17. Gli archi, con chiave di volta appena accennata e con scanalature e capitelli sagomati, sono inquadrati da una cornice dentellata che attraversa la parte più esterna dei pilatri di sostegno e il semicerchio dell’arco. Non citati nei testi del Frangipane e del Barillaro, solo uno di essi risulta schedato dalla Soprintendenza di Fig. 4 Cosenza, Chiesa della Sanità: arco santo (XVII secolo) Cosenza, dove è considerato opera di ignoto maestro scalpellino provinciale del secolo XVIII18, sebbene si ritiene che l’opera sia databile alla fine del secolo precedente. La presenza di maestranze roglianesi del XVII secolo, è invece rintracciata nell’arco santo della chiesa di Santa Barbara a Marzi19, esemplare voltato a tutto sesto e costituito da blocchi regolari di pietra chiusi da un cornicione con decorazione a dentelli. Una mensola a ricciolo segna la chiave dell’arcata. Gli stipiti dei pilastri a sezione quadrangolare sono segnati da medaglioni bombati e motivi spiraliformi. Sull’arco è presente l’iscrizione documentaria: «Domine dilexi deco// rem domus tuae». Agli stessi maestri roglianesi, sono assegnate anche le altre parti in pietra all’interno dell’edificio20. Si tratta di cinque arcate sorrette da pilastri con mensole architettoniche21 scolpite a bassorilievo e contenenti piccole raffigurazioni, una delle quali dal probabile significato allegorico, con una coppia di figurine femminili di cui una incoronata. Le arcate di Marzi ricalcano il modello di quelle presenti nella chiesa di San Giorgio a Rogliano22, straordinario esempio del lavoro di maestri roglianesi attivi tra la metà del Cinquecento e gli inizi del Seicento, attestati dall’iscrizione presente sul primo pilastro: «m. hier cr», interpretata come “Magister Hiero161


nimu Curavit”23. Gli archi di Rogliano, testimonianza della parte architettonica decorativa più antica dell’edificio, presentano oltre alle modanature, elementi scultorei sporgenti, tra cui spicca quello raffigurante San Giorgio con il drago nel primo arco adiacente la sacrestia, mentre l’arco maggiore presenta dentellature largamente utilizzate dai citati maestri roglianesi24. Nella chiesa di San Nicola di Bari a Pietrafitta mostra particolare interesse l’arco d’accesso alla cappella posta nella seconda campata della navata sinistra (Fig. 5), ascritto a scalpellini provinciali del XVI secolo25. L’arco è caratterizzato da lesene interamente scolpite e decorate con elmi, faretre ed armi. Nei peducci degli archi sono raffigurati due angeli, mentre la trabeazione è costituita secondo uno stile classico, con triglifi e metopa, su cui si innestano testine alate, e culmina con una cornice aggettante con elementi decorativi dentellati. La decorazione è considerata un esempio colto, probabilmente realizzato per una famiglia di presumibile estrazione nobiliare26. Il Frangipane27 riconduce sempre a scalpellini attivi nel XVI secolo, l’arco28 della cappella del Pilerio nel convento di Sant’Antonio o della Riforma a San Marco Argentano. L’arco si compone di due alti basamenti e due lesene con cornice aggettante su cui si innesta un piccolo arco. Tutto è pervaso da una decorazione a bassorilievi con eleganti vasi con fiori nel basamento, che si arricchiscono di altri elementi fogliacei, e decorazioni fitomorfi stilizzate sul prospetto delle lesene e per tutto l’arco. Originariamente il portale conduceva alla cappella del Pilerio. La presenza di una serie di arcate a tutto sesto in pietra, Fig. 5 Pietrafitta, Chiesa di San Nicola di Bari: arco (XVI secolo) che collegano la navata centrale con le navate laterali, si segnalano anche nella chiesa della Madonna del Carmelo a Marano Marchesato29. Sono costituite da semplici conci di tufo con cornici dentellate e sono testimonianza di parti tra le più antiche dell’edificio, fortemente rimaneggiato nel corso dei secoli. Infine è da ricordare l’arco santo30 della chiesa di San Felice Martire a Carpanzano, anch’esso in pietra tufacea scolpita a rilievo e databile al secolo XVII. La costruzione della chiesa, in pietra d’Altilia, fu realizzata tra il 1648 e il 166031 e il Barillaro32 la ricorda principalmente per la facciata lievemente barocca in pietra altiliese, sottolineando la presenza di maestranze roglianesi. Maggiore attenzione, in questo breve excursus su alcune delle testimonianze in pietra rintracciate all’interno delle chiese, meritano le decorazioni presenti in alcune tra le più note cappelle rinascimentali, tra cui quelle nella chiesa di San Francesco di Paola e nella chiesa di San Domenico a Cosenza e, infine, la suggestiva cappella Cybo-Malaspina di Aiello Calabro. Le cappelle nella chiesa di San Francesco di Paola a Cosenza, riportate sinteticamente dal Frangipane33 come cappellone di San Luca con parete esterna decorata di pilastri in tufo (sec. XVI), poiché in una di esse si conserva il famoso dipinto 162


di Pietro Negroni raffigurante la Madonna col Bambino in gloria fra i santi Paolo e Luca, sono citate da Barillaro34, semplicemente come cappella cinquecentesca che conserva la tavola del Negroni. Più di recente, le cappelle sono state oggetto di un interessante studio da parte di Francesca Paolino35, che ha cercato di metterne in evidenza i caratteri rinascimentali, ribadendo come esse siano l’unica sopravvivenza dell’aspetto cinquecentesco della chiesa, trasformata poi radicalmente a partire dal 1720 con gli stucchi di gusto tardobarocco che, ancora oggi, connotano l’intero edificio. Le due cappelle, adiacenti e comunicanti, si aprono sulla navata sinistra della chiesa attraverso due arcate con ampi piedritti, i quali erano stati in gran parte occultati dai rifacimenti settecenteschi, ma che vennero riportati alla luce durante un importante restauro effettuato negli anni Settanta del secolo scorso. I piedritti si presentano come pseudo-lesene, tra le quali si inserisce, nella più ricca arcata a sinistra (Fig. 6), una fascia verticale scolpita col motivo a meandro, mentre alla modanature delle imposte è presente una fascia dentellata. La struttura interna delle cappelle conserva capitelli pensili da cui si diramano le arcate, con profilo dentellato, e su di esse la cornice che delinea il profilo circolare della cupola della prima cappella, e quello ottagonale, anch’esso dentellato, della seconda cappella. Stilisticamente è evidente il forte richiamo ad elementi del repertorio classico rinascimentale, tra cui il così frequente motivo “a meandro”, e, in assenza di dati documentari certi, l’attribuzione è affidata a maestranze roglianesi operanti nel XVI secolo. Altri esempi si riscontrano nelle cappelle cinquecentesche36 della chiesa di San Domenico a Cosenza anch’esse ascritte, per stile e linguaggio, al primo Rinascimento e riconosciute come importante testimonianza delle tracce lasciate nel secolo XVI all’interno dell’esteso complesso monumentale, che vanta una storia plurisecolare. Edificato a partire dalla metà del XV secolo, l’edificio ecclesiastico fu consacrato nel 1468 e subito dopo si avviarono i lavori per l’annesso convento. Successivi lavori settecenteschi, ad opera dello “ingegnere” Giovanni Calieri, effettuarono sull’intera struttura quella radicale trasformazione che ne connota l’aspetto Fig. 6 Cosenza, Chiesa di San Francesco di Paola: arco (XVI secolo) (ph. predominante, in linea con gli stilemi barocchi dell’epoca, Cecilia Perri) e solo a seguito dei lavori di restauro condotti intorno al 195037, furono riportati all’attenzione gli aspetti dell’originario impianto quattrocentesco38. Le prime cappelle indagate sono quelle del prospetto, di cui solo quella di destra presenta, all’interno dell’edificio, un’arcata che ne sottolinea l’ingresso (Fig. 7) ed è ricordata da Guglielmo Esposito39 come arco abbellito all’interno da roselle multiformi. L’arcata presenta un profilo segnato da archivolti con elementi litici scolpiti con motivi a fogliette, mentre l’intradosso dei piedritti e dell’arcata è decorato col motivo delle rosette, leggermente diversificate nelle forme. Particolare rilievo, invece, riveste la cappella a cui si accede attraverso una porticina lungo la navata laterale destra, che conserva oggi solo l’originaria co163


pertura in pietra tenera40 decorata con lacunari a rose. Le formelle si presentano con una semplice cornice quadrata, al centro del quale sbalza il fiore con petali dalla forma variegata, che variano di dimensione a seconda della posizione che occupano (Fig. 8). Esse infatti si rimpiccioliscono man mano che dalla base giungono al colmo della volta, esaltandone il senso di profondità. La volta a botte rappresenta un’interpretazione di maestranze locali sull’esempio decorativo largamente adottata nel corso dei secoli XV e XVI, a partire dai grandi maestri del Rinascimento, non solo in ambito architettonico, ma anche scultoreo e pittorico.

Fig. 7 Cosenza, chiesa di San Domenico: arcata (XVI secolo)

Fig. 8 Cosenza, Chiesa di San Domenico: soffitto (XVI secolo) (ph. Cecilia Perri)

La successiva cappella, a cui si accede dalla navata destra attraversando la precedente cappella con volta a botte, si connota, per la sua forma, come “cappella quadrata” non essendo note la sua originaria destinazione né l’intitolazione. Genericamente l’Esposito ipotizza come si possa trattare di un oratorio privato forse eretto in comunicazione con la crociera della chiesa per la celebrazione delle innumerevoli messe di suffragio41. Sulle pareti di questo semplice vano quadrato, si conservano lesene con basi e capitelli fogliati, collegati da una trabeazione, al 164


di sopra della quale si innalza la volta a lunette. Quattro sono le lesene angolari, che presentano la struttura piegata a libro, mentre due lesene scandiscono le tre pareti libere, solo sulla quarta parete si apre un’ampia arcata su piedritti. Gli elementi strutturali di questa cappella evidenziano l’uso di principi di semplicità e chiarezza costruttiva che rimanda, seppure vagamente, a illustri esempi del secolo precedente. L’ultima cappella, posizionata dietro la scarsella, presenta la data 1574 posta nell’intradosso di un possente arco. Tale cappella, che per la posizione dietro l’abside testimonia come debba trattarsi di un’aggiunta successiva al corpo originario dell’edificio, si divide in tre vani comunicanti: il più grande, di forma quadrata, è coperto con volta a padiglione lunettata agli angoli e con lesene scanalate angolari e cornicione; vi è poi un piccolo vano rettangolare e un altro di fondo, anch’esso rettangolare, coperto da tre piccole campate a crociera senza costoloni culminanti con piccoli capitelli pensili. Probabilmente originariamente adibita a sacrestia, in anni successivi dovette accogliere altarisepolture per poi trasformarsi in cappella di patronato di una o più nobili famiglie cosentine. Le cappelle della chiesa di San Domenico sono chiara testimonianza della presenza di maestranze locali, tra cui certamente è da riconoscere il lavoro di scalpellini roglianesi, i quali, come esprime in modo esaustivo la Paolino con materiali poveri e non particolarmente durevoli nel tempo….hanno assorbito la lezione della nuova temperie artistica che giunse in Calabria attraverso i riverberi provenienti da Napoli, dalla Siciliana, dalla Toscana….traducendoli in modi e toni non eccelsi, ma dignitosi e garbati42. Infine, soffermiamo lo sguardo su uno dei più alti esempi di decorazione lapidea realizzata tra il XVI e il XVII secolo in Calabria, la Cappella Cybo-Malaspina ad Aiello Calabro, la quale presenta degli specifici caratteri stilistici, piuttosto articolati, che rimandano alla produzione tardo- manierista della seconda metà del XVI secolo. Annessa al convento dei Francescani osservanti di Aiello, la cappella, dedicata a Santa Maria delle Grazie, è stata oggetto di approfonditi e interessanti studi in anni recenti43, che ne hanno chiarito, oltre all’aspetto storico, gli elaborati caratteri architettonici e stilistici. La costruzione della cappella si deve ad Alfonso Cybo-Malaspina, appartenente ad un ramo collaterale della nobile famiglia originaria di Massa Carrara44, la quale acquistò il feudo di Aiello nel 1574. Una lapide dedicatoria posizionata nel timpano dell’altare marmoreo interno alla cappella, che reca la data del 1597, ne ricorda la costruzione45. La cappella è costituita da un vano rettangolare, con un pregevole altare in marmi verdi e neri di Calabria e da un prospetto in pietra (Fig. 9), oggetto della nostra analisi, che si affaccia su un grande ambiente quadrangolare, coperto e anteposto alla facciata esterna della chiesa. Il prospetto si compone di due registri, scanditi in tre campate, che comunicano attraverso il timpano, particolare per la sua soluzione di timpano spezzato e poi raccordato da un cornice curva leggermente arretrata. Il registro inferiore, dall’aspetto predominante, è costituito dal grande portale di accesso centrale con lesene, doppie verso l’interno e singole ai lati, arricchite nei capitelli ionici da erme scolpite con naturalezza nei volti, nelle chiome e nelle fluenti barbe. Ai lati del portale centrale sono due aperture con balaustre al centro, con nicchie dalla forma di conchiglie contenenti, al centro, dei volti scolpiti. La chiave dell’arco, caratterizzata da una testa dalla fluente barba, si risolve in una mensola che si 165


appoggia sull’architrave, al di sotto della cornice. Al centro del timpano è scolpita una testa d’angelo (Fig. 10). Il registro superiore, scandito da lesene con capitello corinzio, presenta un’apertura centrale di forma ovale, all’interno di una cornice rettangolare sovrastata da un timpano spezzato, al centro del quale era collocato lo scudo con le armi di famiglia. Ai lati, entro riquadri, sono conchiglie con mascheroni dalla cui bocche ricadono dei panneggi (Fig. 11). Sulla cornice è un piccolo scudo circolare con piedistallo circondato da elementi a ricciolo. Ne risulta un ricco apparato decorativo che si distingue, oltre che per la scelta insolita di alcuni elementi, anche per la vera e propria qualità scultorea, per la veridicità e la precisione dell’intaglio. Fig. 9 Aiello, Cappella Cybo- Malaspina, prospetto (XVI secolo, seconda metà) (ph. Archivio Anna Cipparrone)

I modelli stilistici di riferimento per la realizzazione della cappella, inizialmente riferiti all’area toscana di forma-

Fig. 10 Aiello, Cappella Cybo- Malaspina, prospetto, particolare (XVI secolo, seconda metà) (ph. Archivio Anna Cipparrone)

Fig. 11 Aiello, Cappella Cybo- Malaspina, prospetto,particolare, (XVI secolo, seconda metà) (ph. Archivio Anna Cipparrone)

zione tardo manierista, sono stati successivamente ampliati a più vasti contesti che richiamano il clima artistico della produzione romana della seconda metà del XVI secolo, più che alla ortodossia della corrente vignolesca … si dovrà guardare alle ricerche trasgressive e ad essa contrapposte di Michelangelo, di Del Duca, di Pirro Ligorio. A tal proposito sono stati riportati molti stimolanti esempi con opere aventi la medesima destinazione d’uso, quali la cappella Sistina in Santa Maria Maggiore, e sono stati evidenziati legami con le ricerche attuate da Giulio Romano per alcuni particolari elementi compostivi quali la presenza delle erme, e delle arcate contenenti conchiglie rovesciate46. L’importante documento d’archivio rintracciato dalla Paolino47, riporta il contratto stipulato nel 1596 tra il governatore del feudo Alfonso Cybo e i mastri scalpellini Pietro Barbalonga, messinese, e i due toscani Giovan Battista Cioli 166


e Andrea Masini per le realizzazione dell’opera aiellese. La studiosa chiarisce subito, però, come tale contratto sia da riferire, con certezza, solo all’altare marmoreo conservato all’interno della cappella, e non anche al prospetto, per l’esiguità della somma stabilita – centoventi ducati sono considerati pochi per l’intera struttura – e per il tempo pattuito per l’attuazione dell’opera, solo cinque mesi, considerati congrui per la realizzazione delle sole parti in marmo. A tali riflessioni desunte dalla lettura del documento, aggiunge i differenti aspetti di carattere stilistico tra l’interno e l’esterno della cappella, che indurrebbero a pensare a personalità diverse e a momenti differenti di realizzazione, sebbene vengano anche ravvisati taluni elementi comuni, come la presenza delle testine alate nel timpano, che appaiono invece modellate dalla stessa mano, seppure in materiali differenti. Rimane dunque aperta la questione circa la precisa paternità del prospetto, forse realizzata in tempi immediatamente successivi dagli stessi autori dell’altare in marmo, o anche da solo uno di essi48. Di certo è notevole il fascino e il senso del misterioso che traspare da questo capolavoro lapideo calabrese, in particolare le erme laterali accigliate e barbute, i volti corrucciati sulle mensole e i mascheroni posti sul prospetto superiore, dalla cui bocche fuoriescono panneggi, inducono a pensare al mostruoso che non spaventa, ma conduce a luoghi misteriosi, e al contrasto tra il profano che conduce alla visione del sacro. Tutti questi sono esempi decorativi di capriccio e di invenzione che rimandano alla cultura manieristica toscana post michelangiolesca e si riscontrano nel repertorio formale architettonico della seconda metà del secolo XVI, in particolare nell’architettura realizzata a scopo celebrativo per le nobili famiglie.

Note 1  Per avere un primo quadro generale sulle testimonianze presenti sul territorio provinciale, sono stati fondamentali i testi di A. Frangipane, Elenco degli Edifici monumentali, Roma 1938; E. Barillaro, Calabria: guida artistica e archeologica: dizionario corografico, Cosenza 1972; affiancati dai più moderni repertori quali: L. Bilotto, La provincia di Cosenza , una guida: storia, arte, tradizioni popolari, Mendicino 1996; Eadem, Itinerari culturali della Provincia di Cosenza, Reggio Calabria 2001; S. Valtieri (a cura di), La Calabria nel Rinascimento: le arti nella storia, Roma 2002; R.M. Cagliostro (a cura di), Atlante del barocco in Italia. Calabria, Roma 2002. 2  Il riferimento è alla Cappella Cybo-Malaspina di Aiello Calabro, a cui sono stati dedicati numerosi e approfonditi saggi di cui si avrà modo di trattare in seguito, e alle cappelle rinascimentali nella chiesa di San Domenico e di San Francesco di Paola a Cosenza. 3  L. Bilotto, La provincia… cit., p. 257; A. Trotta, Lattarico, città storica tra arte e cultura, Rose 2000, pp. 44-45; L. Bilotto, Itinerari... cit., p. 197; G. Leone (a cura di), Pange Lingua: l’eucaristia in Calabria: storia, devozione, arte, Catanzaro 2002, p. 589; G. De Marco, Le chiese parrocchiali dei casali di Cosenza, in Valtieri S., Calabria… cit., p. 487; F. Trotta, I monumenti storico-artistici nel territorio di Lattarico, Cosenza 2009, pp. 27-42. 4  La chiesa era originariamente una piccola cappella in stile gotico ed era parte di un più ampio complesso architettonico che comprendeva anche l’ex palazzo Marsico. Fu ampliata a trasformata in chiesa nel corso del XVI secolo e successivamente venne dedicata a San Nicola di Bari. Cfr. Trotta A., Lattarico… cit., p. 44; Trotta F., I monumenti… cit., pp. 27-30. 5  S. Valtieri, La Calabria… cit.., pp. 181; G. De Marco, Le chiese… cit., p. 487. 6  Scheda Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria (d’ora in poi SBSAE Cosenza), n. 18/00132412, compilatore Coop. La Metopa, 1979. 7  Scheda SBSAE- Cosenza, n.18/00132408 compilatore Coop. La Metopa, 1979. 8  Nel contributo di Giuseppina De Marco, Le chiese parrocchiali…cit., pp. 485-498, si trova un interessante excursus dei diversi esempi di arco rintracciati nelle chiese dei casali di Cosenza, a cui si rimanda per una visione d’insieme più completa. 9  A. Frangipane, Edifici…. cit., p. 90; S. Valtieri, Cattedrali di Calabria, Roma 2002, p. 288; Barillaro E., Calabria… cit., p. 143. 10   E. Barillaro, Calabria… cit., p. 163; De Marco G., Le chiese…cit., p. 494; L. Bilotto, Itinerari… cit., p. 179. 11   Alfonso Frangipane propone la datazione degli elementi interni al XV secolo, cfr. A. Frangipane, Edifici… cit., p. 113. 12   G. De Marco, Le chiese..… cit., p. 494. 13   A. Frangipane, Edifici… cit., p. 81; Bilotto L., Una guida…cit, p. 149; G. Ferrari, Altilia e la sua gente: cenni storici e personalità di un comune della Valle del Savuto, Cosenza 1997, p. 31. 14   Scheda SBSAE- Cosenza, n. 18/00008160, compilatore G.D. Donato, 1977. 15   «Qvid aevi corruperat vetvstas zelo domvs dei vere svccensvs hcc ad:p:m:franciscvs ant: ferrari vniversalis restavrare fecit ac asilica perornavit an: “l 1759. t an 1”».

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A. Frangipane, Edifici… cit., p. 108.   E. Frangella, Longobardi, Soveria Mannelli 1987, p. 20. 18   Scheda SBSAE- Cosenza, n. 18/ 00010791, compilatore M. Pollola, 1979. 19   A. Frangipane, Edifici… cit., p. 123, Barillaro E., Calabria… cit., p. 181; L. Bilotto, Una guida… cit., p. 388 (cfr. scheda SBSAE- Cosenza, n. 18/ 00027868, compilatore M. Meini, 1991). 20   E. Bruno, Scalpellini di Calabria: i cantieri e le scuole, Fuscaldo 1995, p. 191. Nel capitolo specifico sulla scuola di Rogliano Eduardo Bruno sostiene come gli archi “cigliati” che collegano le arcate con l’arco santo sono da assegnare alle maestranze di Altilia, piuttosto che a quelle Roglianesi. 21   Scheda SBSAE- Cosenza, n. 18/ 00027869; 18/ 00027870; 18/ 00027871, compilatore M. Meini, 1991. 22   A. Frangipane, Edifici… cit., p. 138, E. Barillaro, Calabria… cit., p. 207; E. Bruno, Scalpellini… cit., p. 191, L. Bilotto, Itinerari… cit., p. 260. 23   Si veda Frangipane A., Maestranze calabresi in San Giorgio di Rogliano, in «Brutium», II (1923), n 3. 24   A. Frangipane, Maestranze calabresi… cit. 25   A. Frangipane, Edifici… cit., p. 135, E. Barillaro, Calabria… cit., p. 201; L. Bilotto, Una guida… cit., p. 376; G. De Marco, Le chiese… cit., pp. 494-495; G. Leone, Appunti per una storia (sco)nosciuta: intaglio ligneo e maestri nell’attuale Provincia di Cosenza, in A. Cipparrone (a cura di), Il legno: mostra sulla storia e la lavorazione del legno nella provincia di Cosenza; dalle risorse naturali agli attrezzi da lavoro; dagli strumenti musicali alle pipe, alle opere del maestro d’ascia; dalle fonti d’archivio agli intagli artistici, [Catalogo della mostra (Cosenza: 2013)], Cosenza 2013, p. 110. 26   Scheda SBSAE- Cosenza, n. 18/ 00131338, compilatore Coop. La metopa, 1979. 27   A. Frangipane, Edifici… cit., p. 149. 28   L. Bilotto, Una guida… cit., p. 249; L. Bilotto, Itinerari… cit., p. 297; Scheda SBSAE- Cosenza, n. 18/ 00107503, compilatore C. Ligotti, 1995. 29   M. De Filippis, Storia, società, istituzioni, fede e pietà popolare a Marano Marchesato. La Chiesa parrocchiale di Santa Maria del Carmelo, Cosenza 2000. 30   Scheda SBSAE- Cosenza, n. 18/00052645, compilatore M. Meini, 1993. 31   L. Bilotto, Una guida… cit., p. 389.. 32   E. Barillaro, Calabria… cit, p. 141. 33   A. Frangipane, Edifici… cit., p. 106 34   E. Barillaro, Calabria… cit., p. 115. 35   F. Paolino, Cappelle gentilizie e devozionali in Calabria: 1550-1650 , Reggio Calabria 2000, pp. 37-51 36   F. Paolino, Cappelle… cit., pp. 53-86. 37   G. Martelli, Chiese Monastiche calabresi del secolo XV, in «Palladio», VI (1956), pp. 41-53 propone un rendiconto dei lavori di restauro effettuati, corredato da disegni di rilievo. 38   Numerosi sono gli studi sulla Chiesa di San Domenico, si rimanda per comodità al saggio specifico sulle cappelle cinquecentesche, a cui in questa sede è rivolta l’attenzione, all’interno del quale sono specificati i più importanti riferimenti bibliografici sull’edificio (cfr. F. Paolino, Cappelle… cit., pp. 53-86). 39   G.L. Esposito, San Domenico di Cosenza: 1447-186. Vita civile e religiosa nel meridione, Pistoia 1974, p. 247. 40   La Paolino specifica come possa trattarsi di pietra calcarea di Mendicino, oppure pietra arenaria di Falconara Albanese e di San Lucido (cfr. F. Paolino, Cappelle… cit., pp. 63-64). 41   G.L. Esposito, San Domenico… cit., p. 252. 42   F. Paolino, Cappelle.. cit., p. 72. 43   F. Paolino, La cappella Cybo-Malaspina in Aiello Calabro, in «Palladio», A. 8 (1995), n. 15, pp. 29-39; M.F. Cammera, La cappella Cybo ed il convento dei Minori Osservanti ad Aiello Calabro, in «Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico», Università degli Studi di Reggio Calabria, 4 (1994 [1995]), 2, pp. 77-90; F. Paolino, Altari monumentali in Calabria, 1500-1620, Reggio Calabria 1996, pp. 127-140; Eadem, Cappelle… cit., pp. 117-156; F. Marino, Alfonso Cybo, governatore dello Stato di Aiello (1589 - 1610 c.) e committente illuminato, in «Esperide», 3 (2010), 5/6, pp. 34-51. 44   Si veda l’albero genealogico della famiglia pubblicato in Marino F., Alfonso…cit., p. 44. 45   «D.o.m grata diis quondam pario de marmore templa constituere viri et thura dedere facis at tibi mortales merito quae spernis honores alphonsis cybo haec munera dant animum anno ob orbe redempto mdlxxxxvii». 46   F. Paolino, Cappelle… cit., pp. 126-128. 47   Archivio di Stato di Cosenza, Atti notarili, vol. 81, notaio Paolo di valle di Aiello, 25 giugno 1596; in F. Paolino, Altari monumentali… cit., pp. 127-140; Eadem, Cappelle… cit., pp. 133-134. 48   F. Paolino, Cappelle… cit., p. 136. 16 17

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Francesca Pasculli

Altari di pietra: esempi dalla provincia di Cosenza dal Medioevo fino al Settecento

L’altare cristiano, presentando analogie con il mizbàeh ebraico, ciò su cui si sacrifica1, ne costituisce la successione e la sintesi. All’interno della liturgia cristiana2 l’altare ha assunto un alto valore spirituale strettamente legato alla maggiore evidenza del suo carattere sacrificale, conseguenza della sua conformazione all’archetipo celeste, all’Altare della Gerusalemme celeste su cui giace «fin dalla fondazione del mondo ... l’Agnello immolato»3 e pertanto alla tavola dell’Ultima Cena, alla Crocifissione sul Golgota e alla tavola dell’albergo di Emmaus4. Cristo è quindi identificato con l’altare, quest’ultimo inteso come mensa del Signore, la roccia vivente di cui parla l’apostolo Paolo nella prima Epistola ai Corinzi5, ma già in tal senso ricordato nell’Antico Testamento dal profeta Isaia che descrive Cristo come la pietra angolare6. Dunque la pietra assume nella costruzione dell’altare un’importanza fondamentale proprio per l’alto valore simbolico che essa rappresenta, il suo uso già diffuso al tempo di Gregorio di Nissa e di Agostino, viene prescritto, unitamente alla consacrazione con il Crisma, nel Concilio di Epaone del 5177. L’approccio allo studio degli altari di pietra in Calabria, ed in particolare nella provincia di Cosenza, nonostante l’antica tradizione della lavorazione di questa nella regione favorita dalla presenza di cave nel territorio, fa riferimento soltanto a brevi contributi e alle citazioni in guide storico-artistiche dei singoli manufatti sopravvissuti, ristretti per lo più all’epoca moderna, con qualche eccezione per il periodo medioevale. Manca pertanto a tutt’oggi uno studio complessivo che ne analizzi il fenomeno sia dal punto di vista delle maestranze che al reperimento dei documenti, che all’individuazione delle testimonianze artistiche sopravvissute ai mutamenti del gusto e ai danni causati dalle calamità naturali (terremoti del 1638 e del 1739) i quali hanno prodotto notevoli perdite nel patrimonio artistico calabrese, che ad una valutazione “centro-periferia” che prenda in considerazione la circolazione di modelli e linguaggi dei maestri operosi a Napoli, Messina, Carrara ed altre città toscane, il cui bagaglio culturale veniva assimilato, rielaborato e “arricchito” in maniera indipendente dalle maestranze locali, volenterose di attestare la propria individualità, sviluppando in maniera originale e recependo solo alcuni aspetti dei modelli di riferimento8. Sono lacunose per il periodo medioevale le testimonianze relative alla lavorazione di altari in pietra, non solo per la provincia di Cosenza, e ciò dovuto a varie cause: dalle distruzioni dei luoghi di culto legate sia a eventi naturali sia all’uomo, alle trasformazioni del rito, agli adeguamenti liturgici, ai restauri o cambi di destinazione funzionali, di conseguenza nell’ambito territoriale della Calabria settentrionale tra le opere più antiche si ammirano gli esempi della Grotta di San Michele a Grisolia e di Mendicino9. Un tale scarno scenario si conferma, in 169


Fig. 1 Cropalati, Chiesa di Sant’Antonio Abate, altare

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parte, anche nei secoli successivi, sia per quanto attiene alla zona del cosentino, sia in linea più generale a tutto il territorio regionale, ciò per l’affermarsi di un maggiore uso del marmo – materiale più pregiato agli occhi di nobili ed ecclesiastici volenterosi di dare visibilità alla propria casata o persona, in linea con gli accadimenti dei centri maggiori – il quale comportava una tecnica di lavorazione diversa e dal costo superiore e del legno, ma anche in ragione dei disastri naturali sopra richiamati. Per i motivi sino a qui discussi si è deciso di esaminare in modo particolare alcuni altari, compresi nell’arco cronologico che va dalla fine del Cinquecento alla fine del Settecento, esemplificativi dell’interazione delle maestranze locali con i linguaggi degli artisti dei maggiori centri impegnati nella lavorazione del marmo, che hanno costituito lo spunto e il modello per le opere in pietra calabresi, ma anche manufatti nei quali si rileva la circolazione e interazione con i motivi attestati nella lavorazione delle opere d’intaglio ligneo. È in epoca moderna che si registra una maggiore conoscenza della “attività” locale di scalpellini10 e si segnalano le prime testimonianze scritte relative a quest’arte, infatti una menzione riguardante la lavorazione della pietra si ritrova nell’opera di Gabriele Barrio che alla fine del Cinquecento descriveva il lavoro degli scalpellini a Serra San Bruno, impegnati nella lavorazione della “pietra ofite” cioè il serpentino, chiamata dai locali granito11. A tale periodo, nella provincia di Cosenza, si riconducono gli esempi della chiesa di Sant’Antonio Abate a Cropalati12 (Fig. 1) mancante della parte inferiore che è stata rimossa e di cui è quindi visibile solo l’edicola, costituita in basso da uno zoccolo con quattro teste di putti, e ai lati colonne composite rudentate, sormontate da un timpano spezzato, che presentano alla base due angeli inginocchiati in preghiera, elementi questi molto usati nella decorazione architettonica, che trovarono poi una maggiore attestazione in epoca barocca, in quanto avevano la funzione di mediare e congiungere l’elemento geometrico con l’organicità antropomorfica13. Gli angeli in preghiera e le teste di putti mostrano un’affinità di esecuzione con le figure celesti poste sulla trabeazione dell’altare della chiesa del Rosario, in precedenza intitolata all’Annunziata14 (Fig. 2) della stessa cittadina, datato 1576, come si evince dall’iscrizione scolpita sul basamento sinistro. L’altare del Rosario è a forma di edicola con le colonne corinzie addossate, decorate nella parte bassa con elementi decorativi floreali a rilievo e teste di putti, motivo quest’ultimo ripetuto ai lati esterni ed interni dei pilastri. Negli sguanci di raccordo con la trabeazione sono due figure di angeli nell’atto di reggere forse una corona, mentre il fregio è caratterizzato da una fascia con putti. Le colonne, analogamente a quelle dell’altare della chiesa di Sant’Antonio, poggiano su una base a forma di parallelepipedo che presenta nella parte frontale due angeli scolpiti a rilievo. Le somiglianze stilistiche tra i due


Fig. 2 Cropalati, Chiesa del Rosario, ex Annunziata, 1576 datato, altare

Fig. 3 Marigliano Giovanni, detto Giovanni da Nola, Altare, Chiesa di San Pietro a Maiella, 1536 datato, Napoli

manufatti di Cropalati, sopra descritti, inducono a ritenere entrambe le opere eseguite nell’analogo arco di anni, nonché una comune esecuzione da parte di un artista locale o appartenente alla medesima “bottega”, a conoscenza della cultura artistica cinquecentesca napoletana; con una maggiore evidenza della qualità tecnico-esecutiva per l’altare conservato nella chiesa del Rosario, il quale mostra un riferimento agli esiti della cultura figurativa espressa dallo scultore Marigliano Giovanni, detto Giovanni da Nola15, come si evince dal confronto visivo con l’altare della seconda cappella a destra del transetto della chiesa napoletana di San Pietro a Majella (Fig. 3) e con quello della chiesa di San Domenico maggiore (Fig. 4), nei quali è presente il motivo delle colonne scanalate decorate nella parte inferiore e poggiante su una base a forma di parallelepipedo arricchita da motivi scolpiti e il fregio ornato da una fascia con putti. A testimonianza della circolazione degli esiti e dei linguaggi provenienti dalla capitale del Viceregno si cita anche l’esempio sulla fascia ionica dell’altare del Sacro Cuore della chiesa della Santissima Annunziata di Isola Capo Rizzuto posto anch’esso in relazione con la cultura dello scultore nolano16 (Fig. 5). Di più alto livello qualitativo è l’altare consacrato alla Madonna Addolorata17, ma in passato dedicato all’Assunta, custodito nel succorpo dell’antica chiesa di Santa Maria del Gamio a Saracena18, fondato dal sacerdote Antonello Scor171


Fig. 4 Marigliano Giovanni, detto Giovanni da Nola, Altare, Chiesa di San Domenico Maggiore, Napoli

Fig. 5 Isola Capo Rizzuto, Chiesa della SS. Annunziata, altare del Sacro Cuore

navacca come si evince dalle notizie riportate nella visita pastorale del 157419. Ulteriori informazioni si ricavano dai resoconti delle successive visite pastorali, da quella del 1588 si apprende che l’altare si trova in loco subterraneo e che era jus patronatus del cherico Giuseppe Scornavacca, mentre in quella del 1618 viene descritto l’altare: ha l’immagine con il mistero dell’Assunzione con molte figure. Detta cappella esteriormente fece di pietre e di jus patronatus di Petri Antonii Scornavacca20. Dai documenti si desume che l’opera era già in essere nel 1574, in effetti la struttura sviluppa canoni rinascimentali che ben si collocano nella seconda metà del XVI secolo. La parte superiore è costituita da due pilastrini che affiancano la nicchia centrale nei quali sono scolpiti a basso rilievo le figure di San Paolo e San Leonardo a sinistra e di San Pietro e Sant’Andrea a destra21. In quella inferiore, nel paliotto, ai cui lati sono scolpiti gli stemmi della famiglia Scornavacca titolare fino al 163822, è narrata a bassorilievo la scena del Cristo morto sorretto da angeli23 (Fig. 6). La rappresentazione che s’inserisce tra gli episodi della vita di Cristo, risponde a quell’idea di arte in adesione ai canoni controriformistici e intesa come espressione della pietas tridentina, rivolta ad una semplificazione delle forme 172


espressive per mediare un messaggio più diretto al fedele che fu portata avanti a seguito della conclusione dei lavori del Concilio di Trento ed in particolare dal cardinale Gabriele Paleotti, di cui un esempio di più alto valore artistico, ma anche di riferimento in questo periodo all’area napoletana, è rappresentato dal paliotto raffigurante la scena della Deposizione dell’altare della Madonna della Febbre della chiesa di San Domenico a Cosenza, avvicinato ragionevolmente all’arte degli scultori spagnoli Bartolomé Ordoñez e Diego de Siloe24. L’altare di Saracena, dunque, si configura come un manufatto molto interessante della seconda metà del cinquecento, forse assegnabile alle maestranze attive nel portale laterale della chiesa di San Leone della stessa cittadina. Fig. 6 Saracena, Chiesa di Santa Maria del Gamio, Succorpo, Cristo morto sorretto dagli angeli Gli esempi fin’ora discussi, evidenziano il rimando delle maestranze calabresi, impegnate nell’esecuzione di opere in brecce locali, ai modelli tardo rinascimentali napoletani in marmo, area alla quale spetta il primato della produzione, esportazione degli altari e organizzazione delle botteghe, ma forse anche della circolazione di marmorari, i cui manufatti si ritrovano soprattutto nell’area centro settentrionale della regione25, anche se non manca il riferimento agli esempi marmorei importati dalla Toscana attraverso scultori come Andrea Maggiore o per il tramite di Napoli e della Sicilia26. Dalle opere di fine Cinquecento dalla linea più solenne ed equilibrata, in alcuni casi povere di decorazioni ornamentali conseguenza anche della durezza della pietra stessa ci si evolve nel secolo successivo verso un registro decorativo più elaborato. Nei manufatti il repertorio ornamentale è arricchito dal riferimento ai motivi decorativi sviluppati nell’intaglio ligneo - l’abate Pacichelli nelle annotazioni del “diario” di viaggio in Calabria compiuto nel 1693 parlava della presenza di Serre, ò segatura ad Acqua delle Pietre e dei legni, indicando in tal modo gli elementi di una continuità culturale e tecnica tra la lavorazione del legno, anch’essa molto praticata nella regione, e quella della pietra27 – come si riscontra nell’altare della chiesa cinquecentesca di San Nicola di Bari di Pietrafitta28 (Fig. 7). L’opera, celata in passato dalla muratura e ritornata alla luce in seguito ad alcuni restauri condotti nell’edificio29, presenta una doppia serie di plinti, sui primi sono scolpite le figure di due angeli, sui secondi il prospetto frontale ostenta al centro un rombo decorato con rosette. Le colonne tortili, esibiscono nella parte inferiore motivi ornamentali scolpiti, e terminano con capitelli compositi che reggono la trabeazione, mentre il fregio è arricchito da una decorazione a motivi fitomorfi. Nelle lunette è riprodotta a rilievo la scena dell’Annunciazione, le cui figure, dal tratto corsivo, emergono dal piano di fondo. La resa degli angeli e la varietà dei motivi ornamentali, ne fanno supporre l’attribuzione a scalpellini 173


locali attivi nella prima metà del Seicento, i quali elaborano motivi adottati nei lavori d’intaglio ligneo tipici della zona. Nei secoli seguenti si riscontra la tendenza all’elaborazione di opere nelle quali si imita l’utilizzo del marmo, o nei quali i due materiali sono integrati, esempi sono l’altare maggiore con base in pietra della chiesa dei Cappuccini dedicata a Santa Maria degli Angeli di Bisignano (Fig. 8), risalente alla prima metà del Settecento, l’altare conservato nella cappella privata di Sant’Antonio della chiesetta campestre di Santa Maria del Soccorso a Canna30 appartenuta prima alla famiglia Pizzi e poi ai Favolino31, opera di scalpellini calabresi datata al 178132 (Fig. 9). Tale ultimo manufatto dalle linee sobrie è realizzato in pietra lavorata con inserti in marmo. Alla fine del secolo si colloca l’altare maggiore in pietra e stucco dipinti a simulare il marmo, della chiesa dell’Annunziata di Mormanno33 (Fig. 10), costituito dal paliotto decorato da un ovale, attorniato da volute a rilievo, al cui interno si trova una croce. Nella parte superiore i pilastri terminanti con capitelli corinzi sorreggono il frontone curvilineo che presenta nella parte inferiore, tre cherubini, mentre nella superiore uno stemma spartito in quattro parti con onde e leoni appartenente alla famiglia Rossi.

Fig. 7 Pietrafitta, Chiesa di San Nicola di Bari, 1643 datato, altare

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Fig. 8 Bisignano, Chiesa di Santa Maria degli Angeli, altare

Fig. 9 Canna, Chiesa di Sant’Antonio, 1781 datato, altare

Fig. 10 Mormanno, Chiesa dell’Annunziata, altare 175


Note 1  F.A. Cuteri, Antichi Altari: segni del Sacrificio eucaristico nella Calabria medioevale, in G. Leone (a cura di), Pange Lingua: l’Eucarestia in Calabria; Storia Devozione Arte, Catanzaro 2002, p. 473. 2  L’altare cristiano si configura come lo spazio in cui si rinnova il sacrificio della croce e trova compimento l’azione di grazia salvifica di Dio attraverso l’Eucarestia, dunque il luogo nel quale avviene il contatto con il divino. 3  Ap. 13, 18. 4  F.A. Cuteri, Antichi Altari... cit., p. 473. 5  1 Cor. 10, 1-4. 6  «Ecco io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata: chi crede non vacillerà» (Isaia15:28,16) 7  F.A. Cuteri, Antichi Altari... cit., p. 473. 8  B. Mussari, G. Scamardì, Artisti architetti e “maestri fabbricatori”, in S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria… cit., pp. 149-153; S. Valtieri, I linguaggi e i modelli, in valtieri S. (a cura di), Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, Roma 2002, pp. 191-192. 9  F.A. Cuteri, Antichi Altari... cit., p. 463. 10   Conosciute le “scuole” di San Giovanni in Fiore, Altilia, Rogliano, Cosenza, Fuscaldo, Serra San Bruno, Morano, Palmi, Tropea. Cfr. E. Bruno, Scalpellini di Calabria: i cantieri e le scuole, Fuscaldo Marina 1995, pp. 51-52. 11   G. Leone, L’intaglio barocco in Calabria: annotazioni a margine di un problema di storiografia artistica, in R.M. Cagliostro (a cura di), Atlante del Barocco in Italia. Calabria, Roma 2002, p. 159. 12   Scheda Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria (d’ora in poi SBSAE Cosenza), n. 18/ 00001195 compilatore Sergi P. 1974. 13   R.M. Cagliostro, Gli Angeli, in R.M. Cagliostro (a cura di), Atlante del Barocco…, cit., Roma 2002, pp. 559-562. 14   Scheda SBSAE Cosenza, n. 18/00001191 compilatore P. Sergi 1974. 15   V. Da Gai, voce Marigliano, Giovanni detto Giovanni da Nola, in Dizionario Biografico degli Italiani, 70, Catanzaro 2008, pp. 353-357. 16   F. Paolino, Altari monumentali in Calabria 1500-1620, Reggio Calabria 1996, pp. 141-144. 17   L. Boniface, La chiesa di Santa Maria del Gamio in Saracena, Castrovillari 2000, p. 77; Scheda SBSAE Cosenza, n. 18/00023751 G. Trombetti 1985. 18   E. Barillaro, Calabria. Guida Artistica e Archeologica: dizionario corografico, Cosenza 1972, p. 224; M. Panarello, Saracena, in R.M. Cagliostro (a cura di), Atlante del Barocco in Italia. Calabria, Roma 2002, p. 656. 19   L. Boniface, La chiesa di ... cit., p. 77. 20   Iadem, La chiesa di ... cit., p. 77. 21   G. Trombetti, Le chiese di Santa Maria del Gamio e delle Armi in Saracena. Itinerario Storico-Artistico, Castrovillari 1993, p. 19; L. Bilotto, La Provincia di Cosenza. Una Guida, Mendicino 1996, p. 225. 22   L. Boniface, La chiesa di ... cit., p. 77. 23   G. Trombetti, Le chiese di... cit., p. 19. 24   G. Leone,“Grandi Tesori d’arte”: percorsi critici per una storia dell’arte nella città di Cosenza, in Bilotto L. (a cura di), Cosenza nel secondo millennio, [Atti del corso di storia popolare (Cosenza: 1996)], Cosenza 2000, p. 133. 25   M. Panarello, In sublime altare tuun. Osservazioni sull’evoluzione dell’altare marmoreo in Calabria tra Seicento e Ottocento, in G. Leone (a cura di), Pange Lingua: cit., pp. 493-576 26   A. Placanica, L’altare in pietra, in R.M. Cagliostro (a cura di), Atlante del Barocco in Italia. Calabria, Roma 2002, p. 338. 27   G. Leone, L’intaglio barocco ...cit., p. 159. 28   Scheda SBSAE Cosenza, n. 18/00131340 compilatore Coop. La Metopa 1979. 29   L. Bilotto, La provincia...cit., p. 376; Idem, Itinerari culturali della Provincia di Cosenza, Reggio Calabria 2001, p. 247. 30   Idem, La provincia...cit., p. 267. 31   Idem, Itinerari culturali...cit., p. 126. 32   Iscrizione: D. nic. pizzi ex fam. patronatus sibi suis q. fecit. a. d. 1781. Cfr. scheda SBSAE Cosenza, n. 18/00025929 compilatore G. Trombetti 1988. 33   Scheda SBSAE Cosenza, n. 18/00008299 P. Rosazza 1977.

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Antonella Salatino

Su alcuni fonti battesimali della Calabria Citra: per un repertorio dell’attuale provincia di Cosenza

Il fonte battesimale è un elemento fisso dell’arredo liturgico, presente nei battisteri e nelle chiese come recipiente per contenere o raccogliere l’acqua destinata all’ amministrazione del battesimo.1 Il fonte battesimale compare in alternativa o in sostituzione di vasche di maggiori dimensioni, dette anche piscine, già in uso in età paleocristiana all’interno dei soli battisteri. La realizzazione di fonti battesimali distinti dalle antiche vasche paleocristiane dovette affermarsi a partire dall’Alto Medioevo grazie, soprattutto, all’estensione del sacramento agli infanti e non più esclusivamente ai catecumeni. A partire dal VI secolo si è quindi progressivamente abbandonata l’antica abitudine di impartire il battesimo per immersione, iniziando a provvedere l’amministrazione del sacramento per infusione, pratiche dalle quali dipese l’impiego di bacini di dimensioni e profondità ridotte, per tale motivo le dimensioni delle vasche iniziarono a contenersi e, dalle antiche piscine, si passò ai fonti2. Tali mutamenti liturgici si manifestarono in tempi diversi a seconda degli usi locali, determinati anche da ragioni climatiche, nelle chiese dell’Europa settentrionale infatti, pare che già nel IX secolo si fosse abbandonata la consuetudine del battesimo per immersione, presumibilmente per la contemporanea realizzazione di piccole conche battesimali anche in semplici chiese parrocchiali3. In Italia si continuarono a costruire battisteri e fonti battesimali di grandi dimensioni ancora nel Tardo Medioevo, anche in virtù della tradizione, mantenutasi dalle origini del cristianesimo, di riservare al vescovo – di norma solo nel battistero della chiesa Cattedrale – la prerogativa della somministrazione del sacramento4. Fin dall’antichità, i fonti battesimali, dovevano essere realizzati preferibilmente in pietra, questa caratteristica era stata inoltre confermata dall’interpretazione allegorica della liturgia offerta nel XII secolo dal vescovo Guglielmo Durando: «Debet ergo fons esse lapideus: nam et de silice aqua in baptismi presagium amanavit. Sede et Christus qui est fons vivus est lapis angularis et petra»5. Tuttavia, esigenze particolari, o locali tradizioni artistiche, sostennero frequentemente anche l’uso del metallo, ad esempio con la derivante produzione di fonti in bronzo nella regione del Mosa e della Germania settentrionale, e in piombo in Inghilterra6. In Occidente, i fonti battesimali, di forme diverse ma sempre regolari, si presentano spesso in pianta circolare o poligonale, in linea generale il fonte battesimale veniva assimilato al fons vitae7; il numero dei lati del pulvis (vasca) veniva spesso inteso come allusione alla morte o alla resurrezione di Cristo, in riferimento al sesto o all’ottavo giorno della Settimana Santa8, tale allusione veniva in 177


ogni caso rafforzata dall’associazione del fonte battesimale con il Santo Sepolcro, resa esplicita in antico con la pratica dell’immersione, ovvero la sepoltura dell’uomo vecchio9, e talvolta dalla forma di esso, a croce, a quadrifoglio, o affine a quella di un sarcofago. Infine, la presenza di motivi figurati, erano in grado di estendere il significato del fonte battesimale fino a comprendere le implicazioni simboliche connesse a diversi temi teologici10. Spesso la posizione del fonte battesimale all’interno della sacro edificio si manifestava presso l’ingresso principale, tale collocazione non è casuale, ma è relativa alla interpretazione di una frase del profeta Ezechiele: «Mi condusse all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso Oriente, poiché la facciata del tempio era verso Oriente. Quell’ acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell’altare. Mi condusse fuori dalla porta settentrionale e mi fece girare all’esterno, fino alla porta esterna che guarda ad Oriente, e vidi che l’acqua scaturiva dal lato destro» (Ez. 47, 1-2) Tuttavia nel corso del tempo, per varie motivazioni, la collocazione del fonte battesimale ha subito spostamenti, ciò nonostante è ancora usuale trovarlo verso l’ingresso e, ordinariamente, sul lato destro dell’edificio. In Calabria, e più specificatamente nella provincia di Cosenza, si conservano interessanti esemplari di fonti battesimali in pietra; d’altronde la tradizione degli scalpellini della pietra nella regione ha lasciato notevoli testimonianze, scuole distinte con tipologie dissomiglianti di lavorazioni e sistemi. Tra gli esemplari più antichi è sicuramente da annoverare un’opera non più in Calabria, ma certamente tra gli episodi più indicativi della cultura meridionale del XII secolo, ci si riferisce al fonte battesimale proveniente dall’antico Monastero del Patir di Rossano ed oggi conservato presso il Metropolitan Museum di New York11. Il fonte, realizzato come indica l’iscrizione incisa sul labbro nel 1137 per volere dell’abate Luca12, si inserisce in un importante nodo di cultura; l’ autore, il maestro Gandolfo, di origine nordica, a seguito del soggiorno nelle aree della Calabria e della Sicilia, trasformò la sua attività modificando il proprio patrimonio figurativo, inserendovi elementi propri della cultura bizantina13. Nel fonte rossanense si evidenzia la raffinatezza delle decorazioni nella conca, nella parte bassa sono infatti presenti delle croci greche, nella parte alta degli intrecci di girali che creano «un elegante effetto bizantino»14. Altro esemplare di grande interesse è certamente il fonte conservato presso la chiesa di San Michele Arcangelo di Sotterra a Paola15, si tratta di un modello tra i più antichi, probabilmente risalente al XII secolo, che si compone di un blocco cilindrico inferiore su cui poggia la semplice conca circolare, molto ampia, che presenta, in rilievo sui punti cardinali, quattro croci greche16. Nella chiesa del Convento di San Francesco di Paola a Paterno Calabro è conservato un antico e ancora poco conosciuto fonte battesimale17, si tratta verosimilmente dell’antico fonte dell’originaria parrocchiale, un modello in pietra tufacea chiara, con corta base poligonale e vasca ottagonale, recante sul bordo della vasca, incisi a bassorilievo su una doppia fascia, caratteri e monogrammi connessi, verosimilmente, al sacramento del Battesimo, ma al momento non pienamente indagati. Nella sacrestia della chiesa di San Giorgio Martire a Zumpano si custodiscono parti di un fonte battesimale non più in uso18; la conca, semplice e ampia, con 178


forma ottagonale, presenta una superficie liscia, con gli spigoli evidenziati dalle facce in forma di ombrello rovesciato19 (Fig. 1), la datazione di tale oggetto si sosterrebbe nel XV secolo20, mentre più tardo appare il pilastrino della base, da tempo separato e rimesso in uso con diversa destinazione21. La conca ottagonale, come suggerito da Giorgio Leone, e come mostrerebbe anche l’ampiezza del pulvis, potrebbe riconoscersi nell’antico fonte battesimale della Cattedrale di Cosenza22. L’antica vasca battesimale della Cattedrale cosentina, come indicato nel secentesco manoscritto cosiddetto Cronaca del Frugali, fu venduta23 e acquistata da Orazio Telesio24, e da questi portata «alla sua possessione in Campagnano»25, ovvero, verosimilmente, proprio nella chiesa parrocchiale di Zumpano26. Oltre a ciò, piace segnalare, che tale modello di fonte battesimale, spesso adorno di minore raffinatezza nella foggia, fu, Fig. 1 Zumpano, Chiesa di San Giorgio Martire, conca di fonte battesimale anche in tempi differenti, di frequente replicato dalle botteghe di scalpellini lo27 cali del circondario cosentino , rinnovando e confermando l’utilizzo di modelli prodotti da e per la Cattedrale, ovvero la chiesa più importante del territorio. Ancora a Paola, nel quattrocentesco Duomo cittadino dedicato all’Annunziata, si conserva un fonte battesimale risalente alla metà del XV secolo28, si tratta di un opera con una base di forma cilindrica con un toro aggettante nella parte superiore, su cui poggia una semplice e ampia vasca circolare, coperta da un tegurio ligneo tardo seicentesco29, non si conoscono, al momento, simili modelli, tuttavia, stilisticamente prossimo, pare mostrarsi il fonte battesimale presso la chiesa parrocchiale di Santa Maria d’Episcopio di Scalea30, in questo caso una vasca in pietra arenaria, poggiante su un corto e robusto basamento in pietra serena; la conca liscia e ampia, si caratterizza per la solenne profondità, certamente, tra i suggerimenti e modelli utilizzati per queste tipologie è necessario riferirsi all’antico fonte di Sotterra. A questo gruppo può aggiungersi un altro esemplare conservato nella parrocchiale di Lattarico31, questo fonte, probabilmente più avanzato nella datazione rispetto ai precedenti, si caratterizza per la conca liscia ingentilita da quattro piccole rastemature nel sottocoppa. Nella parrocchiale di Grimaldi si conserva un fonte battesimale datato 32 1493 , si tratta di un singolare esemplare, con base trilobata figurata con tre mascheroni, con un fusto liscio interrotto da piccoli protomi, e una vasca circolare, molto profonda, decorata con simboli e lettere legate alla simbologia cristiana, nella fascia superiore della vasca, in caratteri goticizzanti, è incisa la data. Nella Calabria citeriore, sul finire del XV e ancora nel corso del XVI secolo, si diffuse un modello di fonte, la cui tipologia iconografica può essere in qualche 179


modo ricercata e richiamante i leoni stilofori dei sepolcri napoletani trecenteschi dei regnanti angioini33, si tratta di pulvis poggianti su basi figurate descriventi uno o più leoni accovacciati. Fin dall’antichità il leone è stato considerato simbolo di forza e di coraggio, di regalità e di potenza; nella iconografia cristiana spesso il leone è associato alla rappresentazione di Cristo e, secondo i bestiari medievali, il leone è proprio un raffigurazione di Gesù Cristo, poiché la testa e la parte anteriore del corpo corrisponderebbero alla natura divina, mentre la parte posteriore richiama quella umana34. Nel Physiologus35 il leone è associato alla Resurrezione, infatti, si credeva che i piccoli nascessero morti e tali rimanessero per tre giorni osservati costantemente dalla madre, finché non riacquistavano la vita grazie al soffio del padre; tale interpretazione rafforzerebbe la presenza del leone all’interno della iconografia del battesimo, prefigurando l’atto di iniziazione come la resurrezione del cristiano nuovo. Il fonte battesimale della chiesa di San Giovanni Battista a Lappano36 (Fig. 2) datato al XV secolo37, mostra nel piede un leone accovacciato e, nella decorazione della cornice superiore d,ella vasca litica poligonale, un motivo realizzato ad ovoli e scanalature di gusto rinascimentale38 sempre con un unico leone nella base è il fonte della antica parrocchiale di San Nicola a Minnito di Celico39, questo esemplare presenta l’animale raffigurato con maggiore resa dei particolari40, si veda soprattutto la dettagliata restituzione della criniera e, sulla base zoomorfa, è disposto un sinuoso fusto a colonna reggente una vasca, dalla forma circolare, decorata con bacellature nella parte inferiore41. Fonti battesimali con tre leoni nella base si conservano a Longobucco e Celico42; il primo esemplare, datato al secondo quarto del XV secolo, conservato nella chiesa di Santa Maria Assunta, si presenta realizzato in pietra scura43, nello schema compositivo appare evidente l’attenzione dell’artista nella descrizione particolareggiata dei busti dei tre animali, dal cui dorso parte un corto fusto, leggermente rastremato al centro, su cui poggia la possente conca poligonale. L’esemplare della parrocchiale di San Michele a Celico44 (Fig. 3), probabilmente più attardato nella datazione, mostra una lavorazione più aperta e sciolta; la base indica un impianto con maggiore ampiezza e, gli animali scolpiti, mostrano maggiore fierezza e severità45, il fusto sagomato emerge slanciato ad accogliere l’elegante conca poligonale. Fig. 2 Lappano, Chiesa di San Giovanni Battista, Fonte Battesimale Questi due esemplari appena descritti indicano limpidamente come, anche in centri a poca distanza, operando botteghe diverse, si manifestassero, pur su un modello simile, difformi tipologie esecutive e compositive. Nella Cattedrale di Cassano allo Jonio si conserva un fonte battesimale46 molto interessante (Fig. 4), si tratta di un’opera di connessione di parti diverse; una base, realizzata in pietra rosata, con fusto a balaustro, recante alcuni stemmi che sono stati finora diversamente interpretati47: sul fronte lo stemma vescovile del britannico Undevico (Ludovico) Audoeno48 (1588-1595), sul fusto è sovrap180


Fig. 3 Celico, Chiesa di San Michele Arcangelo, Fonte Battesimale

Fig. 4 Cassano allo Ionio, Cattedrale, Fonte Battesimale (ph. Alberto Pincitore)

posta la conca, una semplice vasca poligonale, che reca sbalzati sui lati il blasone della famiglia Sanseverino49 e uno stemma – stella in campo - riconducibile a quello della potente famiglia del Balzo50. Una ulteriore prova, estremamente raffinata, di reimpiego di pezzi diversi, emerge nell’esemplare conservato presso la CoCattedrale di Santa Maria Assunta in Bisignano51 (Fig. 5), la conca di semplice fattura certamente antica52 è collocata su un ricercato fusto scultoreo presentante una forma di capitello, costituita da elementi vegetali stilizzati, congiunti al centro da un toro53. È stato ipotizzato, vista l’attenzione e la raffinata descrizione, e l’esito di un colto gusto artistico, che la base fu realizzata da scalpellini della zona della Val di Crati e accomodato, insieme all’antica conca, in occasione della riconsacrazione della Cattedrale bisignanense nel 1587, su richiesta del senese Mons. Domenico Pretrucci54, vescovo della diocesi di Bisignano dal 1584 al 1598, al momento tuttavia non si posseggono elementi documentali che testimonino e rendano almeno verisimile tale congettura. Nell’ultimo quarto del Cinquecento, con un gusto ormai aggiornato sulle novità napoletane, si inseriscono alcuni esempi di fonti battesimali custoditi in 181


alcuni centri nella parte più a nord dell’antica Calabria Citra, nel territorio dei monti del Pollino55. A Morano Calabro, nella chiesa Collegiata della Maddalena56, è individuabile un fonte a pila, realizzato in pietra scura, e datato 157957; questo esemplare mostra una base triangolare sulla quale è raffigurato un teschio, la vasca bacellata è adorna su i lati da riccioli a volute; molto affine al tipo appena descritto appare il fonte, datato 1572, collocato nella chiesa dello Spirito Santo a Laino Borgo58, realizzato in pietra grigia, appare poggiante su base triangolare, con un fusto cilindrico strigliato nella parte centrale, su cui poggia una ampia vasca circolare, decorata con una bacellatura nella parte inferiore, bordata al centro da una sottile treccia che ne percorre il diametro e, nella parte superiore, con un toro leggermente rientrante, sul quale sono scolpite rosette59. A Canna, nella chiesa parrocchiale dell’Immacolata Concezione, è custodito un esempio di fonte60, ritenuto cinquecentesco, piuttosto atipico per la cultura artistica regionale, si tratta di un’opera costituita da una base circolare su cui si erge un fusto formato da quattro putti possenti e muscolosi, che sorreggono sulle spalle la forte vasca circolare, decorata nella parte inferiore da semplici bacellature e, nella parte superiore, da una fascia ornata da cherubini e ghirlande61; il modello di questa opera pare si possa rintracciare in alcuni esempi di cultura toscana o toscanizzante degli inizi del XV secolo62, importati in Calabria alla fine del Cinquecento ma forse più tardi. Tra i secoli XVIII e XIX, la produzione plastica delle botteghe di scalpellini locali, troverà, ampia fortuna e mostrerà un importante accrescimento artistico, aggiornando Fig. 5 Bisignano, Co-Cattedrale di Santa Maria Assunta, Fonte Battesimale le proprie istanze sia sulla tradizione regionale e locale che, sulle novità provenienti dai circuiti extra-regionali, tuttavia potremmo dire che ciò non avvenne per la creazione dei fonti battesimali. A partire dalla fine del XVII secolo si realizzarono, nelle chiese calabresi, meno frequentemente fonti battesimali in pietra, ancorché in questo periodo si avvii a diffondersi, per il compimento di questo arredo liturgico, l’impiego del marmo63, materiale più nobile e prezioso. Tra i pochi esempi rintracciati si manifesta la spiccata tendenza a ripetere modelli cinque-seicenteschi, le cui inclinazioni esornative si manifestano ormai penetrate nella tradizione ornamentale, e che si riveleranno ad esempio nel fonte, realizzato in pietra verde, per la chiesa di San Felice a Carpanzano64, in cui limpidamente si esplicita un modello e una tipologia tardo cinquecentesca, con piede a ripiani e fusto composito, con conca circolare e tegurio realizzato sempre in pietra scolpita. A Laino Borgo, nella matrice dello Spirito Santo è conservato un fonte in pietra grigia65 opera di maestranze del XVII secolo, si tratta di un modello poggiante su una base triangolare, con fusto cilindrico rastremato nel centro e decorato con bacellature, la vasca conformemente bacellata e chiusa da un sottile motivo ad intreccio alternato a barrette, nella parte terminale del pulvis una fascia liscia mostra delle eleganti rosette. 182


In pietra locale chiara si presenta il fonte, datato 1720, della chiesa Madre di San Giovanni in Fiore66, che mostra, nell’impianto decorativo, il perpetuare di forme pienamente secentesche, mostrando un piede tornito e un sinuoso fusto a colonna, e dalla coppa circolare accompagnata nella parte inferiore da una ricca decorazione di foglie e girali. Infine si segnala il fonte battesimale della Matrice di Mandatoriccio, datata 1727, che ha come modello il fonte della chiesa dell’Achiropita di Rossano, realizzato da Antonio e Lorenzo Fontana67.

Note 1  E. Bassan, in Enciclopedia dell’arte Medioevale, sv. Fonte Battesimale, Roma 1995, p. 282. 2  E. Bassan, in Enciclopedia… cit, p. 282. 3  Dalla nascita del Cristianesimo e fino all’Alto Medioevo (I-XI secolo) il Battesimo era amministrato di norma nella Cattedrale come prerogativa del Vescovo della città. Già a partire dal VII secolo, e poi in maniera più evidente dall’XI secolo, con l’affermazioni delle comunità cristiane rurali, che iniziarono ad attestarsi come centro della vita cristiana, e la successiva nascita delle parrocchie, il sacramento del battesimo si potette svolgere anche al di fuori della Cattedrale. 4  M. Righetti, Manuale di storia liturgica, I-IV, Milano 1950-1952, I, pp. 393-395. 5  G. Durando, Rationale divinorum officiorum, VI, 83. 6  E. Bassan, in Enciclopedia… cit, p. 282. 7  Come risulta già dall’interpretazione fornita dall’iscrizione incisa sul peristilio del battistero lateranense del tempo di Sisto III (432-440) « fons hic est vitae qui totum diluit orbem » (cfr. E. Bassan, in Enciclopedia …cit, p. 282) 8  E. Bassan, in Enciclopedia… cit, p. 282. 9  « O ignorate voi che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Noi siam dunque stati con lui seppelliti mediante il battesimo nella sua morte, affinché, come Cristo è resuscitato dai morti mediante la gloria del padre, così anche noi camminassimo in novità di vita. Perché, se siamo divenuti una stessa cosa con lui per una morte somigliante alla sua, lo saremo anche per una resurrezione simile alla sua, sapendo questo: che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con lui, affinché il corpo del peccato fosse annullato, onde noi non serviamo più al peccato; poiché colui che è morto, è affrancato dal peccato », Rm. 6, 3-7. 10   Connessioni con il tema dell’acqua, o quello della vita e della morte di Cristo e del ritorno nella resurrezione e nel Giudizio finale; episodi o situazioni legati al rito del battesimo, all’interpretazione figurale veterotestamentaria di esso e anche al battesimo dello stesso Cristo. (cfr. E. Bassan, in Enciclopedia… cit, p. 282; F. Nordström, Medieval Baptsmal Fonts. An Iconographical Study, Stoccolma 1984). 11   E. Zinzi, La conca del Pathirion. (1137) un recupero e alcune considerazioni sulla cultura figurativa dei monasteri italo-greci del sud in età normanna, in «Rivista storica calabrese», V (1980), pp. 431-439; M.P. Di Dario Guida, Arte in Calabria dal Medioevo all’età aragonese, Roma 1999, pp. 49-50. 12   E. Zinzi, La conca del Pathirion …cit, p. 342; M.P. Di Dario Guida, Arte in Calabria… cit., pp. 49-50. 13   Sempre a Gandolfo, l’abate Luca, commissionò nel 1135, il fonte battesimale per l’Abbazia di San Salvatore, oggi conservato presso il Museo Nazionale di Messina (cfr. M.P. Di Dario Guida, Arte in Calabria… cit, pp. 49-50) 14   M.P. Di Dario Guida, Arte in Calabria…cit, p. 50. 15   Archivio Soprintendenza Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Calabria (da ora in poi SBASE-Cosenza) 18/00132485, con una datazione al IX secolo. 16   Da alcuni storici l’opera è ritenuta pertinente alla cultura bizantina di X secolo (cfr. inoltre P. De Seta, Un antico paese del Sud, Cosenza 1977, pp. 513-514). La diffusione e il sistema del monachesimo brasiliano nella zona tra Paola e Fuscaldo, e le chiese sorte in questo territorio (Sotterra, Sant’Angelo o San Michele, e la distrutta chiesetta di San Lorenzo), di fatto costituirono un luogo privilegiato del monachesimo basiliano nella Calabria citeriore, le chiese passarono, a partire dal XII secolo, sotto la giurisdizione e le dipendenze della potente e ricca abbazia di Fontelaurato, e in seguito cadendo verso un progressivo stato di trascuratezza. (cfr. R. Verduci, La chiesa ipogea di Sotterra a Paola, Reggio Calabria 1991, p. 58). 17   SBASE-Cosenza 18/00107184. 18   G. Leone, Il Tesoro della Chiesa di San Giorgio Martire, Cosenza 2008, p. 16. 19   Sul bordo liscio della vasca, in corrispondenza di ogni spigolo, appare un piccolo foro piombato, che corrisponde all’attacco di un tugurio ligneo oggi perduto (cfr. G. Leone, Il Tesoro...cit., p. 16). 20   G. Leone, Il Tesoro...cit, p. 16. 21   G. Leone, Il Tesoro...cit, p. 16. 22   G. Leone, Il Tesoro...cit, p. 16. 23   La vendita del fonte battesimale della Cattedrale di Cosenza, decisa a seguito di lavori di restauro e risistemazione della Cattedrale, avvenne durante l’episcopato di Mons. Giovanni Battista Costanzo, dal 1591 al 1617 (cfr. F. Russo, Storia dell’Arcidiocesi di Cosenza, Napoli 1958, pp. 487-493). 24   Orazio Telesio risulta un discendente diretto del filosofo Bernardino, e dunque anche del vescovo Tommaso; la famiglia Telesio fu, fin dalla metà del XVI secolo, legata al piccolo centro di Zumpano, i suoi membri ecclesiastici godettero infatti la Rettoria della chiesa di San Giorgio Martire, e le relative rendite. Rettori della chiesa furono i fratelli del filosofo Bernardino: Paolo, Gerolamo e Giovanni Andrea Telesio; alla rinunzia di Paolo succedette un altro fratello, don Tommaso Telesio, che divenne in seguito vescovo di Cosenza dal 1565 al 1569. I dati documentali in possesso hanno dimostrato come tutti gli esponenti della famiglia Telesio ebbero a gran cura le sorti della chiesa di San Giorgio a Zumpano, e di conseguenza anche eventuali abbellimenti (cfr. F. Russo (a cura

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di), Regesto vaticano per la Calabria, IV, Roma 1974-1980, pp. 167, 194, 249, 262; per la presenza della committenza della famiglia Telesio nella chiesa di San Giorgio si veda G. Leone, Il Tesoro...cit., pp. 14-16). 25   cfr. E. Galli, Cosenza Seicentesca nella Cronaca del Frugali, Roma 1934, p. 34; F. Russo, Storia…cit , pp. 491-492; L. Intrieri, Dalla cronaca del Frugali al Duemila. Aspetti e momenti della vita civile e religiosa di Cosenza, Soveria Mannelli 2007, p. 47; G. Leone, Il Tesoro...cit., p. 16. 26   Giorgio Leone suggerisce tale ipotesi constatando come, in assenza di ulteriori specificazioni, gli unici interessi dei Telesio oltre il “Campagnano” fossero proprio a Zumpano (cfr. G. Leone, Il Tesoro...cit, p. 16). 27   Si veda ad esempio il fonte di forma ottagonale, di metà Cinquecento, della parrocchiale di Santa Barbara a Rovito, e ancora l’esemplare tardo cinquecentesco conservato nella chiesa di Santa Maria del Soccorso in Scalzati SBASE-Cosenza 18/0000108147. 28   SBASE-Cosenza 18/00132462, con una datazione al XVI secolo. 29   C. Altomare, in Calabria, a cura di R.M. Cagliostro, (“Atlante del Barocco in Italia” diretto da Fagiolo M. dell’Arco), Roma 2002, p. 645. 30   SBASE-Cosenza 18/00010420. 31   SBASE-Cosenza 18/00132408. 32   SBASE-Cosenza 18/0012302. 33   G. De Marco, Gli Arredi liturgici. Fonti battesimali e acquasantiere, in La Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. Valtieri, Roma 2002, p. 971. 34   J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano 1983, p. 244. 35   Il Physioologus (Fisiologo) è una piccola opera letteraria, di autore ignoto, redatta ad Alessandria d’Egitto, probabilmente in ambiente gnostico, tra il II e il IV secolo d.C. 36   SBASE-Cosenza 18/00105348. 37   E. Barillaro, Calabria. Guida artistica e archeologica, Cosenza 1972, p. 173. 38   G. De Marco, Gli Arredi liturgici… cit, p. 971. 39   SBASE-Cosenza 18/00108351; E. Barillaro, Calabria…cit, p. 148. 40   G. De Marco, Gli Arredi liturgici… cit., p. 971. 41   Un modello molto simile, soprattutto nella parte inferiore e nel fusto, è il fonte della chiesa di San Biagio in Spezzano della Sila, questo esemplare presenta la conca di forma ottagonale e più ampia (cfr. SBASE-Cosenza 1800104872; E. Barillaro, Calabria… cit, p. 233); si segnala in questa sede il fonte, con medesimo leone nella base, conservato nella chiesa di San Nicola nella frazione Rovella di Zumpano. 42   De Marco G., Gli Arredi liturgici… cit., pp. 971-974; per il fonte di Celico cfr. SBASE-Cosenza 18/00108319 43   E. Barillaro, Calabria… cit., p. 175, con datazione seicentesca. 44   E. Barillaro, Calabria… cit., p. 148. 45   A causa del cattivo stato di conservazione in quest’opera sono meno evidenti, rispetto all’esemplare di Longobucco, le particolarizzazioni descrittive degli animali. 46   SBASE-Cosenza 18/00008584; al fonte cassanense si potrebbe avvicinare, su suggerimento orale di Giorgio Leone, per vicinanza stilistica, il fonte della parrocchiale di Casole Bruzio SBASE-Cosenza 18/0010818133 e inoltre anche il similissimo esemplare della parrocchiale di San Nicola di Pietrafitta SBASE-Cosenza 18/00104781. 47   Ringrazio il dottor Luca I. Fragale per il cortese chiarimento scritto che mi ha inviato: “Sul fonte battesimale della cattedrale di Cassano allo Ionio campeggiano tre diversi stemmi. Due sono posti nella parte superiore: si tratta della manifesta fascia dei Sanseverino e di una stella che ricondurrei pacificamente all’arma antica dei Del Balzo (e non sono pochi né ignoti i legami familiari tra le due famiglie). Il terzo stemma, più consunto e di dimensioni minori, è posto invece sul piede del fonte: la lettura ne è facilitata dalla presenza, sulla parete di fianco, di un diverso esemplare del medesimo blasone. Si tratta dello stemma cinquecentesco del vescovo Owen Lewis (1532-1594), a voler correttamente restituire la forma originaria di quel nome all’epoca fortemente latinizzato in Audoenus Ludovisi. Ad esser precisi vanno notate anche alcune discordanze storiografiche sull’ordine onomastico del vescovo, cioè sul fatto che si trattasse di Owen Lewis ovvero di Lewis Owen (e perciò Ludovicus Audoenus, pure attestato, come ad esempio nell’unica fonte che ne conferma le caratteristiche araldiche, ovvero F. Ughelli, Italia sacra, Venezia 1717-1722, ristampa anastatica Bologna 1972-1989, IX, pp. 480 e ss.). Si tratta ad ogni modo del canonista e diplomatico gallese divenuto intimo di Carlo Borromeo e, nel 1588, vescovo di Cassano. Lo stesso creò una sede del seminario cassanese a Mormanno e il Monte di Pietà a Papasidero. Detto ciò, che lo si definisca stemma Owen o stemma Lewis, a memoria riesco a rilevare che proprio a Mormanno, su una parete esterna dell’antico seminario, è visibile un bell’esemplare lapideo che rende con efficacia la sobria eleganza – tutta geometrica – di questo blasone ‘triangolato’ (col capo alle tre stelle in fascia) altrimenti assai raro nell’araldica italiana e che solo dall’Oltremanica poteva giungere alle falde del Pollino” (Luca I. Fragale). 48   Si veda F. Ughelli, Italia Sacra… cit., p. 480. Il vescovo Ludovico Audoeno (latinizzazione di Lewis Owen) già vicario di san Carlo Borromeo, è ricordato nella vita del Santo come uno dei sui più stretti collaboratori e seguaci «Audoeno Lodovico vescovo di Cassano, nunzio appresso alli signori Svizzeri» (cfr. G.P. Giussano, Vita di San Carlo Borromeo prete cardinale del titolo di Santa Prassede, arcivescovo di Milano, Napoli 1713 p. 102); nominato vescovo di Cassano nel 1588, tenne, nel 1591, il III sinodo diocesano e, nel 1593, aprì il Seminario diocesano dettandone le costituzioni. Desidero in questa sede ringraziare Luca Irwing Fragale per il suggerimento del riconoscimento dello stemma (col capo alle tre stelle in fascia), inoltre lo stesso studioso mi segnala che l’arme del vescovo Audoeno (stemma Owen o Lewis) è presente su un palazzo nel centro storico di Mormanno, edificio corrispondente all’antico seminario. 49   I principi Sanseverino di Bisignano mantennero il feudo di Cassano fino al 1592, quando il possedimento passò ai Duchi Serra di Cassano (cfr. V. Saletta, Storia di Cassano Ionio, Roma 1966, p. 68); la presenza dello stemma Sanseverino potrebbe condursi, come indicato da Giuseppina De Marco, in memoria del presulato di Febo Sanseverino di Tricarico (1399-1404) (cfr. G. De Marco, in S. Valtieri, Cattedrali della Calabria, Roma 2002, p. 287). 50   Comunicazione di Luca I. Fragale (vedi nota precedente 47); se, come ipotizzato dallo studioso, si tratta dello stemma dei Del Balzo, pur approfondendo i legami familiari e matrimoniali tra questi e i Sanseverino, appare al momento difficile coglierne la motivazione della coeva presenza sul pulvis del fonte della Cattedrale di Cassano, si rimanda per questo a futuri approfondimenti. È necessario puntualizzare che in passato lo stemma è stato interpretato come pertinente al vescovo Tomacelli (cfr. E. Barillaro, Calabria… cit, p. 144), e in seguito come appartenente al vescovo Gioacchino Suhare di Pitignano (1440-1463) (cfr. G. De Marco, Gli Arredi liturgici… cit., p. 974). 51   SBASE-Cosenza 18/00107648. 52   G. Leone, Per una storia dell’arte sacra nella Valle del Crati, in Bisignano e la Val di Crati tra passato e futuro, a cura di R. Fasanella d’Amore-L. Salerno-M. Pugliese,

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Atti del Convegno di Studi [Bisignano: 1991 ], Soveria Mannelli 1993, p. 120; già in questa occasione Giorgio Leone auspicava lo studio degli antichi fonti battesimali presenti nell’antica Diocesi di Bisignano per coglierne evoluzioni e stili (cfr. G. Leone, Per una storia..cit, p. 120); uno studio sistematico e tipologico su gli antichi fonti dell’intera regione, per quanto concerne gli esemplari rinascimentali, è la ricerca svolta da Giuseppina De Marco e in queste note già citata (cfr. G. De Marco, Gli Arredi liturgici… cit.). 53   G. De Marco, Gli Arredi liturgici… cit., p. 974. 54   G. De Marco, Gli Arredi liturgici… cit., p. 974. 55   G. De Marco, Gli Arredi liturgici… cit., p. 974. 56   SBASE-Cosenza 18/00006352; E. Barillaro, Calabria… cit., p. 190; G. Trombetti, in Memorie riscoperte. Mostra di opere d’arte restaurate dalle chiese della Maddalena e del Carmine, [Catalogo della mostra (Morano Calabro: 1995), a cura di R. Filice, Morano Calabro 1995, p. 97. 57   G. Trombetti, in Memorie riscoperte…cit, p. 97; G. De Marco, Gli Arredi liturgici… cit., p. 974. 58   SBASE-Cosenza 18/00010151. 59   A questo modello è stato lecitamente associato un fonte conservato nella chiesa di San Costantino a Papasidero SBASE-Cosenza 18/00009212 (cfr. G. De Marco, Gli Arredi liturgici… cit., p. 974). 60   SBASE-Cosenza 18/00025938. 61   Una versione più tarda e meno raffinata appare il fonte della Chiesa dell’Assunta a Cropalati (SBASE-Cosenza 18/00001185; cfr. G. De Marco, Gli Arredi liturgici…cit., p. 974), ma sicuramente quattro-cinquecentesca, di fattura locale e che ostende lo stemma della famiglia Amantea di Rossano, come mi comunica Giorgio Leone. 62   G. De Marco, Gli Arredi liturgici… cit., p. 974, la studiosa individua il modello di riferimento nel fonte battesimale del Battistero di Castiglione Olona (Varese), commissionato ad artisti toscani dal cardinale Branda Castiglioni, nel 1425. 63   Si veda M. Panarello, in Calabria… cit., pp. 422-423. 64   M. Panarello, in Calabria…, pp. 422-423. 65   SBASE-Cosenza 18/00010151. 66   M. Panarello, in Calabria…, p. 422. 67   G. Leone, Thesaurum/Arte, in Terre Jonico-Silane, in corso di stampa.

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Luca Irwin Fragale

Di alcuni stemmi dell’Alto Ionio, tra portali e pietre minori: Canna e il circondario in un’ipotesi migratoria delle maestranze.

Se già l’araldica è una disciplina relegata a torto nello spazio delle cosiddette discipline ausiliarie della Storia (e talvolta della già subalterna Diplomatistica), quella del Mezzogiorno ha subìto pure una tendenziale estromissione da parte di blasonari di impianto postunitario che hanno finito per attribuire in modo arbitrario maggiore ufficialità a certo patriziato d’altra estrazione geografica e storica, strumentalmente a un revisionismo in chiave subalpina. La massiccia e ingenerosa minimizzazione nei riguardi del ricco e prestigioso patrimonio araldico meridionale ha tra le conseguenze quella di aver messo ancora più in difficoltà i tentativi di ricostruzione storica relativi tanto alle genealogie quanto alla descrizione artistica degli stemmi.1 In un quadro siffatto appare quindi temerario cercare di individuare addirittura filoni di maestranze e scuole artigiane, siano esse riferibili a scalpellini, marmorari o intagliatori. Ci proviamo lo stesso, e con qualche risultato, partendo paradossalmente dall’estrema periferia della Provincia di Cosenza. Anzi da un brandello di territorio che storicamente ha altalenato nella sua pertinenza ora alla Calabria ora alla Basilicata. Perché se l’attuale territorio di questa provincia corrisponde pressoché fedelmente a quello della plurisecolare Provincia di Calabria Citeriore, è pur vero che il suo ultimo lembo nordorientale si trova attualmente al di là di quella Petra Roseti che ha sempre segnato il confine fra la Val di Crati e la Terra Giordana, indicando perciò l’ingresso in Lucania. La scelta poi ricade proprio su un preciso paese, perché questo ha diritto – ritengo – a una maggiore considerazione: Canna resta per nulla indagata (e non mi correggo: l’aggettivazione al femminile, apposta inavvertitamente, si giustifica in realtà con la parlata locale, che vuole si vada ‘alla’ Canna, che si sia ‘della’ Canna e così via) e la pubblicistica locale è muta, non esistendo neppure una sola monografia sulla storia del paese, e sì che meriterebbe.2 Altra ragione per aver scelto questo campo d’indagine sta nel fatto che il patrimonio araldico di Canna è stranamente e quasi sfrontatamente superiore a quello di qualsivoglia paese del medesimo circondario. Se escludiamo i paesi più meridionali dell’Alto Ionio cosentino, troviamo comunque ben pochi episodi araldici: non più di quattro nel borgo di Oriolo Calabro (due Pignone e due Giannettasio),3 poco materiale ad Alessandria del Carretto (tre stemmi della famiglia Chidichimo), pochissimo ad Albidona (altro stemma Chidichimo),4 nulla a Castroregio e nulla di particolare rilievo a Rocca Imperiale5 mentre è di proposito che tengo da parte Roseto Capo Spulico, Montegiordano, Amendolara e Nocara, poiché saranno funzionali a rimandi successivi). 186


A Canna, invece, tra le quinte di una ridottissima manciata di vicoli si accalcano ben undici portali di qualche rilevanza artistica, per un totale di ben quindici stemmi. Non si spiega altrimenti tale densità di manufatti di pregio, in un borgo tanto minuscolo, se non attraverso l’interpretazione che vado proponendo. La storia di Canna va sempre letta in stretta connessione con quella di due paesi limitrofi, Rocca Imperiale e Nocara. Ma questa stessa lettura comparata suggerisce una prima considerazione in termini urbanistici. Rocca Imperiale – in perfetto accordo col suo nome – restituisce visivamente l’impianto medievale, con un castello (di notevoli dimensioni e impatto visivo) posto sulla sommità di un colle, in cima a un rovescio di case popolaresche digradanti verso la piana che conduce al mare (un po’ come succede, mare a parte, a Morano Calabro). Nocara, per contro, rimanda all’idea di un vecchio avamposto d’avvistamento, una sorta di accampamento rude, resosi nel tempo stanziale sulla cima di un’inospitale scarpata. Nel mezzo di questi luoghi – e dunque, volendo, tra l’autorità, il popolo e la difesa – si pone Canna, che appare subito come qualcosa di diverso, una sorta di appartato buen retiro per la nobiltà e la borghesia locale. Intendo dire che a Canna deve essere successo qualcosa, ed esserci stato quantomeno un momento in cui il paese cominciò ad essere letteralmente di moda, quando possedervi un palazzo con un portale pregiato e possibilmente uno stemma (nonché una cappella privata)6 dovette essere una sorta di status symbol irrinunciabile per il notabilato del circondario. Eccoci perciò davanti alla sfida interpretativa di questo conforto araldico, e la definisco così perché in alcuni casi i blasoni cannesi (e talvolta i palazzi tout court) si rivelano di attribuzione ardua: a complicare il lavoro sono anzitutto l’assenza (originaria o successiva, fraudolenta o meno) di uno stemma; il continuo avvicendarsi di passaggi di proprietà; l’uso, da parte della vulgata, d’identificare un fabbricato col cognome degli ultimi proprietari – o di quelli che lo sono stati per più tempo – dimenticando i precedenti (e, soprattutto, quelli iniziali); e, va ripetuto, l’assoluta assenza di una bibliografia non dico specifica ma neppure vagamente attinente alla combinazione dei due temi prescelti, quello simbolicoiconografico e quello territoriale. A questo punto corre il noioso ma inevitabile obbligo di dare uno sguardo, almeno rapidissimo, alle successioni feudali di cui Canna fu oggetto (curiosamente, servirà proprio a notare come – a parte un paio di casi – i vari stemmi di Canna non siano riferibili neppure ai suoi feudatari): allora se i primi intestatari del feudo furono i Tarsia,7 il testimone passò ancora nel medioevo al ramo dei Sanseverino di Senise. Questi, subentrati attraverso parentele con i nobili Di Leo di Nocara, restarono feudatari fino al 1496. Fu poi la volta dei napoletani Loffredo, duchi di Nocara e marchesi di Canna, i quali ne devolvettero l’effettiva reggenza amministrativa ai biscegliesi Melazzi (i quali, nonostante i successivi mutamenti di titolarità feudale di Canna, avrebbero continuato a detenere nel paese una posizione sociale ed economica preminente, almeno fino a tutto l’Ottocento e pur essendo divenuti, nel frattempo, baroni delle lontane terre di Pietragalla e Casalaspro). Da allora fu un susseguirsi di varie e rapide successioni: nel 1653 Canna passò (assieme a Nocara) al marchese Girolamo Merlini, il quale diede il feudo in dote a sua figlia Isabella e lo trasferì dunque, nel 1657, al genero Giovanni Maria Calà;8 passerà poi nel 1681 ai Pignatelli, nel 1686 ai Marifeola, nel 1757 ai Carbone, nel 1777 a Giovambattista Osorio de Figueroa marchese di 187


Villanova, nel 1781 ai Virgallita e infine ai baroni Toscani.9 Tengo a sottolineare un dato parallelo che servirà nel prosieguo: nel frattempo la vicinissima Rocca Imperiale era divenuta, dal 1717, feudo dei duchi Crivelli10 i cui più devoti servitori furono i cannesi Pitrelli che, sul finire dell’Ottocento, sarebbero riusciti ad acquistare a Canna gran parte dei beni degli ultimi eredi Melazzi. Detto ciò, è ora di affrontare i manufatti e, per completezza, preferisco dar conto anche dei portali cannesi privi di stemmi, sia perché alcuni ne erano originariamente provvisti, ed è giusto registrarlo; sia perché meritano comunque attenzione. Benché si tratti del più recente tra i palazzi storici di Canna,11 non può tralasciarsi – almeno per la sua imponenza – un accenno al Palazzo Jelpo, privo di stemma sin dall’origine e caratterizzato da un rigido stile neoclassico e da un portale incorniciato da due coppie di colonne doriche. Più antico ma ancora non abbastanza interessante è il Palazzo Morano, il cui stemma è stato trafugato tempo addietro e le cui uniche informazioni si ricavano dalle incisioni sotto la chiave di volta: costruito nel 1773 e restaurato nel 1827, due timidi mascheroni ne adornano la base dei capitelli.12 Ne segnalo però una curiosità che vale la pena non tralasciare. Un’iscrizione rozza e piccola, in alto su una parete esterna del palazzo, ha suggerito un esame più paziente, che mi ha rivelato trattarsi di un frammento del distico di Catone I, 5: “nemo si/ne crimi/ne vivit”, seguito soltanto da un ultimo laconico rigo, “p.[ositum?] 1605” (Fig. 1). Non deve sorprendere troppo: fa il paio con quell’altra citazione latina che troviamo a Cosenza, su una chiave di volta nel rione Portapiana, dove viene scomodato Orazio (Odi, III, 3, 8) e il suo verso “impavidu[m] / ferient / ruin[a]e” che il poeta riferiva all’inattaccabile rettitudine umana mentre, con tutta probabilità, il committente seicentesco deve aver riferito alle sorti dell’edificio dopo il terremoto del 1638. È un vezzo dell’epoca questa citazione di classici latini che costituivano una porzione fin troppo ampia nella formazione dei ceti colti.13 Un’altra iscrizione, più antica e altrettanto consunta ai fini di una rapida Fig. 1 Verso di Catone su una parete esterna di Palazzo Morano (Canna) decifrazione paleografica è quella di una lapide cannese (ora custodita presso privati) che credo infine di poter sciogliere così: ha[n]c eccl[esi]am f[ieri] fecer[un]t plures [con]frat[res] / […]co tarentino de Canna a[…] / [Sanc]tissimi Rocchi s[tatuerunt] a[nno] D[omini] 1529,14 attestante quindi la costruzione, nel 1529, di una chiesa sotto il titolo di S. Rocco, per volere di alcuni frati (Fig. 2). Probabilmente databile al Cinquecento è pure l’arco – bugnato e carico di decorazioni fitomorfe – da cui si accede al piccolo vestibolo scoperto che fa da antiporta al Palazzo Campolongo (poi Pitrelli), in antichità destinato pure ad albergo dei poveri e a carcere, e di cui resta l’annessa cappella privata sotto il titolo 188


Fig. 2 Lapide cinquecentesca, già presso la chiesa di S. Rocco (Canna)

Fig. 3 Portale di Palazzo Melazzi (Canna)

di S. Giuseppe. In verità questo palazzo custodisce pure uno stemma (non un Campolongo) di cui tratteremo più avanti. Altro Palazzo Campolongo è poi quello datato 1872, con trabeazione a fregi floreali. Pienamente ottocentesco è ciò che resta del portale del Palazzo Ricciardulli,15 inizialmente adibito a convento della Congregazione dei Minori Osservanti e solo in un secondo momento a residenza gentilizia munita di propria cappelletta (con annessa cripta per le sepolture). Sull’ingresso campeggiava uno stemma raffigurante una testa di leone coronata16 e tuttavia il portale, arricchito da decori vari (cornucopie, volute e teste poste di profilo), è stato deturpato in duplice maniera durante gli anni Trenta del Novecento: murato, per ricavarne un angusto accesso; e poi divelto in parte nell’arco, per aprirvi un evitabile finestrone. Per quanto ci troviamo davanti a un esemplare mutilo, è l’occasione di poter coniare addirittura un termine, perché possiamo cominciare a parlare di quel ‘modulo cannese’ che tra poco vedremo ripetuto – in maniera assolutamente identica – altre due volte a Canna e altre nove volte in paesi lucani e calabresi (né è detto che il censimento sia completo). Di fronte al Ricciardulli fa ottima mostra di sé il portale di un palazzo anonimo ma generalmente attribuito alla famiglia Melazzi (e ora anch’esso di proprietà Pitrelli) (Fig. 3). L’attribuzione può essere accettata, trattandosi del portale più sontuoso e della famiglia locale più importante (almeno durante il periodo in cui questo è stato costruito). Aggiungo un sospetto, sulla base del fatto che – palesemente – il portale era fornito di proprio stemma (di cui resta ancora il gancio) e che quest’ultimo doveva essere di considerevoli dimensioni: ebbene l’ultimo Melazzi di Canna muore nel 1859 lasciando una sola figlia. La cospicua eredità fu in parte venduta, in parte da costei donata alla sorella di suo marito (nonché propria cugina), quella Maria Antonia di casa Andreassi, ricca famiglia di Oriolo e di Montegiordano poi stabilitasi ad Amendolara.17 Questa cugina sposò un Blefari di Crosia, e l’ultimo dei loro tre maschi ebbe il diritto di aggiungere al proprio cognome quello dei Melazzi, come succedeva sovente in seguito a fedecommessi che univano la disponibilità di un’eredità alla garanzia di sopravvivenza del cognome. E allora va aperta un’ampia parentesi e ci tocca spostarci temporaneamente ad Amendolara. In questo paese, i palazzi conosciuti come Andreassi e Blefari Melazzi si trovano l’uno a gomito con l’altro nella piazzetta di S. Antonio. Il primo è munito al suo interno di ben tre stemmi (a stucco e di pessima, omogenea fattura) posti in cima allo scalone interno: un Coppola18 in posizione centrale, un Melazzi19 sulla rampa di destra e – credo – un partito Sanseverino-Andreassi su 189


Fig. 4 Stemma Melazzi (Amendolara)

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quella di sinistra.20 Il secondo, per contro, sfoggia un bell’esemplare dello stemma Melazzi21 (Fig. 4). Ma lo sfoggia in maniera forzata, posticcia, incastonandolo su un brutto supporto lapideo e in posizione del tutto inconsueta e inadatta al pregio dell’opera: non in cima al portale (peraltro abbastanza modesto, come tutto il fabbricato) ma di fianco. Il tutto suona piuttosto disarmonico e, inoltre, un discendente del casato ha pure confidato come quello stemma fosse inizialmente ‘custodito’ nel palazzo di fianco: i tasselli condurrebbero al sospetto iniziale e cioè che lo stemma Melazzi del Palazzo Blefari Melazzi in Amendolara sia quello asportato dal Palazzo Melazzi di Canna (e, appunto, temporaneamente custodito nell’Andreassi, esattamente in linea con i suddetti passaggi ereditari). Peraltro, i cartocci dello stemma amendolarese richiamano perfettamente le volute del portale cannese.22 Chiusa questa parentesi, torniamo a Canna per dedicarci ai suoi stemmi superstiti. Non pone gravi problemi lo stemma del cosiddetto Palazzo Favoino. E scrivo ‘cosiddetto’ perché questo cognome non è il più legittimato tra i tre di cui ora dico. Il fabbricato è uno dei più gradevoli, a dispetto dello stato di conservazione: il portale è sormontato da una modesta ma scenografica arcata a tre luci, aperta direttamente sul cortile interno, mentre i locali abitativi si sviluppano sulla destra (e sulla sinistra campeggia un grosso e particolare comignolo). Inglobata tra i suddetti corpi abitativi vi è anche la cappella, sul cui ingresso occhieggia la campana che reca fusi su di sé almeno un cognome e una data: Favoino 1787. Ma si tratta soltanto della data più recente tra le tre che troviamo: poco più in basso è posta una lapide sulla quale si legge che nel 1779 d. Nicola Pizzi curò che quest’edicola senza rifugio, dedicata a S. Antonio, fosse trasferita qui dalla chiesa, in virtù di diploma regio.23 Si potrebbe pensare, anche abbastanza legittimamente, che i facoltosi Pizzi altoionici fossero legati a quelli di Morano Calabro (il cui stemma è simile a quello che campeggia su questo portale)24 ma si sbaglierebbe perché lo stemma in questione è pacificamente un Crivelli (Fig. 5), sebbene costringa a indulgere in merito a una piccola imperfezione. Si tratterebbe infatti di un “troncato: nel primo (d’oro) all’aquila (di nero); nel secondo inquartato (di rosso e d’argento) al crivello (d’oro) sul tutto”. E l’imperfezione sta nel fatto che, se pur serenamente individuabile, in questo esemplare il crivello è lasciato sospeso su un unico campo vuoto e non sul più confacente inquartato.25 La data incisa sotto la chiave di volta è quella del 1777, dunque la più remota. Ecco forse spiegato anche perché questo Palazzo dei duchi Crivelli (anziché mero Palazzo Favoino) poté vantare del diploma regio, di cui sopra, ai fini della sistemazione della cappella. Col Palazzo cosiddetto Rago si torna al ‘modulo cannese’ e finalmente se ne possono scorgere le fattezze integrali in questo portale del 1846 (Fig. 6): alla teoria di cornucopie, volute e profili di teste, si aggiungono qui due festoni fitomorfi uscenti dai fianchi dello stemma nonché, fuori dalla cornice del portale, due piccoli


Fig. 5 Stemma Crivelli (Canna)

Fig. 6 Un esempio di ‘modulo cannese’: il portale di Palazzo Mesce o Morano (Canna)

mascheroni incastonati nella parete esterna del palazzo. Quanto allo stemma, è uno di quelli di incerta attribuzione e può essere blasonato così: “alla pianta fogliata e fiorita di tre pezzi, uscente da un vaso sostenuto da tre monti moventi dalla punta, e sostenente sul fiore centrale un gallo accompagnato dalle capitali G ed M”. Dunque cos’è questo acronimo? Un nome e un cognome? Viceversa? Un doppio cognome o le iniziali di un motto? Non è dato sapere, e bisogna procedere per ipotesi: ho pensato di indagare tra le rivele del Catasto Onciario di Canna,26 che ci restituiscono un quadro fedele della distribuzione dei cognomi presenti in paese a metà del Settecento. Quelli con la G appartengono tutti a nuclei familiari non particolarmente benestanti (compresa quella famiglia Gallo che trarrebbe in errore per la presenza dell’animale nello stemma: un elemento del genere non deve per forza far pensare a una cosiddetta arma parlante). Quelli con la M restituiscono qualche spiraglio in più: escludendo la famiglia Melazzi, di cui già conosciamo lo stemma, restano quattro famiglie di modesta condizione e poi altre due più idonee, ovvero la Mesce – il cui capofamiglia è indicato come giudice a’contratti – e la già citata Morano (e nulla vieta che questo sia un secondo e più recente Palazzo Morano). Ancora strettamente fedele al ‘modulo cannese’ è il palazzo – sul largo di S. Antonio – appartenuto nel tempo almeno ai Tarsia, ai Troncelliti e ai Bruni: si tratta infatti di una copia conforme del portale precedente (e dunque pure del mutilo portale di Palazzo Ricciardulli). Si ripetono qui anche i mascheroni laterali esterni alla cornice mentre l’unica differenza è individuabile nei festoni, 191


Fig. 7 Stemma Barletta (Canna)

Fig. 8 Stemma Barletta (Senise) 192

ora più spioventi e più brevi. Anche in questo caso ci troviamo però davanti a un’attribuzione ardua: lo stemma (Fig. 7) non è quello, notorio, dei primi proprietari né quello degli attuali, poiché hanno acquistato in epoca infinitamente più recente rispetto a quel 1845 inciso sotto la chiave di volta; e dunque si opterebbe troppo comodamente per i Troncelliti intermedi mentre un po’ di memoria fotografica ha suggerito che rimettessi mano a un modesto archivio personale di stemmi calabro-lucani: ebbene ritrovo lo stesso stemma (eseguito certamente finanche dallo stesso scalpellino) sul portale di Palazzo Marcone, a Senise (Fig. 8). A dire il vero qualche piccola differenza c’è – ma davvero minima – nei dettagli secondari: quello cannese è “al serpente avvinghiato (in senso antiorario) al fusto dell’albero nodrito su tre monti moventi dalla punta e sostenente un uccello mirante la stella (5) posta nel cantone destro del capo. Il tutto accompagnato a destra da un sinistrocherio uscente dal fianco dello scudo e tenente una bilancia, e da (una vela?); a sinistra da un destrocherio similmente uscente dal fianco dello scudo e reggente una spada, e da un cannone”. Lo stemma senisese ha invece una stella in più, una pera e un uccello al posto del secondo braccio e del cannone, e il serpente è avvinghiato in senso orario. Dettagli, appunto,27 fatto sta che non vi è traccia di alcun passaggio dei Marcone di Senise a Canna ma, al limite, di un loro ripetuto legame con i Mazzario di Roseto Capo Spulico e con i Rondinelli di Rotondella.28 Ciò è qualcosa ma non è abbastanza per attribuire la titolarità del palazzo ai Marcone e, anzi, fa mettere in dubbio anche la titolarità in capo a questi del palazzo senisese: e se il Palazzo Marcone in Senise fosse appartenuto anche ad altri? Certo è che il cognome dei proprietari intermedi del palazzo cannese, Troncelliti, è presente anche nel circondario di Senise sotto varianti appena diverse ma parrebbe che nessuno di questi rami abbia mai goduto di posizioni sociali che permettessero la titolarità di un palazzo gentilizio. Dobbiamo invece ipotizzare l’attribuzione dell’uno e dell’altro stemma a una famiglia che in quei secoli fiorisse nobilmente in due rami, uno a Canna e uno a Senise. E l’avremmo anche sotto gli occhi, una casata di giuristi, quella “famiglia Persiani di Senise, gentilizia originaria della Terra di Canna”,29 che nel Catasto Onciario di Canna risulta presente con un solo capofamiglia, il magnifico Agostino, dimorante – non a caso – in una “casa di quattro membri” nel rione Piazza.30 Dalla sua rivela apprendiamo che il giovane nobile, già vedovo di una nocarese, ha una sorella maritata con un Barletta: altro cognome presente nobilmente sia a Canna che a Senise.31 Sarebbe papabile anche questo e, a pari probabilità, verrebbe da optare per la denominazione di Palazzo Persiani (non fosse altro per l’evidente riconducibilità dell’ubicazione del portale con la dimora di Agostino) ma non possiamo: lo stemma Persiani è raffigurato – nonché espressamente indicato come tale – su uno degli altari laterali della chiesa matrice di Nocara, ed è del tutto diverso. Non ci resta dunque che optare in via residuale per l’attribuzione alla famiglia Barletta. Ma c’è dell’altro: la pulce dell’analogia tra i due stemmi di Canna e Senise ne ha


Fig. 9 Stemma Persiani (Nocara)

Fig. 10 Stemma de Pirro (Nocara)

richiamato pure una ulteriore. Palazzo Marcone di Senise non ha soltanto lo stemma identico, ma pure il portale: ecco dunque che il ‘modulo cannese’ ha valicato i confini calabri.32 Sarà sufficiente cercarne degli altri e se ne troveranno presto: parlo del portale del Palazzo Donnaperna nella stessa Senise, del Palazzo Rinaldi a Noepoli (1845),33 del Palazzo Guida nella più lontana Tursi,34 del Palazzo Carlomagno a San Giorgio Lucano (1826) – se non pure, sempre lì, del più complesso portale di Palazzo Silvestri – nonché, in Calabria, del Palazzo de Pirro a Nocara (1825) e del Palazzo Giannettasio a Oriolo Calabro. Una prima traccia, dunque, della mobilità delle maestranze. Sfiorati gli stemmi nocaresi dei Persiani e dei de Pirro, è opportuno aggiungere qualcosa in merito al patrimonio araldico di quest’altro paese. Anche Nocara vanta una rispettabile quantità di stemmi, specie in proporzione alle dimensioni dell’abitato: extra moenia, presso il convento degli Antropici, troviamo sul portale – datato 1538 – un partito Loffredo-Spinelli e un anonimo stemma “all’albero accompagnato ai fianchi dalle capitali N e A” (probabilmente emblema embrionale della comunità nocarese sia per la prima iniziale che per l’albero di noce che ne costituisce tuttora l’effige). Tre sono invece gli stemmi degli altrettanti palazzi gentilizi posti nel borgo: il Persiani (Fig. 9) e il de Pirro (Fig. 10) – che ho citato poco prima – e un altro per cui azzardo la definizione di ‘pseudoPersiani’ (ubicato sul portale del cosiddetto Palazzo Miceli, ma che certamente non è stemma di tale famiglia) (Fig. 11). Nella chiesa madre troviamo altri due

Fig. 11 Stemma pseudo-Persiani (Nocara) 193


Fig. 12 Stemma Minieri (Montegiordano)

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esemplari dello stemma de Pirro (di cui uno munito di didascalia onomastica), un altro dello stemma Persiani (anch’esso con tanto di cognome segnalato) e un altro pseudo-Persiani. E lo chiamo così perché se il Persiani è già di per sé, curiosamente, un partito,35 questo pseudo-Persiani gli è molto simile ma non abbastanza per accertarne l’identità. Sparisce infatti uno dei due leoni affrontati all’albero del primo campo, il volatile è ritratto in picchiata e, soprattutto, appare un terzo campo (una casa aperta, finestrata, accostata da alcune rocce, su una campagna) ricavato tramite un’interzatura abbastanza forzata che, se costituisce uno strappo alle regole araldiche, costringe pure a una contorsione descrittiva: “interzato in pergola centrata rovesciata” mi sembra la definizione migliore, prendendo a prestito il primo aggettivo dalla definizione d’uso per la fascia curvata e non potendo ricorrersi a quello “scaglione piegato” che – a ben vedere – in questi due esempi sembra tanto richiamare un arcobaleno.36 Ancora in questa matrice sono presenti altri due stemmi “d’oro alla banda d’azzurro caricata di tre fiori d’argento accompagnata in capo dal lambello di rosso”, che attribuirei proprio ai Petrone benché debbano essere privi del lambello e muniti di tre stelle nel palo anziché dei tre fiori nella banda.37 Di una variante più stilizzata del modulo cannese può parlarsi invece nel caso dell’unico portale degno di nota nel centro storico di Montegiordano, ovvero quello del Palazzo Pignone del Carretto, poi appartenuto ai baroni de Martino e ora di proprietà Solano. Tuttavia questo portale, datato 1860, è più recente rispetto alla costruzione del palazzo, e forse pure all’aggiunta dello stemma (Fig. 12): ho nutrito da subito qualche dubbio sulla sua attribuzione ai de Martino.38 È vero, lo stemma reca in bella vista una M sormontata da tre stelle (e, per il resto, si tratta di una confusa accozzaglia di elementi minori nemmeno chiaramente interpretabili, eccezion fatta per una freccia uscente dal fianco destro dello scudo) tuttavia il rigore dell’araldica non permette conclusioni affrettate. Inoltre notoriamente le nobili famiglie de Martino hanno sempre alzato delle armi ben differenti da questa39 e allora c’è da lavorare attorno ad altri cognomi, magari tenendo a mente la lezione amendolarese, laddove abbiamo visto le pareti di Palazzo Andreassi lasciare il posto d’onore allo stemma muliebre. E questa è la chiave che apre: il primo de Martino a ottenere, nel 1748, il titolo di barone di Montegiordano è Giuseppe, fratello di un Francesco che – nello stesso periodo – sposa tale Nicoletta dei baroni Minieri (famiglia abruzzese di stanza a Napoli). Non si tratta soltanto di un cognome con la M iniziale: lo stemma dei Minieri è “di rosso a tre punte d’argento moventi dalla campagna d’oro e accompagnate in capo da tre stelle (6) dello stesso poste in fascia.”40 E cosa sono tre punte se non il profilo di una ridondante M stilizzata? O, al contrario, da cos’è costituita la nostra M montegiordanese se non da due punte? La presenza, poi, delle tre stelle nella stessa posizione, nell’uno e nell’altro stemma, toglie qualsiasi dubbio. Perché poi il palazzo di Montegiordano non alzasse lo stemma del barone ma quello di sua cognata è altra questione, probabilmente dovuta al semplice fatto che, a quell’epoca, il barone abitava senza dubbio a Cosenza (e forse avrà lasciato a suo fratello l’amministrazione degli affari montegiordanesi).41 Conclu-


Fig. 13 Stemma Toscani (Canna)

Fig. 14 Stemma Tarsia-Sanseverino (Canna)

so questo giro di ricognizione sul modulo cannese, torniamo agli ultimi due palazzi di Canna. Ben più pacifico è lo stemma di Palazzo Toscani (Fig. 13), ma non senza qualche sorpresa. Lo stemma Toscani, infatti è soltanto quello visibile nel mezzo del manufatto in oggetto: “all’aquila voltata e coronata, accompagnata in punta da tre crescenti posti in banda” (e di cui sappiamo esistere un esemplare più modesto,42 tra i ruderi della cappella funeraria dell’omonima famiglia, nel vecchio cimitero abbandonato di Oriolo Calabro, nonché altri due nella stessa chiesa madre di Canna). Tutt’intorno ad esso troviamo altri quattro blasoni di cui invece dobbiamo discorrere. Nessun problema per i due stemmi inferiori: si tratta chiaramente della fascia dei Sanseverino e dello scaccato dei Tarsia. E ciò si spiega per la stretta ascendenza di questo ramo toscaniano da dette famiglie: Pietrantonio, capofamiglia al tempo delle rivele per il Catasto Onciario, aveva sposato la figlia di Lucio Tarsia e di Angela Sanseverino. Non bastasse ciò, viene in soccorso anche la notizia del ritrovamento – all’interno del palazzo – di un più antico stemma, un secco ‘partito’ Tarsia-Sanseverino, con tanto di nome degli sposi posto in calce, risalente probabilmente al matrimonio e perciò al primo quarto del Settecento (Fig. 14).43 Il problema si pone invece in modo serio per i due stemmi superiori, che ad oggi risultano ostinatamente refrattari a qualsivoglia attribuzione: il primo è “al calice accompagnato in capo da tre bisanti posti in fascia e in punta da tre stelle (8) pure poste in fascia”; il secondo è “al leone rampante al fusto di un albero accompagnato in capo da tre stelle (8) poste in fascia e sinistrato da un compasso”. E ci si deve arrendere pur mettendo mano agli alberi genealogici: né il calice né il leone rampante all’albero né il compasso riescono a dipanare l’ascrizione di questi due stemmi ad alcuna delle famiglie avite44 (il secondo di questi ultimi è quello cui ho accennato rapidamente parlando del primo palazzo Campolongo poiché, all’interno di un vano posto al piano nobile di questo palazzo, si rinviene un grande e rovinato stemma parietale di identiche fattezze e che tuttavia, ripeto, non mi pare ascrivibile ai Campolongo). Tratto per ultimo quello individuato generalmente come Palazzo Pitrelli, perché fa da ponte per un discorso conclusivo. Questo gradevole edificio, che ingloba al pianterreno una cappelletta gentilizia,45 è arricchito da un imponente portale neoclassico affiancato da due colonne corinzie poggianti su due alti piedistalli. Anche in questo caso la denominazione corrente è però errata, riferendosi ai meri ultimi proprietari. La committenza del palazzo è facilmente individuabile avendo cura d’osservare il principale dei ben quattro stemmi che esso ci mostra. Ma cominciamo dai minori: il meno importante, cui accenniamo appena poiché realizzato in stucchi bicromi, è posto su una volta interna al palazzo ed è “al monte di cinque cime sostenente un uccello accompagnato in capo da tre stelle male ordinate e, a destra, da un crescente rivolto”. Una forte identità possiamo individuarla in uno dei due campi dello stemma Persiani46 e, di conseguenza, pure nello stemma dei Rondinelli di Rotondella47 benché in quest’ultimo 195


Fig. 15 Stemmi Crivelli (bis) e di parentado (Canna)

mancherebbe il crescente, l’uccello sarebbe rivolto e i monti sarebbero posti su una terrazza ondata (ma, ripetiamo, sulle imprecisioni delle raffigurazioni araldiche potrebbero scriversi degli annali). Problematica è anche l’attribuzione degli altri due stemmi, posti ai lati del principale (Fig. 15): il primo è “al fascio di grano posto in palo”, il secondo “al leone rampante con la fascia diminuita sul tutto”.48 Stemmi dunque di una semplicità disarmante: se il secondo, così com’è, senza smalti, è potenzialmente attribuibile a un’eccessiva pluralità di casati, il primo non porrebbe problemi per il fatto di essere inconsueto eppure è taciuto dai blasonari. Deve dunque trattarsi anche in questo caso, come nel Toscani, di altre meno note famiglie imparentate con il committente. E veniamo a lui: nel registro superiore del portale, in posizione centrale, appare infatti un ulteriore esemplare di stemma Crivelli, anche questo – come nel precedente Palazzo Crivelli (poi Favoino) – viziato da un difetto araldico (forse sopravvenuto): in questo caso il secondo campo del troncato è, sì, un perfetto inquartato ma manca proprio il crivello (strano dover pensare che si trattasse di un elemento aggiunto in vario modo al supporto principale, e staccatosi per via di agenti esterni).49 Dicevo che quest’ultimo palazzo di Canna offre l’occasione di affrontare un argomento conclusivo: se è vero che la prima datazione reperibile sul palazzo è 196


Fig. 16 Stemma Reca-Mazzario (Roseto Capo Spulico)

quella posta su una finestra posteriore (p.a.p.f.f.a.d. 1834)50 è anche vero che il portale reca in maniera evidente, sull’architrave, la sottoscrizione del capomastro (Pascalis Calienno fecit) e, sotto la chiave di volta, una datazione appena successiva (A. D. 1848). Ma questo nome l’abbiamo letto anche altrove: “m. Rafae. e / Pasca. Calie. / nm / a. D. 1821” è quanto troviamo scritto sotto la chiave di volta di Palazzo Mazzario, a Roseto Capo Spulico (e il monogramma NM sta per le iniziali del committente Nicola Mazzario).51 Attardiamoci un po’ sullo stemma52 di quest’altro palazzo, e torneremo a breve sulle maestranze. A voler essere pignoli, questo stemma non è un Mazzario ma un troncato Reca-Mazzario (Fig. 16), e non c’è da stupirsi: le due famiglie – come vedremo rapidamente – si sono intrecciate per secoli. Non è per nulla raro riscontrare l’uso più remoto del doppio cognome Reca-Mazzario (talvolta documentato pure nella forma grafica Recamazzario).53 Certo è che la famiglia Reca54 non si risparmiava complessità onomastiche: a tal proposito è interessante notare come, nell’Oriolo seicentesca, lo speziale Marcantonio Reca o Greca si arricchisse di un secondo cognome, comunemente a quanto accadde ad uno dei suoi fratelli (il sacerdote Carlo) e diversamente dagli altri (in particolare dal fratello Rotilio): i primi due, infatti, aggiunsero al proprio il cognome Bavila, per fedecommesso del dottor fisico Giulio Bavila. Il terzo aggiunse al proprio il cognome Di Paula, per fedecommesso di Francesco Di Paula dei nobili d’Amendolara (entrambi Giulio e Francesco erano, in maniera differente, zii della madre di questi tre fratelli Reca).55 Il procedimento in questione deve ritenersi verosimilmente uguale per tutti e tre i cognomi composti: Reca Mazzario, Reca Di Paula, e Reca Bavila (o Reca di Bavila). Le stesse rivele del Catasto Onciario di Roseto parlano chiaro: sebbene, dalla metà del Settecento in poi, i Mazzario locali abbiano preferito essere identificati con il solo secondo cognome, gli stessi dichiaravano ufficialmente d’esser figli di Giuseppe Reca Mazzario di Noepoli.56 Dunque la blasonatura corretta dello stemma posto sul portale di Palazzo Mazzario è la seguente: “troncato: nel primo (d’argento) all’aquila bicipite (di nero) spiegata e coronata di cinque punte, uscente dalla partizione; nel secondo d’azzurro57 al monte di tre cime sostenente due scettri in decusse e accompagnati in capo da una stella (6). Alla fascia sulla partizione, (il tutto d’oro)”.58 Qualcuno potrebbe pensare che lo scettro tradisca una parentela con la figura araldica della mazza, e che pertanto lo stemma dei Mazzario possa essere anche una cosiddetta arma parlante. Si possono muovere numerose obiezioni: anzitutto la mazza, in araldica, è di solito ferrata; in secondo luogo è da sottolineare come sia incerta l’etimologia balcanica del cognome, per cui al limite si tratterebbe solo involontariamente di un’arma parlante ‘putativa’. Ma l’obiezione principale è altra: l’unica fonte che attesti lo stemma dei soli Mazzario lo segnala appunto come “un’aquila bicipite uscente”59 (cara, peraltro, a tutta l’iconografia d’ascendenza albanese) mentre si può confermare in diversi modi che la parte inferiore dello stemma rosetano è quello della sola famiglia Reca. È il caso di permettersi uno sconfinamento nella diplomatistica pura, poiché ho sempre ritenuto sottovalutate le commistioni tra l’araldica e l’iconografia notarile: Guglielmo Greca, notaio di Oriolo rogante in Roseto, nel 1487 usava come tabellionato personale non una consueta crux variamente decorata ma qualcosa di assai simile alle chiavi incrociate, attributo sì dei notai apostolici e tuttavia unite in cima da una sorta di piccolo occhiello (che rimanderebbe alla stella a sei punte posta tra i due scettri)60 e, alla base, dalle ‘mappe con scontri’ proprie 197


delle chiavi, che probabilmente sono state nel tempo deformate nei profili dei tre monti. Detta così sembrerebbe una forzatura logica ma ancora più chiarificatrice è la pergamena di laurea di tale Geronimo Greca di Noepoli, risalente al 6 gennaio 1536 e non a caso custodita ancora oggi tra i documenti dell’ultimo discendente dei Mazzario: essa riporta sui margini due riproduzioni dello stemma Reca, ovvero “d’azzurro alla fascia sostenente tre monti su cui poggiano due scettri in decusse accompagnati in capo da una stella (6), il tutto d’oro”.61 Ecco ulteriormente spiegate le interessanti notizie già parzialmente fornite dalla Storia di Taranto di De Vincentiis, secondo il quale lo stemma della famiglia Reca di Noepoli era uno scudo a fondo azzurro con fascia d’oro orizzontale verso la base, e su di essa 3 monti d’oro il cui medio sovrastava i laterali, su’ quali s’incrociavano obliquamente due scettri d’oro con sei raggi. Il predetto imperatore [Carlo V]62 avendo riconosciuto lo stemma da 4 generazioni, con apposito diploma l’accrebbe di questi altri segni: in cima allo scudo un fondo bianco e nel mezzo un’aquila bicipite, sormontato da un cimiero con 3 piume una delle quali di oro, un’altra azzurra, e l’altra rossa.63 Chiusa anche questa parentesi, torniamo al portale64 e alle maestranze: possiamo attribuire agli stessi Calienno pure il modulo cannese? Oserei una risposta affermativa. Confrontiamo un leone di modulo cannese e uno dei Calienno, ovvero il leone nello stemma di Palazzo de Pirro, a Nocara, e quello sul portale del Palazzo Crivelli bis (poi Pitrelli): la mano è assolutamente la stessa. È quella mano che taglia la criniera in modo netto, dal garrese al petto, che scava oltremodo l’occhio, che allunga a dismisura la lingua e si fa goffa nell’eseguire gli arti posteriori. Vi si può aggiungere pure – al di là del modulo e dei portali dei Calienno – il leone dello stemma Melazzi di Amendolara (che ci porterebbe perciò indirettamente ad attribuire ai Calienno pure l’omonimo portale di Canna) nonché il leone del secondo stemma nell’inquartato cui è accollato il Toscani. Dunque cosa sappiamo di questi Calienno, richiestissimi e abili scalpellini (ma un po’ meno abili disegnatori di leoni)? Abbiamo visto Raffaele e Pasquale firmare assieme, nel 1821, il Palazzo Mazzario. E abbiamo visto solo il secondo firmare, nel 1848, il Palazzo Crivelli bis. Fratelli, dunque, più che padre e figlio: da quanto si può ricavare dagli atti dello Stato Civile di Amendolara, Pasquale è meno rintracciabile mentre il nucleo familiare di Raffaele ci pare già abbastanza completo. Egli, scalpellino e marmoraro, nasce a Napoli – da Salvatore – intorno al 1798 e muore ad Amendolara65 nel 186966 (e tra i suoi otto figli non compare alcun Pasquale).67 Ma sono stati loro a portare nell’Alto Ionio i segreti dell’arte? Suppongo di no, e per due motivi: scorrendo gli atti ottocenteschi dello Stato Civile della città di Napoli si nota che i non pochi Calienno sono per la maggior parte servitori, camerieri, domestici, portieri. A parte un cappellaro, uno scarparo e due falegnami, troviamo solo due artigiani indicati con la più sottile definizione di ebanisti: Serafino e Vincenzo.68 Non pare quindi essere famiglia di scalpellini: l’arte sarà stata appresa altrove e forse proprio in Calabria: Raffaele sposa infatti una giovane amendolarese69 nata in una vera e propria stirpe di scalpellini, strettamente legati da generazioni a questo mestiere, ovvero quei Fragale – l’omonimia con chi scrive è del tutto casuale70 – che per almeno un paio di secoli avevano già peregrinato lungo la Calabria Citeriore. E le opere dei Calienno (quando databili) sono tutte successive a questo matrimonio (Fig. 17). La giovane è infatti figlia di Francesco fabbricatore, fratello di Domenico fabbricatore, maestro muratore e falegname nato a Castrovillari.71 Nonno di questi due è poi il mastro muratore Giu198


seppe.72 Ma nel Catasto Onciario di Castrovillari è registrato un singolo ‘fuoco’ fragaliano73 e ciò è notoriamente spia del fatto che il cognome debba provenire da altri luoghi (a patto di non voler considerare l’improbabile ipotesi di ripetute generazioni di figli unici). Ritengo verosimile che anche il nucleo castrovillarese abbia potuto avere radici comuni ai ceppi di Altomonte, Malvito e San Marco Argentano/San Sosti, ovvero radici cetraresi. Del resto una certa promiscuità tra questi diversi nuclei può essere avallata non tanto per il ricorrere dei medesimi nomi di battesimo ma soprattutto per l’identità dei mestieri svolti: non voglio dilungarmi ma tutti appartengono saldamente al ceto artigiano e, in particolare, si tratta in prevalenza di fabbricatori, costruttori, capimastri e, solo in misura minore, di fabbri, carpentieri e falegnami. A Cetraro, dunque, nell’arco del solo Settecento si registrano con questo cognome un paio di sarti e un solo pescatore contro ben quattordici capimastri: e i loro nomi si rinvengono assai spesso, da quell’epoca in poi, in qualsivoglia atto notarile cetrarese che abbia a che vedere con Fig. 17 Tabella riassuntiva dei manufatti, qui collegati per ubicazione o artefici e compravendite di immobili, poiché questi mastri fabbricatori muovendo dagli stemmi datati ai non datati, ai non attribuibili e infine al corredo venivano pure incaricati di compiere le stime sugli edifici. architettonico di impianto riconducibile ai precedenti Non è tutto: a due fratelli Fragale furono affidati, nel 1761, i lavori di ristrutturazione della Torre di Rienzo.74 I due erano figli di Domenico, capomastro come i suoi fratelli Leonardo e Giuseppe.75 E ci avviciniamo a un punto chiave per la storia delle maestranze artigiane: per conoscere il nome del genitore di questi tre fratelli deve ricorrersi a tutt’altro archivio. Lo ritroviamo, fortunosamente, citato in quello della Curia Arcivescovile di San Marco Argentano.76 Già il fatto che Domenico avesse avuto padrini di battesimo provenienti da Pedace,77 avrebbe dovuto mettere in guardia: il padre è infatti Salvatore Fragale Terrae Rogliani il quale, nel 1686, sposa Agata del Trono, dell’omonima nobile famiglia cetrarese.78 Cosa avesse spinto il roglianese fino a Cetraro è soltanto ipotizzabile: con tutta probabilità si trattava anche in questo caso di un capomastro, al pari di tutta la sua progenie maschile. E non deve apparire d’ostacolo la lontananza fra i due paesi: la chiesa cetrarese di San Benedetto fu oggetto – ancora nella seconda metà del Settecento – di ristrutturazioni proprio da parte di maestranze roglianesi.79 Del resto, anche il maggiore dei predetti tre fratelli, Leonardo, a metà del Settecento avrebbe dato in sposa sua figlia Brigida a tale Cesare Nicoletta di Rogliano.80 Il ceppo roglianese di questa famiglia di scalpellini muore intorno alla metà del Settecento, come attestato dal relativo Catasto Onciario81 ma risulta essere abbastanza antico, evidenziando presenze sin dalla metà del Quattrocento. Anche qui conviene glissare sulla vasta ramificazione più remota e mi limito a segnalare soltanto un paio di ulteriori punti di contatto con l’ambito artigiano: più che a quel fabbro Salvo (o Salvatore) Fraghale,82 mi riferisco a quell’Angelo Antonio Fragale83 il quale nel 1606 riceve, in qualità di mastro fabricatore prattico nell’arte, l’incarico di dividere con la collaborazione di Filippo Arabia una casa di Alfonso e Cola Altomare, sita in Rogliano. Benché non mi sia noto, è del tutto verosimile che anche altri suoi predecessori abbiano svolto la medesima attività: 199


Rogliano è stata notoria culla di maestranze, in ambito scultoreo e architettonico, la cui accortezza ha lasciato testimonianze celebri. Credo, e mi ripeto, che questa sorta di fortunato monopolio artistico debba essere indagato più a fondo, senza tralasciare l’aspetto strettamente genealogico che molto può rivelare di inatteso, e senza temere di spingere lo sguardo verso l’architettura gentilizia di luoghi periferici, solo apparentemente insospettabili.

Note 1  Vedi pure un mio breve intervento (raccolto, in questo stesso volume, nel contributo di Antonella Salatino) in merito ai cinquecenteschi stemmi Lewis di Cassano e Mormanno. 2  Vi si stava accingendo il compianto dott. Salvatore Lizzano e dispiace che il suo prematuro decesso non gli abbia consentito di ripetere i pregevoli risultati già ottenuti nell’altra sua opera, S. Lizzano, Roseto nella storia, Matera 1988. 3  A parte questi quattro stemmi (posti rispettivamente su due pareti esterne del castello, sul portale del palazzo omonimo e su una lapide nella chiesa madre) altri due sono posti extra moenia: un ulteriore Pignone (sulla facciata della chiesetta di S. Maria delle Virtù) e un Toscani di cui diremo più avanti. 4  Dei primi tre, quello sull’omonimo palazzo è assai recente, altri due sono a stucchi nella chiesa madre; l’episodio albidonese è invece in ferro battuto, a decoro di un balcone dell’altro palazzo omonimo. Che gli stemmi possano essere di buon auspicio non è dato verificare. Approfitto però di quest’occasione per segnalare una curiosità del genere: lo stemma Chidichimo è descrivibile “d’azzurro al cuore di rosso caricato della gemella di nero posta in banda e accompagnato da due rami d’olivo in decusse”. Tradotto in termini profani, un cuore fasciato: forse nessun Chidichimo aveva mai immaginato che un esponente della loro casata avrebbe brillato, nel Novecento, nel campo della cardiologia internazionale. 5  Laddove si segnalano comunque i palazzi Moliterni e de Pirro (poi Giacobini). 6  Sono almeno sei i palazzi cannesi che hanno o hanno avuto cappelle annesse: Toscani, Ricciardulli, Campolongo, Barletta (poi Bruni), Crivelli (poi Favoino) e Crivelli bis (poi Pitrelli). 7  G. Fiore, Della Calabria illustrata, Napoli 1691 ma rist. an. Sala Bolognese 1974, I, p. 248 e B. Candida Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili delle province Meridionali dell’Italia, Napoli 1875, I, pp. 57 e ss. 8  J.M. Panarace, Nocara e il suo territorio, Cosenza 1997, p. 59. 9  M. Pellicano Castagna, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calabria, vol. I, Chiaravalle Centrale 1984, p. 367. 10   V. Manfredi, Rocca Imperiale nella diocesi di Anglona e Tursi, Canna 1996. Sui Crivelli vedi A. Bozza, La Lucania. Studii storico-archeologici, Rionero in Vulture 1888-1889 ma rist. an. Sala Bolognese 1979, vol. II, p. 269 nonché G. Stigliano, Nova Siri nella storia e nella tradizione, st. Scanzano Jonico 1983, pp. 26 e ss. 11   Il portale reca la data del 1924 ma un portoncino laterale riporta la dicitura “G.P. 1887”. 12   Notizie del sequestro brigantesco ai danni di un Morano di Canna stanno in G. Rizzo-A. La Rocca, La banda di Antonio Franco. Il brigantaggio post-unitario nel Pollino calabro-lucano, Castrovillari 2002, p. 398. 13   Certo, ci si potrebbe chiedere come mai la scelta di quell’assai ambiguo verso di Catone, ma è una curiosità che lasciamo volentieri a entusiasmi più semplici. 14   Ciò che rende ostica la lettura è che tale lapide si presenta involontariamente come un bel compendio delle più svariate brachigrafie latine: dalle abbreviature per contrazione con lineetta sovrascritta – in ha[n]c e in fecer[un]t – a quelle per troncamento finale con lettere sovrapposte – in eccl[esi]am –, per arrivare a quelle con segni abbreviativi propri (il 9 di [con]fratres). 15   Casata di ecclesiastici di Rotondella. 16   Opinione diffusa ma non verificata è che lo stemma di questo palazzo sia tuttora conservato nei suoi locali di servizio, e ce lo auguriamo. Probabilmente possono ricondursi a questo edificio anche le due teste zoomorfe presenti nelle stesse pertinenze private che custodiscono l’ultima lapide di cui ho detto. 17   E di cui è certa una pregressa familiarità con i paesi di Canna e Nocara, per alcuni matrimoni che la legarono a casate di questi paesi (e mi riferisco di nuovo ai Di Leo, ai Morano e ai Favoino). Vedi pure C. Mundo, Il catasto onciario di Montegiordano (1742-43), Cosenza 2013, ad nomen. 18   Che in teoria è “d’azzurro alla coppa d’oro accompagnata da cinque gigli dello stesso, posti 1, 2, 2” ma che una pesante riverniciatura ha qui reso simile a una manciata di conchiglie. L’omaggio ai Coppola, peraltro in tale forma tanto ossequiosa (la posizione d’onore sullo scalone), è dovuto al fatto che nonna paterna della suddetta cugina ereditiera era stata Isabella dei nobili Coppola d’Altomonte. 19   “Ai due leoni controrampanti al fusto di un albero di melo fruttato e accompagnato ai lati da due stelle (8)”. 20   “Partito: nel primo (d’argento) alla fascia (di rosso). Nel secondo alla gru sulla campagna”. In verità, l’animale assomiglia più a un volatile di tipo comune che non alla notoria gru degli Andreassi ma, vista la resa generale di questi tre stemmi, non credo sia il caso di porsi eccessivi scrupoli. A supporto dell’ipotesi andreassiana va pure notato che il nostro stemma è accollato alla Croce di Malta e che la famiglia Andreassi era ascritta a quest’Ordine. Per contro, è vero che lo erano pure i Sanseverino ma parrebbe strano se il palazzo di Tizio fosse decorato dagli stemmi di Sempronio, Caio e Mevio meno che dal suo. Quanto all’omaggio ai Sanseverino è forse da far rimontare all’ascendenza sanseveriniana dei suddetti Di Leo. Sugli Andreassi vedi F. Bonazzi, I registri della nobiltà delle province napoletane con un discorso preliminare e poche note, Napoli 1879 ma rist. an. Cosenza 1997, p. 50. 21   I leoni sono visibilmente linguati, unghiati e dettagliatamente criniti, i frutti sono chiaramente delle mele (per l’arma parlante). 22   Analogo stemma Melazzi, ma in marmo, è quello che ritroviamo sull’altra sponda della Provincia di Cosenza, nell’altrettanto periferico paese di Tortora, e precisamente sul Palazzo Lomonaco Melazzi. Esso riprende esattamente la blasonatura degli amendolaresi, non fosse che per l’albero – reso qui più simile a un palmizio – e per la presenza di un elmo posto di profilo, tra due piume, a cimare lo scudo (i due segni sul bordo inferiore – una P e un monogramma per LM – pongono la committenza in capo a Pietro Lomonaco Melazzi, figlio di Emanuele Lomonaco Cosentino e Vincenza Melazzi, ultima superstite del ramo stabilitosi a Tortora già dal Cinquecento, sui quali vedi R. Liberti, Tortora, st. Bovalino 1999, diffusamente).

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D[eo] O[ptimo] M[aximo] / aediculam hanc D[ivo] Antonio deditam / sine asylo / ex eccl[esi]a regio diplomate transferri / huc curavit / d. Nicolaus Pizzi a[nno] D[omini] mdcclxxix. 24   “D’argento all’aquila spiegata di nero, posata su di un masso al naturale movente dalla punta”, vedi U. Ferrari, Armerista calabrese, Bassano del Grappa 1971, p. 71. 25   Vero è che il campo inferiore dello stemma Crivelli è di rosso pieno già per F. Castiglione Morelli, De patricia cosentina nobilitate monimentorum epitome, Venezia 1713 ma rist. an. Sala Bolognese 1977, p. 76. 26   Archivio di Stato di Napoli (da ora ASNA), Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Canna, 1743 (da ora C.O.Canna). 27   In cima alla pera è posto altro elemento non identificabile. 28   Nella seconda metà del Settecento, i fratelli Giuseppe, Clarice e Caterina Mazzario sposarono rispettivamente Vittoria Marcone, Nicola Marcone e Nicola Rondinelli: questi ultimi due sarebbero diventati a loro volta consuoceri per il matrimonio tra i loro figli Antonio Marcone e Felicia Rondinelli. 29   F. Scardaccione-C. Cudemo, Raccolta delle famiglie nobili e notabili di Basilicata tra il XVI ed il XIX secolo, st. Anzi 2005, ad nomen. 30   C.O.Canna, cc. 36r e ss. 31   Almeno per la corrente ed errata attribuzione del più antico Palazzo Mandarini, in Senise. 32   L’assenza di un piccolo spigolo nell’arco è l’unica differenza del portale senisese rispetto al modulo. 33   Addirittura munito degli stessi mascheroni esterni degli ultimi due palazzi cannesi esaminati, e dei festoni spioventi dell’ultimo di questi. 34   Per i Guida vedi Scardaccione-Cudemo, Raccolta…, cit., ad nomen e R. Bruno, Le famiglie di Tursi dal XVI al XIX secolo, Moliterno st. 1989, diffusamente. 35   Probabile segnale di una pregressa e importante alleanza matrimoniale: i due campi assomigliano molto l’uno allo stemma Melazzi, l’altro allo stemma Rondinelli benché in Panarace, Nocara, cit., non risulti alcuna traccia di tale ultima famiglia. 36   Neppure viene in aiuto scorrere i cognomi nocaresi presenti nelle rivele del relativo Catasto Onciario, vedi ASNA, Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Nocara, 1743. 37   Vedi di G.B. Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, ad nomen. 38   Contrariamente a quella, troppo disinvolta, operata da qualche pur volenterosa appassionata locale le cui conclusioni – ipoteticamente anche corrette – non poggiano però su fonti documentate né affidabili. 39   V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare italiana, Milano 1931, vol. IV, p. 438 e suppl. II, p. 277, nonché Ferrari, Armerista, cit., ad nomen. 40   Per lo stemma Minieri di Napoli, vedi V. Rolland, V. & H. V. Rolland’s Illustrations to the Armorial général by J.-B. Rietstap, vol. IV, London 1967, piatto CCXV. 41   Sul fatto che ancora nel 1756 il nostro barone di Montegiordano dimorasse con i numerosi figli a Cosenza, nello stesso Palazzo de Martino abitato già nel Cinquecento dai propri antenati provenienti da Pietrafitta, vedi ASNA, Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Cosenza, 1756, ad nomen e A. Ceccarelli, Cosenza sul finire del XVI secolo, Chiaravalle Centrale 1978, pp. 52 e 68, per le dettagliate fonti cinquecentesche. Fatto sta che a Pietrafitta pure campeggia, isolato su un anonimo fabbricato, un antico stemma “alla fascia merlata sostenente un monte di tre cime accompagnato da tre stelle ordinate in fascia” (vedi I. Pucci, Gli stemmi araldici nel contesto urbano di Cosenza e dei suoi casali, Cosenza 2011, p. 76) ma non sapremo se è davvero quello dei de Martino o una curiosa coincidenza. Delle vicende genealogiche di Giuseppe de Martino mi dovetti occupare in passato durante la ricostruzione di quelle del cognato, barone Giuseppe Antonio Monaco, per un lungo scritto tuttora inedito (Spigolature araldiche attraverso le vicende genealogiche e patrimoniali dei nobili Monaco di Cosenza) di cui una editio minor, scevra dai dati prettamente genealogici, è L.I. Fragale, Di un anomalo episodio nell’araldica dell’Archiginnasio: lo stemma Monaco, ne “Il Carrobbio. Tradizioni, problemi, immagini dell’Emilia Romagna”, a. XXXIX, 2013, pp. 103 e ss. Più genericamente, sui de Martino e i Monaco, vedi Documenti esclusivi nommeno del preteso sedile chiuso; ma finanche dell’asserita discretiva, e separazione del ceto de’Nobili da quello de’Cittadini, ms. 5797 della Raccolta Salfi, Biblioteca Civica di Cosenza, pp. 31, 54 e 111. 42   L’esemplare è più chiaramente “troncato: nel primo all’aquila voltata, con gli artigli poggianti sulla partizione; nel secondo alla sbarra caricata di tre crescenti”. 43   Il palazzo era stato oggetto di studio nel lavoro della dott.ssa Marilena Cospito, Il Palazzo e la Casupola, tesi in Storia dell’Architettura, Corso di Laurea in Storia e Conservazione del Patrimonio Artistico, Archeologico e Musicale, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, a.a. 2004-2005 (relatore prof. Ilario Principe), alla quale va il mio ringraziamento per queste e molte altre notizie su Canna. Per gli stessi motivi, altro ringraziamento doveroso va rivolto al dott. Roberto Campolongo. 44   Planco (cognome della madre del predetto Pietrantonio), Coquino, De Ursio, Marini (cognomi appartenenti al ramo della nuora), Miglionico, Vivacqua, Colomba, Ramundo, Bonelli e Di Giliberto (cognomi affini ai rami toscaniani più remoti), vedi G. Toscano, La storia di Oriolo. Testo del XVII secolo, a cura di Pina Basile, s. l. 1994. 45   E il cognome Pitrelli si legge pure sulla campana. 46   Vedi, ante, a proposito degli stemmi nocaresi. 47   Che già citavamo nelle prime note e per il quale vedi G. Montesano, Rotondella e il suo territorio nell’eta moderna, Venosa 1997, diffusamente. 48   Travisato per un cinghiale da L. e L. Odoguardi, Alto jonio calabrese, Lucca 1983, p. 253. 49   Stabilita l’esatta definizione dello stemma e del palazzo, possiamo aggiungere che per individuare i tre stemmi precedenti è vano pure pensare ai Marincola – famiglia della consorte del duca Crivelli – il cui stemma è ben altro. 50   Probabilmente un “Pietro Antonio Pitrelli fieri fecit, anno Domini 1834” 51   Sui Mazzario, vedi L.I. Fragale, Napoli, il Regno e il colera nel 1836, dall’inedito diario di viaggio di Alessandro Mazzàrio, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, a. CXXXII, 2014, pp. 55 e ss. 52   Da circa un decennio trasferito all’interno del palazzo. 53   Vedi F. Bastanzio, Senise nella luce della storia, Palo del Colle 1950, p. 282, F. Elefante, Monasteri e Grance nella storia di Senise, s.l. st. 2003, p. 67 e n nonché ASNA, Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Senise, 1753 e Archivio di Stato di Potenza, Atti notarili, Distretto di Lagonegro, I versamento (16491689), Atti del notaio Giacomo Satriani di Senise, vol. 432, Indice. 54   Tra i più illustri e remoti Reca dimoranti in Oriolo è appena il caso di menzionare Guglielmo, notaio al 1487, di cui diremo poco più avanti; Terenzio, notaio nel 1523; Lorenzo, notaio nel 1553 e altro Guglielmo, notaio nel 1566, vedi P. Basile (a cura di), Memorie di famiglia. Genealogie e cronache calabresi in Giorgio Toscano. Secolo XVII, Napoli 1996, pp. 156, 180, 182 e 198. 55   Basile, Memorie di famiglia, cit., pp. 87-88. 23

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ASNA, Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Roseto Capo Spulico, 1743, ad nomen.   Laddove non metto tra parentesi il colore poiché, una volta tanto, il tratteggio convenzionale per lo smalto è perfetto. 58   “Alla filiera dello stesso. Il tutto timbrato dell’elmo frontale, lambrecchinato e graticolato di undici affibbiature”. Una copia è stata incisa pure, negli ultimi anni del Novecento, su una lapide marmorea nella cappella funeraria di famiglia, presso il cimitero di Roseto Capo Spulico. 59   A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903 ma rist. an. ivi, 1927, p. 205. 60   Archivio di Stato di Cosenza (da ora ASCS), Pergamene, doc. n. 545. Benché le note dorsali rechino l’indicazione Julianus Greca, l’inventario dell’Archivio riporta Guglielmo Greca, nome effettivamente esistito come notaio rogante in quell’anno. 61   Pergamena di laurea di Geronimo Greca, datata 6 gennaio 1536, gentilmente fornitaci in lettura dal prof. Andrea Mazzario. 62   Nella pergamena del 1536 lo stemma è ancora privo del capo all’aquila bicipite, ragion per cui le quattro generazioni di cui al diploma sono da computare con un dies a quo da posizionare tra quest’anno e il 1558 (quando Carlo V muore). 63   D.L. De Vincentiis, Storia di Taranto, Taranto 1878-1879, pp. 389-391. 64   Peraltro, nella sua semplicità, assai simile a quello di Palazzo Camodeca, uno dei pochi di rilievo nel centro storico della vicina Castroregio. 65   Ancora oggi persiste il cognome Calienni, tra Amendolara e Roseto Capo Spulico. 66   ASCS, Stato Civile, Amendolara, Registro dei Morti, atto del 4 novembre 1869. 67   Ivi, Registro delle Nascite, atti di nascita di Mariangela, Salvatore, Francesco, Giovanni, Vincenzo e Maria Domenica Calienno, anni 1824, 1826, 1829, 1832, 1835 e 1840, ad nomen. 68   Nati intorno al 1801 e al 1813, quindi probabili fratelli di Raffaele. Ad exemplum vedi ASNA, Stato Civile della Restaurazione, Quartiere Avvocata, atti di nascita di Francesca Filomena Calienno e Giuseppe Stanislao Pasquale Calienno, 10 dicembre 1845 e 22 novembre 1825. 69   ASCS, Stato Civile, Amendolara, Registro dei Matrimoni, atto del 22 aprile 1820. 70   Queste mie ricostruzioni genealogiche nacquero incidentalmente, durante quelle finalizzate a far luce sulla biografia e la provenienza del canonico cinquecentesco Pietro Antonio Frugali (tuttora inedite). 71   ASCS, Stato Civile, Amendolara, Registro dei Morti, atto del 12 marzo 1844. 72   Francesco, Domenico, Leonardo e Vittoria Fragale risultano figli di Tommaso, morto ad Amendolara il 27 marzo 1800 ma nato a Castrovillari intorno al 1748, da quel Giuseppe lì deceduto il 3 dicembre 1810, vedi ASCS, Stato Civile, Castrovillari, Registro dei Morti, ad annum. 73   ASNA, Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Castrovillari, 1746, ad nomen. 74   ASCS, Atti notarili, Notaio Giacomo Lattaro di Cetraro, atto del 15 marzo 1761, c. 33v. 75   ASCS, Atti notarili, Notai Domenico Picarelli e Benedetto Picarelli di Cetraro, anni 1712, 1717, 1732 e 1743, ad indicem. Gli stessi Leonardo, Giuseppe e Domenico risultano essere – concordemente alle notizie tratte dai coevi atti notarili – gli unici tre capifamiglia con tale cognome, ASNA, Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Cetraro, 1743. 76   Archivio della Curia Arcivescovile di San Marco Argentano, Liber matrimoniorum della Parrocchia di San Michele in Cetraro, anno 1686, ad nomen. 77   Ivi, Liber renatorum della Parrocchia di San Michele in Cetraro, anno 1701, ad nomen. 78   Agata è probabilmente figlia di quel Giuseppe del Trono, sindaco di Cetraro nel 1650, cui spettava la tutela delle fortezze di Cetraro e Fella, vedi F. Arcidiacono, I La Costa: due paesi, una famiglia, Malvito 2008, p. 47. 79   Per l’esattezza si trattò di Nicola Mauro, Vincenzo Piro e Filippo Noto. 80   Il cognome roglianese Nicoletta è tipico di altra storica stirpe di mastri fabbricatori ed è quindi probabile che anche questo Cesare si fosse trovato a Cetraro per ragioni di lavoro, più che per pregresse parentele con i nostri scalpellini. 81   ASCS, copia digitalizzata del Catasto Onciario di Rogliano (Marzi e Spani), 1753, nonché Liber animarum del Primicerio della parrocchia di San Giorgio di Rogliano, 1795, copia fotostatica del ms. originale, custodita presso la Biblioteca Civica di Cosenza. 82   ASCS, Atti notarili, Notaio Angelino Altimari di Rogliano, anno 1611, ad indicem nonché Notaio Giovanni Alfonso Dodaro di Rogliano, atti del 14 febbraio 1585, 23 settembre 1585, 27 settembre 1585, 27 settembre 1586 e 26 settembre 1587. 83   ASCS, Atti notarili, Notaio Angelino Altimari di Rogliano, atto del 20 agosto 1606, cc. 82r-83v, citato da B. Mussari-G. Scamardì, Artisti, architetti e “mastri fabricatori”, in Valtieri S. (a cura di), Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, st. Roma 2002, p. 166. 56 57

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Giorgio Leone

Un problema a latere: esempi di scultura in pietra fra Trecento e Cinquecento nell’attuale provincia di Cosenza, per un repertorio

La più antica e alta testimonianza di scultura sul territorio dell’attuale provincia di Cosenza è senz’altro il Monumento funerario di Isabella d’Aragona1 (Figg. 1-2): un’opera di grande bellezza e raffinatezza che gli studi tendono ormai a datare nell’anno stesso della tragica morte della regina a Cosenza, cioè nel 1271, e asse-

Fig. 1 Cosenza, Cattedrale: Monumento funerario di Isabella d’Aragona (1271); (ph. Attilio Onofrio)

Fig. 2 Cosenza, Cattedrale: Monumento funerario di Isabella d’Aragona (1271), particolare; (ph. Attilio Onofrio) 203


Fig. 3 Altomonte, Museo civico: Madonna col bambino (XIV secolo, metà); (ph. Attilio Onofrio)

Fig. 4 Saracena, Chiesa di Santa Maria dell’Altocielo: Madonna col bambino (XIV secolo, seconda metà - XV secolo) (ph. Archivio Giorgio Leone) 204

gnare a scultore francese. Il dibattito storiografico sull’opera, ricordata persino da Gabriele D’Annunzio, è stato serrato: diviso tra un’assegnazione a uno scultore francese giunto a Cosenza da Napoli, inviato da Carlo I d’Angiò, zio dei due giovani reali francesi, oppure a un altro che era nel seguito della stessa coppia che, si ricordi, era andata a Tunisi con Luigi IX, il Re Santo, prendendo parte alla crociata da questi indetta, e da lì ritornava compiendo il viaggio via mare e via terra per visitare le terre dell’Italia meridionale da poco annesse alla dinastia francese. Lo scultore mostra di essere a conoscenza della subito precedente e coeva cultura artistica de l’Île de France, ma anche degli avori parigini. Nella morbida pietra egli lascia i segni della gradina e degli altri strumenti usati per la lavorazione (fig. 2), cosicché molti studiosi hanno supposto che l’opera non fu mai portata a termine, ma invece è possibile che doveva ricevere una leggera rifinitura a malta come base per una parziale policromia e doratura2. La cultura francese-angioina ricompare settant’anni dopo sulla facciata della chiesa di Santa Maria della Consolazione di Altomonte, dove nella lunetta e nelle nicchie del portale erano sistemate tre sculture in pietra, di cui ora due nel locale e omonimo museo civico. Su queste sculture la critica aveva ragionato mettendole in rapporto alla Madonna con bambino del Monumento di Cosenza prima citato, nella visione di una realizzazione di scultore meridionale, e poi riportandole al più coerente alveo culturale francese che informa tutta la facciata della chiesa3. In particolare quella della lunetta che raffigura la Madonna col bambino (Fig. 3) è stata ultimamente accostata, con molta ragionevolezza, alla Madonna col bambino del Comtat Venaissin, ora al Musée des Augustins di Tolosa4, e, dunque, conseguentemente databile alla metà del Trecento. Da quanto è sopravvissuto non è possibile integrare queste eleganti testimonianze di importazione, ancorché realizzate in loco, con sculture lapidee di estrazione più direttamente locale, anche se contestualmente erano attivi gli scalpelli della Val di Crati e dunque di comprovata industria nella lavorazione della pietra, mentre è possibile trovarvi qualche riferimento in quella lignea, come nella Madonna della Cerintola di Castrovillari che forse da quelle di Altomonte o da altre affini oggi perdute riprende il lieve inarcamento che la libera dalla rigidità de cannoli si tradizione ancor romanico-bizantina. Una simile discendenza è stata ipotizzata per la scultura litica della Madonna col Bambino (Fig. 4) della chiesa di Santa Maria dell’Altocielo di Saracena5, che dopo i restauri parrebbe forse più tarda. Trecentesche, in ogni modo, sono le sculture di San Pietro (Fig. 5) della facciata della chiesa eponima di Morano Calabro e quella della Madonna col bambino (fig. 6) della torre campanaria della chiesa di Santa Maria del Colle di Mormanno, a cui si univano, stando la tradizione locale, due rilievi raffiguranti San Pietro e San Paolo (Figg. 7-8) come decorazione di un portale6. Le due sculture raffigurano il Santo e la Vergine seduti e sono state datate in genere alla fine del secolo, ma anche nel Quattrocento7; i due rilievi, invece, non hanno ricevuto molta più attenzione ma certamente si apparentano a quella serie di lavori che dipendono dalle fronti dei sarcofagi trecenteschi, sull’esempio di Scalea e di Altomonte. Simili derivazioni e datazioni si daranno ai due rilievi della facciata dell’Immacolata Concezione di Roseto Capo Spulico – uno con Vescovo giacente (Fig. 9) e l’altro con Angeli reggi stemma (Fig. 10) forse entrambi appartenenti alla tomba di un vescovo senza nome ma sepolto nella chiesa8 – e alla lastra con Cristo benedicente e due Santi (Fig. 11) della sacrestia della chiesa di San Pietro di Morano Calabro9.


Fig. 5 Morano Calabro, Chiesa di San Pietro: San Pietro (XVI secolo, fine) (ph. Archivio Soprintendenza Cosenza)

Fig. 6 Mormanno, Chiesa di Santa Maria del Colle: Madonna col bambino (XV secolo, prima metà) (ph. Archivio Soprintendenza Cosenza)

Fig. 7 Mormanno, Chiesa di Santa Ma- Fig. 8 Mormanno, Chiesa di Santa Maria ria del Colle: San Pietro (XV secolo, pri- del Colle: San Paolo (XV secolo, prima metà) ma metà) (ph. Archivio Soprintendenza (ph. Archivio Soprintendenza Cosenza) Cosenza)

Fig. 9 Roseto Capo Spulico, Chiesa dell’Immacolata Concezione: Vescovo giacente (XV secolo, prima età) (ph. Archivio Soprintendenza Cosenza) 205


Questi rilievi sono in genere considerati realizzati da scalpellini locali, che traducono nella pietra i modelli dei più importanti e costosi sarcofagi in marmo provenienti da Napoli e dunque attivi per una committenza meno facoltosa che se inizialmente deve essere intesa almeno a conoscenza delle scelte artistiche aggiornate, con l’andare del tempo, invece, si trasforma in un’adesione ripetitiva a modelli sociali provinciali. Nel Quattrocento modelli nuovamente aggiornati sono sopravvissuti sempre nella diocesi di Cassano allo Jonio e, in particolare, proprio nella Cattedrale, dove un tempo sul portale della facciata e su quello laterale erano esposte due sculture litiche raffiguranti rispettivamente la Madonna col bambino (Fig. 12) e San Pietro Fig. 15) e che ora, dopo il restauro, sono state sistemate nel Museo diocesano10. La Madonna Fig. 10 Roseto Capo Spulico, Chiesa dell’Immacolata Concezione: Angeli reg- col bambino (Fig. 12), come è stato già analizzato, si associa gistemma (XV secolo, prima metà) (ph. Archivio Soprintendenza Cosenza) con le pressoché identiche sculture, anch’esse in pietra lavorata, della chiesa di Santa Maria della Consolazione a Rotonda (Fig. 13), datata sullo scannello 1512, e della chiesa di Santa Caterina da Siena a Viggianello (Fig. 14). Con molta probabilità si tratta della diffusione di un unico modello di riferimento tra scultori diversi che lo eseguono in base alla propria comune cultura stilistica, diversamente declinandola ma fedeli al plausibile ‘prototipo’tranne nel particolare della mano della Vergine che afferra uno dei piedi del Figlio: negli Fig. 11 Morano Calabro, Chiesa di San Pietro: Lastra con Cristo benedicente, esemplari di Rotonda e di Cassano allo Jonio la Madonna Santi e stemmi (XV secolo, prima metà) (ph. Archivio Soprintendenza Co- tiene il piede destro del Figlio, mentre in quella di Viggiasenza) nello il piede sinistro. L’iconografia di quest’ultima scultura, inoltre, è caratterizzata dalla presenza di un piccolo volume nella mano sinistra del Bambino che lo sostiene e lo poggia sul petto della Madre. Fra tutte, l’unica a essere datata è la statua di Rotonda, completata da uno scannello figurato provvisto di iscrizione dedicatoria della Vergine raffigurata e dell’anno 1512; le altre due invece sono state assegnate una, quella di Viggianello, a dopo l’esemplare di Rotonda e l’altra, quella di Cassano allo Jonio, attorno al 1491-1492 che è l’intervallo di tempo in cui viene collocata la consacrazione della Cattedrale e che ricade sotto l’episcopato di Marino Tomacelli, nominato vescovo nel 1491 e in carica fino al 1519, e sotto il papato di Innocenzo VIII, sul soglio dal 1484 al 1492. Proprio per l’accostamento a questo Pontefice, il manufatto calabrese parrebbe essere il più antico della ricostruita terna, e, di conseguenza, gli esemplari lucani si dovrebbero porre come suo seguito, sebbene la Madonna della Consolazione di Rotonda oggi sia certamente la più conosciuta per la gran devozione che la circonda e la rende nota in tutta l’area del Pollino e dell’antica diocesi di Cassano allo Jonio cui un tempo apparteneva. Ed è proprio questo legame ‘religioso-geografico-amministrativo’ che renderebbe plausibile la sua dipendenza dall’esemplare calabrese che, tra l’altro, appare qualitativamente il più stilisticamente sostenuto di tutto il gruppo. Alla Madonna con bambino di Cassano allo Jonio, per stile e per tecnica, si accoppia la predetta scultura di San Pietro (Fig. 15), lasciando ipotizzare la possibile appartenenza di entrambe le opere a 206


Fig. 12 Cassano allo Jonio, Museo diocesano: Madonna col bambino (XV secolo, fine) (ph. Archivio Giorgio Leone)

Fig. 13 Rotonda, Chiesa di Santa Maria della Consolazione: Madonna col bambino (1512) (ph. Archivio Soprintendenza Cosenza)

Fig. 14 Viggianello, Chiesa di Santa Caterina da Siena: Madonna col bambino (XVI secolo, secondo-terzo decennio) (ph. Archivio Soprintendenza Cosenza)

un insieme più ampio che si completava con altre sculture, sicuramente quella di san Paolo per definire almeno il riferimento romano, e gli stemmi rimasti sul portale laterale appartenenti al vescovo e al pontefice. Stilisticamente queste sculture, se l’interpretazione del seguito proposto risultasse corretta, dovrebbero essere messe in relazione a quella singolare diffusione che si ebbe della cerchia dei cosiddetti “scultori vaticani”11 fino alla rielaborazione che dei modi umbrolaziali, abbastanza presenti nella cultura lucana tardoquattrocentesca12, che si può leggere nel cosiddetto “Maestro di Noepoli”13. L’appartenenza di questo insieme di sculture a una cultura artistica univoca è ribadita dalla vicinanza del San Pietro alla scultura sempre lapidea di San Bartolomeo (Fig. 16) della chiesa di San Pietro Apostolo a Tortora, datata 1512 sullo scannello, come appunto la Madonna col bambino di Rotonda a cui tra l’altro l’avvicina il modello del piedistallo14. Lo stato attuale delle conoscenze ancora non permette di chiarire la circolazione e i riferimenti di queste sculture nell’ambito della stessa antica circoscrizione diocesana, ma certo approfondendo le coordinate storiche dei luoghi senz’altro emergerà un motivo per spiegare tali vicinanze di stile, di iconografie e di modelli. Modelli questi ultimi che in ogni modo erano comuni sia agli scultori in pietra sia a quelli in legno, come potrebbero persino documentare i casi della 207


Fig. 15 Cassano allo Jonio, Museo diocesano: San Pietro (XV secolo, fine) (ph. Archivio Giorgio Leone)

Fig. 16 Tortora, Chiesa di San Pietro Apostolo: San Bartolomeo (1512) (ph. Archivio Soprintendenza Cosenza)

Madonna col bambino un tempo nella chiesa di Santa Filomena a Mormanno (Fig. 17) e quello della chiesa di San Giorgio di Oriolo Calabro15. Benché appartenenti a personalità di diversa capacità esecutiva e formale, indipendentemente dal differente materiale costitutivo, è innegabile che le due sculture mostrano identiche soluzioni stilistiche16. Contestualmente, un interessante episodio di scultura in pietra si circoscrive a Corigliano Calabro, precisamente sui portali della chiesa del Carmine (Fig. 19) e nella chiesa di Ognissanti (Fig. 20). Sull’architrave del portale maggiore è scritta la data 1493, che probabilmente è evocativa della committenza; l’intradosso reca un giro di angeli musicanti e lo spazio di risulta tra l’arco gotico e le paraste che lo inquadrano è occupato da due sculture che raffigurano l’Annunciazione che appunto richiama il titolo dell’edificio17. Queste due sculture (Fig. 19) sono avvicinabili a quella della Madonna col bambino (fig. 20) della chiesa di Ognissanti, in origine dipinta e che pare rimandare alla stessa personalità se non proprio agli stessi contesti, e con essa rimandano a una cultura di tradizione napoletana catalano-durazzesca, che riecheggia addirittura rimandi al Baboccio sul fronte antico ma ostende una certa modernità che sviluppa assetti stilistici già aragonesi18 mostrando tra l’altro una certa affinità con alcuni decori superstiti della chiesa del Carmine di Fiumefreddo Bruzio costruita nello stesso lasso di tempo. Lo stesso potrebbe può essere asserito per l’effigie della Madonna de Jesu (Fig. 21) di Bocchigliero19, della quale ben poco resta di perfettamente leggibile ma le parti 208


Fig. 17 Ubicazione Ignota (da Mormanno, Chiesa di Santa Filomena): Madonna col bambino (XVI secolo, primi decenni) (ph. Archivio Giorgio Leone)

Fig. 18 Oriolo Calabro, Chiesa di San Giorgio: Sant’Antonio da Padova (XVI secolo, primi decenni) (ph. Archivio Soprintendenza Cosenza)

visibili e immuni di ridipinture risultano abbastanza chiare per essere inserite negli stessi svolgimenti come opera di altra personalità che documenta la diffusione della stessa temperie culturale sullo stesso territorio. A una cultura stilistica pienamente quattrocentesca, invece, rimanda la Madonna del Monte di Acquaformosa (Fig. 22). Si tratta di un altorilievo che raffigura il busto della Vergine che sorregge il Figlio, accogliendolo nella sinistra. Il busto, presentato tutt’uno su una base a scannello rettilineo e decorato, è realizzato in pietra arenaria ed è dipinto. L’iconografia, come si è già avuto modo di notare20, dipende dalla cosiddetta Madonna del Bargello, opera databile nel secondo quarto del Quattrocento e criticamente assegnata alla cerchia di Lorenzo Ghiberti. Questo rilievo calabrese, quindi, rientra in una produzione seriale che è stata messa in relazione alla diffusione della ben più celebre Madonna di Fiesole, dibattuta tra un’assegnazione a Filippo Brunelleschi o a Nanni di Banco, dalla quale si moltiplicarono diversi esemplari che, attraverso una veramente sterminata riproduzione in diversi materiali e modi, finanche con l’uso di stampi per la cartapesta, erano destinati alla devozione privata. È probabile che proprio su quest’onda, sulla quale tra l’altro avvenne una capillare diffusione del gusto per la nuova bellezza rinascimentale in ogni strato sociale e a ogni livello artistico, il manufatto in questione giunse in Calabria, dove oggi costituisce, sebbene rappresentandone una versione senz’altro meno aulica, l’ampliamento delle testimonianze rinasci209


Fig. 19 Corigliano Calabro, Chiesa dell’Annunziata o del Carmine: Portale (XV secolo, fine – XVI secolo, inizi) (ph. ???)

Fig. 20 Corigliano Calabro, Chiesa di Ognissanti: Madonna col bambino (XV secolo, fine – XVI secolo, inizi) (ph. Archivio Cecilia Perri)

mentali della regione, tra cui senz’altro spicca, fra le altre assegnate ad Antonello Gagini o riconducibili alla sua bottega, quella singolarissima ed elevatissima di Benedetto da Maiano di Terranova Sappo Minulio21 che appunto attraverso Napoli risale a Firenze. Rispetto al prototipo, in ogni modo, il rilievo della Madonna del Monte di Acquaformosa mostra delle differenze a livello formale e iconografico, rispettivamente nel trattamento molto più semplificato del manto sulla testa della Madonna e nella presenza della mammella in vista, lasciando così supporre che sia la replica di un esemplare già diversificato ovvero esso stesso diversificato dall’originale. Non si conosce nulla sulla sua realizzazione e sulla sua presenza in Calabria, dove forse non è del tutto impossibile supporre giunse attraverso il monastero cistercense di Santa Maria del Leucio, la cui committenza artistica ancora nel Cinquecento si dimostrava alquanto aggiornata e facoltosa. Tra le reliquie di una cultura rinascimentale di respiro, stilisticamente di levatura, infine, si ricorderanno gli angeli che oggi reggono le acquasantiere (Fig. 23) della chiesa di San Francesco di Paola a Bisignano, ma che originariamente potevano ben appartenere a una più complessa composizione. Fig. 21 Bocchigliero, Chiesa di Santa Maria de Jesu: Madonna de Jesu (XV secolo, fine – XVI secolo, inizi) (ph. Michele Abastante)

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Fig. 22 Acquaformosa, Chiesa d Santa Maria del Monte: Madon- Fig. 23 Bisignano, Chiesa di San na del Monte (XV secolo, seconda metà – XVI secolo, inizi) (ph. Francesco di Paola: Angelo (XV Mario de Angelis) secolo, seconda metà – XVI secolo, inizi) (ph. Archivio Soprintendenza Cosenza)

Note 1  Sul monumento funerario si rimanda per ultimo a G. Leone, Tra dire e fare... un percorso didattico per il Monumento funerario di Isabella d’Aragona nella cattedrale di Cosenza, in Raccontiamoci la città: Cosenza tra storia, miti, leggende (parte terza), (“I sentieri di Minerva”), Cosenza, Le nuvole, 2004, pp. 63-79 ma è in corso di pubblicazione il rigoroso studio storiografico e diagnostico di superficie condotto da Ch. Pisano, Il monumento funerario di Isabella d’Aragona della Cattedrale di Cosenza: indagini, tratto dalla sua tesi di laurea discussa nell’a.a. 2004-2005 presso l’Unical ma ancora inedita (cfr. Ch. Pisano, Isabella d’Aragona e la sua tomba cosentina, in «Fuori quadro», I (2006), p. 5). 2  Ch. Pisano, Il monumento… cit. (cfr. Ch. Pisano, Isabella d’Aragona… cit., p. 5). 3  M.P. Di Dario Guida, Calabria angioina, in M.P. Di Dario Guida (a cura di), Itinerari per la Calabria, Roma - Vicenza 1983, p. 170. 4  S. Paone, Santa Maria della Consolazione ad Altomonte: un cantiere gotico in Calabria, Roma 2014, pp. 49 fig. 71, 50-51. 5  G. Leone, Saracena: la chiesa di Santa Maria dell’Alto Cielo, in «Calabria Letteraria », LV (2007), 10-12, p. 42. 6  A. Frangipane, Inventario degli oggetti d’arte d’Italia: II; Calabria; Prov. di Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria, Roma 1933, p. 202. 7  F. Negri Arnoldi, Scultura trecentesca in Calabria: apporti esterni ed attività locale, in «Bollettino d’arte», 68 (1983), 21, pp. 16, 17, 46 nota. 8  A. Frangipane, Elenco degli edifici monumentali: Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria, Roma 1938, p. 139. 9  A. Frangipane, Inventario… cit., p. 186 (cfr. S. Tozzi, La Collegiata dei Santi Pietro e Paolo a Morano Calabro, Firenze 1996, pp. 110-111). 10   G. Leone, Scultori di confine: alcuni esempi di scultura in legno nell’area del Pollino (…e di altre zone della Calabria settentrionale e della Basilicata meridionale tra il Cinquecento e il Settecento), in A. Tomei – G. Curzi (a cura di), Abruzzo: un laboratorio di ricerca, Atti del convegno (Chieti: 2009), Napoli 2011, pp. 324-327. 11   F. Negri Arnoldi, Andrea Bregno e il Maestro della Madonna di Osteno, in C. Crescentini - C. Strinati (a cura di), La forma del Rinascimento: Donatello, Andrea Bregno, Michelangelo e la scultura a Roma nel Quattrocento, [Catalogo della mostra (Roma: 2010)], Soveria Mannelli 2010, pp. 117-132. 12   R. Casciaro, Apporti esterni e identità locale nella scultura lucana del Quattrocento e del primo Cinquecento, in P. Venturoli (a cura di), Scultura lignea in Basilicata dalla fine del XII alla prima metà del XVI secolo, [Catalogo della mostra (Matera: 2004)], Torino 2004, p. 37. 13   A. Grelle, Note introduttive: fra materiali e storia, in A. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata: rinvenimenti e restauri, [Catalogo della mostra (Matera: 1979)], Roma 20012, pp. 61-62. 14   G. Leone, Scultori di confine… cit., p. 326. 15   G. Leone, Scultori di confine… cit., p 326-327. 16   Per le congiunture stilistiche dell’attività degli scultori in legno e in pietra, sulle quali sono sempre utili le considerazioni di F. Bologna, Introduzione, in Scultura lignea in Basilicata… cit., XVIII e per le quali rispettivamente agli intagliatori calabresi si veda quanto rilevato da G. Leone, L’intaglio barocco in Calabria: annotazioni a margine di un problema di storiografia artistica del Mezzogiorno, in R.M. Cagliostro (a cura di), Calabria… cit., pp. 161-162, appare alquanto significativo il caso di Oriolo Calabro, cittadina calabrese fino a qualche decennio addietro appartenente alla diocesi lucana di Tursi, perché oltre alla statua in questione, nella stessa chiesa di San Giorgio, custodisce alcuni interessanti lavori in pietra databili tra Quattrocento e Cinquecento. Si tratta dei rilievi del portale e della

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scultura raffigurante Sant’Antonio da Padova, datata 1500, custodita erratica all’interno (fig. 18). Tali opere, finora mai recuperate al dibattito critico, sarebbero da porsi su quella stessa linea che ha il suo apice nel cosiddetto “Maestro di Noepoli”/Francesco da Sicignano e che comunque investe la Basilicata e il Cilento tra Tardogotico e Rinascimento (cfr. A. Grelle, Note introduttive… cit., pp. 64-65; F. Abbate, Francesco da Sicignano (?) - Angeli - Teggiano - Duomo, in Il Cilento ritrovato: la produzione artistica nell’antica diocesi di Capaccio, [Catalogo della mostra (Padula: 1990)], Napoli 1990, pp. 83-88; Idem, Storia dell’arte nell’Italia meridionale: il Cinquecento, Roma 2002, pp. 351-354; R. Casciaro, Apporti esterni… cit., pp. 34 ss). La circostanza si segnala proprio per rendere maggiormente plausibile l’accostamento tecnico e stilistico della presentata Madonna col Bambino segnalata in Oriolo Calabro con la produzione degli scultori in pietra e di altre sculture affini (cfr. G. Leone, Scultori di confine… cit., p 326-327). 17   G. Leone, La facciata del Carmine, in «il Serratore», V (1992), 19, pp. 36-39. 18   M.P. Di Dario Guida, Itinerario aragonese, in M.P. Di Dario Guida (a cura di), Itinerari per la Calabria, Roma - Vicenza 1983, p. 216 (cfr. G. Leone, La facciata… cit., p. 37). 19   G. Leone, Thesaurum | Arte, in Terre Jonico- silane, in corso di stampa. 20   G. Leone, “Jamo a trovare a chista gran viduta”: intorno ad alcune sculture e iconografie della Beata Vergine Maria venerate nei Santuari popolari calabresi, dal tardo Medioevo all’inizio della Controriforma, in G. Roma – F.C. Papparella (a cura di), Santuari d’Italia: Calabria, in corso di stampa. 21   F. Caglioti, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, in S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria nel Rinascimento: le arti nella storia, Roma 2002, pp. 990-1006.

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Pietra locale e d’importazione, maestranze autoctone e straniere, modelli e committenza nell’arte sepolcrale di età moderna in Calabria. Melissa Acquesta […] nondimeno le anime amano i luoghi dove riposano i loro corpi abbandonati, e in base a quale misterioso motivo non è possibile dire, esse si rallegrano della venerazione verso la loro tomba […]1 Leges novellae ad Theodos. Pertinentes, XXVIII.

Il tema della morte e il desiderio di eternare il breve intervallo dell’esistenza terrena nella solida concretezza dei monumenti sepolcrali ha da sempre caratterizzato tutte le civiltà; nel Rinascimento, in un contesto storico-culturale che ha promosso l’esaltazione della personalità, del valore del singolo e dell’attività individuale, per la centralità del ruolo riconosciuto all’uomo in quanto tale, autore e fautore del proprio destino, il significato del monumento funerario, come momento di esplicita celebrazione, assunse un rilievo singolare. I monumenti sepolcrali costituiscono, quindi, una testimonianza significativa della produzione artistica ed in ambito locale essi rappresentano un importante tassello nel tentativo di ricostruire le relazioni intercorse con i principali centri di diffusione culturale al fine di verificare in quale misura si sia manifestata l’importazione, l’adozione e l’eventuale interpretazione di specifici linguaggi in Calabria tra XV e XVI secolo. Le opere calabresi superstiti non sono molte e oltre alla dispersione che si è registrata nel corso dei secoli, bisogna considerare anche la permanente predilezione dei titolati locali a farsi inumare a Napoli2, secondo il costume che si mantenne anche nel corso dei secoli successivi. All’azione d’influenza di Napoli, fulcro politico e culturale per l’area meridionale peninsulare, si è sommata quella esercitata dalla Toscana, tramite l’opera di scalpellini e marmorai il cui impegno in Calabria fu a volte mediato dal passaggio dalla capitale del Regno, oltre a un nutrito gruppo di maestranze e artisti che avevano avuto modo di maturare una documentata esperienza nella vicina Sicilia3: Bartolomeo della Scala da Pietrasanta del dominio di Firenze, risulta residente a Catanzaro ed attivo anche a Cosenza (1545-1546), è suocero del Bartolomeo Bandini “magistro scarpellino” da Firenze, residente anch’egli a Catanzaro, che si impegna a realizzare per il reverendo Aurelio de Frassia una cappella in tufo con l’immagine della Madonna in rilievo, da collocarsi nella chiesa dell’Epiro di San Marco Argentano (1653) – l’opera oggi, qualora fosse stata eseguita, risulta perduta; Raimo Bergantini da Carrara, residente a Napoli, riceve l’incarico di realizzare il sepolcro monumentale di Ottavio Gaeta posto nella chiesa di San Francesco di Paola a Cosenza (1593); Antonio Grasso, scultore e architetto 213


fiorentino, si impegna a realizzare un sepolcro in petra misca – non più esistente – per la famiglia Garritano per la chiesa di San Francesco di Paola a Cosenza (1602); Andrea Maggiore, carrarese, risulta residente a Gimigliano dopo il 1610. Accanto alle maestranze straniere, presenti con il loro personale bagaglio d’idee e modelli, compaiono altresì quelle autoctone, provenienti dai Casali di Cosenza, i Roglianesi ed i Paternesi: nel 1613 Gabriele Bartolo, “mastro scarpellino” di Rogliano, si impegna a costruire insieme a Giacomo Belsito, una cappella in tufo bianco nella chiesa delle Cappuccinelle a Cosenza per Pietro Francesco Stocchi; Michele e Rinaldo Florio di Paterno realizzano nel 1597 una cappella per Isabella Arduino, nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza; il “mastro fabricatore” Sansonetto Belsito di Rogliano, residente in Cosenza, nel 1593, stipula con Giulia de Moyo un contratto impegnandosi per la costruzione di una cappella intagliata in tufo (mai realizzata) destinata alla chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza. E ancora Domenico Lucifero (1636), scalpellino di Gerace che insieme agli scalpellini messinesi Jacopo Giueni e Antonio Azzarillo e ai geracesi Francesco Lucifero e Michele Archinà, che riceve dal procuratore della cappella del S.S. Sacramento nella Cattedrale di Gerace, l’incarico di completarne il decoro marmoreo, già iniziato nel 1626 da Donato Vanelli e lo stesso Archinà; e Giovan Battista Lucifero (1597), scalpellino ed architetto geracese, che si obbliga a fare per Ottavio Polizzi, in Gerace una cappella dentro lo vescovato di questa città di pietra miscia per ducati cinque cento e per Fuluca Carlino, moglie di Ettore Grillo (1621) una cappella, cioè l’altare dentro l’ecclesia di Santa Maria della Sanità di questa città di Geraci […]. Si evidenzia così come dalla seconda metà del XVI secolo il numero di monumenti funerari eretti nel territorio calabrese aumentò notevolmente rispetto a quanto si era verificato in precedenza. Il fenomeno si può attribuire a una maggiore stanzialità dei feudatari, nobili e alti prelati, committenti privilegiati di simili opere, unito alla diversificazione della composizione sociale che aveva segnato l’ascesa di nuove classi aspiranti ad un rango più elevato4. All’interno del catalogo delle opere più rilevanti ancora esistenti sul territorio si è potuto costatare, nonostante i vuoti incolmabili che contraddistinguono determinati momenti storici, la presenza di una linea evolutiva dall’andamento discontinuo; alla presenza di espressioni più o meno allineate al percorso che l’arte perseguiva fuori dai confini del Regno, si associano, infatti, manifestazioni, che rispetto ad un ambito più vasto, negano il raggiungimento di una linea di progresso unitaria per un’effettiva arcaicità e per una qualità esecutiva che si attarda su una ridondanza decorativa Tale diacronia non è sempre il risultato di un’effettiva o sostanziale differenza di atteggiamento verso il fatto artistico da parte di una committenza apparentemente provinciale e che, di conseguenza, si potrebbe pensare meno colta e raffinata; infatti, non si può definire di poco rilievo o avulso dal movimentato mondo della corte napoletana un personaggio del calibro di Covella Ruffo (moglie di Ruggero Sanseverino, Conte di Altomonte, Corigliano e Tricarico, promotrice dell’insediamento dei Domenicani ad Altomonte in S. Maria della Consolazione) e nonostante ciò, quasi al volgere della prima metà del XV secolo, la sua lastra tombale (in Altomonte, Chiesa di S. Maria della Consolazione) riproduce forme tipicamente medievali. Un linguaggio, questo, sopravvissuto nelle aree periferiche dell’Italia Meridionale e nella stessa Napoli, nonostante i tentativi di rinnovamento introdotti dall’opera di Donatello e Michelozzo con il monumen214


to Brancaccio (Napoli. Chiesa di S. Angelo a Nilo. Monumento del Cardinale Rinaldo Brancaccio.). Tale apparente ritardo rispetto ad altre aree culturali non aveva assunto sempre dimensioni così consistenti: basti ricordare il trecentesco monumento sepolcrale di Filippo II Sangineto nella stessa chiesa di Santa Maria della Consolazione in Altomonte, perfettamente in linea con le coeve tombe angioine che si conservano a Napoli e non solo5. L’impossibilità di segnalare una continuità produttiva all’interno del processo in cui le singole opere si collocano, soprattutto per il Quattrocento, fa sì che esse emergano come singole esperienze autonome, a volte autorevoli e d’indubbio interesse, ma circostanziate e forse distanti da un contesto culturale in cui non riuscirono, per un’estraneità estrinsecatasi nelle forme, nei linguaggi adottati, nei materiali utilizzati, nei significati e nel valore simbolico che rappresentavano, ad incidere significativamente su un tessuto evidentemente non aperto ad acquisire certe sollecitazioni. L’assenza di una produzione articolata e diffusa costituisce un segnale della mancata acquisizione di una convinta consapevolezza da parte delle maestranze locali, diversamente da quanto è stato possibile verificare in altri ambiti6. Non si annoverano, infatti, nel corso del Quattrocento, casi significativi che dimostrino l’acquisizione di un linguaggio importato o, in parallelo, la manifestazione di forme espressive frutto di una sintesi propria. Tali manifestazioni costituirono spesso lo strumento per celebrare uno status personale che, in assenza di una partecipazione critica del committente e dell’esecutore, poteva ridursi anche ad una semplice operazione di bottega o esplodere nella confusione dettata dall’affastellarsi di elementi decorativi sovrabbondanti. L’esigenza di essere partecipi di un modus vivendi comune, che imperava nella società napoletana dell’epoca, trova conferma nei riferimenti che emergono sovente nella documentazione archivistica, anche in abiti territoriali più estesi. Emerge, quindi, una tendenza all’imitazione esplicitata nelle raccomandazioni affinché l’opera da realizzarsi abbia qualcosa di una o il particolare di un’altra; un indizio della predilezione per il fatto esterno che la presenza di esecutori sensibili non riusciva sempre a sostenere, frenando quella produzione seriale di bottega dettata, molte volte, dalla necessità7. La singolarità dei caratteri che contraddistinguono le opere calabresi fa propendere, in molti casi, per un’attribuzione a botteghe “straniere” e la loro specificità si esprime immediatamente nell’adozione del marmo, materiale poco adoperato localmente e comunque spessissimo in dialogo con quello locale, e nelle citazioni di forme particolari e soggetti che rimandano a modelli aulici. È chiaro, quindi, come materiali da costruzione di pregio quali i tufi e i marmi di Calabria, risorse litiche locali il cui sfruttamento è stato suggerito dalle stesse maestranze a integrazione di una parziale importazione dei marmi bianchi di Carrara, sapessero fondersi con materiali più nobili rendendo possibile quella fioritura di opere architettoniche stimolata e sostenuta da intenti celebrativi e devozionali, attuata con l’apporto d’idee e linguaggi innovativi rispetto al clima artistico della regione da maestranze “straniere”, oggetto di questo breve studio. Nel corso della prima metà del Cinquecento la tipologia che si affermò con maggiore forza fu quella del monumento realizzato per l’uomo d’arme, diffusa negli esempi calabresi in tutte le varianti che ne hanno segnato il processo evolutivo. Il modello primitivo era una rivisitazione del tipo trecentesco e quattrocen215


tesco con l’effige del defunto distesa, colto nell’effettivo momento del trapasso. La fase intermedia fu segnata dall’effigiato ripreso con indosso la corazza, con esclusione dell’elmo, in atteggiamento di riposo serenamente appoggiato su un braccio, una tipologia “moderna” che si diffonde in area meridionale sulla scia degli esempi forniti a Napoli da Girolamo Santacroce e da Giovanni da Nola; in fine, nella seconda metà del Cinquecento, si diffuse il modello con la statua eretta in una nuova organizzazione del monumento più rispondente alle necessità delle convenzioni. Divenne progressivamente prioritario esaltare le virtù e il ruolo sociale dell’individuo, sottolineate anche dalle epigrafi sempre più corpose in accordo con l’attenzione verso l’esteriorità, cara alla società napoletana e spagnola. Il tipo generale rimane invariato: si compone essenzialmente di un basamento che in alcuni casi funge da camera funeraria e in altri costituisce il sostegno ad un sarcofago sopra al quale, il defunto è inizialmente rappresentato supino a mani giunte8. Successivamente l’organizzazione muta: il defunto viene rappresentato disteso, appoggiato su un fianco, sollevato su un braccio con la testa sostenuta da una mano9 fino ad assumere successivamente la posizione eretta10. Per quasi tutto il secolo XVI, soprattutto per la prima metà, i personaggi più rappresentati nella produzione calabrese e meridionale furono gli uomini d’arme o importanti esponenti della colta e nobile società civile11 e d’altronde le possibilità offerte da una committenza più articolata consentirono anche una maggiore varietà e libertà di rappresentazione. Il processo evolutivo cui si è accennato si segue in Calabria attraverso la lettura del monumento Abenante a Corigliano12 (1522), del sepolcro di Oliviero Di Somma a Rossano13 (1536) e, andando verso la fine del secolo, del sepolcro Gaeta a Cosenza (1593). Essi rappresentano l’esemplificazione dei tre tipi che dominarono incontrastati per quasi tutto il Cinquecento, com’è possibile costatare dalla moltitudine di esempi riconducibili alle medesime tipologie che affollano le chiese napoletane14. Nella tomba Gaeta15, i cui autori furono Ambrogio della Monaca, proveniente dalla città di Cava dei Tirreni, e Maestro Raimo Bergantino di Massa Carrara, da anni dimorante a Napoli16, la celebrazione del guerriero è simbolicamente sottolineata dalla scelta di una trabeazione dorica su paraste dove i triglifi alle estremità si trasformano in due mensoloni reggenti una cornice sporgente con rosette in corrispondenza delle metope lisce del fregio sottostante. L’urna del monumento funebre avrebbe dovuto contenere i resti mortali di Ottavio Cesare di Gaeta, raffigurato nel sarcofago, e del padre Marco Antonio, patrizi di origine napoletana discendenti del ramo della famiglia Gaeta, giunti a Cosenza nella prima metà del Quattrocento, esponenti del ramo collaterale della famiglia detta Gaeta del Leone17. Il sepolcro può essere, senza particolare timore, inserito come un esempio lampante della concezione di quel tempo dell’uomo e del mondo, con una composizione che tende ad evidenziare grandezza di questo guerriero e dello splendore della famiglia, già così benefattrice nei confronti della chiesa di San Francesco di Paola. Tra la fine del Cinquecento e i primi anni del secolo successivo il panorama cambiò decisamente. Cambiamento tra l’altro che non era avulso ed estraneo da quanto succedeva altrove, così a Napoli come a Roma o in Toscana. Ebbe modo di manifestarsi in Calabria un modo di sentire e di esprimersi comune ad un’area di più ampio respiro, attraverso espressioni distinguibili immediatamente nella diversità della produzione registrata tra la parte settentrionale e 216


quella centro meridionale del territorio calabrese; l’una, direttamente influenzata da Napoli e dall’Italia centrale; l’altra, dalle esperienze siciliane, dalla scuola del Gagini, del Montorsoli e dei Calamech. Nel contesto generale influì decisamente la progressiva evoluzione che il tessuto sociale aveva maturato nel corso della seconda metà del secolo; si delinea una realtà di lento ma costante ingresso di una classe media formata da commercianti, banchieri e uomini di toga che aspiravano ad occupare posti della nobiltà oramai in gran parte alla deriva, incapace di governare proficuamente i propri beni, destinati ad una contrazione progressiva. Infatti, almeno per quanto è possibile documentare, i committenti dei monumenti per i quali è stato possibile rintracciare notizie non erano più soltanto i blasonati esponenti della nobiltà e del clero ma anche patrizi locali, rappresentanti della classe governativa che anche attraverso la promozione di tali strumenti di propaganda aspiravano ad equipararsi all’ambito ceto che aveva da sempre cercato di arginarne le velleità di ascesa sociale, almeno fino a quando le necessità economiche avevano obbligato ad allargare le secolari barriere. Da un’espressione artistica in cui si era stati, almeno in alcuni casi, fin troppo indulgenti con una decorazione eccessiva, si tese ad un maggiore plasticismo in cui la macchina architettonica assunse la funzione di organismo principale portante, traducendo la ricerca pittorica degli intagli nella ricchezza e nell’articolazione cromatica delle parti. Il sepolcro Gaeta ci ricorda la sua singolarità rappresentando non solo l’unico esempio calabrese con la figura del defunto eretta sul sarcofago ma anche un esempio iconografico che, datato 1593, rimane fedele a gusti napoletani di poco precedenti senza subire l’influenza della continua evoluzione del genere che aveva portato in quegli stessi anni alla scomparsa delle effigi dei defunti e alla riduzione dell’aspetto più propriamente scultoreo. Negli esempi coevi conservati, infatti, si riscontra l’eco del commesso fiorentino, della tarsia policroma e l’utilizzo di marmi mischi dai colori diversi; un gioco cromatico apparentemente casuale sottoposto ad uno studio controllato nella disposizione di pannelli e soprattutto nella definizione dei contorni e dei brani scultorei lasciati al dominio del marmo di Carrara. Il sepolcro stesso si distingue anche dalle altre opere che l’esecutore, Raimo Bergantini compiva negli stessi anni nella Calabria centro settentrionale in compagnia di altri scalpellini di documentata provenienza toscana come Andrea Maggiore18 e Pietro Barbalonga “mastri scarpellini”19. La loro produzione20, e quella delle loro probabili botteghe, si distingue infatti per la realizzazione di monumenti composti con marmi di diversi colori, in gran parte provenienti da cave locali21, integrati in marmo bianco di Carrara e realizzati in situ22. L’impaginato architettonico diviene rilevante rispetto al programma puramente scultoreo, quasi completamente assente se non per lo spazio concesso alle consuete panoplie, agli stemmi gentilizi, ai pochi cherubini e agli elementi zoomorfi presenti negli emblemi araldici e soprattutto nei sostegni dei sarcofaghi e le opere si caratterizzano per l’assenza di figure scolpite a tutto tondo. La tipologia è ricorrente: si tratta di edicole architettoniche con colonne emergenti (anche di ordine ionico) sormontate da trabeazione e timpano spezzato, all’interno del quale trova spazio, in alcuni casi, un’edicola minore di chiusura. I capitelli e le basi delle colonne, insieme ai brani che contribuiscono a limitare e definire i singoli elementi o sono oggetto di attenzione scultorea, sono realizzate in marmo bianco di Carrara, tutto il resto è lasciato al gioco cromatico delle brecce locali. 217


È chiaro come l’intero ragionamento, benché chiaro e lineare, fatto di fonti, modelli, testimonianze archivistiche e materiali, sia estremamente delicato da leggere sul territorio e da legare, con cautela, all’approfondimento sulla pietra calabra, anima di questa mostra, potendo contare essenzialmente su poche emergenze funerarie sopravvissute fino a noi, la cui quasi totalità realizzata in pietra straniera, e potendo confermare la realizzazione di cappelle e monumenti funebri in pietra locale, realizzate da scultori, mastri fabbricatori e scarpellini calabresi, solo grazie alle testimonianze documentarie ricomparse grazie al lavoro d’archivio certosino di molti studiosi. Nonostante questo si dimostra argomento affascinante ed immancabile in un contesto come quello illustrato in questo catalogo, degno quindi di questo breve ed intenso excursus tematico.

Note 1  […]amant tamen animae sedem corporum relictorum et nescio qua sorte rationis occultae, sepulcri honore laetantur[…] Leges novellae ad Theodos. Pertinentes, XXVIII. I. Herklotz, “Sepulcra” e “Monumenta” del Medioevo. Studi sull’arte sepolcrale in Italia. Napoli. 2001. p. 24. 2  Farsi seppellire a Napoli era una consuetudine consolidata; sono documentate le commissioni ad Annibale Caccavello per la cappella di Ferdinando Caracciolo, Conte di Nicastro, nella chiesa dell’Annunziata, come anche quella per il sepolcro di Vincenzo Carafa nella medesima chiesa; nel suo testamento il Marchese di Cirò, Vespasiano Spinelli, manifestava in maniera esplicita la volontà di essere seppellito a Napoli dopo una provvisoria tumulazione nella chiesa di S. Maria di Cirò; il corpo doveva essere traslato nella chiesa di S. Caterina a Formello (Formello), nel monumentale complesso in cui sono sepolti molti membri della famiglia. A. Filangeri di Candida, Diario di Annibale Caccavello. Napoli. 1896. Nel Diario si cita il sepolcro di Scipione de Somma e la richiesta avanzata da Marcello Firrao di Cosenza per un’opera simile a quella di Porzia Pignatelli “mutate le figure et levate li duj pilastrelli da le bande” (p. 166.). Archivio di Stato di Catanzaro (ASCZ). Fondo notarile. Atto del notaio Domenico Durante di Cirò, b 42, 17 Ottobre 1599, ff. 21.r.- 23.r., in parte. f. 23.r. 3  Tra il 1547 e il 1557 era attivo a Messina Giovan Angelo Montorsoli, allievo e collaboratore di Michelangelo. Nella città siciliana continuarono ad operare i suoi discepoli, tra cui Rinaldo Bonanno, i Mazzolo, i Calamech e Martino Montanini, oltre a Camillo Camilliani e durante tutto il secolo fu parallelamente attiva la nota bottega dei Gagini. 4  A testimoniare l’effettiva preferenza della nobiltà per una definitiva allocazione in cappelle o in importanti monumenti che ancora oggi ornano molte chiese napoletane, rimane un ricco catalogo di opere commissionate e realizzate da artisti e officine della capitale del Viceregno in cui operavano artefici in buona parte stranieri, in particolare di provenienza toscana e lombarda. Questi permasero a Napoli fino ai primi decenni del secolo XVI quando iniziò ad emergere una scuola locale che fece tesoro dell’eredità lasciata da quelle botteghe. Significative per il legame diretto che la committenza di alcune opere aveva con il territorio calabrese, vantando al suo interno diverse titolarità, sono, tra gli altri, il sepolcro di Ruggero Sanseverino (Andrea Nofri), la cappella Carafa (Romolo Balsimelli e Giovan Tommaso Malvito), il monumento Ricca (Giovan Jacopo da Brescia), le tombe Spinelli, il monumento Pignatelli (Bernardino del Moro) e la cappella Correale di Terranova (Benedetto e Giuliano Da Maiano). Attraverso la vasta produzione di cui queste opere sono parte si assiste all’acquisizione di modelli d’importazione extra regnum e di conseguenza la loro possibile trasposizione nelle opere calabresi; specie nei casi in cui queste ultime furono effettivamente realizzate a Napoli per essere trasferite e composte nel luogo di destinazione finale. 5  C. Gatto, Memorie topografiche storiche della provincia di Lucania. Napoli. 1732. F. Rende, Monografia del Comune di Altomonte. Catanzaro. 1908. p. 75. Si ricordano anche il sepolcro di Ademaro Romano in S. Nicola in Plateis a Scalea, i frammenti dei quattro monumenti della Cappella De Sirica – Crispo nella chiesa del Rosario a Vibo Valentia, i sarcofagi Sanseverino di Mileto, il monumento Ruffo in S. Francesco a Gerace. F. Negri Arnoldi, Scultura trecentesca in Calabria: il maestro di Mileto, in “Bollettino d’Arte”, s. V, LVII (1972), 1, pp. 20-32. F. Negri Arnoldi, Scultura trecentesca in Calabria: apporti esterni ed attività locale, in “Bollettino d’Arte”, s. VI, LXVIII (1983), 21, pp. 39-43. 6  È avulsa da questa considerazione l’esperienza dei Portali; caso questo in cui, utilizzando un materiale a loro più familiare, gli scalpellini locali riuscirono a dare vita ad un proprio linguaggio originale, riconoscibile ed ampiamente diffuso. A dimostrazione delle doti e delle capacità in possesso delle maestranze locali non si può fare a meno di citare una delle opere più significative della loro produzione ancora conservata: l’Altare dell’Annunziata di Belcastro. L’opera dello scalpellino Antonio Nicoletta di Rogliano emerge per la notevole qualità formale ed esecutiva e per l’equilibrio che domina la composizione nel suo complesso. In esso sono state chiaramente individuate citazioni di un linguaggio classico colto e desunto dalla trattatistica. A. Frangipane, Architettura di M.o Antonio da Rogliano in Belcastro, in “Brutium” VI (1927), 9, p. 3. B. Mussari-G. Scamardì, L’altare e la chiesa dell’Annunziata di Belcastro, in “Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico Urbanistico”, Università degli Studi di Reggio Calabria, VIII-IX (1998-1999), 16-18, pp. 63-74. 7  Tra gli esempi più noti, nonostante le circoscritte ma pur presenti diversità che emergono analizzando attentamente i manufatti, si ricorda il caso probabilmente più eclatante per l’area meridionale, cioè il monumento per la Cappella Piccolomini che il Duca di Amalfi volle del tutto simile a quella del cardinale del Portogallo in S. Miniato. B. Mussari, I monumenti sepolcrali, in Storia della Calabria nel Rinascimento, a cura di Simonetta Valtieri. Reggio Calabria. 2002. p. 936, nota 13.

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Si ricordano a tale proposito anche i frammenti di un sepolcro costituito da una lastra con la raffigurazione di un guerriero insieme a tre leoni che abbracciano blasoni gentilizi e brani del basamento originale conservati nel Battistero di Santa Severina. 9  Secondo il modello sansoviniano dei monumenti Sforza e Basso in S. Maria del Popolo e di quello Manzi in S. Maria in Aracoeli a Roma. 10   Riproponendo un motivo già adottato nel mausoleo di Sergianni Caracciolo che anche la scuola veneta aveva fatto proprio nel monumento sepolcrale del Doge Pietro Mocenigo di Pietro Lombardo nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo e in quello di Melchiorre Trevisan attribuito a Lorenzo Bregno in Santa Maria Gloriosa dei Frari, entrambi a Venezia. 11   Meno numerosi gli ecclesiastici per i quali si realizzarono, tranne qualche eccezione, monumenti meno significativi dei più imponenti esempi quattrocenteschi. 12   Barnaba Abenante, Barone di Calopezzati (Corigliano Calabro, CS), era cavallerizzo maggiore di Alfonso d’Aragona e governatore delle reali razze di cavalli in Calabria; fu investito del titolo feudale da Ferrante I d’Aragona nel 1482, per rinuncia fatta dal Principe di Bisignano Girolamo Sanseverino. Il monumento, commissionato da Mariano Abenante, è inserito in una nicchia e presenta la consueta articolazione dei monumenti funerari destinati agli uomini d’arme. Sullo zoccolo si eleva un alto basamento tripartito inquadrato da una coppia di paraste trabeate che definiscono lo spazio centrale. Sui due riquadri esterni sono scolpite le armi di famiglia, mentre al centro trova spazio l’epitaffio commemorativo. Il tumulo, sollevato su sostegni zoomorfi, è mosso da motivi floreali che formano due serti appesi sui lati; al centro è lasciato lo spazio per un’epigrafe, mentre la figura distesa del defunto sulla sommità funge da coperchio. L’opera, d’autore ignoto, è di buona fattura, molto probabilmente prodotta da botteghe napoletane. Essa si caratterizza per la statua del defunto giacente anziché appoggiata ad un braccio o eretta, rispondente al tipo diffuso tra Quattrocento e Cinquecento, ripreso in Calabria nel sepolcro Ricca a Isola Capo Rizzuto; anche la massiccia consistenza del supporto e la scansione del dossale sono una chiara interpretazione delle classiche arche quattrocentesche. Iscrizione: d.o.m. barn.bae abenante galopezzati 8

domino quem domi forisque bene spectatum ferdinandus alphonsusque aragonei neapolitanorum reges eius in se. pietatis atque ufficiorum tractandis item rebus fidei ad diligentiae memores honestarunt commodisq. auxerant plurimus marianus filius patri opt. et b. m. p. anno a partv virginis mdxxii

B. Mussari, I monumenti sepolcrali, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Cit.. p. 942. G. Amato, Crono-istoria di Corigliano Calabro. Corigliano. 1884, rist. Forni, Bologna. 1980. pp. 96-97. F. Grillo, Antichità storiche e monumentali di Corigliano Calabro. Cosenza . 1965. T. Gravina Condè, Note di storia ed arte a Corigliano Calabro. Soveria Mannelli. 1995. p. 61. “Malgrado l’assoluta preponderanza di opere siciliane, per la scultura funeraria abbiamo esclusivamente opere napoletane. Purtroppo i numerosi stravolgimenti degli edifici ecclesiastici hanno penalizzato più di altre questa tipologia scultorea e non ci è, quindi, consentito avere un quadro attendibile della situazione; tuttavia, da quello che ci è pervenuto, emerge che, come avveniva in ambito napoletano, il primato sulle commissioni era detenuto ad inizio secolo da Napoli e dalla bottega dei Malvito. A questa bottega rimandano ad esempio opere come il Mausoleo di Barnaba Abenante nella sagrestia vecchia di S. Antonio a Corigliano Calabro (CS), o il Sepolcro del vescovo Vincenzo Galeota della Cattedrale di Squillace (Vibo Valentia).” A. Migliorato, Tra Messina e Napoli: La scultura del Cinquecento in Calabria da Giovan Battista Mazzolo a Pietro Bernini, Società Messinese di Storia Patria. Messina. 2000. p. 85. Il sepolcro Ricca (di Giovanni Antonio Ricca, primogenito di Troylo, investito del feudo da Ferdinando II D’Aragona per i servigi resi alla corona si trova nella Chiesa di S. Marco), ad Isola Capo Rizzuto (KR) rimane però isolato dal nostro contesto: di datazione incerta (II metà del XVI secolo) l’opera rappresenta un palinsesto dei motivi, delle forme e dei simboli che si riscontrano in molti monumenti sepolcrali dell’epoca. La sovrabbondanza della decorazione, l’affannato rincorrere ogni spazio vuoto, la manifesta assenza di un programma ordinato cui si aggiunge un livello esecutivo di qualità discutibile, denunciano il tentativo non riuscito di uno scalpellino o di una bottega preoccupata di costruire una babele di citazioni e prestiti che non hanno contribuito alla realizzazione di un progetto unitario. B. Mussari, I monumenti sepolcrali, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Cit. p. 928, p. 946. 13   Il monumento funerario (in S. Bernardino) di Rossano (CS), commissionato da Nicola De Somma, è costituito da un’arca marmorea sormontata dall’effige giacente del defunto. Il sepolcro, dalla semplice geometria, presenta il dossale scandito in tre spazi; i due esterni incassati in un’alta cornice modanata portano due stemmi avvolti da un ricco cartiglio a rilievo, di cui quello a sinistra rappresenta l’arma della famiglia di Somma; nel vano centrale, più ampio, è posto l’epitaffio. Superiormente, senza alcun elemento di mediazione, poggia la statua del defunto sollevato sul braccio destro e con la testa reclinata sulla mano; rappresentato con la corazza, ad esclusione dell’elmo poggiato sul cuscino. Da sottolineare è la naturalezza della posa e la cura dei particolari; soprattutto nella resa dei caratteri somatici del volto. Chiaro il riferimento al diffuso modello cinquecentesco specie in area napoletana; innegabili sono le affinità con la statua del sepolcro di Federico Vries in S. Giacomo degli Spagnoli di Annibale Caccavello o con quella del monumento Gesualdo di Gerolamo Santacroce nel Museo di S. Martino, sempre a Napoli. Il monumento fu spostato nel 1635 su iniziativa del rossanese Girolamo Tagliaferri come ricorda un’iscrizione: cenothaphium nobilis equitis oliberii de summa benignitate tagliaferri huic choro translatum curavit anno dni mdcxxxv. Iscrizione: oliverio patritio neapolitano ex nobili summor familia cataphractor equitum prefecto fortiss ac ioanne longae ex nobilitate consentina nicolaus filius

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parentibus b. m. summa pietate posuit theogoniae ann m.d.xxxvi B. Mussari, I monumenti sepolcrali, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Cit. p. 944. A. Gradilone, Storia di Rossano. Chiaravalle Centrale. 1980. p. 451, nota 47. 14   Gli esempi da citare possono essere molteplici: dal monumento del Viceré Ramon de Cardona di Giovanni da Nola ai sepolcri Rota in S. Domenico Maggiore di Giovan Domenico D’Auria, Giovanni Antonio Tenerello e Annibale Caccavello, dal citato monumento Gesualdo di Girolamo Santacroce in S. Martino al sepolcro Somma in S. Giovanni a Carbonara di Annibale Caccavello, fino al monumento per Walter Von Huernheim, in S. Giacomo degli Spagnoli a Napoli di Domenico D’Auria e Annibale Caccavello. B. Mussari, I monumenti sepolcrali, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Cit. p. 937, nota 21. 15   Il monumento, opera del carrarese Raimo Bergantini, commissionata da Ferrante e Marco Antonio Gaeta, si presenta come un’edicola architettonica di marmo bianco-grigio inquadrata da paraste tuscaniche elevate su piedistalli con l’arma della famiglia a sostegno della trabeazione dorica con cornice aggettante. All’interno dell’edicola, in una nicchia rivestita di marmo scuro con panoplie su archivolto e piedritti, si erge la statua del defunto con un leone accovacciato ai suoi piedi, simbolo di forza ed emblema della casata; ai lati della nicchia, invece, è rappresentata l’Annunciazione. La statua si eleva sull’urna di breccia verde-nera, sostenuta da candidi sostegni zoomorfi poggiati su un ampio zoccolo che contiene l’epitaffio. La severità dell’insieme, la linearità delle forme, l’adozione dell’ordine tuscanico, ben si addicono all’immagine del guerriero, contribuendo ad una fusione armonica tra architettura e scultura. Si tratta dell’unico esempio calabrese conosciuto in cui il defunto è ritratto in posizione eretta. Immediati i riferimenti a noti monumenti sepolcrali napoletani; quello Caracciolo in S. Giovanni a Carbonara realizzato da Giovanni Marigliano da Nola e dai suoi allievi Annibale Caccavello e Gian Domenico D’Auria; il monumento di Giovan Battista Capece Minutolo nella Cattedrale di Napoli, più aderente al modello cosentino nell’impostazione architettonica dell’insieme, nell’adozione del tuscanico e nella presenza dell’iconografia mariana, o la tomba per Walter Von Huernheim in San Giacomo degli Spagnoli in cui compare anche il leone accovacciato ai piedi del guerriero, e i monumenti degli Spinelli a Santa Caterina a Formello. Questi monumenti, a differenza del nostro, chiudono la composizione con un frontone che sovrasta la nicchia. Il consueto motivo delle panoplie ricorre spesso nel palinsesto degli apparati decorativi scultorei di soggetti in cui sia immediato il riferimento al tema militare; basti ricordare l’archivolto di porta capuana a Napoli o l’impaginato di porta Napoli a Capua. Iscrizione: d.o.m. m. antonius caieta octavio c. filio unico pater infelix cum poneret diem et ipse obiit quare ne quos pietas atq. amor ivnxit dies ulla separet idem tumvlus et filii cineres et patris ossa complectitur a.d. mdlxxxxiii Fonti Documentarie: Archivio di Stato di Napoli (ASN). Fondo Notarile. Atto del notaio Giovanni Andrea Castaldo, 24 dicembre 1585. Archivio di Stato di Cosenza (ASCS). Fondo Notarile. Atto del notaio Giacomo Maugeri, 27 marzo 1593, ff. 70v. B. Mussari-G. Scamardì, Maestri toscani a Cosenza tra XVI e XVII secolo, in “Quaderni del dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico”, IV (1994) 8, Università di Reggio Calabria. pp. 169-180. B. Mussari, I monumenti sepolcrali, in Storia della Calabria nel Rinascimento, cit. p. 950. 16   B. Mussari-Giuseppina Scamardì , Maestri toscani a Cosenza tra XVI e XVII secolo, in “Quaderni del dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico”, cit. pp. 169-180. 17   Famiglia Gaeta del Leone; il Castiglione Morelli dà la descrizione dello stemma: Area quadripartitae superiorem dexteram cellulam argenteam occupat Leo conchyliatus, sicut, et inferiorem laevam; reliquae duae cinabro illusae tantum remanent, Icon est Familiae, Gaeta del Leone: Lo stemma è inquartato nel 1° e nel 4° di argento al Leone di porpora. Nei 2° e nel 3° di rosso pieno Lo scudo accartocciato con elmo a bocca di passero da cui fuoriesce la figura di un leone rivoltato. Questo stemma si trova all’interno della Chiesa dì S. Francesco di Paola alla base delle paraste del grandioso sepolcro marmoreo di Ottavio Cesare Gaeta A. Ferraro, Stemmi nobiliari a Cosenza. Cit. p. 31 L’atto di convenzione per la realizzazione dell’opera, però è anteriore di alcuni anni, essendo stato stipulato a Napoli il 24 dicembre 1585 tra gli scultori e Ottavio Genuise, procuratore non solo di Ferrante, ma anche di Marco Antonio di Gaeta: la copia di questo primo atto di convenzione è riportata nel citato atto del notaio Maugeri. È da notare che nel 1585 è Marco Antonio Gaeta ad affidare l’incarico agli scultori perché venga realizzato il sepolcro per Ottavio, suo unico figlio. Dopo poco tempo, però, anch’egli muore, e viene sepolto nella stessa tomba. Prova di ciò, è non solo il fatto che nell’atto stipulato il 1593 Marco Antonio non compaia più tra le parti, ma, soprattutto l’epitaffio posto alla base del sepolcro: d.o.m. m. antonius caieta octavio c. filio unico pater infelix cum poneret diem et ipse obiit quare ne quos pietas atq. amor ivnxit dies ulla separet idem tumvlus et filii cineres et patris ossa complectitur a.d. mdlxxxxiii Saposto alla base del sepolcro: 18   Quando Andrea Maggiore, “mastro scarpellino di Carrara”, compare per la prima volta a Cosenza è il 1598. Anche in mancanza di fonti che lo confermino si può però ipotizzare che a questa data egli fosse ancora abbastanza giovane visto che davanti a sé avrà ancora numerosi anni di attività, e nonostante questo non fosse certo solo un apprendista in quanto i lavori che gli vengono commissionati sono di un certo rilievo e i committenti che richiedono le sue prestazioni di una certa importanza. Andrea non è, poi, il primo toscano che arriva in Calabria, altri “mastri” fiorentini erano già stati attivi in città intorno alla prima metà del 1500 per alcuni lavori di risistemazione interna della Cattedrale. Presenza questa che può certo trovare spiegazione nella permanenza negli anni 1528-1561, come già sottolineato, dei due vescovi Gaddi fiorentini che certo è plausibile ritenere chiamassero a lavorare per loro artefici di cui già conoscevano l’abilità. Andrea, in questo suo primo incarico collabora con Niccolò Cioli, presumibilmente da ricondurre alla nota famiglia di origine fiorentina dei Cioli, e Antonio Grasso. Che questo fosse il loro primo incarico si desume dal fatto che nessuno di questi nomi compare mai nei protocolli notarili anteriormente al 1598 e se si considera che era normale rivolgersi al notaio per la stipula di atti per motivi tra i più disparati, se qualcuno di loro avesse svolto una qualche attività a Cosenza se ne sarebbe certamente trovata traccia. Questo primo impegno cosentino affidato loro dai rappresentanti dei nobili e dei cittadini, nonché dal Vescovo, Giovan Battista Costanzo, si riferisce alla realizzazione di “uno pulpito de pietra misca nella nostra Cathedrale chiesa Consentina, con

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le armi d’essa Città e sen ci spendessero Ducati cinquecento da pagarsi alli maestri tra diece anni a Ducati cinquanta l’anno” (Archivio di Stato di Cosenza, ASCS. Atto del notaio Orazio Migliorella – 27 Settembre 1599 – f. 70.r.). Nel settembre del successivo anno 1599 il pulpito è terminato, ne fa fede il pagamento di 30 ducati “a complimento saldo e final conto delli ducati cinquecento per detto Vincenzo promessi alli mastri scarpellini per la costruzione et fattura del pulpito de pietra misca”(Archivio di Stato di Cosenza, ASCS. Atto del notaio Orazio Migliorella – 27 Marzo 1599 – f. 252.v.). Oggi sia del disegno che del pulpito si sono perse le tracce e dello stile di Andrea Maggiore ci resta concreta testimonianza nei disegni da lui eseguiti e firmati relativi a due “cappelle”(altari) da erigersi nella Cattedrale. Entrambi i disegni sono eseguiti su foglio di doppio formato rispetto alla pagina del protocollo in una scala leggermente inferiore al rapporto 1:20. Oltre ad essere colorati presentano anche un accenno di ombreggiatura; ciò riesce a dare un’immediata percezione dei volumi. In basso è riportata in entrambi una scala di misura di riferimento, mentre è solo per alcuni dettagli che è prevista l’indicazione della misura effettiva, espressa in palmi. Molto accurata è anche la legenda ricca di indicazioni relative a materiali e colori. Il primo disegno è allegato all’atto di convenzione, che contiene dettagliata descrizione dell’opera, tra Andrea e Giovan Maria Bernaudo ed è datato 1602 (Archivio di Stato di Cosenza, ASCS. Atto del notaio Giacomo Maugeri – 20 Giugno 1602 – f. 137.r. e v.). L’opera per cui Bernaudo pagherà 300 ducati sarà consegnata il giorno di Pasqua del 1603. La seconda opera Andrea la realizza per la famiglia Matera (si veda nota 3 del I Capitolo), posta “nella metropolitana ecclesia di Cosenza, allo lato di la porta maggiore di detta ecclesia.” (Archivio di Stato di Cosenza, ASCS. Atto del notaio Giacomo Maugeri – 19 Dicembre 1603 – f. 632.r.) e dovrà essere consegnata il giorno di Natale del 1604 ad un prezzo convenuto di ducati 315. Lo schema è di tipo classico: su un basamento, costituito da uno o più gradini, si eleva la sepoltura, su cui è posto l’epitaffio commemorativo. Sopra di questo e in posizione arretrata è la fascia che comprende i piedistalli su cui poggiano le colonne (nel caso della cappella Bernaudo esse contengono le armi della famiglia) che definiscono lo spazio centrale, limitato a sua volta da una cornice più o meno articolata, all’interno della quale trova collocazione un’immagine sacra. Le colonne, di ordine ionico, sorreggono una sobria trabeazione, su cui si imposta un timpano spezzato (di andamento rettilineo nella prima e curvilineo, completato dai soprastanti obelischi e anforette, nella seconda). Mentre lavora all’altare per la famiglia Matera, Andrea prende un altro impegno con Antonio Ricciardi per un’altra Cappella che però non verrà mai eseguita: l’atto viene annullato nel Dicembre del 1604. A questo punto si perdono le tracce di Andrea Maggiore a Cosenza ma la sua attività continuerà nel territorio della provincia di Calabria Citra. Bruno Mussari – Giuseppina Scamardì , Maestri toscani a Cosenza tra XVI e XVII secolo. Cit. p. 175-180. 19   Il termine “mastro scarpellino” non va riferito al mero esecutore materiale (per il quale si usa solo la locuzione “scarpellino”), bensì molto spesso all’ideatore e progettista dell’opera, come sta a testimoniare il fatto che spesso si fa riferimenti a modelli elaborati e realizzati da questi “mastri”. B. Mussari-G. Scamardì , Maestri toscani a Cosenza tra XVI e XVII secolo. Sull’attività di Andrea Maggiore da Carrara a Cosenza. Cit. p. 175-180. 20   Pietro Barbalonga di Carrara viene definito in molti documenti come residente ad Aiello e a Messina. Ad Aiello visse fino al 1626 dove morì il 23 Aprile. Insieme ad Andrea Maggiore e Gian Battista Cioli aveva ricevuto nel 1598 da Alfonso Cybo Malaspina, Duca di Aiello, l’incarico per la realizzazione dell’altare per la cappella di famiglia nella Chiesa di S. Maria delle Grazie. La composizione dell’altare, i materiali utilizzati e l’articolazione delle parti rispecchiano in pieno quella tipologia di altare monumentale che ebbe una larga diffusione in Calabria Citra alla fine del XVI secolo. Realizzò poi, ancora, con il Cioli, per il diacono Alfonso Tanfo l’attuale altare maggiore della chiesa dell’Anunziata di Tropea. Nel 1608, inoltre, riceveva l’incarico per la realizzazione del sepolcro di “petra misca et nigra” con le statue dei committenti oranti, come richiesto da Giacomo Cavallo di Amantea, e nel 1619 era chiamato dalla confraternita dei Nobili di Amantea ad eseguire “l’adornamento della cappella del presepio… et il sepolcro di marmori conforme la pia disposizione fatta per Fabritio Mirabello Di Scigliano” M. Camera, La cappella Cybo e il convento dei minori Osservanti di Aiello Calabro, in “Quaderni del dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico”, IV (1994), 8, pp. 77-90. F. Paolino, La cappella Cybo Malaspina in Aiello Calabro, in “Palladio”, n.s., VII (1995), 15, pp. 29-38. F. Paolino, Altari monumentali in Calabria. 1500-1620. Reggio Calabria. 1996. pp. 127-140. A. Bavaglio, Committenza nobiliare in San Bernardino di Amantea: l’opera dello scultore messinese Pietro Barbalonga (1608-1619), in “Calabria Letteraria”, XLVIII (2000), 1-3, pp. 30-32. In un recente lavoro è stata avanzata l’ipotesi che il Barbalonga sia l’autore e l’esecutore della complessa cappella Spinelli nel santuario di s. Francesco di Paola a Paola. F. Paolino, Cappelle gentilizie e devozionali in Calabria, cit. pp. 87-115. 21   Per una panoramica della diffusione e dislocazione delle cave in Calabria, oltre che per la diffusione dell’uso delle brecce locali anche nella vicina Sicilia. F. Paolino, Cappelle gentilizie e devozionali in Calabria. Cit. pp. 10-12. R. Banchini, Tra arbitrio e restauro. L’intervento sul rivestimento marmoreo della cinquecentesca Cappella Spinelli nel Santuario di Paola (1926-33), in “Quaderni del dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico”, X (2000), 19-20, pp. 173-196. 22   Per Andrea Maggiore e Pietro Barbalonga si può accertare il trasferimento in Calabria come dimostra la documentata attività negli anni compresi tra la fine del XVI secolo e i primi del XVII.

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Amedeo Lico

Maestranze roglianesi-scalpellini, un segno indelebile di genialità e arte nell’edilizia religiosa di Cosenza e dei suoi casali tra xv e xviii secolo

Fig. 1 Cattedrale di Cosenza (sec. XIII)

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Nell’introdurre il discorso sugli scalpellini roglianesi, nel territorio di Cosenza e dei suoi Casali, è doveroso soffermarci su quelle che sono le caratteristiche tipologico-strutturali del patrimonio artistico-architettonico dell’edilizia religiosa nel territorio. In Calabria, il patrimonio artistico-architettonico coincide quasi esclusivamente con il patrimonio ecclesiale. Studiando il sistema insediativo di Cosenza e dei suoi Casali, la ricerca diretta sul campo ha portato all’individuazione di alcune tipologie importanti, sia nell’assetto più propriamente urbanistico dei paesi in esame che nelle strutture architettoniche specifiche degli edifici sacri, sebbene questi ultimi abbiano subito diversi adattamenti e trasformazioni soprattutto nel corso dei secc. XVII e XVIII, in pieno periodo barocco. Si è, dunque, evidenziato un linguaggio artistico comune che, lentamente, da Cosenza città-capoluogo è andato diffondendosi anche negli altri paesi limitrofi e non solo, talvolta assumendo toni meno aulici e raffinati. Già durante il Medioevo, Cosenza esportò nei Casali il modello strutturale-architettonico derivato dalla sua Cattedrale (Fig. 1), insigne opera che contempera, armoniosamente, la solida semplicità formale di gusto romanico della vasta aula con il gotico cistercense. Alcune chiese della Valle del Savuto e della Presila cosentina dipendono, infatti, quasi del tutto dall’esempio di Cosenza. Gli esempi più significativi sono rappresentati dalle Parrocchiali di San Giovanni Battista a Figline Vegliaturo, di San Giorgio Martire a Rogliano (Fig. 2), dei Santi Giovanni e Cipriano a Mangone, di San Nicola a Pietrafitta, di San Giovanni Battista a Lappano, di San Giorgio Martire a Zumpano, di San Michele Arcangelo a Celico, di Santa Maria Assunta a Spezzano Piccolo, di Santa Barbara a Rovito e di San Pietro a Pedace. L’epoca in cui più ampiamente si diffuse un linguaggio unitario, che accumunò la città di Cosenza al suo ampio contado, fu il Cinquecento. In molte chiese dei Casali, oltre alla disposizione planimetrica originaria,


viene evidenziato l’arco trionfale della zona presbiteriale, a tutto sesto con torchon in pietra locale scolpita, fasce mistilinee ad ovuli o con il classico motivo di reminescenza romana a meandro. Come spesso accade nelle aree urbane periferiche, i contatti e gli scambi culturali non avvengono in modo sincronico rispetto ai centri propulsori principali, dove i cambiamenti ideologici investono diffusamente tutti i settori generando un coinvolgimento collettivo ed un processo evolutivo dei modelli iniziali. Un centro artistico, per essere tale, non solo deve radunare un considerevole gruppo di artisti o di scuole, ma deve anche avere un pubblico sufficiente a stimolare la produttività di opere. La funzione svolta dalla committenza e dalla Fig. 2 Rogliano (CS), Chiesa San Giorgio Martire (sec. XVI) società è dunque decisiva per la nascita e la crescita di un centro artistico e, soprattutto, per la formazione di quei centri artistici periferici; l’elemento propulsore per la creatività delle maestranze è dato dalla concorrenza e dalla competizione tra le varie scuole. In Calabria si assiste alla nascita e all’affermazione di una fervida attività artistico-architettonico-artigianale ad opera di diversi gruppi-scuole di maestranze, da Rogliano a San Giovanni in Fiore, ad Altilia, a Fuscaldo e a Morano Calabro, in provincia di Cosenza, e fino a Vibo Valentia e a Serra San Bruno nella Calabria Ultra. Queste, specializzandosi nei vari settori dell’arte e sensibilizzate altresì dalle correnti stilistiche e dagli influssi provenienti soprattutto da Napoli, capitale del Regno, attraverso l’operato di maestranze straniere chiamate ad operare in Calabria, diedero vita a delle vere e proprie dinastie di mastri architetti, muratori, decoratori, intagliatori, stuccatori, doratori, fonditori di campane e non in ultimo scalpellini che tramandarono, di generazione in generazione, fino alla prima metà del secolo XIX, la propria cultura, autoctona ed originale, mirata pur sempre all’introduzione e al perfezionamento di forme e tecniche nuove. Nella Calabria Citeriore in particolare, il Casale di Rogliano diede i natali al nucleo principale delle maestranze calabresi, definito appunto Scuola di Rogliano, che, misurandosi nei diversi settori, precedentemente citati, apportò incommensurabili benefici al patrimonio culturale di questa periferia, con un respiro di ben vasta portata in tutta la regione: Come – scriveva il Frangipane – i fabbricieri e gli operai delle cattedrali famose di lassù, qui le pietre di quegli uomini rudi della montagna, con i loro ferri, con le loro reminiscenze di cose vedute lontano o di forme soltanto ereditate dalle botteghe paterne, e con il loro animo devoto umilmente alla bellezza ed alla fede sono rivelazioni di coscienza e di civiltà del nostro popolo1. Nel corso del Cinquecento, dunque, nel territorio cosentino si codificò un nuovo linguaggio artistico che guardava alle coeve manifestazioni della capitale culturale del Mezzogiorno d’Italia, Napoli, a sua volta debitrice nei confronti della tradizione classica romana. Elementi formali, in materiale lapideo, quali archi a tutto sesto, fregi a motivi fitomorfi o antropomorfi, grottesche, fasce decorative a meandro o a can cor223


rente, lesene scanalate, insieme all’uso di modelli iconografici reinterpretati come la Vittoria Alata, presente nelle lunette degli archi di trionfo romani, riletta come Angelo del Signore reggi cortina, vengono combinati in modo nuovo e originale; e, con l’aggiunta talvolta di elementi diversi e sempre più ricchi, elaborati e fantasiosi, saranno utilizzati anche nel corso del sec. XVII e di quelli successivi, diventando così una costante originale della cultura artistica regionale. La diffusione di questi nuovi modelli artistico-architettonico-artigianali nel territorio dei Casali, ed anche oltre, fu dovuta all’attività di scalpellini e capimastri architetti, spesso anonimi, facenti capo alla cosiddetta Scuola Roglianese, che, se pure privi di una formazione culturale direttamente legata alle aree artistiche più evolute, furono comunque capaci di riprodurre magistralmente i diversi modelli iconografici e decorativi, combinando stilemi del mondo classico con elementi tratti dal nuovo linguaggio rinascimentale della vicina Napoli. Numerosi e di pregevole fattura sono poi i portali realizzati quasi tutti in pietra calcarenitica, solo qualcuno in granito silano, elementi caratteristici e spesso simbolo della potenza e dell’importanza della committenza: testimonianze artistiche minori, ma significative del gusto rinascimentale, come giustamente annota lo storico Isnardi: Il Rinascimento ha in Calabria forse le sue prime timide manifestazioni proprio in alcuni di essi, in cui talora una riquadratura classicheggiante, quasi ad arco romano di trionfo, incornicia la sagomatura del vano d’entrata o quella a più archi a tutto sesto, come nella Matrice di Cropani. Il motivo si diffonde largamente dappertutto sino a che il Barocco tutto ingrandisce e complica [...]2. I portali costituiscono gli elementi qualitativamente più interessanti ricorrenti nei Casali di Cosenza; il modello sembra far riferimento alla Porta Capuana a Napoli (Giuliano da Majano, 1485-1488, decorata successivamente in marmo tra il 1492 ed il 1494), nonchè alla porta Napoli a Capua, variante tipologica di porta Capuana, edificata intorno al 1490 sempre dal G. da Majano su commissione del Duca di Calabria3. Il modello recupera tuttavia anche stilemi medievali, come l’uso del torchon, e classici, come la cornice superiore aggettante architravata con decorazione a dentelli cubici, fasce con decorazione ad ovoli e frecce, scanalature, angeli/vittorie nelle lunette dell’arco a tutto sesto, volute. La fortuna di questo modello, che da Cosenza si diffuse a Rogliano, Pedace, San Pietro in Guarano, Pietrafitta, Trenta, fu talmente grande da trovare esempi anche oltre il territorio dei Casali, come ad esempio a Campana, nella Chiesa di San Domenico, e ai margini dell’abitato di Rossano. È chiaro che la presenza diffusa nella regione di una stessa maestranza, quale fu quella roglianese, testimonia gli stretti contatti tra committenza e esecutori; ad esempio, i vescovi di Reggio Calabria, Cosenza, Belcastro (CZ), Umbriatico (CZ) appartennero tutti alla nobile famiglia roglianese dei Ricciulli4 (Fig. 3), per cui non desta meraviglia se M° Antonio da Rogliano, ad esempio, giunse fino a Belcastro per la realizzazione della Chiesa dell’Annunziata nel 1610 (Fig. 4). Di certo preferivano commissionare le opere a maestranze provenienti dalla loro stessa terra d’origine, pur non escludendo la possibilità di contatti diretti con artisti stranieri. In una regione periferica come la Calabria, è certamente un fatto abbastanza eccezionale riscontrare, in un’area vasta come quella dei Casali, presenze artistiche di notevole qualità formale, dal Medioevo fino al Rinascimento avan224


Fig. 4 Belcastro (CZ), Chiesa dell’Annunziata (sec. XVII)

Fig. 3 Rogliano (CS), lapide posta sulla parete sud della Chiesa di San Pietro (sec. XVIII), in ricordo dei Vescovi appartenenti alla nobile famiglia dei Ricciulli

Fig. 5 Altare maggiore (sec. XVII), Chiesa San Giorgio Martire (sec. XVI) Rogliano (CS); Particolare della cimasa e del timpano spazzato

zato, con la permanenza di stilemi e di tipologie architettoniche che, rielaborati ed arricchiti, diventeranno costanti significative e rappresentative di un gusto tipicamente meridionale fino a tutto il Settecento ed anche oltre. È evidente anche l’analogia formale, stilistica e compositiva tra gli altari lignei (Fig. 5) e i portali lapidei coevi di Rogliano e dei Casali, in cui la cimasa può essere evidentemente assimilata alle finestre o alle nicchie che, spesso, interrompono i timpani dei manufatti litici5 (Figg. 6-7-8). Per comprendere appieno l’importanza di Rogliano, rispetto ai centri limitrofi pur preminenti, bisognerà aggiungere, a quanto finora detto, il giro di cultura notevolissimo che in essa fu attivo grazie alla presenza, nel corso dei secoli, non solo di diverse famiglie nobili, ma anche e soprattutto di importanti insediamenti religiosi6, che ne promossero lo sviluppo e non mancarono di influenzarlo, permettendo anche un continuo scambio di idee e di esperienze in ogni settore artistico. Rogliano diede i natali anche ad illustri architetti e mastri fabbricatori scalpellini, a partire già dai primi anni del sec. XVI. Questi, sia nel campo civile che in quello religioso, lasciarono testimonianze di alto livello qualitativo non solo nel loro paese d’origine e nel territorio calabrese in genere7, ma anche al di là dei confini regio225


Fig. 6 Cosenza, portale principale Chiesa San Gaetano (sec. XVII)

Fig. 7 Loc. Portapiana Cosenza, portale principale Chiesa di Santa Maria della SanitĂ (sec. XVII)

Fig. 8 Cosenza, portale principale Chiesa delle Cappuccinelle (sec. XVII) 226


Fig. 9 Cosenza, Monastero delle Vergini (sec. XVI)

nali, nella capitale del Regno e all’estero (Austria, Germania), dove vennero chiamati da specifiche committenze. Diverse fonti archivistiche riportano, talvolta, il binomio architetto et mastro scalpellino oppure capomastro architetto, volendo significare che l’ideatore e progettista dell’opera, molto spesso, era anche identificabile con l’esecutore materiale (lo scalpellino, appunto) della stessa, seppur in collaborazione con la propria equipe di mastri fabbricatori e muratori. Colui, che realizzava gli elaborati grafici della fabbrica, si occupava praticamente delle rifiniture e delle decorazioni, attraverso l’erezione di eloquenti portali lapidei ad arco trionfale. Per quanto riguarda la vera e propria struttura compositiva dei manufatti lapidei c’è da dire che, negli scopi della committenza e dello stesso maestro, essi dovevano rappresentare l’elemento dominante delle facciate sia di edifici sacri che profani, espressione anche della potenza della Chiesa o di una famiglia nobile rispetto ad un’altra; per cui, il riferimento immediato ed il modello ispiratore non poteva non essere che l’arco di trionfo romano, derivato a sua volta dagli schemi compositivi dei templi greci. Il Minicucci, oltre agli intagliatori, stuccatori e fonditori di campane, cita diversi capimastri architetti roglianesi, tra cui Francesco Tezza (sec.XVII), Domenico Crespini, Rocco Mazzei, Nicolò Nicoletti, Domenico, Michele, Saverio e Nicolò Ricciulli (sec. XVIII)8. Dalla Cronica del Bosco9 è riportato che la Chiesa ed il monastero delle Vergini a Cosenza vennero fondati nel 1515 (Fig. 9) sotto il pontificato di Giulio II[…] della qual fabbrica fecero il partito i roglianesi Domenico La Cava e Pietro Celeste. Dall’atto del 7 settembre 1540, per notar Angelo Desideri di Cosenza10, si rileva che il Pubblico Reggimento di Cosenza stipula una convenzione con M° Benedittus de Staephano di Roblano capomastro architetto per la costruzione del ponte di Santa Maria sul Crati, opera che sarà de honore et decoro de dicta Città. Il ponte de li Rivocati, costruito originariamente nel 1222 dal M° cosentino Paolo Vigliaturi al tempo della venuta dell’Imperatore Federico II Svevo, in seguito a diverse inondazioni del fiume Crati, venne più volte ricostruito nel corso dei secoli XVI-XVIII; in particolare, nel 1524, M° Pietro Volotta da Rogliano lo riedificò con tufi ben intagliati ed incatenati per duc.ti 1811. Dall’atto del 10 agosto 1577, nel prot. Riguardante Rogliano12, si rileva che R.doGio: Innocenzio Arabia retture et cappellano de San Petro… et altri parrocchiani de detta ecc.a, convengono con i Mi Ger.mo et Ant.no de Nicoletta de Rogliano per la realizzazione di una rosa de detta ecc.aconforme al modello … per lo pr.zzo de d.ti trentasette” Dall’atto del 12 febbraio 1599, per notar Giacomo Maugeri di Cosenza13, si rileva la data di fondazione della nuova Chiesa del Gesù a Cosenza; il progetto dell’edificio sacro era opera di Magistro Sansonello (o Sansonetto) Crepisito fabricatore. Presso lo stesso notaio, con l’atto del 31 maggio 1605, M° Sansonetto Belsito da Rogliano, per l’importo di duc.ti 1700, si impegnava con la Regia Corte di Cosenza ad eseguire i lavori di ampliamento del 227


Regio Palazzo e la costruzione fra l’altro di una gallaria superiore ove si passiggerà. Poiché l’attività del Belsito è documentata dalla fine del ‘500 ai primi anni del secolo successivo, è da ritenere che, in questo arco di tempo, egli abbia realizzato anche il ponte sul Savuto, detto della Balzata, precedentemente citato. Della stessa famiglia, un Magister Marcus Belsitus è citato nell’atto del 22 gennaio 1613, per notar Giacomo Maugeri, in cui la Regia Corte di Cosenza gli aggiudica i lavori di restauro delle fabriche del Regio Castello. Con l’atto del 15 maggio 1657, per notar Francesco Maria Scavelli di Cosenza14, i PP. Minori Osservanti del Monastero di San Francesco d’Assisi convenivano con il M° Domenico Giovanni Mangerio scalpellino et architetto de Rogliano per la costruzione della cappella dell’Immacolata nel posto dove era l’altare maggiore… e co suo disigno. Dal regesto degli atti archivistici, su menzionati, si evince come i mastri architetti scalpellini roglianesi fossero rinomati e per questo chiamati nel capoluogo cosentino ad assolvere incarichi di una certa importanza. Persino nel Duomo di Cosenza, durante i lavori di restauro nel 1757, sotto il Vescovado (1748-1764) il Mons. Michele Maria Capece Galeota di nobile famiglia napoletana, si ritrovarono mastri fabricatori di Rogliano, cioè Fran.oTiano et Stefano Trocini capimastri della Bagliva di Rogliano, che realizzarono la lamia della Metropolitana Chiesa di questa città […].Opra tanto nel principio come nel mezo e fine debba essere approvata dal R.do Architetto D. Saverio Ricciulli, sotto la diret.ne del quale debbano detti Capimastri stare subordinati […]. Detta opra debbano detti Capimastri darla di tutto punto compita per Pasca di Resurrez.ne dell’entrante anno 1757, per duc.ti 575, inclusa l’intonacatura di sopra la lamia e l’arricciatura da contraforti […]15. Quindi i capimastri roglianesi Tiano e Trocini, sotto la direzione dei lavori del’Arch. Saverio Ricciulli anch’esso di Rogliano, rafforzarono i pilastri interni con contrafforti e realizzarono una volta a botte (lamia) con cornici oggi non più esistenti. Della stessa famiglia Ricciulli, una nota a parte merita il M° Arch. Nicolò, documentato nel 1704 a Paola (Cs) per la costruzione della Chiesa di Montevergine; nel 1715 a Montalto Uffugo (Cs) per l’esecuzione della facciata e della gradinata del Santuario di Santa Maria della Serra (Fig. 10); nel 1722 a Fuscaldo (Cs) per completare i lavori della Chiesa della Vergine del Buon Consiglio. Il Minicucci afferma che M° Nicolò Ricciulli, nei primi anni del secolo XVIII, collaborò alla costruzione del Palazzo reale di Napoli per cui Carlo III di Borbone gli concedette Fig. 10 Montalto Uffugo (CS), Santuario Santa Maria della Serra (sec. XVIII) speciali privilegi, come si legge in un diploma in pergamena con miniatura dello stemma reale datato Napoli, 29 agosto 170916. Quanto riportato dal Minicucci, mostra tuttavia delle incongruenze nella data del 1709 riferita al tempo del rilascio del documento, ma certamente non a Carlo III di Borbone, dal momento che questi governò nel Regno di Napoli solo a partire dal 1734 in poi, mentre il periodo sopra citato è riferito al governo asburgico di Vienna dell’Imperatore Carlo VI. Ritornando alle fonti archivistiche, certamen228


Fig. 11 Paola (CS), Chiesa di Montevergine (sec. XVIII)

te di maggiore attendibilità, l’atto del 13 ottobre 1704 per notar Francesco Maddalena sr. Di Paola17, riporta che il Dott. Nicolaus de Bartolo Civitatis Paule possiede un fabbricato dirutum, […], ed un terreno largo ubidebetedificari ecclesia della Sacra Imaginis Matris SS.ma de Montevirginis. Il de Bartolo, dunque, concede, per devozione alla Vergine, il suo terreno pro pretio ducatos quarta decim currentium a favore di Nicolaus Ricciullo de Roblano architectum, eletto da tutta la comunità sotto giuramento scritto come colui il quale doveva realizzare l’opera. Il nome dell’architetto roglianese compare già in una lettera del 19 settembre 1704, conservata presso l’archivio parrocchiale del Duomo di Paola: Domenica passata fu qui il Mastro Nicolò Ricciulli di Rogliano […], che oltre l’arte di fabbricatore fa professione di disegnatore […]. L’è stato commesso di fare due disegni uno ottangolato et archiggiato con cupola in mezzo sostenuta da quattro colonne, e l’altro lungo e quadro, colla cupola al fine, dove deve stabilirsi l’altare maggiore […]Noi confessiamo che ci piace il disegno lungo, che l’ottangolato […]18. Fu così che venne edificata la Chiesa nelle forme che oggi possiamo ammirare con lo splendido portale in pietra realizzato direttamente dal Ricciulli, insieme con la scalinata a doppia rampa con balaustra e mensole, a modiglione situata in corrispondenza dei pilastrini del piano di riposo, con ricca decorazione barocca: volute e fogliame opulento, figure antropomorfe ad altorilievo, cornici, lesene, motivi floreali e vegetali che proseguono anche al di sopra del timpano spezzato fino ad avvolgere la finestra soprastante (Fig. 11). Il portale rappresenta senza dubbio la parte artisticamente più importante della facciata che rimanda, nel suo schema compositivo, a soluzioni roglianesi quali Sant’ Ippolito (Fig. 12), San Domenico (Fig. 13) e l’Annunziata (Fig. 14). Dalla letteratura su menzionata risulta che, nello stesso periodo (1704), il Ricciulli si trovava a Cosenza sotto le Vergini; le analogie stilistiche e compositive tra il portale di Paola e quello del monastero cosentino fanno presupporre una matrice

Fig.12 Rogliano (CS), portale principale, Chiesa Fig.13 Rogliano (CS), portale principale Chiesa San Fig.14 Rogliano (CS), portale principale Chiesa Sant Ippolito Martire (sec. XVIII) Domenico (sec. XVIII) dell’Annunziata (sec. XVIII)

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Fig. 15 Cosenza, Monastero delle Vergini, portale principale (sec. XVIII)

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comune (Fig. 15). Un documento della Fam. Rodotà di San Benedetto Ullano (Cs), pubblicato interamente da Mario Borretti19, risulta particolarmente importante per la migliore conoscenza della storia dell’arte e dell’architettura in Val di Crati. L’autore del fascicoletto cartaceo di nove fogli è Don Stefano Rodotà, fondatore della Chiesa delle Vergini del Buon Consiglio, della cui erezione si fa cenno nel documento: […]Sparsa dunque cossi la devotione della Beata Vergine in questo Titolo, si determinò fabbricarsi una Chiesa dal detto D. Stefano […] Era ivi (in San Benedetto) una casa … onde fu comprata da D. Michelangelo Rodotà (padre di Stefano) l’anno 1720 per docati 7. Posto dunque in piano detto luogo con l’essersi sfabricata la casa predetta, si trattò l’edificio di detta Chiesa. Per quale, trattatosi con diversi Architetti del modo di farla, alla fin fu chiamato M° Stefano Mangerio di Rogliano20, attualmente esistente in Acri l’edificatore del Palazzo del Principe21, e redificatore della Chiesa Cattedrale di Bisignano22, fatta dalla F.M. di Monsignor Pompilo Berlengerio. L’anno 1720 venne detto Mangerio , e fatta la pianta di detta Chiesa, si trattò la conventione con publico instrumento; […] Il 07 novembre 1720 giorno di Domenica, si posò la pietra prima fundamentale […]. Ma essendo passato a miglior vita nel 1722, restò suspesa detta fabrica per qualche tempo […]Onde si pensò ad altro rimedio per finirsi la Chiesa, come in effetto fatto venire Nicolò Ricciulli, Architetto nobilissimo appunto quello istesso che fabbricò la Chiesa a Paula della Beata Vergine di Montevergine, […], à 8 marzo 1722 si ricominciò nuovamente la fabrica da mastri delegati dal predetto Ricciulli, il quale trovandosi all’ora nella fabrica della Chiesa della Concettione Santissima di Fuscaldo, s’andava ogni tanto affacciando23. È interessante, a questo punto, evidenziare il fatto che, per un solo edificio, vennero chiamati, a distanza di breve tempo, ben due architetti roglianesi, affiancati in seguito da un noto artista napoletano come il Cali, avvalorando ancor di più la tesi circa il ruolo di primissimo piano svolto dalle maestranze locali in zone tra le più svariate della regione calabrese. Si rammenta, inoltre, che il Ricciulli nel 1750 prese parte ai lavori di restauro della Chiesa Parrocchiale di San Fili (CS)24. Un altro maestro roglianese, si incontra nella Chiesa di San Giorgio Martire a Rogliano , M° Gironimo, che si è rivelato in una segnatura di uno dei pilastri della chiesa stessa: M. HIERS. CR., scritta riportata capovolta su di uno dei conci che costituisce il pilastro. La sigla può essere interpretata nel modo seguente: Magister Hieronimus Creavit, se fu uno dei mastri che vi lavorò, oppure Magister Hieronimus Curavit, se fu uno dei tanti restauratori25. Infine non si può che concludere questa relazione citando, per vie brevi, l’attuale ex Chiesa dedicata a Sant’ Ippolito Martire (sec. XVIII), in Rogliano, che in origine, da come si evince da alcuni carteggi relativi a Rogliano26, era dedicata a S.ta Maria della Sanità; da un atto dell’anno 1709 si rileva che dentro detta Ven.le Chiesa di S.ta Maria della Sanità in via sottana era situata la Ven.le Cappella di S.ta Maria sotto il titulo delli Sette Dolori. Il culto della Vergine è, dunque, evidente se si pensa anche al fatto che, sulla trabeazione del portale principale, al centro del timpano mistilineo spezzato, è collocato uno stemma che reca scolpite a bassorilievo la effigie della Madonna, e cioè due M intrecciate, sormontate da una corona, una A, una V ed una E in basso a voler scrivere AVE (quindi Ave Maria)27. La facciata sud della chiesa, quella principale è interamente intonacata, è impreziosita dal pregevole e artistico portale in calcarenite opera del “mastro” architetto Nicola Nicoletti, come è attestato dalla scritta posta sulla trabeazione, alla sommità dell’arco: Qa pius ac imitatione dignus fuerit Nicolaus Nicoletta erga han icone deiparae patet ex opificio horu postiv manibus suis gratis fabrefacto. D.O.M. 1700


(“Per il semplice fatto che Nicola Nicoletti sarà pio e degno di imitazione, viene esposto qui di fronte alla medesima immagine dello stesso altare cesellato secondo la tecnica di quelli che in seguito passeranno sotto la sua dipendenza artistica. A Dio Ottimo Massimo 1700”)28 (Fig. 16). L’ordine del portale è composito; un ordine, come precedentemente affermato, ideato dagli antichi romani per decorare, più che altro, i loro archi di trionfo. Da ciò deriva appunto la sua grandiosità29. È doveroso ricordare che il M° Nicola Noto, insieme col Fratello Antonio, realizzò nel 1708 anche il portale laterale (ovest) della Chiesa medesima (Fig. 17). È interessante, a questo punto, facendo riferimento a quanto detto sopra, evidenziare come Rogliano sia stato un centro di incontro di culture artisticoarchitettoniche diverse, in cui convivono il linguaggio classico, che si lega adeguatamente alle esigenze e alle manifestazioni artistico-architettoniche locali e del territorio di Cosenza e dei suoi Casali, ed il linguaggio autoctono sviluppatosi grazie all’estro degli scalpellini del nostro territorio.

Fig. 16 Particolare Portale principale Chiesa Sant Ippolito Martire (sec. XVIII) Rogliano (CS)

Fig. 17 Portale laterale (est) Chiesa Sant Ippolito Martire (sec. XVIII) Rogliano (CS)

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Note 1 A. Francipane, Maestranze calabresi in San Giorgio Martire di Rogliano, in “Brutium”, a. II 1923, n°3, p. 3. 2 G. Isnardi, La storia, l’arte ed il costume in Calabria, Milano 1962. 3 Ad essa fanno riferimento più propriamente i motivi classici del Monumento Sepolcrale dedicato a Ottavio Gaeta, datato 1593, sito nella Chiesa di San Francesco di Paola a Cosenza, realizzato da Ambrosius della Monacha de civitate cave M.o Bergantino de Carrara, sculptores [...] in marmore gentile di Carrara (ASC, atto del 27 marzo 1593 del notar Giacomo Maugeri, prot. n°58 (fol. 70 v.). Da esso derivò successivamente, nel sec. XVII, il portale della Chiesa dei PP. Cappuccini alla Riforma, sempre a Cosenza. Da ricordare inoltre che, il Monumento Sepolcrale dedicato a O. Gaeta, è stato oggetto di consolidamento e restauro di tipo estetico-conservativo dalla Bretia Restauri (Restauro e Conservazione dei Beni Culturali), Rogliano (CS), nel 2006, sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza B.S.A.E. della Calabria (CS). 4 Una lapide posta sulla parete esterna, sud, della Chiesa di San Pietro a Rogliano, evidenzia quanto segue: Pietro et pavlo apo/stolorv principibus/templum hoc religio/ne insigne ac maivs/gasparis regini ar/chiepiscopi antonii/cosentini/hieronymi belca/strensis episcopi/antonii vbriaticensis/ (omnes/ ricciuvlli) / sacris / infvlis illvstratvmdecoratv devota / rvblane / sivm pietas coelvm / dicavit / anno salhvm / 1638. 5 A proposito delle similitudini tra altari lignei e portali litici, è interessante notare come l’altare laterale in stucco della Chiesa Parrocchiale di San Giovanni Battista a Lappano (CS) rimanda, soprattutto nella composizione dell’intradosso dell’arco a lacunari (rosette e testine alate ad alto rilievo) e nella trabeazione con mensole e cornici mistilinee, agli schemi dei portali cinquecenteschi cosentini di San Gaetano, di Santa Maria della Sanità e delle Cappuccinelle: ciò denota, ancora una volta il rapporto inscindibile tra le diverse maestranze. 6 I Minori Osservanti, probabilmente sin dall’origine della loro riforma (a.1528), diedero impulso alla locale lavorazione del legno. Nell’ambito dello stesso Ordine, alcuni frati, specie i Cappuccini, si ritroveranno a costituire un vero e proprio filone francescano dell’intaglio e della scultura. È ovvio, a questo punto, ritenere che nella fase iniziale della produzione dei Francescani Cappuccini confluirono certamente alcuni elementi, quale retaggio del patrimonio iconografico e stilistico delle scuole locali, che i frati adeguarono i propri canoni espressivi. Questa ipotesi scaturisce dall’esame delle opere appartenenti alla produzione francescana, meglio definita monastica, opere che non sembrano divergere in modo eclatante da quelle eseguite da artigiani civili o laici. Anche l’Ordine dei Domenicani mostrò da sempre preferenze verso gli esiti raggiunti dai roglianesi, così come è ampiamente dimostrato dalle opere presenti nello stesso convento cosentino, finanche nelle Chiese domenicane di Catanzaro e di Taverna (Cz). I modi della scuola roglianese sono ampiamente documentati a Catanzaro, nell’Oratorio del Rosario, e sono presentianche in centri periferici quali Taverna (Cz) in cui, nella Chiesa di San Domenico, si trova il coro a doppio ordine di stalli, opera di mastri locali che si impegnarono, con Frà Domenico De Roblano, ad eseguire il coro della Chiesa conforme al disegno portato dal Maestro cosentino Romano Gabrieli. 7 Come accadde per il M° arch. Antonio da Rogliano che, nel 1610, fu chiamato dal suo concittadino, Mons. Geronimo Ricciulli, Vescovo di Belcastro (Cz) per la realizzazione della Chiesa dell’Annunziata nella cittadina catanzarese. 8 Cfr. C. Minicucci, op. cit. p. 23. 9 Ms. conservato nella B.C.C., coll. 1854, fol. 74 r. 10 Cfr. A.S.C., prot. n°28. 11 Cronica del Bosco, op. cit., fol. 150 r. 12 Cfr. A.A.C., a. 1500-1600. 13 Cfr. A.S.C., prot. n°58. 14 Cfr. A.S.C., prot. n°243. 15 L. Bilotto, Il Duomo di Cosenza, Effesette, Cosenza, pp. 46-47. 16 Cfr.C. Minicucci, op. cit., p. 22. 17 Cfr. A.S.C., prot. n°200. 18 F. Samà, La Chiesa di Montevergine a Paola, in Calabria Letteraria, a. XLIII 1995, n°7-8-9, p.21. 19 “Calabria Nobilissima”, a. V 1951, n°3-12, pp. 115-124 e pp. 153-159. 20 Il Mangerio apparteneva ad una famiglia di mastri fabbricatoriroglianesi che già nel secolo precedenteaveva edificato, in Cosenza e provincia, numerosi edifici sacri e palazzi patrizi. Nel 1657, infatti, un M° Domenico Mangerio realizzò per la Chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza, la cappella dell’Immacolata. 21 Da ricordare che M° Stefano Mangerio fu il progettista ed il direttore dei lavori di Palazzo Sanseverino ad Acri (Cs). 22 Originariamente, il Duomo sorse su di un impianto normanno; in seguito, venne modificato nei secc. XIV-XV fino alla trasformazione barocca ad opera del Mangerio. 23 Questa è un’ulteriore testimonianza scritta riguardante la presenza del Ricciulli a Fuscaldo nel 1722. 24 G. Jusi, La ricostruzione della Chiesa parrocchiale di San Fili (1748-1802), Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 1974. 25 C. Deni-A. Lico, Il cantiere e le maestranze roglianesi. Una proposta di restauro: la Chiesa di S. Ippolito (sec.XVIII), Alinea Ed. Firenze 1994, p. 128. 26 Cfr.A.A.C.cartella 24 di Rogliano, anno 1700. 27 Le lettere in bassorilievo riportate sullo stemma, da alcuni “storici locali”, erano state erroneamente riferite alla nobile famiglia roglianese dei Morelli, quale “proprietaria di questa cappella”, non ricordata, pertanto, come Chiesa. 28 Cfr. C. Deni-A. Lico, op. cit. pp. 72-73. 29 C. Deni-A. Lico, L’opera degli scalpellini roglianesi nell’edilizia religiosa di Cosenza e dei suoi casali (secc. xvi-xviii). Dalla cava al restauro, Tomo I, tesi di Laurea A.A. 1995/96 U.N.I.F.I Università degli Studi di Firenze, Facoltà di architettura, dipartimento di storia dell’architettura e restauro delle strutture architettoniche.

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Edilizia feudale in età moderna. Esempi, modelli e maestranze per l’individuazione di una “semantica” della pietra. Anna Cipparrone La pietra fu un elemento prezioso per le imprese costruttive avviate dai governi e dalle famiglie feudali in Italia Meridionale, specie nel corso delle grandi campagne di fortificazione condotte per secoli in Calabria (Figg. 1-2-3). Le pietre venivano scelte dalle numerose cave presenti sul territorio e per trasportarle dovevano affrontarsi molteplici difficoltà dovute, fra le altre cose, alla penuria di vie di comunicazioni. I marmi provenivano dal reggino, la pietra calcarea e arenaria dalla Calabria Citra, le calcare per la produzione della calce si trovavano talvolta assai lontano dai cantieri. Centrale in questo contributo è la constatazione che la facies fortificatoria e l’indirizzo produttivo assegnato dai sovrani al nostro territorio in epoca moderna

Fig. 1 Cosenza, castello, particolare della volta a crociera 233


(XV-XVIII secolo), abbiano generato la messa in opera di edifici sorti essenzialmente per manifestare autorità e potere agli occhi della popolazione, già peraltro assoggettata. Le soluzioni architettoniche segnate dall’aspetto ornamentale risultano, difatti, quasi del tutto assenti, salvo che nelle città demaniali (il che parrebbe confermare la nostra ipotesi) e soprattutto furono di volta in volta determinate dalla lungimiranza familiare e dall’interesse a spendere in beni artistici in un contesto dove l’elemento ricettivo (la popolazione, appunto) non costituì certamente uno stimolo per avviare campagne edilizie di particolare magnificenza.

Fig. 2 Oriolo, castello, particolare dello scalone d’ingresso (ph. Archivio Anna Cipparrone)

Fig. 3 Rocca Imperiale, castello, particolare dell’ingresso (ph. Archivio Anna Cipparrone)

La Calabria in età moderna fu caratterizzata, inoltre, da una considerevole frammentarietà del territorio1 determinata dall’assenza dei sovrani (che risiedevano in altre corti) e dalla necessità di strutturare assetti feudali costantemente modificati. Ambito privilegiato di utilizzo della pietra locale fu, dunque, per tutto il periodo feudale, l’edilizia residenziale di carattere feudale. Lo studio delle testimonianze architettoniche feudali ci consegna pertanto una nuova chiave di lettura sull’utilizzo dei materiali: quello della sovranità che le famiglie solevano trasmettere. La loro supremazia sui territori si rivelò, difatti, anche attraverso le tipologie architettoniche che si diffusero in Calabria nel periodo in questione: palazzo signorile, villa dedita all’otium, villa-masseria, residenza di rappresentanza, castello-fortezza2. 234


L’edilizia civile in Calabria Punto di avvio del nostro interesse è il “palazzo”, il cui termine deriva dal nome della dimora in cui risiedeva l’imperatore romano e che fu così detta poiché sorgeva sul Palatino; esso passò a designare le sedi dei potenti e dei sovrani, tuttavia la sua elaborazione formale nel senso di residenza privata fu avviata nel Quattrocento, a Firenze, in concomitanza con le esigenze della rinvigorita classe mercantile e borghese e per le necessità dei nobili prelati, sviluppandosi rapidamente nelle corti italiane e nella Roma papale3. Nell’Italia meridionale, la cui economia si era iniziata a diversificare da quella del Nord in epoca medievale e poi con la conquista normanna, difficilmente si erano registrati fino al Quattro-Cinquecento, casi di emancipazione dalle condizioni abitative di tipo rurale mentre consistenti erano stati gli episodi di edilizia fortificata e militare. La Calabria, specie dal XVI secolo in poi, fu infatti una sorta di terra di frontiera contro l’avanzare dei musulmani: manifestazione degli interessi politici ed economici che nel Regno di Napoli si nutrivano nei confronti della regione. Oltre alle architetture civili fortificate, consistenti furono gli esempi di costruzioni ecclesiastiche dovute, da un lato, al fiorire e alla diffusione degli Ordini religiosi nel meridione e, dall’altro, al desiderio delle potenti famiglie feudali di spendere in opere di magnificenza che li avvicinassero a Dio e che li rendessero pii agli occhi della popolazione assoggettata. Il linguaggio dell’architettura civile, pertanto, fu fino al XVI secolo, espressione di una ristretta cerchia di società e consistette in una intricata rosa di componenti: la cultura delle maestranze locali e l’influsso delle personalità “forestiere”, i materiali e le tecniche costruttive autoctone nel rapporto con i modelli provenienti dalla Capitale, le tipicità di ogni singolo tessuto urbano e la perdurante vocazione agricola del territorio calabrese4. Di conseguenza, salvo in alcune aree marginali ove erano concentrati gli insediamenti, la regione non presentò fino alla fine del XVI secolo manifestazioni di edilizia civile rilevanti. Fino al Cinquecento numerose erano le torri – anche nell’accezione di casatorre –, tuttavia con la nascita delle città demaniali volute dal governo aragonese per contenere il potere baronale e l’incalzare del feudalesimo, i nuovi edifici furono edificati con maggiore intento ornamentale per rispondere alle esigenze della classe mercantile e nobiliare e per esprimere lo status sociale e la gloria delle famiglie al potere5. Nei principali centri feudali, invece, il signore continuò a conferire alla sua dimora i tangibili messaggi di presenza, potere e autorità sul territorio e sui suoi abitanti costruendo edifici solidi e massicci, schiaccianti al confronto con le piccole unità abitative del popolo ma che, nella loro incombenza, si connotavano da una certa eleganza formale, da ritmi calcolati e da colti richiami a caratteri architettonici coevi6. L’utilizzo della pietra e delle maestranze locali, pertanto, giunsero a definire una sorta di canone ravvisabile, ancora oggi, nei numerosi palazzi signorili dei nostri centri storici. Il palazzo residenziale del XVI secolo affidò, pertanto, al portale in pietra e all’andamento a bugnato della facciata, il suo precipuo messaggio. Tali furono gli elementi decorativi più significativi per far trasparire, insieme alla forma a blocco chiuso, gli spazi del potere. Nel XVI secolo furono rari i casi di ville e residenze di campagna. Quelle esistenti furono edificate nel cuore dei latifondi, assolsero alla funzione della 235


difesa e del controllo del territorio. Fu nel Seicento che vennero potenziati il fasto e la sovranità nelle residenze signorili. Rispetto ai casi cinquecenteschi che demandavano il messaggio del predominio al portale litico e allo stemma e, in qualche caso, all’andamento della facciata, gli edifici del secolo successivo si arricchirono di alcuni elementi strutturali e decorativi tipo gli scaloni d’accesso al piano nobile, gli atrii di rappresentanza, le decorazioni della facciata (molto spesso contraddistinte dalla presenza di loggiati) e così via. Per tutto il Seicento i palazzi residenziali calabresi furono influenzati oltre che dai fattori di carattere socio-economico, anche dalla considerevole presenza di maestranze forestiere informate dei principi del barocco romano e napoletano che, evidentemente, soddisfacevano la committenza locale. Ciò comportò le direzioni: il riuso dei fortilizi di epoca precedente nell’ottica di una più spiccata eleganza formale7 e la costruzione di edifici di rappresentanza che, pur mantenendo l’aspetto robusto del secolo precedente, cedettero il passo ad una più spiccata caratterizzazione decorativa, originale ed elegante8. Anche in questo secolo, in Calabria non sorsero ville nell’accezione romana del termine ovvero luoghi dediti agli otia, alla caccia e al riposo. La villa, infatti, è presente nel Seicento calabrese nelle fattezze di villa-masseria e resta sempre legata alla produttività del territorio, al controllo feudale e, soltanto in certi casi, anche allo svago e al riposo. L’evoluzione architettonica ma soprattutto funzionale degli edifici privati calabresi giunse, nel Settecento, a una specifica e ulteriore formulazione. Furono essenzialmente due i tipi di residenza civile privata del Settecento calabrese: il palazzo e la villa. Il palazzo – nelle sue accezioni a schema chiuso e a configurazione aperta – e la villa, o più specificamente la residenza temporanea nel cuore del feudo. Entrambe dipesero, nelle loro diversificazioni, dal carattere della committenza, dalla localizzazione dell’edificio nel contesto urbano, dal linguaggio costruttivo e dalle maestranza utilizzate9. Pur adeguandosi ai cambiamenti architettonici e alle esigenze abitative del Settecento, l’elemento cardine del palazzo privato nei territori provinciali restò indiscutibilmente il portale litico d’ingresso. Esso, immediatamente riconoscibile per la presenza dello stemma nonché unico episodio di spicco nei termini di raffinatezza architettonica e garbo decorativo, mantenne il compito di trasmettere autorità e presenza agli occhi della popolazione fornendo l’accesso all’atrio privato. La costante fu l’utilizzo delle risorse locali e delle maestranze autoctone.

Cantieri architettonici e maestranze forestiere dopo il sisma 1783 Significativi cambiamenti, relativamente alla componente strutturale della residenza civile, si registrarono in Calabria dopo il tragico terremoto del 1783 che coincise con una evidente cesura sotto tutti i punti di vista: urbanistico, architettonico, sociale, economico e documentario10. La Calabria del post terremoto costituì, specie per il governo borbonico, una grande opportunità per la realizzazione di imponenti cantieri architettonici che furono utilizzati per ridurre le condizioni di marginalità di alcune zone periferiche del Regno di Napoli11. Le città nuove ricostruite presentavano case palaziate basse per ragion del flagello12. I nuovi palazzi furono costruiti in conformità alle Istruzioni sul metodo da tenersi nella rie236


dificazione de’ paesi diruti della Calabria13 e si distinsero per la presenza di elementi tipologici quali mensole, cornici, portali e finestre finalizzati a sancire la magnificenza del casato. L’aspetto più rilevante fu il configurarsi di una fitta schiera di architetti forestieri e maestranze locali che si adoperano nella ricostruzione delle città nuove: Giuseppe Vinci e suo figlio Giovan Battista, Ermenegildo Sintes, Ferraresi e molti altri i quali furono inviati dal governo centrale proprio per far fronte al programma di ricostruzione dopo le devastazioni prodotte dal terremoto del 178314.

Città demaniali e feudi. La semantica della pietra Nell’antica città demaniale di Cosenza, al principio della Via Liceo, si trova il palazzo Cavalcanti composto da quattro unità immobiliari il cui nucleo più antico risale al Cinquecento15. Il palazzo fu restaurato verso il 1772 – come testimonia una lapide sulla porta d’ingresso – e, del complesso originario, resta un sistema di paraste d’angolo in tufo e tracce evidenti delle antiche fasce angolari. L’edificio è stato inserito nell’attività di un noto architetto calabrese: Giovanni Donadio detto il Mormando, la cui impronta è evidente nell’organizzazione elegante della facciata tra fasce marcapiano e lesene verticali, nella presenza di stemmi gentilizi e nel loggiato del piano superiore (Fig. 4)16. Nel 1513 fu conferita al Mormando la cittadinanza napoletana per i meriti acquisiti: propter suas singulares virtutes et excellentiam quam habet in arte exercitio et ministerio conficiendi organo set architecturae constructiones17. Ubicato a Cosenza e pure risalente al Cinquecento, è il palazzo signorile della famiglia Sersale, posto ad angolo con l’attuale piazza XV marzo e nella sommità dell’arteria commerciale più importante dell’antica città brettia (attuale corso Telesio). Riunita attorno ad un cortile con una successione continua di ambienti, la costruzione è definita dall’ingresso principale che, in questa epoca, risultò l’elemento al quale il committente attribuì lo scopo rappresentativo. Palazzo Sersale è una costruzione massiccia ma elegante, costituita da un bugnato a cuscino nella parte bassa e da un intonaco liscio che, da un piano all’altro, lascia il posto a cornici e lesene con capitello (Figg. 5-6)18. Sempre a titolo esemplificativo si pensi all’episodio tardo-cinquecentesco di Aieta (palazzo Martirano-Spinelli)19 ove il palazzo assurse esso stesso ad emblema e simbolo del potere per l’intero borgo (Figg. 7-8)20. L’impostazione architettonica del palazzo marchionale di Aieta e la presenza di determinati elementi decorativi grazie ai quali ben si coniugano l’aspetto difensivo e fortificatorio tipico delle residenze coeve con l’aspirazione a rappresentare in termini austeri e al conFig. 4 Cosenza, palazzo Cavalcanti, particolare della lavorazione litica ad tempo eleganti il casato si uniscono allo sfruttamento delle risorse locali. Restano difatti visibili le cornici in pietra grigia angolo sulla facciata (ph. Archivio Anna Cipparrone) 237


Fig. 5 Cosenza, palazzo Sersale, particolare del portale litico d’ingresso sormontato dallo stemma familiare (ph. Archivio Anna Cipparrone)

Fig. 6 Cosenza, palazzo Sersale, particolare del bugnato a cuscino della facciata (ph. Archivio Anna Cipparrone)

Fig. 7 Aieta, palazzo marchionale degli Spinelli, particolare della facciata fortificata in pietra con l’inserto ornamentale del loggiato in marmo (ph. Archivio Anna Cipparrone)

Fig. 8 Cosenza, palazzo Caselli, particolare del loggiato interno all’atrio (ph. Archivio Anna Cipparrone)

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locale, l’incorniciatura lapidea originale, i mensoloni che sorreggono i balconi, il portale che simboleggia l’ideale della rappresentanza21. Fattore determinante per la commistione di tali elementi fu l’utilizzo della pietra locale che ad Aieta ebbe una tradizione secolare configurando l’intero centro storico, con l’innesto di materiali, tecniche e maestranze extra regionali tra cui i Rea, famiglia di scalpellini provenienti da Padula e qui documentati nel corso del Settecento. Il portale, ad esempio, pur afferendo alla tipologia più semplice dello schema a tutto sesto incorniciato da bugne piatte senza alcun elemento decorativo come mascheroni, volute o altro, riesce a trasmettere con estrema eleganza il potere del casato in una semantica del tutto originale nella facies fortificatoria coeva dell’intero territorio e del suo panorama residenziale. Asse portante, da un punto di vista decorativo, del prospetto risulta l’inserto seicentesco loggiato. Rari furono i casi di loggia interna e esterna nelle architetture cinquecentesche calabresi. Un episodio simile si registra a Cosenza, nel loggiato di palazzo caselli (Fig. 8) tuttavia nelle arcate del palazzo aietano è interessante notare come lo sfruttamento della risorsa locale (pietra grigia per la realizzazione delle colonne, del basamento e della cimasa) si coniughi con l’utilizzo del marmo, presumibilmente “importato” da altri contesti territoriali. Ciò consente di riflettere sui casi nei quali sia stato favorito il connubio tra materiali e tecniche locali, con materiali e linguaggi espressivi e stilistici di importazione nella politica di manifestazione del potere -o della supremazia intellettuale- delle famiglie locali. Tale condizione socio-economica della Calabria e tali manifestazioni edilizie22, hanno suscitato il confronto con le città più direttamente correlate a quelle calabresi sia per quel che concerne l’architettura che, in altra sede, gli spazi della decorazione23: Messina, Palermo e Napoli. Esso consente, da un lato, di evidenziare certe analogie tra i territori e le loro vicende politiche ma, dall’altro, permette di osservare che la dimensione di una Calabria legata esclusivamente alla produttività (grano e seta in primis e poi vino e olio) e alla difesa (torri e castelli, salvo nei casi di città demaniali molto più vivaci dal punto di vista intellettuale e nelle espressioni di eleganza formale, anche architettoniche) ebbe ripercussioni sul mecenatismo artistico delle famiglie24 (Figg. 9-1011-12).

Mole architettonica e decoro ornamentale come segno della crescente grandezza familiare nel fenomeno della feudalità. Il caso delle dimore Sanseverino

Fig. 9 Napoli, Palazzo Caracciolo d’Avellino, particolare del prospetto sul cortile. Già in Residenze nobiliari. Italia Meridionale, a cura di Marcello Fagiolo, Roma 2009, p. 62

Nell’analisi delle dimore feudali della nobile famiglia Sanseverino (e così, verosimilmente, anche per altre illustri casate)25 è considerevole la stretta correlazione tra l’ascesa familiare in ambito socio-politico ed economico e il cambiamento delle tipologie insediative e della loro caratterizzazione estetica. 239


Fig. 10 Monteroni (LE), palazzo Lopez y Royo, particolare del portale. Già in Residenze nobiliari. Italia Meridionale, a cura di Marcello Fagiolo, Roma 2009, p. 197

Fig. 11 Corigliano d’Otranto, castello, particolare Fig. 12 Palermo, palazzo Bonagia, particolare del della facciata decorata. Già in Residenze nobiliari. cortile. Già in Residenze nobiliari. Italia MeridionaItalia Meridionale, a cura di Marcello Fagiolo, Roma le, a cura di Marcello Fagiolo, Roma 2009, p. 309 2009, p. 278

Fig. 13 Luzzi, loc. Petrine, Casa-torre SanseverinoFirrao, già in A. La Marca

Accanto all’evoluzione della gloria familiare che ebbe inizio con Bernardino e Pietro Antonio Sanseverino tra la fine del Quattrocento e la metà del ‘500, la crescita economica e sociale della famiglia si registrò sotto Luigi I (scrittore) e, ancor di più, con Carlo Maria Sanseverino e i figli Aurora e Giuseppe Leopoldo. Con essi anche la tipizzazione architettonica degli edifici si fece via via più spiccata caratterizzandosi in modo originale da feudo a feudo. Nel territorio di provincia i Sanseverino crearono una dimensione rurale e difensiva, da un lato, ma anche un clima culturale piacevole e al passo con i tempi e con la Capitale del Regno26. In tale congiuntura, l’acquisizione di uno status sociale sempre più elevato, consentì ai committenti di dedicarsi maggiormente a commissioni artistiche di natura privata. 1. Primo oggetto di discussione è il torrione di Petrine a Luzzi (Cosenza) che rientra nella tipologia architettonica della casa-torre (Fig. 13)27. Non si possiedono notizie certe sulle sue origini tuttavia è accreditata l’ipotesi che il torrione sia stato presumibilmente edificato su un’antica massericia romana28. Emergono con chiarezza gli elementi di una conformazione spaziale semplice con un coronamento di beccatelli di sostegno agli archetti aggettanti sui fronti dell’edificio e con le cornici in pietra e le finestre ad arco su tutti e quattro i lati, sul piano sovrapposto, secondo un modello (abbastanza consueto nell’architettura fortificata medievale e rinascimentale) transitorio rispetto alle imminenti trasformazioni viceregnali attuate nel complesso sistema di torri e castelli calabrese. Ciò consente di ritenere plausibile la possibilità che una torre esistesse in precedenza ma che la ristrutturazione più vistosa fu effettuata dai Sanseverino tra la fine del

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Quattrocento e la metà del secolo seguente come torre semaforica e di sicurezza del circondario. Questo tipo di torre, infatti, a differenza dei sistemi fortificati costieri adibiti a reali usi difensivi, fu largamente impiegato per la sicurezza di territori non controllati direttamente dal feudatario, dei borghi, delle masserie e si ritrova in tutta la periferia del Regno senza evidenti varianti. Inoltre, spesso edificate con pietrame di fiume (in questo caso del vicino Mucone), le torri di questa tipologia venivano erette a difesa delle piccole proprietà e circondate da un pozzo, da un mulino, dalle stalle e da casette per i massari. Il torrione di Petrine sottendeva il preciso intento di affermare l’autorità del feudatario (Bernardino Sanseverino) su un territorio che non era ma che vantava una certa importanza produttiva e difensiva. 2. Sorge sui resti di un edificio medievale e di una preesistenza di carattere sacro29 (Fig. 14-15-16) la fattoria fortificata o sontuoso palagio Fig. 14 Corigliano, loc. San Mauro, Villa-masseria Sanseverino, di San Mauro che – come recitano le fonti30 – fu edificata nel 1515 da particolare dello stemma familiare (ph. Archivio Anna Cippar- Bernardino Sanseverino, principe di Bisignano e Conte di Corigliano rone) per rispondere alle esigenze di un importante casato della classe feudale e nobiliare calabrese che intese coniugare la dimensione produttiva del territorio con quella residenziale e di rappresentanza31. La personalità di Bernardino Sanseverino è nota agli studiosi poiché l’apogeo familiare coincise con il suo governo, in un’epoca (inizi del XVI secolo) nella quale gli altri casati vivevano momenti di alternata fortuna. Non ci è dato di conoscere né chi fosse stato l’architetto né quali fossero le maestranze artistiche impegnate per la costruzione e la decorazione della villa di San Mauro, tuttavia nello stesso periodo (1515) il principe Bernardino Sanseverino aveva acquisito una dimora di rappresentanza nella Capitale del Regno32 incaricando l’architetto mormannese Giovanni Donadio della sua costruzione33. Alla morte del principe, il figlio Pietro Antonio, fece completare l’opera napoletana al nuovo architetto della Casa Sanseverino, Giovan Francesco Di Palma che, ereditato Fig. 15 Corigliano, loc. San Mauro, Villa-masseria Sanseverino, l’appellativo di mormando dal suo predecessore, ne portò a termine le particolare della loggia di ingresso (ph. Archivio Anna Cippar- opere incompiute, diffondendo il suo stile nella tradizione architettorone) nica napoletana34. Pare verosimile (fino ai nuovi riscontri documentari) accostare Giovanni Donadio, e in seguito il Di Palma, anche alla realizzazione del complesso architettonico di San Mauro. Come le notizie sull’architetto della fabbrica, sono inesistenti anche quelle sull’artista che decorò il fregio del salone a grottesche commissionato verosimilmente in occasione della visita, nel 1535, dell’imperatore Carlo V di ritorno dalla campagna di Tunisi35. Il sovrano fu accolto con sfarzo ed eccezionale profusione di vivande tanto che pronunciò la seguente frase: non nella dimora di un principe bensì nella fastosa e opulenta reggia di un re36. Dopo il soggiorno coriglianese, Carlo V fu ospitato nel palazzo Sanseverino di via Chiaia, a Napoli, ove per l’occasione, il principe Pietro Antonio aveva fatto costruire all’architetto Giovan Francesco Di Palma un sontuoso salone37, spettacolare per la Fig. 16 Altomonte, castello, particolare del loggiato in facciata profusione di stucchi e dell’oro zecchino, che rimase indelebile nella (ph. Archivio Anna Cipparrone) memoria dei cittadini come la meraviglia di Napoli38. 241


È possibile che, stando a questa ricostruzione, il principe Bernardino avesse avviato la costruzione della fabbrica di San Mauro mentre il figlio Pietro Antonio ne avesse completato l’opera. È altresì probabile che, nella medesima circostanza del passaggio di Carlo V, il principe avesse commissionato il salone decorato con fregio a grottesche39, nella villa di San Mauro, e il sontuoso salone con stucchi e oro zecchino, nella residenza napoletana40. La villa-masseria di San Mauro, pertanto, pur costituendo il caso forse più drammatico di incuria conservativa nel panorama delle residenze civili calabresi, mostra di essere uno dei pochi episodi di residenza periferica utilizzata in conformità con le ville e le corti private del primo Rinascimento aderendo, inoltre, alle specificità produttive del territorio entro cui si inseriva. 3. Il castello di Altomonte, in seguito ai riassetti regionali e alle perdite di fine Cinquecento, fu riannesso alla famiglia nel 1637, quando Luigi Sanseverino, conte della Saponara (attuale Grumento Nova in provincia di Potenza), lo ricomprò per 48.000 ducati41, assumendo il titolo di Luigi I Principe di Bisignano42. La residenza rientra nella tipologia del castello fortificato riadattato a palazzo nobiliare e mostra una pianta irregolare allungata, sviluppata attorno alla corte, risultato di una serie di aggiustamenti e ampliamenti che si sono susseguiti nel corso delle varie proprietà (la prima pietra risale al XII secolo). Nella corte interna l’elemento più interessante è il loggiato costituito da tre archi a tutto sesto sostenuti da colonne in pietra tufacea (Fig. 17) sotto le quali si trovavano, un tempo, gli accessi ai locali di deposito e alle stalle. Dai documenti in nostro possesso e dalla presenza di una sala del teatro decorata con fregio raffigurante ninfe e satiri analizzato in altra sede nel quale sono documentate rappresentazioni musicali43, è possibile affermare che la famiglia Sanseverino, intenta a incidere con forza sugli orientamenti economici e culturali delle proprie terre, si distinse anche per interessi artistici e intellettuali, certamente grazie alla sua mobilità tra le città capitali e la periferia feudale. 4. Dallo studio delle fonti bibliografiche e dal documento di vincolo dell’immobile (1985) si apprende che il palazzo Sanseverino di Acri (Fig. 18) di poco posteriore al castello di Altomonte fu voluto dal VII principe di Bisignano, Giuseppe Leopoldo Sanseverino figlio di Carlo Maria e di Maria Fardella che risiedevano ad Altomonte e nella Saponara44. Le fonti riferiscono che, nel 1707, Stefano Vangeri, architetto roglianese, si era presentato al principe di Bisignano Fig. 17 Acri, palazzo Sanseverino-Falcone, particolare del portale e del piano con la proposta di effettuare i lavori di completamento del nobile (ph. Archivio Anna Cipparrone) palazzo di Acri e, seppur con iniziale titubanza vista la sua giovane età, la richiesta fu accolta dal nobile con il compenso 45 di 4.700 ducati . Dagli studi finora editi è emerso il diretto rapporto intercorso tra l’architetto e il principe: asserisce detto mastro Stefano in nostra presentia haver fatto la preposta a detto Ecc.mo Signore Principe46. Sono di seguito citati alcuni passi contenuti nell’instrumento legale siglato dal 242


notaio, utile per verificare l’attinenza dell’architetto ai dettami contrattuali: (…) portare la fabrica del primo quarto dal pedamento fino all’altezza di palmi sedici dalla terra, conchè il muro della fabbrica di fuori deve esser largo palmi cinque e quello di dentro palmi quattro. Deve far dui archi nella cantina, ed uno nella rimessa, larghi palmi tre, dui altri archi deve fare nella cucina ed un altro nella sellaria larghi palmi tre; (…) Deve fare la facciata alla romana di quattro registri tanto dentro come di fuori. (…) Deve fare la ramata alle fenestre della prima facciata secondo quelle del Palazzo del Signor Principe di Tarsia in Terranova d’opera di mattoni di rustico. Deve fare la lamia a sue spese nella scala tanto di sotto quale di sopra et assettarci gli gradini. Come anche la lamia nella loggia a sue spese. La lamia del portone si deve fare a sue spese, finta o a suo arbitrio. Deve fare e ponere a sue spese tutti li tufi che bisogneranno per le finestre del primo quarto, con che S.E. deve fare a sue spese le ferrate che vi bisognano. Come ancora deve fare a sue spese gli tufi che bisognano per le scale. Si devono dare a spese di S.E. le scale che bisognano come anche li fusi, legname e tavole per l’ivinciata e quella legname che bisognerà per fare le forme delle lamie, con che mastro Stefano doverà ponerci la fattura, come anche per l’archi ed arcusci (…)47. Nonostante l’iniziale titubanza del principe nell’affidargli i lavori (suggellata dalle numerose spese che l’architetto dovette anticipare di sue spese), Vangeri fu nominato capo mastro della famiglia avviando, da questa circostanza, una considerevole carriera sia in Acri che nelle terre vicine48. Testimone di una terra tradizionalmente attiva, Rogliano, nota per un’intensa attività edilizia e per la presenza di una produttiva scuola di scalpellini49, Stefano Vangeri rappresenta quella specifica tradizione ancorata sui valori solidi e massicci dell’architettura rispetto al decorativismo degli scalpellini e dai suoi lavori è possibile tracciarne un breve profilo biografico e professionale. Vangeri non risulta presente negli archivi notarili prima del 1707 allorquando i documenti riferiscono di lui con i termini di mastro fabbricatore della terra di Rogliano, di mastro muratore et ingegnero e, infine, col benestare del principe Giuseppe Leopoldo Sanseverino, di Ingegnero e capo. La sua prima opera documentata fu il palazzo Sanseverino di Acri in seguito al quale assommò un buon numero di imprese tanto da non riuscire a portarle a compimento. Nel 1710, a soli tre anni dall’affidamento dei lavori nel palazzo di Acri da parte del principe Giuseppe Leopoldo, i frati del monastero di San Francesco di Paola dello stesso comune, lo indicarono come esecutore dei lavori di ristrutturazione del complesso monastico dovendo egli fare tutta la fabbrica del dormitorio e chiostro (…) alla ragione di carlini ventitre la canna. Inoltre, a sue spese, ovvero per sua devotione che porta verso il glorioso S. Francesco di Paola, l’architetto avrebbe dovuto provvedere a intonacare il chiostro e realizzare la fontana minuziosamente descritta nell’atto50. Qualche anno più avanti, nel 1718, il principe di Bisignano Giuseppe Leopoldo intese erigere un monastero, sempre in Acri, intitolato a S. Pietro in Alcantara della cui realizzazione fu incaricato proprio il Vangeri con l’indicazione di terminare i lavori in tre anni per 3000 ducati. L’atto notarile fu redatto in Altomonte nel 1718 e da esso si evince, a conferma della crescita professionale del Vangeri, che gli fu affidata anche l’ideazione del progetto. Nonostante l’esecuzione del convento di S. Pietro in Alcantara avesse richiesto due anni di proroga, l’architetto continuò ad assommare incarichi fra 243


i quali, in Bisignano, quello della ricostruzione della navata della chiesa di San Domenico nell’omonimo convento51. Sempre a Bisignano, e nel periodo previsto per la realizzazione dei lavori in San Domenico (entro il 1720), Stefano Vangeri assunse l’incarico di progettare un palazzo per Francesco Alitto nonché, a San Benedetto Ullano, quello di realizzare la chiesa della Madonna del Buon Consiglio. Dai documenti pubblicati da Mario Borretti si evince che l’autore della commissione, Stefano Rodotà, “trattatosi con diversi Architetti del modo di farla, alla fine fu chiamato mastro Stefano Vangerio di Rogliano, attualmente esistente in Acri, edificatore del Palazzo del principe e redificatore della chiesa cattedrale di Bisignano, fatta dalla F.M. di Monsignor Pompilio Berlengerio, l’anno 1720 venne detto Vangerio e fatta la pianta di detta chiesa si trattò la conventione (…)52. Il prezzo stabilito fu di 530 ducati. L’opera non fu portata a compimento a causa della sopraggiunta morte dell’architetto (1722) e il committente Rodotà incaricò l’altro roglianese Nicolò Ricciulli del completamento e, successivamente, affidò al napoletano Giovanni Calieri la realizzazione della decorazione a stucco interna (1725). Questi, e molti altri, sono gli esempi di un edilizia, quella feudale e gentilizia, che ha costituito in Calabria uno degli ambiti di utilizzo della pietra più significativi insieme all’architettura fortificata. La disamina delle condizioni abitative dei calabresi, dei rapporti tra i governi, le famiglie feudali e la popolazione, l’indagine sulla presenza di maestranze e risorse locali e sulla circolazione di influssi extraregionali, abbinati alla facies assegnata dai governi al territorio, consentono di delineare un canone, o meglio, una semantica della pietra che ricalchi effettivamente la condizione sociale, politica e culturale della Calabria per tutta l’età moderna ponendosi quale risultato della sua lunga condizione feudale.

Note 1  G. Scamardì, B. Mussari, Gli Stati nello Stato, in Storia della Calabria nel Rinascimento, Roma 2002. 2  La conoscenza del patrimonio architettonico calabrese è stata affrontata attraverso lo spoglio sistematico delle principali riviste (Quaderni PAU, Calabria letteraria, Calabria Sconosciuta, Calabria Nobilissima, il Brutium, Esperide ecc.), con lo studio delle schede catalografiche delle Soprintendenze BAP e BSAE e tramite l’analisi dei principali contributi offerti dalla storiografia critica tra i quali, soltanto per citarne alcuni: A. Frangipane, Elenco degli edifici monumentali, Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria, Roma 1938; G. Fiore, Della Calabria illustrata, Napoli 1743, rist. Forni, Milano 1980 II voll; G. Marafioti, Croniche et antichità di Calabria, Padova 1601, rist. Forni 1981, p. 278; E. Barillaro, Calabria, guida artistica e archeologica, Cosenza 1972; G. Valente, Dizionario dei luoghi della Calabria, Chiaravalle centrale 1973; R. Chimirri, Atlante storico dell’architettura in Calabria. Tipologie colte e tradizionali, Soveria Mannelli 2008; Il mezzogiorno settecentesco attraverso i catasti onciari II, territorio e società, Atti del Convegno di Studi, Salerno 1984; Architettura residenziale del Sei Settecento in Calabria. Note per una catalogazione regionale, a cura di Mario Panarello, Reggio Calabria 2005; G. Ceraudo (a cura di), Un presidio di civiltà, dimore storiche vincolate in Calabria, Soveria Mannelli 1998; M. P. Di Dario, Importazione, collezionismo e produzione autoctona nella cultura artistica del secolo XVIII in Calabria, in “Settecento calabrese”, convegno di studi Cosenza 1983, Cosenza 1985; Storia della Calabria nel Rinascimento, a cura di S. Valtieri, Roma 2002 ecc. 3  S. Valtieri, Il palazzo del Principe, il palazzo del Cardinale, il palazzo del Mercante nel Rinascimento, Roma 1998; Architettura residenziale del Sei Settecento in Calabria. Note per una catalogazione regionale, a cura di M. Panarello, Reggio Calabria 2005; Repertorio bibliografico sulle opere fortificate della Calabria, a cura di R. Fasanella d’Amore, Cosenza 1988; G. Chierici, Il palazzo italiano, Milano 1957; P. Della Pergola, Aspetti del primo Rinascimento nell’architettura della Calabria, in “Emporium”, CI-CII, n.11-12. pp. 109-115; I. Di Resta, Il palazzo napoletano nel XVI secolo, in Il palazzo dal Rinascimento ad oggi, a cura di S. Valtieri, Roma 1990, pp. 81-95. 4  B. Mussari, G. Scamardì, Artisti, architetti e mastri fabbricatori, in Storia della Calabria nel Rinascimento, Roma 2002, pp. 30-60; M. Panarello, I protagonisti della decorazione: mastri marmorari e professori di stucco, in Per un Atlante della Calabria, cit., pp. 131-165; S. Valtieri, I linguaggi e i modelli, in Storia della Calabria…cit., pp. 90 e ss.; B. Mussari, G. Scamardì, La dimensione dell’abitare: castelli, palazzi, ville e case, in Storia della Calabria…cit., pp. 72 e ss. 5  Come recita un anonimo nel Trattato “Relazione delle Provincie di Calabria e dello Stato di essa così nel temporale come nello spirituale” (1654-1659): (…) la nobiltà è superba ma non è ricca e, nella dovizia della provincia, onde cotanto arricchiscono i forastieri, è meraviglia come i paesani, o non industriosi, o noncuranti, scemano di rendite e di fortuna. In alcune città si fa molta stima delle famiglie nobili, e con leggi particolari è vietato annoverare fra queste l’altre di più moderna fortuna. Nelle Terre di maggior nome l’habitazioni private de’ cittadini sono molto civili; le pubbliche tutte prive di magnificenza e senza architettura, in S.G. Mercati, Calabria e calabresi in un manoscritto del XVII secolo, in “Archivio Storico per la Calabria e la Lucania”, XII, 1942, p. 164 e ss.; S. Valtieri, Il palazzo dal Rinascimento ad oggi, Roma 1998, p. 171 e ss. 6  Lo studio dell’edilizia signorile calabrese di età moderna è stato effettuato nel confronto con altre realtà periferiche dell’Italia meridionale quali la Puglia, la Basilicata e la Sicilia. A tale proposito si vedano, fra gli altri: M. Pasculli Ferrara, Residenze e trasformazioni urbane in terra di Bari e Capitanata, in Il sistema delle

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residenze nobiliari, a cura di M. Fagiolo, Roma 2010, pp. 136 e ss.; V. Cazzato, Dal castello al palazzo baronale: fenomenologia degli interventi nelle residenze nobiliari del Salento, in Il sistema…cit., pp. 182 e ss.; S. Piazza, Stagioni costruttive dell’architettura residenziale a Palermo tra XVII e XVIII secolo, in Il sistema…cit.; ecc. 7  Palazzi nobili e borghesi, in Atlante del barocco in Italia, a cura di R.M. Cagliostro, Roma 2002; Per un Atlante della Calabria: territorio, insediamenti storici, manufatti architettonici, a cura di P. Balbo, Roma 1993., pp. 262 e ss.; Repertorio bibliografico dell’edilizia fortificata…cit.; R. Chimirri, Atlante storico dell’architettura in Calabria, Catanzaro 2008; Architettura residenziale, cit; A. Picone Chiodo, L’antico castello a guardia della Fiumara, in “Calabria Sconosciuta”, n.1, aprile-giugno 2000, pp. 34 e ss.; L. Caridi, I castelli di Calabria, da Arena a Motta Filocastro, in “Calabria Sconosciuta” n.1-2 aprile-giugno 2007, pp 59 e ss.; Idem, I castelli di Calabria da Badolato a Falerna, in “Calabria Sconosciuta” ottobre-dicembre 2008; Idem., I castelli di Calabria da Nicotera, a Pizzo e a Vibo Valentia, in “Calabria Sconosciuta”, luglio-settembre 2007; Idem, I castelli di Calabria, da Feroleto della Chiesa a Motta S Giovanni, in “Calabria Sconosciuta”, n.109 luglio-settembre, pp. 63 e ss 2006; Idem, I castelli in Calabria da Belvedere Spinello a Cirò, in “Calabria Sconosciuta”, ottobre-dicembre 2007, pp. 45 e ss.; Idem, I castelli in Calabria da Crotone a Mesoraca, in “Calabria Sconosiuta”, gennaio-marzo 2008, pp. 49 e ss.; Idem, I castelli in Calabria da Feroleto antico a Martirano, in “Calabria Sconosciuta” gennaio-marzo 2009; V. Ceradini, Il castello di Roccella: lettura comparata fra documento ed edificio, in “Quaderni PAU” n.11-12 1996; F. Grillo, Il castello e i conti di Corigliano, Cosenza 1949; B. Mussari, G. Scamardì, La dimensione dell’abitare: castelli, palazzi, ville e case, in Storia della Calabria nel Rinascimento, Roma 2002; F. Martorano, L’architettura militare tra ‘400 e ‘500, in Storia della Calabria nel Rinascimento, Roma 2002; M. Mafrici, Le opere fortificatorie: la Calabria, il Regno di Napoli, il contesto europeo, in Storia della Calabria nel Rinascimento, Roma 2002; D. Rotundo, I castelli di Catona e Calanna e la scuola siciliana, in “Calabria Sconosciuta” n. 7 aprile-giugno 2007, pp. 66 e ss. 8  Palazzi nobili e borghesi, in Per un atlante della Calabria…p., 262 e ss.; R.M. Cagliostro, Linguaggi e personalità dell’architettura barocca in Calabria, in Per un atlante, cit., pp. 67 e ss.; Si veda anche M. Cammera, Il cosiddetto palazzo Cybo-Malaspina ad Aiello Calabro, in “Quaderni PAU”, anno VII, n. 13-14, pp. 139 e ss. 9  C. Barucci, Tipologie residenziali nobiliari del Settecento nelle Calabrie, in L’uso dello spazio privato…cit., pp. 499 e ss.; V. Ruggiero, G. Sciuto, Ville e residenze di campagna nella Calabria settentrionale ionica, in Atti del Convegno, Ville suburbane, residenze di campagna e territorio, Palermo, 1986; Il mezzogiorno settecentesco attraverso i catasti onciari II, territorio e società, Atti del Convegno di Studi, Salerno 1984; A. Frangipane, Elenco degli edifici monumentali, Roma 1938. 10   I. Principe, Città nuove in Calabria nel tardo Settecento, Roma 2001; G. Currò, Il palazzo signorile nella ricostruzione illuminista della Calabria Ultra, in L’uso dello spazio…cit., p. 523. 11   I. Principe, cit. 12   G. Currò, Il palazzo signorile…cit., p. 520 e ss. 13   Si veda G. Currò, op. cit., p. 529. 14   Storia dell’arte nell’Italia meridionale, Napoli, le province, la Sicilia, vol. Il mezzogiorno austriaco e borbonico, Roma 2009, p.569 e ss.; R.M. Cagliostro, Ermenegildo Sintes in Calabria. Nuovi disegni e documenti nell’archivio di stato di Catanzaro, in I Borbone e la Calabria 1734-1861, Roma 2000, pp. 25 e ss. 15   Una prima descrizione del complesso edilizio si rintraccia nel documento di Padre Giuseppe Camerota (1595), laddove si nota che l’attuale palazzo Cavalcanti era la “casa delli Parisi, vi sta hora il S.re Casimiro Buglio”. Si veda Archivio della Sovrintendenza, Sezione catalogo, scheda “A” : Palazzo Cavalcanti. 16   Il Mormando fu citato da Marcantonio Michiel nel 1524 nei seguenti termini: Avemo adesso Ioan Mormando, al quale, secondo lo iudicio di tutti, non manca altro se non principi e signori grandi che adoperassero l’optima disposizione e sufficienza sua. Questo da prima fu maestro d’organi, poi s’è convertito all’architettura e alla totale imitazione delle cose antique. Ha fatte nuovamente alcune case in questa terra; ma per poca commodità del loco, forzato dall’angustia del terreno, non ha possuto spiegare le ale del suo ingegno che per certo, essendo ipso dato, come ho ditto, in tutto all’imitazione e mesura delle cose antique, ragionevolmente si può commendare et esaltare. Si vedano F. Niccolini, L’arte napoletana del Rinascimento e la lettera di Pietro Summonte a Marcantonio Michiel, Napoli 1925; G.A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli: ove si trattano le cose più notabili accadute dalla sua edificazione sin’a tempi nostri, Napoli 1675; L. Bilotto, La Provincia di Cosenza, Mendicino (CS) 1996, pp. 155 e ss; B. De Falco, Descrittione dei luoghi antiqui di Napoli e del suo amenissimo distretto, ed. Napoli 1972; G. De Marco, Cosenza Cinquecentesca nella carta della Biblioteca Angelica, Cosenza 1992, pp. 104 e ss. La maggior parte della critica lo ritenne a lungo fiorentino, come si legge nella Descrizione di Napoli di Benedetto de Falco grazie alle sue qualità e al linguaggio espresso nelle sue opere. 17   B. De Falco, cit. 18   R. Chimirri, Atlante storico dell’architettura in Calabria. Tipologie colte e tradizionali, Soveria Mannelli 2008; S. Valtieri, Il palazzo dal Rinascimento ad oggi, Roma 1998, p. 171 e ss. 19   Il palazzo marchionale di Aieta, in posizione eminente, fu costruito nel XIII secolo da Giovan Battista Martirano; nel 1571 il feudo passò ai Cosentino che lo tennero fino al Settecento, periodo della vendita a Vincenzo Maria Spinelli. Si cfr., Architettura residenziale, cit., p. 25; G. Guida, Aieta, pagine della sua storia civile e religiosa, Cosenza 1991, p. 59; A. Lico, Palazzo Martirano-Spinelli, in Un presidio di civiltà, dimore storiche vincolate in Calabria, a cura di G. Ceraudo, Soveria Mannelli 1998 p. 51. 20   M. Panarello, Architettura e decorazione nelle dimore nobiliari calabresi del ‘600 e ‘700, in Residenze, cit.. pp, 112 e ss. 21   O. Bruno, Il recupero del palazzo marchionale di Aieta, in “Esperide”, anno I, 2008, pp. 125 e ss. 22   G. Galasso, Economia e società…cit., Napoli 1967; Idem, Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (XVI-XVII), Torino 1994; A. Savaglio, Territorio, feudi e feudatari in Calabria Citra (16-19), Cosenza 2003; Idem, Ordine gerarchico e conflittualità tra le famiglie del patriziato di Cosenza tra Cinquecento e Seicento, in La Calabria del Viceregno spagnolo..cit., pp. 217 e ss.; Idem, I Sanseverino e il feudo di Terranova, Cosenza 1997; R. Chimirri, Atlante storico dell’architettura in Calabria, Catanzaro 2008; A. Placanica, Alle origini dell’egemonia borghese in Calabria: la privatizzazione delle terre ecclesiastiche, Salerno-Catanzaro 1979; A. Placanica, La Calabria del Sei-Settecento: economia, società e cultura in Atlante…cit.; G. Galasso, L’evoluzione della nobiltà napoletana nel Seicento, in Residenze nobiliari in Italia meridionale, a cura di Marcello Fagiolo, Roma 2010, pp. 1 e ss.; M. Pellicano Castagna, Storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calabria, Catanzaro 1996. 23   A. Cipparrone, La pittura civile in Calabria dal XVI al XIX secolo, tesi di dottorato, aa. 2012-2013, Università della Calabria. 24   V. Vigiano, L’esercizio della politica. La città di Palermo nel Cinquecento, Roma 2004 pp. 9 e ss; pp. 119 e ss. G. Pirrone, Palermo, Una capitale dal settecento al Liberty, Milano 1989; F. Bologna, Il soffitto della Sala Magna allo Steri di Palermo, Palermo 1975; G. Martellucci, Le nozze del principe, Palermo 1992. 25   G. Galasso, Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (XVI-XVII), Torino 1994; Idem, Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Napoli 1967; Idem, La Calabria spagnola, in La Calabria del Viceregno, cit., pp. 47 e ss; A. Savaglio, Territorio, feudi e feudatari in Calabria Citra (XVI-XIX secolo), Cosenza 2003; D. Morabito, Le condizioni socio-culturali della Calabria nel XVIII secolo, in “Calabria Letteraria”, 1990, n.1-2-3, p. 79; G. Scamardì, La Calabria infeudata: gli stati nello stato, in Storia della Calabria nel Rinascimento, a cura di Simonetta Valtieri, Roma 2002, pp. 71 e ss.; A. Placanica, La Calabria del Sei-Settecento: economia, società e cultura in Atlante del barocco in Italia. Calabria, a cura di Rosa Maria Cagliostro, Roma 2002.; M. Pellicano Castagna, Storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calabria, Catanzaro 1996; F. Von Lobstein, Nobiltà e città calabresi infeudate, Cosenza 1982; B. Candida Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili delle

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provincie meridionali d’Italia, III voll., Napoli 1875, rist. Bologna-Forni 1975; V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, voll. IX, Milano 1928-36, p. 104 e ss. vol. VI; S. Ammirato, Famiglie nobili napoletane, 1570; G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico bibliografico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, voll. II, Bologna 1965. 26   L. Falcone, Vita di corte: giostre e tornei cavallereschi alla corte dei Sanseverino dal XV al Sei-Settecento, in Cultura e spettacolo…cit, pp.33-40; A. Cipparrone, La pittura civile in Calabria. Il ciclo decorativo del castello di Altomonte, in “Palinsesti” Quaderni della SDISU, n.1, pp. 300-330; Memorie dell’abate D. Bonifacio Pecorone della città di Saponara, Musico della real Cappella di Napoli, dedicata all’illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor abate D. Gianfrancesco Sanseverino dei Principi di Bisignano, Napoli MDCCXXIX. 27   Archivio di Stato di Napoli, Fondo Sanseverino, Sezione “Pergamene” prima numerazione, busta n.133-134. 28   Fu Cesare Firrao, nel Seicento, ad affrontare per primo questa questione avanzando l’ipotesi di una datazione greco-romana affermando che esso sorgesse su un antico tempio dedicato alla Grazia Turina scelto dalle antiche popolazioni per la strategicità del sito e per le peculiarità produttive e fortificatorie che presentava naturalmente. Gli studi sulla stratificazione architettonica dell’edificio, effettuati da Antonio La Marca, hanno tuttavia confermato l’ipotesi di un’edificazione d’epoca viceregnale (metà del XVI secolo) trovando una serie di conferme nella formulazione delle singole parti di seguito enunciate nel dettaglio. Si vedano: A. La Marca, SOS il Torrione di Petrine, in “Calabria Sconosciuta”, anno XXI, ottobre-dicembre 1999, n. 80, pp. 55 e ss.; L. Durante, cit., pp. 31 e ss. 29   Le prime attestazioni documentali circa l’esistenza del Tenimento Sancti Mauri risalgono al 1089 quando compare nei documenti come castrum. È verosimile che il borgo sia sorto attorno ad una chiesetta bizantina intitolata a San Mauro. Si vedano: F. Russo, Regesto vaticano per la Calabria, Roma 1974, n. 191, n. 364; L. De Luca, Corigliano medievale dalle origini alla fine del XII secolo, Cosenza 1985; F. Russo, Scritti storici calabresi, Napoli 1957; E. Cumino, Storia di Corigliano Calabro, Cosenza 1992, p.32; E. Barillaro, Calabria, guida artistica e archeologica, Cosenza 1972; A. Frangipane, Elenco degli edifici monumentali Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria, Roma 1938; G. Fiore, Della Calabria illustrata, Napoli 1743, rist. Forni, Milano 1980 II voll.; G. Marafioti, Croniche et antichità di Calabria, Padova 1601, rist. Forni 1981; O. Milella, Torri e masserie nel Giardino Mediterraneo, Roma 1992, p. 9; A. Aprelino, M. Candido, L. Petrone, Emergenze architettoniche fortificate, in Beni ambientali, architettonici e culturali di un centro minore del Sud: Corigliano calabro, Catanzaro 2002, pp. 381-406; G. Scamardì, La dimensione dell’abitare, in Storia della Calabria nel Rinascimento, Roma 2000, pp. 317-326; S. Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, Firenze 1580; L. Pagano, Il Regno delle Due Sicilie illustrato e descritto, Napoli 1857, pp. 33-83; E. Barillaro, Guida artistica e archeologica della Calabria, Cosenza 1972 ad vocem Corigliano; A. Frangipane, Elenco degli edifici monumentali, Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria, Roma 1938, p. 99; F. Grillo, Antichità storiche e monumentali di Corigliano Calabro, Cosenza 1965, pp. 33-36; L. De Luca, Il castello di San Mauro, in “Il Serratore” IV, 1991, n. 17; M.P. Di Dario Guida, La Calabria nel XVI secolo, in La cultura artistica in Calabria dall’alto medioevo all’età aragonese, Roma 1999, p. 238; Carta Archeologica della Piana di Sibari, in Atti e memoria della Società Magna Grecia, NS IX-X (1968-1969), Roma 1969 p. 142. 30   Dalla lettura dei documenti è possibile evidenziare che, in questa data, l’edificio fosse denominato “palazzo di San Mauro”. Si veda B. Mussari, G. Scamardì, op. cit., p. 54. 31   Le masserie erano difatti dei veri e propri nuclei produttivi e di trasformazione dei prodotti, luoghi intimamente connessi allo sfruttamento del latifondo, presenti fin dai tempi dei greci e dei romani. Parallelamente al potenziamento della classe feudale calabrese, intenta all’uso di tutte le risorse del territorio non solo ai fini del consumo familiare ma per imporre uno specifico andamento economico ai propri domini, un momento di forte crescita fu vissuto dal modello architettonico della villa-masseria che, per ragioni di sicurezza determinate da un panorama di frequenti incursioni e rivolte, si modificò rapidamente nella tipologia della fattoria fortificata. Si vedano: Ruggiero V, Sciuto G, Ville e residenze di campagna nella Calabria settentrionale ionica, in Atti del convegno di studio Villa suburbane e residenze di campagna e territorio, Palermo 1986; Beni ambientali, architettonici e culturali, cit., p.382; B. Mussari, G. Scamardì, La dimensione dell’abitare: castelli, palazzi, ville e case, in Storia della Calabria nel Rinascimento, Roma 2002. 32   L’acquisizione di una residenza nella capitale che, come abbiamo visto generò il fenomeno della mobilità familiare dal centro alla periferia sul finire del XVI secolo, fu in questo caso largamente anticipata dall’esigenza dei Sanseverino d’essere presenti in Napoli dopo aver mostrato indiscussa fedeltà a Carlo VIII nella guerra del 1495-96 contro le schiere di Ferrandino. La pace con gli spagnoli, infatti, consentì al Sanseverino di avvicinarsi alla capitale già nel 1515 ma fu suo figlio Pietro Antonio a consolidare questo sodalizio ospitando l’imperatore Carlo V nella sua villa-masseria di San Mauro mentre questi ritornava dalla vincente campagna militare di Tunisi (1535). B. Croce, Storie e leggende napoletane, Bari 1980; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1980; M. Sanudo, La spedizione di Carlo VIII, Calabria e Lucania raccontata da Marin Sanudo, Venezia 1873. 33   I. Di Resta, Sull’attività napoletana di Giovanni Donadio detto il Mormando, in “Quaderni PAU”, 1991, n. 2, pp.11-22; L. Bilotto, La Provincia di Cosenza, Mendicino (CS) 1996, pp. 155 e ss.; B. Di Falco, op. cit.. 34   Storia dell’arte nell’Italia meridionale, Il Cinquecento, a cura di F. Abbate, Roma 2001, p. 154. 35   “Per ogni terra loro facevano gara a chi meglio spese possevano fare, secondo li lochi apparati, gridando sempre Carlo, Carlo, Cesare (…)”. In Castaldo, Memorie del Regno…cit. 36   Relazione del Convento di Bisignano, Priorato, in Archivio generale dell’Ordine dei Predicatori, XIV, Liber M, ff.51-52; G. Gallo, Carlo V a Bisignano, in “Brutium”, XIV, 5, 1935; C. Minicucci, La biblioteca comunale di Cosenza, in “Bibliografia Calabra”, V, 1932, pp. 214-222; L. Falcone, Vita di corte: giostre e tornei cavallereschi alla corte dei Sanseverino dal XV al Sei-Settecento, in Cultura e spettacolo, cit., pp. 33-40. 37   B. Croce, op. cit., pp. 28-40; R. Curia, op. cit., pp. 37-44; A. De Rose, I palazzi di Napoli, Roma 2001; S. Attanasio, I palazzi di Napoli, Napoli 1999; L. Catalani, I palazzi di Napoli..; G. Labrot, Baroni in città, Napoli 1979. 38   Purtroppo non è possibile ammirarlo a causa delle distruzioni e dei crolli subiti dall’edificio (oggi è sede della Fondazione Benedetto Croce). 39   G. De Marco, La decorazione a grottesca nell’arte calabrese del Rinascimento, in “Quaderni PAU” n.29-32, anno XV-XVI, 2005-2006. La diffusione della grottesca in Calabria non sembra trovare testimonianze rilevanti sia nell’ambito dell’architettura civile sia in quella sacra. Decorazioni all’antica sono state individuate nelle lesene dei tabernacoli, sugli altari e nei monumenti funerari, nonché in alcune decorazioni pittoriche. Eppure nulla ha mai fatto supporre a una sistematica diffusione del genere nella Calabria del XVI secolo. Molto più consistente sarà la presenza della grottesca nei cicli pittorici dell’Ottocento ispirati alla pittura neorinascimentale e neoprompeiana. 40   Le manifestazioni di fedeltà che Pietro Antonio Sanseverino tributò al sovrano gli consentirono, tra le altre cose, di ottenere la massima onorificenza spagnola: quella del Toson d’Oro. Nel coro ligneo della cattedrale di Barcellona, secondo quanto afferma Luigi Falcone, esiste uno stallo sormontato dallo stemma della famiglia Sanseverino con banda rossa in campo bianco. Esso fu dipinto in occasione del 19° Capitolo dell’Ordine del Toson d’Oro. Si veda L. Falcone, Vita di corte, cit., pp. 39-40. 41   Fonti, Saggi e Testimonianze, cit.,, p. 31. 42   R. Curia, cit., p. 64; L. Sottile Athos, cit.; Quaderni del Palio, a cura di Luigi Falcone, voll. I-V, 1998-2003.

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A. Cipparrone, La pittura civile in Calabria…cit., in “Palinsesti”, n.1, p. 340.   Il palazzo è attualmente sede della sala consiliare del Comune di Acri e del MACA (Museo d’arte contemporanea di Acri “Silvio Vigliaturo”). F. Abbate, Storia dell’Arte nell’Italia meridionale, Il mezzogiorno austriaco e borbonico, Roma 2009, p. 511; G. Ceraudo, L’architettura in Calabria al tempo di Mattia Preti. Una linea tra feudo e Universitas, in cat. Mostra a cura di Aldo Ceccarelli, Cosenza 1987, Soveria Mannelli 1990; Architettura residenziale del Sei Settecento in Calabria. Note per una catalogazione regionale, a cura di Mario Panarello, Reggio Calabria 2005 Atlante del Barocco in Italia, a cura di R.M. Cagliostro, Roma 2000, p.264; Residenze nobiliari nell’Italia meridionale, a cura di M. Fagiolo, Roma 2010, p. 112. 45   G. Scamardì, Stefano Vangeri, cit. 46   Archivio di Stato di Cosenza, notar. Marzio Castagnaro, 1707, fogli sparsi non numerati; In G. Scamardì, cit., Archivio di Stato di Cosenza, notar. Marzio Castagnaro, 1707, fogli sparsi non numerati; G. Scamardì, Stefano Vangeri “ingegnero e capo mastro della eccellentissima casa di Bisignano”, in “Quaderni PAU”, 1995, n.12. 47   Ibidem. 48   R.M. Cagliostro, Linguaggi e personalità dell’architettura barocca in Calabria, in Atlante del barocco in Calabria, a cura di R.M. Cagliostro….cit., pp. 80 e ss.; F. Abbate, cit., p. 512. 49   A. Tripodi, Scalpellini in Calabria, in “Esperide”, n.1 genn./giu. 2008; F. Abbate, op. cit., p. 509; E. Bruno, Scalpellini di Calabria, i cantieri e le scuole, Cosenza 1995. 50   Archivio di Stato di Cosenza notar. Marzio Castagnaro, 13 aprile 1710 fogli sparsi non numerati. Si cfr. G. Scamardì, cit., pp. 120 e ss. 51   Archivio di Stato di Cosenza, notar. Giuseppe Saccoliti, 15 aprile 1719, f. 18v. 52   M. Borretti, Per una storia dell’arte in Calabria Citra. Un inedito documento del XVIII secolo, in “Calabria Nobilissima”, V (1951), n. 3-4, pp. 115 e ss. e n. 6, pp. 153 e ss. 43 44

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Cristiana Coscarella

Tracce di archeologia proto-industriale nei territori della provincia di Cosenza: le fornaci per la produzione della calce.

Se si percorrono a piedi i territori che si affacciano sulla valle del Crati e sulle coste, inoltrandosi lungo i tanti sentieri che si dipanano dalle contrade, non è difficile imbattersi ancora oggi in una fornace da calce. Costruite in prossimità di corsi d’acqua, nelle vicinanze di boscaglie necessarie al reperimento della legna, le antiche calcare rappresentano le uniche testimonianze di un’attività, quella della produzione della calce, di cui si è perso col tempo il ricordo. Pietre, acqua, fuoco: erano questi i semplici ingredienti. Ma non certo i soli. Esperienza e capacità facevano la differenza. Il ciclo produttivo imponeva conoscenza dei materiali, dei tempi e del grado di cottura: in altre parole mestiere. Costruite per una produzione casuale finalizzata a singole esigenze ovvero organizzate a più ampia scala per farle diventare fonte di reddito, alle soglie del 1890 si contavano nella sola provincia di Cosenza ben 103 fornaci da calce, in grado di produrre 11.324 tonnellate di materiale, di dare occupazione a 272 persone, di cui 141 adulti e 131ragazzi al di sotto dei quindici anni1. La storia delle calcare è dunque storia di uomini, di territori, di risorse. Cosa rimane oggi di questo patrimonio e di questa preziosa identità? Per rispondere a questa domanda è stato avviato, da qualche anno, un progetto di ricerca finalizzato al censimento e alla schedatura degli impianti ancora presenti sul territorio della provincia di Cosenza (Fig. 1). Grazie alla preziosa collaborazione di alcuni studenti dell’Università della Calabria, incrociando dati archeologici, ricerche di superficie, documenti d’archivio, tracce nella toponomastica e testimonianze orali dei vecchi fornaciai che ancora operavano agli inizi del Novecento, è stato possibile raccogliere una serie di notizie che fanno luce su alcuni degli aspetti meno conosciuti di quel complesso e articolato mondo che è legato al mestiere del costruire2. A questo argomento – e ai temi in qualche modo affini che si innestano sul medesimo filone di studi (archeologia della produzione, architettura del lavoro, archeologia industriale ecc. ) – sono dedicate le brevi note che seguono. Fig. 1. Mappa del territorio della provincia di Cosenza con localizzazione delle calcare censite (da Pansera) 248


La produzione della calce Come ha giustamente sottolineato Enrico Giannichedda, la produzione della calce è un’attività poco studiata, nonostante il prodotto finale ottenuto dall’impasto con sabbia sia presente in quasi tutti gli edifici di epoca storica3. Il suo studio appare al contrario fondamentale sia in termini di conoscenza delle attività produttive all’interno di un territorio (archeologia della produzione e cultura materiale) che relativamente all’impiego nei cantieri di restauro, laddove i metodi conservativi impongano l’utilizzo di materiali (leganti e malte) compatibili con le tecniche edilizie tradizionali4. La materia prima per la produzione della calce (dal latino calx, calcis) è la roccia calcarea (tipo calcare vero e proprio o comunque una roccia con un contenuto di carbonato di calcio superiore al 95%). Sebbene l’estrazione della pietra avvenga tradizionalmente in cave, non è inusuale l’utilizzo dei depositi detritici grossolani che si possono trovare negli alvei fluviali (ciottoli di fiume). La cosiddetta estrazione in alveo appare infatti particolarmente funzionale in quanto il materiale si trova già frantumato, di dimensioni adeguate alla cottura e ripulito, grazie alla permanenza in acqua, da eventuali residui terrosi5. I frammenti rocciosi così estratti vengono sottoposti ad un processo di calcinazione, cioè di cottura ad una temperatura compresa intorno ai 1000°C, in forni appositamente realizzati che prendono il nome di fornaci da calce o, più correttamente, calcare o calchère. Durante l’operazione di cottura, la pietra cede il gas carbonico e si trasforma in ossido di calcio sotto forma di zolle pulverulente molto leggere (calce viva); per poter ricavare il legante (calce spenta), le zolle devono poi essere idratate con acqua (operazione di spegnimento) mediante immersione in buche ricavate nel terreno (fossa di spegnimento), poste generalmente in prossimità del cantiere di costruzione. La pasta vischiosa che si ottiene (grassello) viene da ultimo mischiata agli inerti (sabbia, argilla, pozzolana, frammenti ceramici e lapidei ecc.) per ottenere le malte. Il sistema di produzione della calce è rimasto sostanzialmente identico dall’Antichità fino all’epoca preindustriale, ed è merito dei Romani averne diffuso e codificato l’uso nella pratica edilizia storica6. Già in epoca repubblicana (fine del III sec. a.C.), infatti, se ne faceva un uso sistematico nelle murature che venivano realizzate in pietrame naturale a pezzatura più o meno regolare legato da malta, costruite cioè ex calce et caementis ovvero in opus caementicium7, tanto che è possibile trovare sia dettagliate “ricette” sulla preparazione delle malte nel trattato De Architectura di Vitruvio, che una minuta descrizione della struttura del forno e del ciclo di produzione nell’opera De agri cultura di Catone (Fig. 2)8. Tradizionalmente impiantata in prossimità del luogo di estrazione della pietra, parzialmente interrata o addossata a un pendio per sfruttarne il maggiore isolamento termico, la fornace era un manufatto a pianta circolare, con un elevato di forma cilindrica o troncoconica, di dimensioni variabili a seconda della necessità della produzione (in genere da 2 a Fig. 2. Ricostruzione della fornace da calce descritta da Catone (da Adam, p. 74) 6/7 metri di diametro)9. Era dotata di un’apertura alla base 249


(bocca) che permetteva il rifornimento del combustibile (di norma materiale legnoso molto secco, in grado di sviluppare in breve alte temperature) e l’introduzione dei materiali da cuocere (operazioni di carico); nella parte superiore del forno si aprivano delle prese d’aria e degli sfiatatoi per il fumo mentre la sommità era costituita da una pseudo-volta terminante con un camino (non necessariamente presente). Il fornaciao disponeva all’interno della fornace, lungo una risega del muro posta perimetralmente, le pietre da cuocere in maniera tale da formare un volume di forma ovoidale (volto), che fungeva da camera di riscaldamento, all’interno del quale sistemava la base del focolare. Seguendo una consolidata pratica, le pietre venivano sistemate in base alla dimensione: in basso le più grandi (maggiore calore) e sopra quelle di pezzatura inferiore. La cottura durava generalmente tra i quindici e venti giorni, in maniera continua (Fig. 3). Alla fine del ciclo di lavorazione si aspettava il raffreddamento dell’impianto e si procedeva di seguito allo smantellamento del cumulo e all’asportazione delle zolle calcinate (fase di scarico). Era questo il prodotto che veniva venduto dai fornaciai ai costruttori (calce viva), i quali provvedevano poi all’utilizzazione finale dopo aver proceduto ad idratarlo nelle fosse di spegnimento scavate in prossimità del cantiere.

Fig. 3. Fornace da calce (da Diderot-D’Alembert, Encyclopedie …, 1770-1778, tav. 59)

Fornaci da calce nei territori della provincia di Cosenza Il lavoro di ricerca condotto sul territorio della provincia di Cosenza ha permesso di censire i resti di quarantaquattro calcare, trentatre delle quali funzionanti con sistema a “fuoco intermittente” e undici a “fuoco continuo”. Nonostante l’abbandono e l’incuria di questi ultimi decenni, alcune si presentano in un discreto stato di conservazione, soffocate da una folta vegetazione ma sostanzialmente intatte. Il dato non appare certo confortante se si considera che agli inizi del XX secolo ne venivano segnalate in attività almeno 103 (per la produzione della calce), più 4 per il gesso10. Per lo più gli impianti erano finalizzati esclusivamente a una produzione di tipo familiare o marginale, ovvero realizzati in occasione di un utilizzo immediato e localizzato del prodotto; tuttavia frequente era il caso che fossero edificate “a misura di bisogno”, cioè funzionalmente a costruzioni di particolare importanza infrastrutturale come, per esempio, le imponenti opere in muratura necessarie ai tracciati ferroviari (viadotti, ponti, gallerie ecc …)11. L’attività produttiva rappresentava, dunque, anche una solida realtà economica in grado di soddisfare, seppur periodicamente, una parte delle esigenze occupazionali. Come si è già detto, per ragioni di praticità, le calcare venivano impiantate nei pressi dei luoghi di estrazione del materiale da cuocere, in vicinanza delle cave (residui dello scavo), degli affioramenti superficiali, di pendii ciottolosi o in prossimità degli alvei fluviali, di ruscelli o rii. La zolla calcinata era, infatti, molto più leggera della pietra originariamente inserita nella fornace: era molto più conveniente quindi avere a disposizione la materia prima e trasformare il prodotto in situ. Oltretutto, ciò avvantaggiava notevolmente il trasferimento della calce viva nei luoghi di utilizzo, soprattutto quando c’era da percorre impervi sentieri montani, dal momento che il trasporto avveniva generalmente a dorso di mulo o con carretti trainati da buoi.

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La materia prima Dal punto di vista dell’approvvigionamento della materia prima (la roccia calcarea), occorre sottolineare che il territorio della provincia di Cosenza – come noto, una tra le più estese tra quelle italiane, con una superficie pari a 6650 Km/q. – è caratterizzato da un’estrema varietà geomorfologica. In linea di massima, è possibile distinguere cinque macroaree: il Pollino, la fascia ionica, la Catena Costiera tirrenica la valle del Savuto e quella del Crati, ognuna costituita da una sua peculiarità che illustriamo qui brevemente12. Poiché la natura del sottosuolo incide notevolmente sulla possibilità di utilizzo della materia prima di cui è composto, non tutte le aree offrono le medesime opportunità di sfruttamento. La Catena Costiera presenta affioramenti di rocce di natura carbonatica che hanno dato luogo nei secoli a molteplici attività di sfruttamento e trasformazione del prodotto, alcune ancora oggi esistenti13. A una notevole qualità della pietra andava inoltre aggiunta la possibilità di trasporto del materiale estratto e trasformato via mare, grazie agli approdi mercantili presenti sulla costa tirrenica che, prima della realizzazione della rete ferroviaria costiera, rappresentavano l’unica valida alternativa al difficoltoso e costoso trasporto su strada. Più della metà delle calcare censite nell’intera provincia, ricadono infatti in questa area, la cui vocazione produttiva in epoca pre-industriale è attestata dai resti di ben 23 fornaci alimentate con sistema a fuoco continuo e cinque a sistema intermittente. Anche l’area del Pollino rivela delle forti potenzialità grazie alla presenza di calcari, calcari dolomitici e dolomie che costituiscono la vera ossatura del massiccio. Tuttavia, forse perché ricca di territori disabitati e sicuramente più problematica da visitare, nell’area è stato rintracciato un numero esiguo di fornaci (8); ben due, però, sono situate all’interno del territorio del comune di Saracena: Vincenzo Padula, in uno dei suoi volumi dedicati alla Calabria, ricorda proprio come questa zona fosse nota per l’estrazione di un calcare compatto, di colore grigio turchino, peraltro presente anche nel territorio di Cerchiara14. L’attività produttiva presente nella zona montuosa dell’area del fiume Savuto era invece caratterizzata da uno sfruttamento di tipo intensivo: 5 sono le calcare ritrovate in questa zona, funzionanti con un sistema di cottura a fuoco continuo, alimentato da carbone fossile. Anche nella vallata del Caronte, nel comune di Mendicino, gli affioramenti rocciosi di calcare rossastro (tufo di Mendicino) hanno dato luogo nel corso dei secoli a processi di sfruttamento diffusi ma la cava vera e propria era una sola, in località Vallauro15. Particolarmente fiorente in passato era l’attività nell’area compresa tra la Sila greca e la costa ionica; secondo alcune testimonianze orali, almeno un centinaio erano le calcare presenti nei territori di Paludi e San Giorgio Albanese16. La ragione di un simile successo va ricercata nella particolare composizione della roccia locale che dava origine a una calce di colore scuro, chiamata dai muratori cervina, molto apprezzata per le sue qualità aggreganti17. Ma alla fine del XX secolo, l’attività estrattiva nel territorio provinciale non si limitava esclusivamente allo sfruttamento ai fini della produzione della calce: tredici erano le cave di pietra comune da costruzione (di cui si faceva uno smercio locale), due quelle di travertino, che veniva adoperato per la decorazione degli edifici e opere d’arte nelle strade rotabili ordinarie (smerciato anche al di fuori della provincia) e una di arena e sabbia sita nel comune di Verbicaro e utilizzata nella 251


preparazione delle malte; infine altre cinque erano le cave che somministrano macine per tutti i comuni della provincia, localizzate nei comuni di Ajeta, Belmonte, Cassano allo Jonio, Cropalati e Lattarico18.

I distretti di produzione Non è un caso, quindi, che la dislocazione delle fornaci fosse funzionale alla facilità di recuperare le risorse disponibili in natura: pietra da cuocere e materiale da ardere. E questo dato appare confermato anche dalla toponomastica, che fissa e tramanda nel tempo sia i siti dell’antica attività produttiva che di quella estrattiva. Fosso delle Fornaci, valle delle Fornaci, ’A Carcara, via dei calcarari, “Petrosa”, “u Petràro”: sono solo alcuni dei toponimi attestati, tracce che è anche possibile ritrovare consultando mappe cartografiche ormai desuete. Nel comune di Rogliano, per esempio, già dal XVI secolo doveva esistere, in una località chiamata non a caso “Camina”, una sorta di distretto per la produzione della calce: nel 1576 due “calcinare” vennero vendute dai proprietari, Vittorio e Tommaso de Benincasa, al maestro d’arte muraria Benedetto de Grauso per la somma di dieci ducati19. Segnaliamo che un altro De Grauso, Ferrante, risultava essere proprietario di una terza fornace confinante alle prime due; possiamo quindi ipotizzare che la famiglia, attraverso la nuova acquisizione abbia voluto in qualche modo consolidare la sua posizione di monopolio all’interno del mercato edilizio locale. D’altronde, questa primitiva forma di imprenditoria – fatta di microimprese estremamente parcellizzate – era una delle poche attività presenti sul territorio di Cosenza e dei suoi Casali fin dal XV secolo: numerose – anche se modeste – erano le fornaci di calce documentate a Turzano, S. Ippolito, Donnici e Dipignano20. Soprattutto in epoca medievale, l’analisi del ciclo produttivo della calce appare quindi fondamentale non solo in relazione ai processi costruttivi, ma anche “per i complessi meccanismi organizzativi ed economici che ad essa sono legati”21. La vocazione produttiva dei territori posti a sud di Cosenza, ha trovato un momento di sviluppo fondamentale anche in epoca più recente, con lo sfruttamento del greto del torrente Cardone, affluente del Crati. Lungo il suo corso, fino agli anni settanta, era ancora possibile vedere alcuni impianti a fuoco continuo funzionanti a pieno regime (Fig. 4). Della decina di calcare ricordate dagli abitanti del luogo, ne sono attualmente rimaste 4, in precario stato di conservazione22. La ragione di una tale concentrazione va probabilmente ricercata nella costruzione, iniziata a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento, della linea ferroviaria Cosenza-Catanzaro, nella tratta iniziale che collegava il capoluogo bruzio con Pedace (aperta ufficialmente nel 1916)23. D’altronde, la qualità della materia prima innescava dei processi di sfruttamento che potevano dare origine a dei veri e propri distretti di produzione (filiera produttiva corta), anche se con caratteristiche Fig. 4. Calcare a fuoco continuo in contrada Morelli e a Cirella (da Pansera) 252


proto-industriali24. Nel 1884, per esempio Amato ricordava come nella zona di Corigliano ci fosse: “… un altro capo d’industria non indifferente, la quale è stata pure giudicata perfetta, ed è la Calce, e per questo se ne fa grande incetto dagli Ingegneri di ferrovia. Ciò deve avvenire o perché le pietre, che servono alla Calce, sono le vere pietre calcari, o perché le fornaci sono animate da tanti gradi d fuoco, quanto bastano a portar le pietre a giusta cottura, o perché vi concorrono ambo i fattori: il certo è che la Calce di Corigliano è preferita a tutte le altre. E se ne fa grande smercio. Da questo avviene che in tutte le stagioni dell’anno ardono molte grandi fornaci di Calce in diversi punti del territorio”25. Anche sulla costa tirrenica è possibile rintracciare segni e tracce dell’antica attività produttiva. Nei pressi di Amantea, in una zona con presenza di affioramenti rocciosi e cave chiamata Pietro Lampato (pietra luccicante), erano state impiantate diverse fornaci a fuoco intermittente, che venivano gestite dalle famiglie locali. A partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, la modalità di produzione subì un’evoluzione dal punto di vista tecnologico attraverso la sostituzione del sistema di cottura con l’edificazione di una fornace a fuoco continuo. L’implementazione interessò anche il metodo di rifornimento della materia prima poichè il trasporto delle pietre dalla cava alla calcara venne ottimizzato mediante l’utilizzo di carrelli su rotaie26. Rimanendo nello stesso ambito territoriale, è possibile individuare altre aree produttive a Fiumefreddo, dove rimane meno di una decina dei quaranta impianti attestati fino agli anni Cinquanta27; ad Aiello Calabro, zona un tempo ricca di calcare rifornite dalla pietra proveniente dal Cozzo Giani (o Ciani), dalla cava denominata Pietra Osso (oggi ancora sfruttata con metodi industriali), e di cui rimane un solo esemplare attivo fino agli anni Settanta28; a Cetraro, l’intero territorio era noto sia per l’estrazione della pietra che per la produzione della calce: delle molte calcare un tempo presenti oggi non rimane che Fig. 5. Calcare a fuoco continuo nel comune di Cetraro, contrada Motta, e ad Amantea, contrada un solo esempio, ma particolarmente signifiColonci (da Pansera) cativo, in località Motta (Fig. 5). A Montalto Uffugo il distretto è localizzato in località Caldopiano, in una zona chiamata Petraro; qui si trovano cinque fornaci: la prima, posta in prossimità della strada, è a fuoco continuo ed ben conservata; le restanti quattro (ad utilizzo sporadico) sono disseminate lungo un sentiero che si inerpica sulla montagna fino a raggiungere la cava, posta in cima29.

L’attività produttiva Altro fattore decisivo per la scelta del sito, era la disponibilità del combustibile per alimentare il focolare della calcara: rovi, residui di potatura, legname di piccole dimensioni, sansa di olive, pigne, noccioli, trucioli di segheria; materiale per lo più di scarto, essenze non di pregio e non destinate al commercio o alle attività costruttive, specie arboree infestanti e reperibili localmente. Per le fornaci a fuco continuo veniva utilizzato il carbone fossile. 253


Le molte calcare che si trovano disseminate nel territorio sono state costruite in zone collinari o montuose, aree in ogni caso caratterizzate da massiccia presenza di coperture boschive. Meno documentata è la presenza in prossimità dei luoghi abitati o in pianura30. Assai raro è il caso di impianti costruiti per un utilizzo finalizzato specificatamente all’attività edilizia di un determinato cantiere. Una caso eccezionale è quello del Santuario di Paola, nei pressi del quale è posta l’antica fornace utilizzata per la produzione della calce da impiegare nella costruzione dell’articolato complesso di edifici, e documentata dalle fonti con certezza fin dal XVI secolo. Secondo la tradizione agiografica, san Francesco entrò nel forno e “risuscitò l’Agnello, estinto nella Calcara” riportandolo in vita31; proprio perché legato all’evento miracoloso, l’imponente manufatto è ancora oggi conservato ed è una delle tappe fondamentali del percorso di visita e di pellegrinaggio alla cosiddetta Zona dei Miracoli. Va detto che l’edificazione di una calcara nei pressi di un cantiere di una certa importanza, magari situato nel centro o a ridosso della città, aveva una doppia ragion d’essere: da una parte si produceva ciò che effettivamente serviva alla fabbrica, senza spreco di materiale e limitando i costi al solo impianto iniziale; dall’altra la produzione poteva, all’occorrenza, essere implementata per il soddisfacimento di richieste esterne, divenendo anche una possibile fonte di reddito. Alcune fornaci non vanno quindi considerate esclusivamente come reperti residuali di una produzione destinata al mero soddisfacimento di bisogni contingentati, quanto piuttosto in relazione anche alla possibilità di diventare volano di eventuali iniziative di natura imprenditoriale. In generale l’attività di produzione aveva un carattere stagionale e andava ad integrarsi con i cicli dei lavori agricoli. In molte zone la produzione della calce rientrava infatti, tradizionalmente, nelle attività dei contadini, che utilizzavano calcare e calce per vari scopi: arricchire suoli che ne erano carenti, come disinfestante nei trattamenti di piante da frutto e della vite (calce spenta), o ancora per la disinfestazione di abitazioni e ricoveri di animali contro malattie epidemiche trasmesse dagli insetti (calce viva in polvere). Documentato è anche il caso della concia delle pelli con la calce32. Principalmente, però, la calce era utilizzata nell’edilizia in genere: come legante delle pietre e/o dei laterizi nella costruzione delle murature, come legante nella realizzazione degli intonaci, sotto forma di latte di calce nell’imbiancatura delle pareti e dei solai lignei (scialbatura). In alcuni casi l’utilizzo della calcara era concesso dal proprietario del fondo ai propri contadini, in cambio di parte del ricavato, ma poteva anche accadere che le amministrazioni cittadine dessero in concessione ai privati terreni di proprietà comunale ove impiantare le fornaci. In questo caso il concessionario poteva beneficiare anche dello sfruttamento delle risorse presenti sul suolo a patto che fornisse al comune la calce necessaria alla costruzione delle opere di pubblica utilità33. Più spesso la figura del proprietario e del carcararo coincidono e l’attività di produzione assume una dimensione familiare, che si tramanda da padre in figlio con una certa continuità34. A Cetraro sono i nomi delle famiglia Lucibello e De Caro a legarsi al mondo dell’edilizia; ad Aiello Calabro, fino agli anni settanta del secolo scorso, era il sig. Nicola Guzzo, proprietario di alcune fornaci, a gestire e organizzare il lavoro di tutte le maestranze impiegate nel distretto produttivo. A Montalto era il costante impegno del sig. Peppino Riso a mandare avanti la produzione delle cinque calcare site sulla cresta della montagna. 254


In genere ogni fornace richiedeva la presenza di almeno quattro addetti, occupati in turni di circa sei ore ciascuno. Il momento più delicato dell’intero ciclo produttivo era il carico del materiale all’interno della fornace, e in particolare il posizionamento delle pietre per la costruzione della pseudo-volta (volto o lamia): questo compito era riservato a manodopera specializzata che veniva chiamata all’occorrenza (Fig. 6). Alle donne era riservato l’onere di raccogliere il combustibile destinato ad alimentare il focolare. Questo veniva raccolto in fascine e trasportato a spalla: da qui il nome di fascinare dato a chi svolgeva il lavoro35.

Fig. 6. La costruzione del “volto” della calcara (foto d’epoca proprietà fam. Serpa, da Pansera)

Fig. 7. Calcara a fuoco intermittente nel comune di Paludi, località Avellana (da Pansera)

Fig. 8. Calcara scavata nel terreno nel comune di Saracena (da Pansera)

Le tipologie strutturali Dal punto di vista tipologico, le calcare censite nel territorio provinciale, pur presentando una certa varietà sia nelle dimensioni che nelle caratteristiche costruttive, sono accomunate da analoghi sistemi di cottura. Nel caso di fornaci a fuoco intermittente (utilizzo periodico) si passa da manufatti rudimentali, realizzati per produzioni modeste (non continue), di forma pseudo circolare e struttura in pietra montata a secco36 (Fig. 7), a impianti produttivi più articolati ed efficaci, dotati di particolari accorgimenti tecnici (alcune volte è presente un corridoio antistante la bocca di carico detto prefurnio che serviva a proteggere dalle folate di vento il focolare). Tutti gli esempi sono comunque caratterizzati da un’estrema cura nell’apparecchiatura muraria della camera di combustione, la cui parte interna -sia che fossero utilizzati per la costruzione pietre e/o i mattoni- era sempre rivestita con strati di argilla, rincocciature e rinzaffature a calce onde evitare le dispersioni di calore. Il fuoco deve morire dentro: sono queste le suggestive parole che gli esperti fornaciai utilizzano per descrivere la necessità di provvedere con la massima attenzione a riempire le cavità lasciate libere nella posa tra una pietra e l’altra. L’esigenza di garantire la massima coibentazione ha fatto si che, ove possibile, le strutture venissero interamente inserite nel suolo; è il caso di una delle calcare localizzate nel comune di Saracena, interamente ricavata all’interno di un banco argilloso, con la camera di cottura scavata direttamente nel terreno e consolidata internamente da un paramento in muratura mista (pietre e laterizi) e strati di argilla (Fig. 8). Gli impianti a fuoco continuo, realizzati per una produttività seriale, sono di dimensioni maggiori, con strutture di forma più articolata e monumentale. Benché il sistema a fuoco continuo si sia sviluppato già a partire dal basso Medioevo, le strutture che è stato possibile rintracciare localmente vanno riferite ad un periodo di utilizzo decisamente più recente 255


Fig. 9. Calcara a fuoco continuo (da Menicali, p. 111)

(fine XIX – prima metà del XX secolo) e rappresentano alcuni degli esiti di quel fenomeno di pro-industrializzazione che ha interessato il territorio calabrese fin dalla metà dell’Ottocento. Tecnologicamente più evolute, le fornaci di tipo continuo sono immediatamente riconoscibili perché composte da un volume a forma turrito che può raggiungere un’altezza notevole (anche una decina di metri), con base circolare, ellittica o quadrata37. Internamente è presente una cavità longitudinale (di forma tronco-conica o tronco piramidale) che si rastrema verso il basso fino ad un’altezza di 3/4 metri dal suolo ed è collegata alla camera di scarico (posta alla base dell’impianto e comunicante con l’esterno) attraverso una griglia metallica a sbarre mobili. Il materiale da cuocere viene inserito sulla griglia partendo dall’alto, intervallando strati di pietra a strati di carbone; i focolai sono più di uno: quello principale (situato nella camera di scarico, che serve per l’accensione iniziale del ciclo di produzione e successivamente viene spento) e altri posti in corrispondenza dei vari livelli del grande camino. La cottura comincia dagli strati inferiori e, grazie ai gas roventi che risalgono, prosegue gradualmente verso l’alto; le zolle calcinate, una volta raffreddate, vengono fatte cadere dai fornaciai nella camera di scarico (muovendo le sbarre mobili della grata con lunghe leve) e asportate; man mano che gli strati sono cotti si provvede a rifornire dall’alto la fornace. In questo modo il ciclo di produzione è alimentato con continuità, sia di materiale che di combustibile (Fig. 9). Gli impianti meglio conservati con queste caratteristiche si trovano nei comuni di Diamante (fraz. di Cirella), Scalea, Amantea, Cosenza, Trenta, Pedace e Cetraro, in cui è situata la struttura più imponente tra quelle rilevate: oltre una decina di metri di altezza per cinque in larghezza38. Ritorniamo dunque alla domanda iniziale: cosa rimane oggi di questo patrimonio e di questa preziosa identità? Le calcare censite rappresentano, con molta probabilità, solo un terzo delle fornaci da calce un tempo presenti nel territorio dell’intera Provincia; gli impianti, da tempo inutilizzati, si vanno degradando sempre più e anche la memoria dell’antico mestiere del carcararo è destinata inevitabilmente a scomparire. Che cosa si può fare affinchè le testimonianze di questi antichi processi produttivi e di archeologia proto-industriale non vadano perse per sempre? Una proposta potrebbe essere quella di salvaguardare e valorizzare, attraverso idonei progetti di musealizzazione all’aperto, ciò che resta. E’ questo, d’altronde, il percorso intrapreso in alcune regioni italiane, attive da anni in proficue iniziative di promozione culturale, ottimi esempi di turismo integrato.

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Note 1  Annali di Statistica. Statistica industriale. Fasc. LI. Notizie sulle condizioni industriali delle provincie di Catanzaro, Cosenza e Reggio di Calabria, a cura del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Roma 1894, p. 59 e sg. 2  Il risultato del lavoro di ricerca è confluito in due tesi di laurea: G. Pansera, “A carcara”. La produzione della calce in epoca preindustriale nella provincia di Cosenza”, relatore prof. C. Coscarella, corso di laurea in Dams, Università della Calabria AA. 2003-2004; F. Pastore, Architettura del lavoro nella provincia di Cosenza: le fornaci di epoca preindustriale, relatore prof. C. Coscarella, corso di laurea in Dams, Università della Calabria AA. 2003-2004. 3  T. Mannoni-E. Giannichedda, Archeologia della produzione, Torino 1996, pp. 313 e sg. 4  Sulla ricostruzione del ciclo produttivo della calce in epoca medievale si veda, ad esempio: S. Baragli, L’uso della calce nei cantieri medievali (Italia centro-settentrionale), in Archeologia Medievale, XXXI, 2002, pp. 35-40. Sulle cause di degrado e i metodi di conservazione e restauro dei materiali lapidei si vedano i contributi pubblicati negli Atti dei Convegni di Studi che si svolgono annualmente a Bressanone (Scienza e Beni Culturali), in particolare: Le pietre nell’Architettura: Struttura e Superfici, (a cura di G. Biscontin e D. Miello), Bressanone 25-28 giugno 1991, Padova 1991. 5  Tra i molti testi dedicati all’argomento citiamo: U. Menicali, I materiali dell’edilizia storica. Tecnologia e impiego dei materiali edilizi tradizionali, Roma 1992, pp. 108-120 e A. Cagnana, Archeologia dei materiali da costruzione, Mantova 2000, pp. 123-15. A partire dall’età altomedievale si diffonde l’impiego, come materia prima da calcinare, di frammenti di marmo, statue e membrature architettoniche provenienti dagli edifici in disuso. Sul tema del riuso dei materiali nel corso dei secoli si veda: L. De Lachenal, Spolia. Uso e reimpiego dell’antico dal IV al XIV secolo, Milano 1995. 6  Si vedano, in particolare: J.P. Adam, L’arte di costruire presso i Romani. Materiali e tecniche, Milano 1996; C.F. Guliani, L’edilizia nell’antichità, Urbino 1992. 7  J.P. Adam, cit., pp. 137-171. 8  Vitruvio, De Architectura. Libri decem, II, 5; Catone, De Agri cultura, XLIV, De fornace calcaria; Plinio, Naturalis Historia XXXVI. 9  Per l’analisi di impianti situati in contesti geografici mediterranei si veda: Adam, cit., pp. 69-76, che pubblica anche una ricostruzione schematica della fornace a calce descritta da Catone (fig. 155). Nell’Antichità, altri tipi elementari di fornaci erano quelle a fossa o catasta e tre i diversi sistemi: cottura al forno con focolare alla base, cottura al forno per impilamento, cottura in area scoperta. Peraltro va sottolineato come non fosse inusuale utilizzare il medesimo impianto per usi successivi e differenziati (vetro, laterizio, calce). 10   Annali di Statistica…, cit., p. 73. Una prima schedatura (fondamentale ma non certo esaustiva, per ovvie ragioni) degli impianti di produzione della calce rintracciabili attualmente sul nostro territorio è in L.G. Pansera, cit.: a questo lavoro si rimanda per le notizie riportate in queste pagine. 11   Annali di Statistica…,cit., p. 73. 12   L’area silana (Sila piccola) è caratterizzata da rocce granitiche inadatte alla produzione di calce. 13   L’attività estrattiva ancora presente nel comune di San Lucido è esemplificativa di questo caso. Altre zone di sfruttamento erano localizzate nell’area di Monte Cocuzzo (loc. Timpa della Badia), con cave che rifornivano per lo più le calcare di Fiumefreddo, e quella di Cozzo Ciani, la cui pietra era utilizzata dalle fornaci di Aiello Calabro (sfruttata ancora oggi). 14   V. Padula, Persone in Calabria, Roma-Bari 1967, pp. 228. 15   Su questo argomento si veda: V. Canonaco, Attività estrattiva in Calabria. Il caso delle cave di Mendicino: arte e mestiere, tesi di laurea, relatore prof. C. Coscarella, corso di laurea in Lettere Moderne, Università della Calabria, AA. 2002-2003. Sull’utilizzo della pietra di Mendicino e Carolei agli inizi del XIX secolo si veda L. Petagna-G. Terrone-M. Tenore, Viaggio in alcuni luoghi della Basilicata e della Calabria Citeriore, Napoli 1827, pp. 71-72. 16   Le interviste ai proprietari delle fornaci e ai vecchi fornaciai sono raccolte in G. Pansera, cit., pp. 26-30 e 105-138. 17   V. Padula, Calabria prima e dopo l’Unità, cit., p.52. Tre sono gli esempi di fornaci da calce ancora presenti in zona. 18   Annali di statistica.., cit., pp. 72-73. 19   Documento in G. Pansera, cit., p. 33 n. 27. 20   T. Cornacchioli, Nobili, borghesi e intellettuali nella Cosenza del Quattrocento, Cosenza 1990, p. 161. 21   S. Baragli, cit., p. 37. 22   Sono localizzate nel territorio dei comuni di Cosenza e Trenta (contrada Morelli); un’altra, di proprietà privata e trasformata per uso abitativo, è a Pedace. 23   Dal 1922 la tratta realizzata fino a Pedace venne anche utilizzata per la linea Cosenza-Camigliatello-San Giovanni in Fiore. 24   Si tratta di strutture per lo più impiantate intorno agli inizi del Novecento e in funzione fino agli anni settanta del secolo corso. 25   G. Amato, Crono-istoria di Corigliano Calabro, (1884), cit. in Pansera, p. 108. Le calcare rintracciate sono situate in località Fontanelle (a fuoco continuo, attiva fino al 2001) e a San Giorgio Albanese (podere Stori). 26   La fornace è in contrada Colongi. Un sistema a teleferica venne usato per il trasporto della calce nei pressi del cantiere di utilizzo in occasione della costruzione degli stabilimenti termali di Guardia Piemontese, alla metà degli anni Cinquanta. 27   Località Cotura. 28   Località Vallone Spinosa; in zona un’altra calcara è stata trasformata in cappella votiva. 29   Va segnalato il meritorio intervento del recupero della calcara sita in localita Rifugio Mangia e Bevi promosso dalla Comunità Montana. 30   All’interno del centro abitato di Fiumefreddo, in località Pirillo, è attestata la presenza di due calcare a fuoco intermittente attive fino al 1975. 31   G. B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, rist. anastatica, Sala Bolognese 1979, 3 voll., II, pp. 25-26 32   G. Sole, Viaggio nella Calabria Citeriore dell’800, Cosenza 1985, p. 110. 33   E’ il caso della fornace situata a Montalto Uffugo, (località Rifugio Mangia e Bevi): la proprietà era di un privato anche se la struttura era impiantata in un terreno di proprietà dell’Amministrazione Comunale. 34   Per esempio la calcara sita a Corigliano Scalo, in località Fontanelle, in attività fino al 2001, è di proprietà della famiglia Godino da tre generazioni. 35   Nel dialetto di Montalto le fascine da ardere prendono il nome di sàrcina. 36   Con questa tecnica è stata costruita, per esempio, la calcara sita a Paludi (località Avellana). 37   Cfr. U. Menicali, cit., pp. 110-112 38   Sita in contrada Motta (proprietà De Caro): originariamente era un impianto a fuoco intermittente che venne trasformato in fuoco continuo a metà anni Quaranta. E’rimasta in attività fino agli anni Settanta del secolo scorso.



La mostra


La pietra come risorsa ambientale e culturale

Ricca di risorse naturali è la Calabria. Da esse e dal loro sfruttamento si sono originate nel tempo attività artigianali ed artistiche che hanno preso le mosse dalla capacità dell’uomo di adattare il territorio alle proprie esigenze primarie. La provincia di Cosenza possiede giacimenti pietriferi documentati fin dall’antichità e riportati nelle fonti dal Cinquecento all’Ottocento; essi hanno incrementato nei secoli l’economia dei centri in cui sorgevano originando scuole di lapicidi e di scalpellini protagonisti dei cantieri cisterciensi e autori delle pregevoli decorazioni architettoniche , fiorite tra Rinascimento ed età barocca, che oggi ornano palazzi ed edifici ecclesiastici in tutti i borghi della Calabria. Le più note cave di pietra nella provincia di Cosenza furono quelle di Aiello, Altilia, Mendicino, Rogliano, Fuscaldo, San Giovanni in Fiore e San Lucido alle quali si aggiungevano i luoghi dove la pietra sorgeva in modo spontaneo e naturale; da questi luoghi partì l’opera di maestri scalpellini che divulgarono stilemi decorativi e linguaggi artistici ben definiti e modello per generazioni successive. Ancora sul finire dell’Ottocento esistevano in provincia d Cosenza 21 cave attive e dall’estrazione delle rispettive pietre si realizzavano diversi materiali: pietre da costruzione, pietre da macine, pietre ornamentali, ciottolame per strade ecc. Oggi la pietra è una risorsa da rimettere a valore. Da elemento fondamentale per la costruzione dello spazio/vita dell’uomo rischia di dissolversi producendo frammentazione e disomogeneità. La presentazione, in mostra, dei conci e dei blocchi di graniti e pietra calcarea cosentina vuole porsi come una esortazione a ricollocare la pietra locale nel patrimonio culturale e ambientale della Calabria, favorendo le occasioni di utilizzo della pietra locale e costituendo un distretto culturale avente come punto di partenza le risorse naturali del cosentino (argilla, pietra, fibre tessili, legno ecc.) che possa dialogare con realtà extraregionali già consolidate.

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La pietra di Mendicino

Conci di pietra da rivestimento di colore molto chiaro e di Pietra rosa di Mendicino lavorata per pavimentazioni bellissima e alta qualità. Viene estratta a Carolei (CS).

Da oltre vent’anni l’azienda Cannataro opera nel settore dell’estrazione e lavorazione delle pietre ornamentali, nella fornitura di materiali naturali lavorati per l’arredo urbano, cercando con determinazione di crescere e adeguarsi alle esigenze del mercato. La cava di estrazione situata nel territorio di Carolei (CS) fornisce pietra locale di alta qualità; la ditta Cannataro si è specializzata in pietra da rivestimento di colore rosa tipo Mendicino, pur lavorando con materiali provenienti da altre aree della regione (pietra da rivestimento bianca tipo Cosenza, pietra verde, di fiume, grigio scura, marrone, ciottoli ecc.).

Esempi di lavorazioni in pietra locale eseguiti dalla ditta Cannataro

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La pietra di Grisolia La pietra di Grisolia è detta anche Pietra d’oro per la quarzite di colore oro presente a volte in alcune sue venature. È caratterizzata dal colore grigio e da venature bianche. È una pietra calcare, duttile e facilmente malleabile. Si estrae da cave all’aperto a 300 n s.l.m. nell’alto Tirreno cosentino. Esempi di pietra naturale di Grisolia (Foto Associazione Geo Arte Onlus)

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Il feldespato di Acri La regione Calabria possiede un sottosuolo ricco di minerali metallici e litoidi (risorse queste, ieri come oggi, poco conosciute e troppo poco sfruttate). Già nella prima metà del 1700 la regina del Regno delle Due Sicilie, Maria Amalia Walburga di Borbone, pensava di creare a Cosenza una manifattura di porcellana utilizzando il pregiato caolino (roccia prodotta dall’azione dell’acqua meteorica sul feldespato), rinvenuto in alcune cave di Fuscaldo. In linea con quanto auspicato dalla regina, nel 1990, si inaugurò a Palazzo Collice (in pieno centro storico di Cosenza) la “Manifattura della giostra” che realizzò fino al 1994 eleganti oggetti e piatti in porcellana decorata. Per capire l’attività estrattiva in Calabria e la lavorazione dei minerali nella stessa è interessante, poi, la vicenda riguardante un fondo di proprietà della nobile famiglia Dodaro di Acri*. Con atto del 14/03/1859 Tommaso Dodaro comprò da Vincenzo Meringola un fondo in contrada Sorbo (Acri); più tardi l’avvocato Giovambattista Dodaro ampliò la proprietà annettendovi nel 1887 un altro fondo comprato ai pubblici incanti dalla parrocchia di San Giovanni di San Marco, infine nel 1898 con atto rogato dal notaio Domenico Zanfini, Francesco Dodaro comprava da Luciano Molinari un terreno confinante con il precedente. Per tutto il XIX secolo l’aerea di proprietà della famiglia Dodaro rimase “arborata di castagni”, solo nel secolo scorso ,grazie ad alcuni carotaggi effettuati dalla ditta Silana Mineraria ora SMIC (acronimo di Società minerali industrali Calabria), iniziò l’attività estrattiva grazie alla scoperta nel sottosuolo di un giacimento di feldespato. Quest’ultimo è un minerale molto utilizzato, miscelato con quarzo e caolino, per la realizzazione di porcellane e refrattari (materiali capaci di resistere per lunghi periodi ad elevate temperatura senza reagire chimicamente con gli altri materiali con i quali si trovano a contatto). Attualmente l’attività estrattiva è stata sospesa a causa dell’esaurimento della vena mineraria, mentre prosegue in un fondo attiguo di proprietà della famiglia Bifano.

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Si ringrazia Francesco Paolo Dodaro per le notizie riportate.

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La pietra di San Lucido La Pietra di San Lucido è una pietra calcarea di colore bianco /beige (più raramente rossa o rosata) di antichissima formazione, estratta nella periferia settentrionale della cittadina tirrenica cosentina. Agli inizi degli anni ’50, Francesco Albanese intraprese l’attività imprenditoriale di estrazione e lavorazione della pietra dando vita ad una realtà di grande pregio artigianale ed in continuo rinnovamento che arriva ad oggi alla sua terza generazione. L’evoluzione della lavorazione della pietra ha seguito i processi fondamentali dello sviluppo economico e tecnologico del meridione e dell’Italia intera nel corso del dopoguerra. Oggi la Pietra di San Lucido è utilizzata soprattutto per le Conci di pietra di San Lucido sue peculiarità architettoniche e decorative oltre che per le note caratteristiche strutturali: soglie, capitelli, rivestimenti per pareti esterne ed interne, pavimentazioni, complementi d’arredo per il giardino o per luoghi pubblici evidenziano la bellezza e la versatilità di questo prodotto straordinario. Ne sono testimonianza le integrazioni ex novo al castello di Santa Severina (KR) risalente all’XI sec., l’altare maggiore della cattedrale di Gerace (RC) sotto esplicita commissione di Sua Eccellenza Mons. Giancarlo Brigantini (allora vescovo di Locri-Gerace), l’anfiteatro “Belluscio” di Altomonte (CS) e numerose altre opere pubbliche e private del territorio. Da oltre sessant’anni la cava “Albanese” coltiva il sapere imprenditoriale tramandato di generazione in generazione per la custodia, la tutela, l’utilizzo e lo sviluppo razionale di questo patrimonio naturale, fiore all’occhiello non solo di una famiglia ma di un intero territorio.

Veduta della cava di Francesco Albanese 264


Esempi di lavorazione eseguiti dalla ditta Albanese di San Lucido

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Il granito silano di San Giovanni in Fiore Il granito è una roccia ignea intrusiva felsica, il cui nome deriva dal latino granum (a grani), con chiaro riferimento alla sua struttura olocristallina. In Italia sono assai diffuse rocce granitiche, localizzate nelle Alpi, in Calabria e in Sardegna. Fino agli anni Sessanta del 2000 il granito silano, oltre ad essere utilizzato per opere d’arte, è stato impiegato per la produzione di macine di mulini e frantoi a trazione animale (trappiti). Ancora oggi, gli artigiani utilizzano, per la lavorazione, quasi esclusivamente strumenti manuali come mazze, martelli, picconi. Per quanto riguarda i manufatti in pietra, a Longobucco in particolare è possibile ammirare alcuni bei portali abbelliti da maschere apotropaiche – dette in dialetto mostriciattuli – risalenti anch’essi alla tradizione greca. Nella zona di San Giovanni in Fiore il granito – denominato silano per l’area di maggiore affioramento – viene estratto e lavorato da Domenico Madia*, scalpellino ed erede di un’antica tradizione di maestri della pietra silana. Esempi di pietra granitica grezza e semilavorata

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Di Domenico Madia si parlerà più approfonditamente nella sezione degli scalpellini della provincia di Cosenza.

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La pietra di Altilia. Una proposta di musealizzazione e valorizzazione ambientale e culturale

Fig. 1 Veduta della cava di Altilia

Come si è evinto dai contributi inseriti nel volume, tra le numerose cave del territorio cosentino, quella di Altilia, dorme silente da quasi un secolo (Fig. 1) Denominata “Parrere” dal francese”parriére” (che significa cava di pietra) la cava altilese si trova sulle sponde del torrente Carito e offre uno spettacolo meraviglioso fatto di cascate, alberi secolari e strette gole, incorniciata da una immensa parete rocciosa del colle Pecale. Le cave di pietra un tempo erano undici, ma di queste solo sette sono oggi raggiungibili e in esse è possibile trovare incise date, nomi e, a volta, croci indicanti incidenti sul lavoro. La caratteristica composizione mineraria della pietra di Altilia, ci porta a suddividere il fronte delle cave in due tronconi. A valle troviamo una tipologia di pietra più porosa, senza impurità, ottima nella lavorazione e molto resistente agli agenti atmosferici (in questa zona veniva estratta la pietra destinata alla realizzazione di portali, facciate di edifici); a monte, invece, si trova un’altra tipologia di pietra, con caratteristiche identiche a quella precedente, ma con la differenza di non essere porosa, si presenta molto compatta e più soggetta all’erosione, questa affiora in superficie in molti punti e veniva utilizzata principalmente per la realizzazione di caminetti, forni, balaustre ed archi interni,insomma tutte quelle opere destinate ad un uso non esterno (Figg. 2-3). In alcune cave sono ancora visibili conci appena sbozzati e la data in cui in esse si lavorò, la più antica sembra essere quella che porta incisa la data 1316 e due iniziali J.M., mentre la più recente, 1954, si trova in una delle ultime cave. Osservando con attenzione l’interno di queste cave si possono notare i vari modi d’estrazione della pietra che si sono susseguiti negli anni. La fondamentale capacità dello scalpellino era quella di conoscere tutte le caratteristiche del materiale litico, praticare dei tagli trincanti o di spalla, seguire le venature della pietra, sapere dove tracciare le linee per ottenere la forma voluta per tagliarla senza rompere l’intero blocco di pietra. Il maestro scalpellino cominciava il suo lavoro sbozzando il blocco grezzo in pietra fino alle decorazioni, che con scalpelli di piccole dimensioni a punta e taglio, venivano realizzate sul blocco stesso. Finita la lavorazione dei moduli in pietra, si passava alla posa in opera degli stessi sempre sotto l’occhio vigile del capomastro che aveva realizzato il manufatto.

Fig. 2 Grimaldi, Palazzo Silvagni. Portale in pietra di Altilia realizzato dallo scalpellino altiliese G.B.Caruso 1836 267


Antiche botteghe di Altilia. Il caso dello scalpellino Silvio Ferrari L’intento di restituire ai cittadini della provincia di Cosenza la storia della locale estrazione e lavorazione della pietra, rimarcando l’eccezionale profusione di manufatti artistici che nel decoro “ornamentale” conferiscono una speciale facies ai nostri centri storici mi induce a ricordare una figura di scalpellino altiliese, Silvio Ferrari. La sua antica bottega ricostruita in mostra al MAM, rappresenta uno dei topoi del percorso di ricostruzione e valorizzazione delle tradizioni locali. Silvio Ferrari nasce ad Altilia (CS) il 7 Marzo del 1910 da Gaetano e Angelina Mirabelli ed è l’ultimo di tre figli. Fin da ragazzo si appassiona all’arte dello scalpello e ne apprende la Fig. 3 Altilia, caminetto eseguito dallo scalpellino Silvio tecnica ed i segreti da uno degli ultimi vecchi maestri scalpellini di Altilia del Ferrari XIX secolo, tale “mastru cicciu e Gatanedda” Francesco Guercio (il vecchio). È proprio nelle cave chiamate delle “Parrere”, situate lungo il fiume Carito nei pressi del centro abitato di Altilia, che Silvio si reca ad estrarre i conci di pietra e, da giovane apprendista, impara l’arte e i segreti dello scalpello abbozzando pezzi di arco, conci di portoni e finestre, basi di portali, fregi di balconi e chiavi di volta decorate. Lavora presso alcuni importanti cantieri a Cosenza e nella provincia, tra i quali quello del Duomo di Cosenza (completato nel 1940 circa dal vescovo Aniello Calcara) ed alla costruzione del ponte ad arcate alla confluenza dei fiumi Crati e Busento nei pressi della chiesa di San Francesco di Paola. Dopo aver partecipato alla seconda guerra mondiale si trasferisce a Toronto dove riprende il lavoro di scalpellino, realizzando e scolpendo pietre decorative per le facciate delle ville nella periferia della città. Al suo ritorno ad Altilia realizza i suoi ultimi pregevoli lavori da scalpellino, tra i quali un artistico caminetto in pietra tufacea creato per la cugina Carmelina Mirabelli, raffigurante grappoli di uva, tralci e foglie di vite. Muore a San Marco Argentano (CS) il 26 marzo 1996 all’età di 86 anni. Gli attrezzi di Silvio Ferrari riproposti in mostra sono: attrezzi per estrazione (Figg. 4-5); attrezzi utilizzati per lo sbozzo di pietre dure: subbia; scalpello piatto; sgorbia; gradina (Fig. 6); attrezzi per lo sbozzo delle pietre tenere: asce; scalpelli a taglio largo o pialle.

Fig 4/5 Attrezzi per estrazione , piccone, mazzette 268

Fig. 6 Varie misure di scalpelli


Infine gli attrezzi per completare l’opera: subbia fine; gradina piccola; martellina; bocciarda; scalpello, squadre e compassi (figg. 7-8).

Un’ipotesi di riqualificazione della cava di Altilia

Fig. 7-8 Attrezzi per la lavorazione, squadre e compasso

Un’ipotesi di riqualificazione per far “rivivere” e rendere fruibili le cave antiche di Altilia, sarebbe quella di trasformarle in un “museo naturale” o “cantiere didattico”. Questa proposta nasce dal fatto che nella zona sembra che il tempo si sia fermato all’ultimo giorno che gli scalpellini vi hanno lavorato; sono visibili ancora le varie tecniche estrattive che venivano utilizzate, conci pronti alla lavorazione, altri appena sbozzati, ed alcuni deco-

rati per la posa in opera, insomma tutta la fase lavorativa della pietra. L’idea del “museo naturale” o “cantiere didattico”, sarebbe importante per le generazioni future, che scoprirebbero i luoghi del passato legati al mestiere dello scalpellino, ma acquisirebbero anche la consapevolezza che questo mestiere ancora oggi è vivo nelle botteghe artigiane della provincia di Cosenza. Sarebbe opportuno creare anche una “rete” tra gli operatori che utilizzano la pietra del nostro territorio; così da creare un polo di conoscenza tra gli addetti ai lavori e tutti quelli che si interessano allo sfruttamento sia edilizio che artistico del materiale lapideo. Dare così l’opportunità di scoprire ciò che è stato in passato, ma anche come oggi continua il mestiere dello scalpellino legato per sempre al suo territorio di appartenenza, grazie allo sfruttamento di una risorsa naturale come la pietra. Gabriele Ferrari Scalpellino

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Fonti archeologiche e documentarie per la ricostruzione dell’artigianato artistico nella provincia di Cosenza Le tradizioni artigiane della provincia di Cosenza vantano secoli di attività testimoniati dai reperti archeologici e dai documenti che il MaM intende proporre ai visitatori nella direzione di un dialogo trasversale di tutte le fonti. La presenza in mostra di reperti archeologici provenienti dai depositi del Museo Nazionale archeologico della Sibaritide afferenti alle Arti che fin dall’epoca enotria e poi greca e romana si praticavano in questa importantissima area archeologica, così come i documenti rinvenuti nell’Archivio di Stato di Cosenza legati alle attività degli artigiani nel cosentino tra il Cinquecento e il Settecento, dimostrano che la tessitura, la lavorazione del legno, dei metalli, dell’argilla e, ovviamente, quella della pietra, non solo hanno origini antichissime ma continuano ancora oggi e devono assurgere a patrimonio culturale tout court. Interessanti particolari si svelano ad un’attenta visione di questi manufatti; essi chiariscono l’importanza – nella continuità delle operazioni manuali e nell’evoluzione delle attrezzature – dell’artigianato artistico nel nostro territorio e del sapiente utilizzo delle risorse locali.

Museo Nazionale Archeologico della Sibaritide, capitello corinzio a foglie d’acqua lisce

Museo Nazionale Archeologico della Sibaritide, architrave modanato con segni dello scalpello 270

AScs, Fondo Notarile, notaio Ignazio Ranieri, 17 Agosto 1777, c. 21v. (da uno studio di Cinzia Altomare)


Gli scalpellini nella provincia di Cosenza. L’ultima generazione e la trasmissione del “sapere” Il mestiere dello scalpellino è stato, fin dall’antichità, un mestiere duro che non sempre ha goduto della giusta attenzione e valutazione. Lo scalpellino, figura spesso anonima fin dai cantieri dell’antichità, era inteso come un mero lapicida, un uomo che lavorava le pietre in sequenza senza potervi aggiungere una cifra stilistica propria ed identificativa. Tagliare pietre, ordinarle in serie, fornirle ad altri erano le mansioni che lo contraddistinguevano. Ma questa congiuntura si avvertiva già in passato come rigida e mal sopportata e i lapicidi dei cantieri cistercensi idearono dei simboli che lasciassero ai posteri una testimonianza della propria azione, della propria capacità di plasmare la materia, della propria “mano”. Lo scalpellino, nell’età moderna, divenne artiere e poi artista esprimendo conoscenza dei materiali, abilità nell’utilizzo degli attrezzi, dimestichezza nella scelta delle tecniche per ogni tipologia di pietra e, soprattutto, capacità artistica di ideare forme e rappresentarle su un supporto talvolta ostico come la pietra. La generazione degli scalpellini del XX secolo si è distinta per numerosi lavori di restauro sui monumenti antichi, ma è oggi che gli scalpellini della provincia di Cosenza, eredi e continuatori di una antica tradizione, affermano la propria arte. Mastri scalpellini che lambiscono e superano i confini tra artigianato e arte dando vita ad elementi decorativi di pregevole fattura, iconografie scolpite, monumenti e manufatti architettonici in pietra locale. Essi, informati dei principali linguaggi artistici, veicolano l’arte della lavorazione della pietra alle nuove generazioni, risultando perciò garanti di quel dialogo intergenerazionale che pur rimanendo ancorato alla manualità e all’artigianalità, accoglie positivamente le nuove frontiere dischiuse dall’utilizzo di strumentazioni tecnologiche. Le nuove generazioni sono rappresentate in mostra dagli studenti dei Licei Artistici di Cosenza e San Giovanni in Fiore coinvolti nel progetto espositivo e nei laboratori esperienziali.

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Maestro Domenico Varca (San Giovanni in Fiore) Lo scalpellino Domenico Varca, nato nel 1916 a San Giovanni in Fiore dove morì nel 1981, fu attivo nei cantieri di restauro degli anni Sessanta-Ottanta e lavorò strenuamente nei borghi del territorio cosentino dando vita a pregevoli opere di restauro, ricostruzioni e rifacimenti, assurgendo a scultore di opere in pietra. L’opera di Varca è quella di un epigono, forse l’ultimo, e perciò ancora più significativo, di una tradizione secolare di magistero edile, oggi scomparsa. Nella sua biografia artistica suscita particolare interesse l’attività svolta nel campo del restauro monumentale, dove il Maestro ha realizzato i suoi principali capolavori: a Cariati (19541967) nella chiesa di S. Filomena, a Dipignano (1960) nella chiesa della Riforma, (1962-1963 e 1972) nel castello svevo e nella chiesaconvento di San Domenico a Cosenza; a Gerace (1967-1969) nella Cattedrale; nella chiesa di San Francesco d’Assisi, a Bisignano (1971) e nella ricostruzione del chiostro del convento di Sant’Umile; ad Altomonte (1970-1978) nella chiesa di Santa Maria della Consolazione e a Belvedere Marittimo (1979) nel proto-convento di San Daniele. Domenico Varca ha saputo replicare manufatti realizzati in epoca normanna, sveva, angioina, aragonese e spagnola, migliorandone spesso le tipologie d’incastro dei conci lapidei, riuscendo a implementare i coefficienti di sicurezza rispetto alle sollecitazioni cui gli stessi erano soggetti. L’attività svolta, tanto singolare quanto irripetibile, lo eleva al grado di grande maestro lapicida nel panorama storico del restauro architettonico relativo al patrimonio monumentale della Calabria. Eredi della tradizionale lavorazione della pietra sono gli scalpellini di oggi, i quali consentono di portare su una linea di continuità ideale l’opera pregevole di genitori e figli, di amici e colleghi.

Cosenza, Chiostro del Convento di San Domenico, particolare del pilastro firmato da Domenico Varca

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Maestro Eduardo Bruno (San Marco Argentano) Non ha l’ottimo artista alcun concetto c’un marmo solo in sé non circonscriva col suo superchio, e solo a quello arriva la man che ubbidisce all’intelletto. Eduardo Bruno, artista riconosciuto in tutta Italia per le sue opere in bronzo e in marmo e, soprattutto, per la sua vasta e variegata produzione di medaglie, ha iniziato la sua attività come scalpellino negli anni Cinquanta-Sessanta del ‘900 ed è questa porzione della sua biografia, così poco trattata dagli studiosi, che vogliamo recuperare, certi che la sua grande ascesa da artigiano della pietra ad artista del marmo si sia originata proprio nei cantieri del cosentino. Quei cantieri nei quali l’ultima generazione degli scalpellini della provincia di Cosenza si è distinta per maestria e solerzia. Nella grande operosità che generò i cantieri di restauro degli anni Sessanta grazie ai quali nuova linfa venne offerta ad antichi monumenti di epoca medievale e rinascimentale esistenti sul nostro territorio, il ruolo degli scalpellini fu di fondamentale importanza poiché folte schiere di maestranze della pietra furono impiegate per restaurare rosoni, facciate, portali e ogni minimo dettaglio di decorazione architettonica. Eduardo Bruno iniziò la sua attività di scultore proprio durante una di queste campagne, quando, nel cantiere per il restauro della cattedrale di San Marco Argentano, suo paese natio, si lasciò affascinare dal “ritmo musicale di scalpelli e mazzulli” seguendo con grande interesse l’opera quasi devota di quelle maestranze che modellavano e plasmavano la pietra rosa proveniente dalle cave di Mendicino, per il ripristino del comparto architettonico. Pur trattandosi di un cantiere estremamente parcellizzato, in cui la gerarchia era insindacabile, fu in quella occasione che gli scalpellini più grandi gli fornirono un blocco di pietra da cui Eduardo Bruno estrasse un volto maschile, quasi come se quella pietra gli avesse suggerito la figura che celava al suo interno in una condivisione e compenetrazione di sensi quasi michelangiolesca. Pur avendola sbozzata con scalpelli rudimentali Bruno ricevette i complimenti dei maestri, in modo particolare dello scalpellino Fiore Pavone. 273


Parallelamente all’esperienza con la pietra, Eduardo Bruno andò a quel tempo a bottega dai vasai del suo paese, anticipando quella passione verso la creta e il bronzo che l’avrebbe condotto ai massimi esiti della fusione a cera persa. Tuttavia la pietra rimase per lungo tempo nel suo cuore e nella sua attività e dopo una serie di viaggi fu impiegato nei cantieri di restauro architettonico come “squadratore” lavorando assiduamente in Santa Maria della Consolazione di Altomonte insieme al maestro Domenico Varca, ultimo scalpellino della generazione dei maestri della pietra impegnati nei grandi cantieri di restauro degli anni Sessanta. L’attività di Bruno e la sua testimonianza consente di ripercorrere i momenti principali dell’attività lavorativa dei cantieri architettonici del tempo, facendo luce sui ruoli delle singole maestranze, sui segni che esse indelebilmente lasciavano sulla pietra, sull’organizzazione interna e sulla concordanza delle parti che lo costituivano. Eduardo Bruno ci racconta che, giovanissimo, si trovava nel grado più basso della gerarchia (pur avendo già ricevuto i complimenti e le gratificazioni dei maestri più adulti). Lui, apprendista e squadratore di pietre, svolgeva il compito di tagliare i blocchi di pietra prima che fossero lavorati. Il Maestro Varca ricopriva le mansioni più elevate, dirigeva i lavori, completava e assemblava i blocchi e vi apponeva il segno finale. Tra i due risiedevano altre maestranze tra le quali il primo e il secondo maestro – o compagno d’arte – con il compito di sottoporre i disegni e realizzarli sulla pietra, il carpentiere ecc. A lavoro finito potevano trovarsi impressi sulla pietra il segno della bottega o il segno identificativo del maestro, ma erano frequenti anche segni simbolici e fideistici. La sua attività fu incessante e sacrificante e gli consentì di ottenere una bottega in corso Telesio, a Cosenza già nel 1966. Fu in questa cornice, così dedita all’artigianato e all’arte, che Eduardo Bruno fu conosciuto da collezionisti ed intellettuali cosentini (Coriolano Martirano, cesare Baccelli, Antonio Magli, Vincenzo Zuccarelli ecc.) e fu qui che ricevette, accompagnato dal sig. Zuccarelli, il critico d’arte Giuseppe Selvaggi che rimase fortemente colpito dalle sue opere in pietra suscitando in Bruno un sentimento di forte malinconia. Lui, scalpellino e squadratore, voleva forse che la sua arte fosse più aulica, non consapevole ancora che nella materia ostica e dura come la pietra risiedevano già tutte le sue grandi doti di scultore e artista. Viaggiò per Roma e poi si stabilì a Firenze dove iniziò una intensa carriera artistica nella fusione del bronzo e nella statuaria, ricevendo parole di elogio da Giuseppe Selvaggi che, nel 1968, scrisse: Allo scultore Bruno si può chiedere di meditare e avere coraggio, e tentare la dolorosa e gioiosa avventura di guardare con sfida le nuove forme dell’arte e tentare la sua strada. Ne ha i mezzi nell’anima e nelle mani. Oggi Eduardo Bruno è scultore, orafo e medaglista e ha vissuto un percorso esemplare di produzione artistica. Dopo aver studiato pittura e scultura all’Accademia di Belle Arti, si è laureato in lettere con indirizzo storico-artistico presso l’Università di Firenze. Nel campo delle arti figurative ha lungamente collaborato con lo scultore fiorentino Antonio Berti, utilizzando vari materiali: la creta, il bronzo, la pietra, l’oro e l’argento, specializzandosi infine, nell’arte del’’oreficeria e della medaglistica. Tra le sue prime manifestazioni espositive, nel 1972, espone presso la “Saletta Conti” (antica sede della compagnia del Paiolo fondata da Rustici e Michelangiolo) in Palazzo Rucellai presentato da Piero Bargellini. La sua carriera di orafo e medaglista si dispiega in numerose mostre e imprese artistiche. Nel 1989 conia la medaglia ufficiale per il grande abate Gioacchino da Fiore; nel 1990 espone ad Helsinki, Museo delle Belle Arti e nel 1991 a Londra al British Muscum. Nel 1995, il Museo Nazionale del Bargello, gli commissiona la medaglia commemorativa di Francesco I dei Medici dove è tuttora esposta. Nel 1997 le sue opere entrano nel medagliere del Museo Vaticano, nell’anno 2003 viene, invitato a partecipare alla grande mostra, tenuta a Roma al Palazzo Massimo del Museo delle Terme, dal Ministero dei Beni Culturali e dalla Zecca di Stato presso la quale tuttora collabora. Lo scultore è membro di Accademie ed associazioni culturali tra cui il Centro Studi Normanno-Svevi della Calabria. Le radici della sua carriera artistica, nei cantieri architettonici e nella bottega cosentina di corso Telesio, hanno inciso profondamente sulla vita di Eduardo Bruno che nel 1996 ha prodotto il volume Scalpellini di Calabria. I cantieri e le scuole. Lo studio, che si configura come un primo strumento di catalogazione del patrimonio litico del territorio cosentino fiorito attorno alle Scuole ed ai cantieri, fu il frutto di un’indagine accurata condotta sul territorio alla ricerca dei lavori in pietra dei maestri scalpellini e nacque dal desiderio di Eduardo Bruno di ripercorrere i modelli e gli stili di quella categoria di artigiani che tanto ne aveva segnato la vicenda artistica.

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Altomonte, cantiere di restauro presso la chiesa di Santa Maria della Consolazione, particolare del rosone.

La Pizia, opera in marmo di Carrara, dalle forti implicazioni filosofiche

La Pizia, particolare 275


Gabriele Ferrari (Altilia) È nato a Cosenza il 1980 e risiede ad Altilia (Cs), dove continua nel suo laboratorio, la tradizione della lavorazione e decorazione di manufatti lapidei; un mestiere antico come quello degli scalpellini che oggi si cerca di far sopravvivere pur nell’accogliere le innovazioni offerte dalla modernità. Gabriele si è diplomato al Liceo artistico statale di Cosenza, ha proseguito gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro nella sezione scultura, laureandosi con la votazione di 110/110 e lode, ha conseguito la Specialistica in scultura con la votazione di 110/110 e lode; si è abilitato all’insegnamento conseguendo la COBASLID nella classe di concorso A022 delle Discipline Plastiche. Ha insegnato ed insegna discipline plastiche presso i licei artistici di Cosenza, Luzzi e S. Giovanni in Fiore. È stato docente ai corsi organizzati al MAM sulla lavorazione della pietra, tra i quali uno rivolto ai non vedenti dal titolo MaM Accessibile; è stato docente nel progetto La.Bo.Ro.Bis., proposto dalla Provincia di Cosenza, nell’ambito della trasmissione delle competenze legate alla lavorazione della pietra fra i giovani. Le sue opere lapidee sono: l’altare e ambone chiesa S. Giovanni Battista di Figline Vegliaturo; altare e ambone chiesa S.Giovanni Battista di Mangone; altare chiesa S. Lorenzo di Cerisano; altare chiesa S. Maria Assunta di Altilia; Sacra famiglia nella chiesa S. Giorgio Rogliano; scultura nel MISAR museo all’aperto città di Rogliano; ed ha realizzato altre opere su committenza privata di portali, caminetti, stemmi comunali e nobiliari e altri manufatti. È presente in diverse pubblicazioni: Tradizione artigiana e moderna creatività Provincia di Cosenza; Tradizioni artigiane del GAL Savuto; Una scuola di decorazione Accademia Belle Arti Catanzaro; Il corpo disegnato Accademia di Belle Arti di Catanzaro; catalogo MISAR città di Rogliano e svariati articoli di quotidiani. Gabriele Ferrari vuole rilanciare un mestiere ormai scomparso da più di cinquant’anni, partendo dalla scuola degli “Scalpellini di Altilia” per evolvere e raffinare l’arte dei decoratori della pietra.

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OPERE IN MOSTRA: SAN SEBASTIANO, SCULTURA IN PIETRA di Altilia; GIANO BIFRONTE, BASSORILIEVO IN PIETRA di Altilia

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John Santo Alessio (Altilia) Nato a New York nel 1974. Vive e lavora ad Altilia (CS). Ha compiuto studi artistici presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, ha lavorato nel campo del restauro sia ligneo che lapideo, ha insegnato Discipline Pittoriche presso il liceo artistico di Luzzi, San Giovanni in fiore e Cosenza. Mostre e premi recenti: 2005 Visioni parallele a cura dell’Accademia di Belle Arti Catanzaro, Galleria Arte a parte, Paola (CS); 2007 Giovani artisti disegnano il sacro, Museo Stauros d’arte sacra contemporanea San Gabriele, Isola del Gran Sasso, Teramo; 2007 Segnario a cura dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, Caffe Duomo Catanzaro; 2012 La verità è luce Centro per l’arte contemporanea Open Space Catanzaro; 2012 La verità è luce biblioteca civica Pietro Acclavio Taranto; 2015 Primo premio concorso d’arte San Giorgio Pizzo Calabro (VV). Dopo aver conseguito gli studi accademici come pittore, ha avvertito nel tempo il desiderio e il dovere di lasciare i colori e i pennelli per dedicarsi alla lavorazione della pietra, forse perché già da piccolo sentiva gli anziani del paese che raccontavano delle antiche cave dove veniva estratta la pietra, nonché delle numerose maestranze Altiliesi. La sua curiosità lo ha portato a visitare le cave, oggetto di quegli affascinanti racconti, e ne rimasi colpito tanto da poter udire il tintinnio degli scalpelli che scalfivano la pietra. L’opera in mostra si intitola Deposizione un soggetto dell’arte sacra. La deposizione di Cristo è l’episodio finale della Passione di Gesù, che con il suo sacrificio ha redento il mondo riportandolo alla condizione libera, e alla piena dignità morale. Oggi c’è una crescente consapevolezza che l’umanità è minacciata dal peccato, e la mia scultura vuole essere un ricordo di questo sacro evento sperando che serva a risvegliare la moralità del fruitore. La pietra utilizzata per creare l’opera non è casuale ma, le sue caratteristiche fisiche, servono a simbolo dell’unione nella fede in Cristo.

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TITOLO: DEPOSIZIONE - ANNO: 2014 - MATERIALE: PIETRA CALCAREA D’ ALTILIA

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Diego Ferrari (Altilia) Diego Ferrari nasce a Cosenza il 9 Luglio 1985. Figlio di Rosina Lina De Lorenzo e Saverio Ferrari, è il secondo di due figli: il fratello Gabriele è scultore. Cresce ad Altilia e studia a Cosenza: si diploma presso il Liceo Artistico Statale di Cosenza nell’anno 2003. Nel 2004 frequenta il Corso Integrativo (5° anno) e per esito dell’esame e dal curriculum degli studi è stato dichiarato idoneo. Nel 2005 prosegue gli studi presso l’università della Calabria iscrivendosi al corso di laurea in Scienze e Tecniche per il Restauro e la Conservazione dei Beni Culturali. Dopo la discussione di 20 (venti) esami, decide di abbandonare gli studi. Questa separazione dagli studi è dovuta al fatto che Diego voleva agire praticamente e non solo teoricamente in quella che è la sua passione: l’arte. Nel frattempo Diego si dedica alla realizzazione di opere: pitture, sculture, installazioni, murales. Partecipa nel 2006 a due manifestazioni artistiche nel suo paese, Altilia, dove sono presenti artisti locali e calabresi: “ARTE…MESSA DA PARTE” e “ALTER ARTE”. Nasce in lui la passione per la grafica e la fotografia. Nel 2010, fonda insieme al fratello Gabriele la “GA&DI ARTE”, una piccola impresa che si occupa di restauri, realizzazioni scultoree, decorazioni varie, scenografie. Nello stesso anno decide di iscriversi al corso di laurea in Grafica presso l’ ABA Catanzaro (Accademia Belle Arti Catanzaro). Frequenta il primo anno discutendo tutti gli esami con ottimi risultati. Anche questa volta Diego abbandona gli studi prendendo la definitiva decisione di dedicarsi a tempo pieno alla sua piccola impresa familiare. Nel 2011 partecipa alla manifestazione “L’ARTIgiano in…mostra”. Nello stesso anno prende parte all’evento d’arte “2011 ARTS, ARTI VISIVE PER L’EUROPA” riscuotendo un’ampia critica per la sua opera fotografica “IL FRUTTO DELLA DISCORDIA”. Nel 2012, a Rogliano (CS), per la riapertura del Museo d’Arte Sacra San Giuseppe, prende parte alla mostra “IL SACRO tra antico e moderno: pittura-scultura-fotografia”. Nel 2013, sempre a Rogliano (CS), partecipa ad una esposizione fotografica e scultorea nel centro storico legata alla manifestazione della “Notte Bianca”. 280


Dal 2010 ad oggi, insieme al fratello Gabriele, è protagonista delle realizzazioni scenografiche per “LA PASSIONE DI CRISTO” che si tiene ogni anno a Rogliano sotto la cura della Parrocchia di San Pietro. Negli anni si infittiscono i rapporti e le conoscenze grazie alle sue opere e ai suoi lavori. Con il fratello Gabriele partecipa al restauro della Chiesa della Madonna della Neve di Buonvicino (CS), al restauro di Villa Rendano a Cosenza, ai restauri degli altari delle navate laterali della Chiesa di San Lorenzo a Cerisano (CS) e al restauro della chiesa di San Michele Arcangelo a Soveria Mannelli (CZ). Inoltre lavorano insieme per la realizzazione degli altari della Chiesa di S.M.Assunta di Altilia (CS), della Chiesa di San Lorenzo di Cerisano (CS), della Chiesa di San Giovanni Battista di Figline Vegliaturo (CS) e della Chiesa di San Giovanni Battista di Maione (CS). Questa stretta collaborazione con l’Arcidiocesi Metropolitana di Cosenza-Bisignano ha portato, nel maggio del 2014, alla conferimento di un attestato di collaborazione da parte dell’Ufficio Liturgico Diocesano. Nel 2014 partecipa al Laboratorio Didattico per Scalpellino nel Comune di Rogliano previsto nell’ambito del progetto “LA.BO.RO.BIS.”. Attualmente Diego frequenta un corso di Grafico Pubblicitario e Visual Design presso l’Accademia delle Arti e Professioni (ADAP) di Cosenza.

TITOLO: ALLONTANATI MALASORTE - ANNO: 2015 - MATERIALE: PIETRA CALCAREA DI ALTILIA (TUFO)

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Ferdinando Gatto (Rogliano) TITOLO: Studio per viso di bambino - Pietra di San Lucido Nato a Cellara (cs) il 05/08/1971 sin da piccolo sente il bisogno di creare non solo coi colori ma anche plasticamente le proprie emozioni. Intraprende quindi gli studi artistici. Dapprima il liceo artistico U. Boccioni di Cosenza. Poi frequenta l’Accademia di Belle Arti a Bari dove conosce il Direttore della stessa Mario Colonna, lavorando con lui in fonderia. Nel 93 si laurea nel corso di Scultura con voto 110/110 e lode. Realizza manufatti artistici presso il laboratorio Falvo di Rogliano. Poi apre una Bottega d’arte sempre a Rogliano. Piú tardi lavora come scultore presso Mastrosimone Caminetti d’arte. Qui realizza varie opere anche in piazze importanti. Ha tenuto un corso di scalpellini a Rogliano. Ha partecipato al primo Simposio città di Rogliano. Attualmente realizza lavori in pietra, legno, restauro e altro.decisione di dedicarsi a tempo pieno alla sua piccola impresa familiare.

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Domenico Madia (San Giovanni in Fiore) Dalla Natura all’Arte, tra questi due termini si stabiliscono i canoni stilistici del Maestro Scalpellino Madia Domenico, professionista serio e appassionato che ha fatto del suo mestiere un’Arte, dando vita a mirabili opere, nate dalla ridefinizione del concetto di immobilità della pietra. L’evoluzione formativa del Maestro Madia Domenico inizia il suo percorso affondando le radici nell’antica tradizione del sapere artigiano dello scalpellino a cui ha affiancato le moderne tecniche di lavorazione. Figlio d’arte, inizia la sua attività lavorativa nei primissimi anni ’80 ridando vita a un mestiere ormai quasi dimenticato, manifestando la volontà di voler sostenere la realtà lavorativa del luogo. Nel 1985 costruisce il primo stabile aziendale che verrà ampliandosi fino ad oggi, facendo dell’Azienda, un punto di riferimento per forniture di ogni genere, legate all’uso dei materiali locali, rivalutandone funzione strutturale ed estetica nei settori principali di: Arredo Urbano, Edilizia, Arte Funeraria. L’azienda sorge a San Giovanni in Fiore, luogo che conserva il fascino dell’antica tradizione dello scalpellino di cui, testimonianza monumentale principale, è l’Abbazia Florense, simbolo di un passato che nel tempo edifica il suo valore, un valore che il Maestro Madia ha scalfito nella Pietra ancora oggi conservata nella navata della Chiesa, una pergamena iscritta in latino che commemora l’ufficiale riapertura al culto; dopo lunghi lavori di ristrutturazione del Monumento, ai quali partecipò effettuando le forniture dei materiali per le gradinate di Via Archi, Via Monastero, parte della pavimentazione che lo circonda. Sapientemente legato alla tradizione dell’antico mestiere dello scalpellino, Domenico Madia fa nascere la sua Arte dall’incontro di passato e presente, di tradizione e innovazione, consapevole che l’evoluzione incessante dell’Arte conserva l’esperienza del passato. L’obiettivo dell’Azienda è non solo garantire l’impiego di materiali di natura autentica ma anche la loro lavorazione secondo una ricerca stilisticamente orientata a esaltarne il valore tanto estetico quanto funzionale. La scelta di utilizzare il Granito Silano vuole valorizzare le risorse naturali del luogo e riportare alla luce le caratteristiche di un materiale già impiegato nel Medioevo,che è per natura congeniale all’architettura. L’Azienda, laboratorio sperimentale di sempre nuove idee, realizza l’armonia delle forme in portali, davanzali, caminetti, restauri, pietra da rivestimento, pavimentazione, arredo urbano: cubetti, basole, cordoli, panchine, fontane, cestini raccolta differenziata, masselli, lastre, sculture, arte funeraria e tutto ciò che è realizzabile con la pietra, risorsa preziosa, utile a costruire opere che sfidano il tempo. La Competenza, la cura del dettaglio, la serieta’ nelle consegne, conducono ad una crescita continua, determinando l’affermazione dell’attivita’. 283


Conseguentemente alle numerose richieste e alla volonta’ di velocizzare le forniture, oggi l’azienda dispone di ottima mano d’opera specializzata e di numerose attrezzature all’avanguardia, per soddisfare un mercato, con richieste di lavori complessi e di pregio.

OPERE IN MOSTRA: Capitello ionico, profilo d’uomo, Dado e Abbazia Florense - granito silano

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Liceo Artistico Statale di Cosenza L’opera è intitolata La pietra madre, scolpita su un blocco di pietra di S. Lucido, ritrae il corpo di una donna in maternità. L’artista ha voluto ricordare il mondo delle pulsioni interiori della vita femminile ed il suo ruolo fondamentale nella cultura mediterranea. Il corpo della donna viene armonizzato dalle mani che accarezzano in maniera delicata il grembo che è in procinto di parto. Alunno: Giuseppe Russo Docente: Gabriele Ferrari

L’opera realizzata in pietra rosa di Mendicino ha titolo Ricchezza e povertà, essa rappresenta due mani, una chiusa in effetto naturale e l’altra aperta, levigata e nel gesto di afferrare un qualcosa, ciò rappresenta la classe privilegiata, che non dimostra sforzi e quindi resta perfettamente liscia, l’altra rappresenta la classe operaia e il lavoro che fortificano l’anima scalfendola. Studente: Pierluigi Serravalle Docente: Gabriele Ferrari

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Alunni: Imbrogno Alessia, Costanzo Giuseppe, Spizzirri Marilena, Bozzo Michele, Anna De Marco Docenti: Gabriele Ferrari e Giuseppe Miniaci

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Liceo Artistico G. Oliverio di San Giovanni in Fiore Con l’opera si è inteso fornire una nuova interpretazione plastica ad un elemento decorativo tipico della nostra tradizione e chiaramente identificato: il rosone centrale dell’abbazia florense di San Giovanni in Fiore. L’opera è un assemblaggio di due materiali, una rete in ferro che funge da contenitore e dei conci di granito, pietra sfruttata dagli scalpellini del luogo, che sono stati montati in maniera da ricostruire le linee del rosone. Con questa opera si è voluto dare importanza alle forme del passato ed anche al materiale, ma con una visione e lettura contemporanea dell’opera degli scalpellini. Alunni: Bellizzi, Gallo, Loria, Iaquinta. Docente: Gabriele Ferrari

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Progetto La.Bo.Ro.Bis., due laboratori due botteghe, due Comuni della Provincia di Cosenza: Rogliano e Bisignano La Provincia di Cosenza – Settore Politiche Comunitarie-Culturali – ha realizzato nel 2014 il Progetto La.Bo.Ro.Bis., finanziato dall’Unione delle Province d’Italia con l’intento di favorire la crescita sociale dei territori attraverso il dialogo intergenerazionale e il recupero degli antichi mestieri. Il Progetto ha riaperto le botteghe artigiane di due piccoli Comuni legati alla lavorazione della pietra, del legno e della terracotta e ha riproposto le antiche tecniche dei maestri alle nuove generazioni. L’importanza del Progetto si è concretizzata con l’inserimento dei manufatti nella raccolta permanente del MAM e con la realizzazione del Progetto La.Bo.Ro.Bis.-La Rete che ha individuato in 7 Comuni pilota lavorazioni artigianali da veicolare ai giovani. Nell’ambito della lavorazione della pietra si è svolto il progetto MAM accessibile in collaborazione con l’Unione Nazionale Ciechi e il Museo Tattile Statale “Omero” di Ancona.

Manufatti in pietra realizzati dagli allievi del Progetto la.bo.ro.bis.

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Pietra contemporanea. Materia e concetto Per millenni l’uomo ha utilizzato la pietra da taglio per costruire lo spazio intorno a sé, per definirne i limiti e abbellirne gli elementi, arrivando a dare forma a monumenti straordinari che ancora oggi è possibile ammirare: dalle piramidi egizie ai templi greci, dal romanico al gotico e all’edilizia di rappresentanza, fino alle più moderne sperimentazioni dell’arte contemporanea. Le difficoltà del supporto lapideo riescono tuttavia, nel panorama artistico contemporaneo, ad esprimere concetti ed esistenze tanto varie quanto profonde e radicate nel proprio tempo. Gli artisti che espongono in mostra utilizzano la pietra non già come un supporto ma come un limbo di passaggio tra materialità e immaterialità, tra natura e concetto, tra esistenza e pensiero. Franco Paletta con le sue “Ragazze cetraresi”, così palesemente informate dagli studi appassionati sul Manierismo. Nicola Di Domenico nella sua attenzione all’attualità e al concetto del viaggio esistenziale dell’artista, Angelo Aligia con il suo recupero delle forme geometriche regolari, Fulvio Longo e Salvatore Pepe che giunge alla assoluta sintesi degli elementi per trasferire alla materia la centralità e l’assoluto protagonismo nell’opera stessa. Da supporto oggetto di processi di trasformazione ad opera d’arte: la pietra. Espongono in questa sezione artisti coinvolti nel progetto promosso dal Comune di Rogliano per la valorizzazione della storia degli antichi sciardari, nonché artisti internazionali del Distretto del Porfido e delle pietre trentine, una best practice fiorita nella realtà extraregionale ospite della mostra, il Trentino Alto Adige, della quale il MaM intende rilevare l’azione di rimessa in valore della risorsa naturale locale in ambito culturale ed artistico.

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Angelo Aligia (Maierà) È nato a Maierà (Cs) nel 1959. Giovanissimo, dotato di una spiccata inclinazione per il disegno, si dedica alla scultura, in cui trasferisce l’esigenza di un rapporto con un principio originale e antropologico, come condizione autentica vitale dell’essere umano oltre le differenze individuali e storiche. Le sue sculture precedenti gli anni Ottanta, riconducibili ad alcune esperienze dell’avanguardia storica, si sono sviluppate nel tempo in composizioni più libere e sperimentali. L’area della sua ricerca si colloca sin dagli esordi nell’ambito poetico del recupero del primario cui aggiunge una sensibilità architettonica che lo ha portato a indagare nel mondo delle forme geometriche solide regolari. Nei suoi lavori più recenti, la sua vena di rinnovato lirismo lo ha indotto ad sperimentare nel rilievo e nella pura bidimensionalità l’innato senso della natura che ne connota gli interessi poetici sin dagli esordi. Ha preso parte a numerose mostre in Italia e all’estero in spazi pubblici e gallerie private. Tra queste si segnalano le personali Il canto delle pietre silenziose (S. Ivo alla Sapienza, Roma, 2006); In attesa del vento (Complesso monumentale del Vittoriano, Roma, 2008); Terra, vento, pietra (Galleria Nazionale di Cosenza, Palazzo Arnone, Cosenza 2010). Ha preso parte alla 54° Biennale d’arte di Venezia, Padiglione Italia, Villa Genovese Zerbi (Reggio Calabria). Ha inoltre realizzato numerose sculture per centri urbani.

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Franco Paletta (Rende) Ha il Diploma del Liceo Artistico, il Diploma in Scultura conseguito all’Accademia di Belle Arti e la Laurea in Arte conseguita al DAMS (Dipartimento, Arte, Musica Spettacolo) presso l’Università della Calabria. È cultore delle filosofie orientali: Yoga e Zen. È stato docente di Plastica all’Istituto Statale D’Arte di Cetraro; di Modellato al Liceo Artistico di Cosenza; di Plastica Ornamentale all’Accademia Belle Arti di Catania; attualmente è docente di Plastica Ornamentale presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. È un maestro della scultura e della pittura contemporanea. Ha definito il suo lavoro Astrazione immateriale, perché riporta in arte le sue “sensazioni”. Le sue opere sono esposte in collezioni pubbliche e private, sia nazionali che estere. Unendo la sensibilità artistica ad una acuta capacità di innovatore, ritrova nella filosofia del “vuoto” Occidentale e Orientale la sua identità artistica. Il “vuoto” nelle sue opere non è un canone di riferimento esterno come la natura per l’artista figurativo, ma è uno strumento necessario alla sua arte, al quale ne affida la sua spiritualità, il contenuto culturale, l’espressione e la comunicazione artistica.

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Nelle Ragazze cetraresi esprimo il ricordo del mito delle fanciulle della Magna Grecia. Questi volti non sono stati modellati volutamente secondo il canone classico dell’arte greca, ma secondo una visione moderna dell’arte, perché penso che ogni artista debba essere figlio del proprio tempo, senza dimenticare la provenienza del nostro glorioso passato.

Ragazza cetrarese n. 1” del 1970, tec. scultura in arenaria, h. h. 48 x 34 x 24 cm.

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Ragazza Cetrarese n. 2,” del 1972, tec. arenaria, h. 48 x 27 x 20 cm


Nicola Di Domenico (Pedivigliano) Nicola Di Domenico nasce a Terni il 20 Agosto del 1978. La sua passione per l’arte inizia molto presto, all’asilo lavora per la prima volta la creta. Autodidatta disegna, modella ghiaccio e argilla incide legno e pietra, scolpisce, dipinge fino a spalmare la colla sopra la nuda tela, applicando sopra la pietra modellata, foto e ferro arrugginito. Tecniche miste e materiali diversi lo portano ad esprimere tutto ciò che ha dentro, ciò che lo turba e che osserva nei suoi viaggi. Oggi tinge i suoi ultimi lavori di un “Effetto Di Domenico” (un segno di vernice rossa).

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Opera: Gli occhi di Kabul, pietra, legno e carta

Opera: Il Viaggio, sabbia e pietra di San Lucido

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Fulvio Longo Nasce a Maierà (Cs) nel 1963. Ha compiuto gli studi in Scultura all’Accademia delle Belle Arti di Roma, allievo di Emilio Greco. Insegna Decorazione Ceramica e Scultura presso il Liceo Artistico di Cetraro (Cs). Nel 1983 vince il primo premio nazionale per il 50° anniversario della morte di Boccioni. Negli anni ’90 realizza a Mosca il monumento ai Caduti della guerra in Cecenia. In Costa d’Avorio, ad Abidjan lavora presso la Residenza del Patriarca di cui esegue il busto in bronzo. Nel 2000 realizza il monumento al Lavoro a Graz in Austria. Ha tenuto mostre personali in molte città d’Italia e anche all’estero.

OPERA: Modulo 2015 - Pietra di Grisolia incisa. Elemento modulare sviluppato chiave geometrica, realizzato in Pietra di Grisolia. È caratterizzato da una voluta instabilità percettiva. Solchi bilaterali prevalgono sul colore naturale della Pietra indicando una nuova possibile direzione tra il naturale e il tecnologico.

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Salvatore Pepe (Praia a Mare) Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma diplomandosi in Scenografia nel 1985. Dopo un soggiorno di studio a Parigi, sul finire degli anni Ottanta, torna in Italia stabilizzandosi tra Roma e Perugia. Nel 1988, a Palazzo dei Priori a Perugia, tiene la sua prima personale caratterizzata da materiali extrapittorici come corde e chiodi. Seguono una serie di mostre personali e collettive in Italia e all’estero. In occasione del Giubileo, realizza a Praia l’installazione ambientale La porta del sole. Nel nuovo millennio si esprime con una pittura rigorosa e minimale accentuata dall’utilizzo, sempre misurato, della linea geometrica. Sue opere si trovano al MAON e all’UNICAL di Rende e in altre importanti collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero. E’ docente al Liceo Artistico di Cetraro (Cs).

OPERA: GEOMETRIE 2015 - Marmo - Pietra di Grisolia e acciaio L’opera è composta da 3 lastre triangolari, due di Pietra di Grisolia e 1 di marmo bianco, bloccate da 2 perni d’acciaio. Una linea verticale è incisa sulle due superficie esterne dal colore grigio. Mentre il bianco della lastra centrale segna il perimetro dell’opera. Rappresentano frammenti di coscienza e di bellezza, come a indicare l’armonia divina e le coordinate storico-temporali. I segni tracciati sulla pura e candida pietra evocano inoltre le lesioni subite dalla Terra, nell’idea astratta che manifesta la storia dell’uomo, fermata simbolicamente nel tempo dalle aste bullonate, che gli conferiscono nuova energia proiettando le lastre di pietra in una dimensione altra.

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Museo MISAR (Rogliano) Best practice per la valorizzazione della risorsa litica locale (e non solo) è stato il I Simposio Internazionale di Scultura all’Aperto Città di Rogliano promosso dall’Associazione Culturale “G. Montoro” e dal Comune. Un’esperienza nata per rivitalizzare il centro storico di Rogliano, nota culla di arte e cultura nonché luogo in cui le principali scuole di intagliatori del legno e scalpellini si originarono e diffusero in tutto il territorio calabrese, la quale si è ben presto rivelata un valido strumento per promuovere la pietra della provincia di Cosenza. Le opere, difatti, sono state realizzate da artisti del territorio nazionale utilizzando materiali locali. Il MAM ha perciò inteso esporre i bozzetti che, pur essendo eseguiti in gesso, rimandano a bellissime opere in pietra locale oggi fruibili nella città di Rogliano dalle quali si evince il felice risultato dell’incontro tra la pietra della provincia di Cosenza e la mano di artisti che, appartenenti ad altri contesti regionali, ne hanno ben interpretato le peculiarità.

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Il distretto del porfido e delle pietre trentine nel Museo delle Arti e dei Mestieri di Cosenza. Contaminazioni e scambi culturali e identitari C’è una terra in cui la pietra brilla e si anima di innumerevoli colori, tra strati che nati milioni di anni fa, emergono dal cuore delle Dolomiti per mano dell’uomo: è la terra del porfido, del granito e del marmo. Questa terra è il Trentino. Il Trentino ha una lunga ed importante tradizione nell’attività estrattiva. Un esempio per tutti e quello dei calcari e dei graniti con cui sono stati realizzati in passato i palazzi della città di Trento e le case di molti paesi. Le cave di queste pietre hanno costituito per secoli occasione di lavoro e fonte di sostentamento per numerose famiglie. Materia il cui uso è documentato da una serie innumerevole di testimonianze che dal passato più lontano arrivano fino a oggi, la pietra locale è stata sistematizzata nell’Atlante della Pietra Trentina che rappresenta l’ambizioso punto di arrivo di una attività di ricerca e di informazione che si è avviata nel 2002 con il progetto “Pietra: antichi e nuovi percorsi della Pietra Trentina”; una iniziativa volta a sostenere e rilanciare un prodotto che storicamente ha avuto e continua ad avere un ruolo importante nell’economia trentina non e mai stato disgiunto da un continuo riferimento alle risorse della creatività. Il dialogo proposto dal MAM, in continuità con le precedenti manifestazioni espositive, aspira a consolidare i rapporti e gli scambi culturali fra regioni tanto lontane quanto accumunate dall’intento di valorizzare la propria identità culturale e le specificità delle tradizioni locali.

Ciottoli dolomia

Ciottoli granite pepe e sale

Ciottoli rosso porfido

Ciottoli segati a spessore e sabbiati

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Lavorazioni tradizionali verso la modernità: Zanettin S.r.l L’ azienda Zanettin nasce verso la metà degli anni 50 grazie ai fratelli Gino e Riccardo Zanettin che aprivano la cava di sabbia in loc. Cavade. All’inizio la sabbia veniva caricata a mano su un trattore agricolo e consegnata in tutta la val di Cembra, poi sono arrivati la prima pala cingolata, il primo camion e l’impianto di selezione e vagliatura. Un grande motivo di orgoglio è stata la realizzazione di un impianto unico nel suo genere per la selezione dei ciottoli interamente progettato e realizzato in azienda che utilizza sistemi di visione artificiale e permette di separare i ciottoli per misura, colore e forma. Questa esperienza ci ha convinto che l’unica strada per il futuro sia l’innovazione, la flessibilità e un servizio di qualità. La selezione dei ciottoli ha portato a una valorizzazione della materia prima, si è passati da una produzione a basso valore aggiunto a produzioni di alta qualità creando prodotti sempre nuovi. In seguito agli ottimi risultati ottenuti, una costante determinazione e la speciale collaborazione con i nostri clienti, è nata Z LINE, una linea di strutture innovative, eleganti, con caratteristiche tecniche uniche. La continua ricerca nel migliorarsi ha sempre avuto come punto di riferimento offrire un servizio di qualità ai clienti e il rispetto e salvaguardia dei nostri collaboratori. Gino e Riccardo ci hanno lasciato da tempo ma dobbiamo ringraziarli per i valori che ci hanno insegnato e un grazie particolare Agnese, che si è sempre occupata della famiglia e ci sopporta ancora adesso.

Cava Zanettin

Pavimentazione tradizionale centro storico con ciottoli

Z line. Esempio di arredo interno

Z line. Esempio di arredo da giardino 299


Il Simposio Internazionale di Scultura. Best practice per la valorizzazione di una risorsa locale Il Simposio Internazionale di Scultura è nato per trasformare le Pietre Trentine, attraverso l’estro e la mano di artisti di fama internazionale, in opere d’arte, per esporle al pubblico e per far conoscere la bellezza e la versatilità di materiali unici come il Porfido Trentino, la Tonalite di Carisolo, il Marmo Rosso di Trento, il Granito Rosa di Predazzo, il Granito Cima d’Asta. La cultura e l’arte diventano strumenti di promozione, strumenti di dialogo trasversale tra istituzioni, attori economici, artisti, esperti di scienza e nuove tecnologie, intellettuali, per incentivare la rinascita di un settore importante, quello lapideo, che caratterizza l.’economia e la storia dei Comuni fondatori del Comitato. Essi rappresentano il Quadrilatero del Porfido e perseguono la mission del Distretto del Porfido e delle Pietre Trentine.

Yan Bo Chen, The 5th element, granito rosa di Predazzo

Francesco Panceri, Spaziotempo, rosso Trento e porfido

Miguel Isla, Tierra inhabitata, granito cima d’asta 300


Ecomuseo dell’Argentario e Museo Casa Porfido di Albiano L’Ecomuseo dell’Argentario è uno dei sette Ecomusei presenti in Trentino. L’Associazione Ecomuseo Argentario è nata “dal basso”, dalla sensibilità delle comunità dell’altopiano, dalla passione per i propri luoghi, dalla volontà di mantenerli vivi e produttivi. Dal 2005, l’Ecomuseo dell’Argentario, grazie all’impegno della comunità e al supporto delle Amministrazioni dei Comuni di Civezzano, Fornace, Albiano e Trento, si occupa con passione dello sviluppo sostenibile, della tutela e valorizzazione di un’area che nasconde in sé caratteristiche uniche. Parlare di ecomuseo significa parlare di territorio e della sua fruizione, a tutti i livelli, da parte della popolazione, non solo in materia di tutela ambientale, ma anche attraverso pratiche di sviluppo innovative e in linea con il contesto, sostenibili e attuabili. È su questa base che l’Associazione Ecomuseo Argentario ha organizzato il suo territorio attraverso tematismi: l’ambiente naturale del Monte Calisio Argentario, le antiche miniere d’argento, le calcare, le cave di pietra, le fortificazioni, l’archeologia, i monumenti, l’attività estrattiva del porfido, le manifestazioni: il linguaggio delle comunità, le attività umane. Tematismi che costituiscono la base per la visita e la scoperta del territorio, ma soprattutto la base per lo sviluppo, la conoscenza, il recupero della memoria, il lavoro. Museo Casa Porfido Albiano: 
Da oltre cento anni la valle si dedica all’estrazione del porfido, pietra utilizzata nell’arredo urbano apprezzata per la sua grandissima resistenza. Gli abitanti della zona ne hanno fatto una delle principali fonti di sussistenza. L’orgoglio per questo prodotto nostrano unico e pregiato, e il valore riconosciuto a questa attività dal territorio della Valle di Cembra, sono alla base dell’idea di creare il primo MUSEO DEL PORFIDO E DELL’ARREDO URBANO del mondo. “CASA PORFIDO” vuole documentare, valorizzare e comunicare al vasto pubblico le attività legate all’estrazione del porfido. La coesistenza di tradizione e di strumenti multimediali d’ultima generazione caratterizza questo museo. Il visitatore, inserito in un contesto interattivo, avrà l’opportunità di scoprire da vicino la storia antica del porfido e dell’ambiente socio - economico dell’area di estrazione, filmati/documentari storici, la tecnica antica di lavorazione e l’arte precisissima del posatore di porfido, ma anche centinaia di immagini distinte per aree geografiche che documentano le opere più significative dell’arredo urbano realizzate con questa pietra.

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Stampato da Pellegrini Editore - giugno 2015

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