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Mostra sulla storia e la lavorazione del legno nella provincia di Cosenza Dalle risorse naturali agli attrezzi da lavoro Dagli strumenti musicali alle pipe alle opere del maestro d'ascia Dalle fonti d'archivio agli intagli artistici




il Legno Mostra sulla storia e la lavorazione del legno nella provincia di Cosenza Dalle risorse naturali agli attrezzi da lavoro Dagli strumenti musicali alle pipe alle opere del maestro d’ascia Dalle fonti d’archivio agli intagli artistici

La mostra Il legno è promossa dalla Provincia di Cosenza con il patrocinio della Soprintendenza ai beni storici, artistici ed etnoantropologici della Calabria ed è resa possibile grazie ai gentili prestiti dell’Archivio di Stato di Cosenza, del Parco Nazionale della Sila, del Museo di Aiello, del Museo della civiltà contadina di Bocchigliero, del Museo dell’artigianato silano e della difesa del suolo di Longobucco e del Museo dell’arte olearia “Ludovico Noia” di Trebisacce, nonché grazie alla collaborazione dell’Università della Calabria - Dipartimento di Studi Umanistici.


7 ottobre 26 ottobre 2013 Museo delle Arti e dei Mestieri della Provincia di Cosenza

Curatore della mostra, della didattica e del catalogo Anna Cipparrone Comitato scientifico Anna Cipparrone Giorgio Leone Si ringrazia Giovanna Capitelli per la preziosa collaborazione Albo dei prestatori Archivio di Stato di Cosenza, Parco Nazionale della Sila, Museo comunale di Aiello, Museo della civiltà contadina di Bocchigliero, Museo dell’artigianato silano e della difesa del suolo di Longobucco, Museo dell’arte olearia e della civiltà contadina “Ludovico Noia” di Trebisacce.

Albo degli artigiani Angelo Le Rose maestro di surdulina di Acquaformosa, Calabria Pipe di Mandatoriccio, Cantieri Montesanto di Cariati, Andrea Palermo Liutaio di Cosenza, Alessandro Carpino Liutaio di Cosenza, Antica Falegnameria Marra di Bocchigliero, Ditta Perri di Bocchigliero, AGM Arredamenti di Cosenza, scultore Riccardo Magarò di Castiglione cosentino Autori del catalogo Anna Cipparrone, Giorgio Leone, Luciana De Rose, Maria Rosaria Salerno, Annamaria Lico, Francesco Cosco, Giuseppe Luzzi, Cinzia Altomare, Maria Paola Borsetta, Antonella Salatino, Edvige De Rose, Michele Abastante, Marina Ameduri, Alberto Pincitore, Ludovico Noia, Cecilia Perri, Catia Salfi, Francesca Carvelli, Maria D’Ermoggine, Pino Iannelli, Giorgio Belluscio, Silvano Avolio. Pannelli didattici della mostra Anna Cipparrone Servizio didattica al pubblico Studenti della Laurea Magistrale in Storia dell’Arte, Dipartimento di Studi Umanistici, Università della Calabria Laboratori artigiani Maestro d’ascia e costruzione di imbarcazioni in legno, Liuteria, Surdulina calabrese, Estrazione della pece e falegnameria, Visita guidata al Parco Nazionale della Sila e all’antica Segheria

Progetto espositivo e allestimento Anna Cipparrone Fiorino Sposato Campagna fotografica Giulio Archinà per la sezione storico-artistica Si ringraziano Michele Abastante e don Leone Bonifacio Progetto video e installazioni Pino Iannelli Progetto grafico Dino Grazioso Stampa Grafica Florens, San Giovanni in Fiore Promozione e comunicazione Mariuccia de Vincenti

Si ringrazia l’Assessore ai Trasporti della Provincia di Cosenza, il Corpo Forestale dello Stato, dott.sa Maria Carbone, Avv. Lorenzo Catizone, Ing. Francesco Molinari, sig. Francesco de Cicco, squadra edilizia della Provincia di Cosenza, dott.sa Natalina Marta, sig. Franco Filippelli, Belmira De Rango, dott.sa Maria Letizia Fazio, dott.sa Pasqualina Trotta, dott.sa Marisa Spizzirri, Cooperativa Invasioni per la collaborazione

ISBN 978-88-908163-2-1



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resentando il Museo delle Arti e dei Mestieri avevamo a suo tempo sottolineato come si trattasse di una scelta, compiuta dalla nostra Amministrazione, che andava nella direzione dell’indagine e della valorizzazione delle isole artigianali d’eccellenza presenti nel territorio della Provincia di Cosenza. Da questa volontà, nell’arco di un solo anno, ben tre mostre dedicate ciascuna ad una specifica categoria artigianale della provincia di Cosenza. Pertanto, dopo “Artessile. Capolavori dell’arte tessile cosentina” e “Cosenza preziosa. Maestri e opere dell’arte orafa” è la volta de “Il Legno. Mostra sulla storia e la lavorazione del legno nella provincia di Cosenza. Dalle risorse naturali agli attrezzi da lavoro. Dagli strumenti musicali alle pipe alle opere del maestro d’ascia. Dalle fonti d’archivio agli intagli artistici.” Una quarta mostra -da Giugno ad Agosto 2013- ha avuto come protagonista l’importante collezione di dipinti dell’800 della Provincia di Cosenza ed ha contribuito ad approfondire gli studi storiografici sulla produzione artistica di un secolo così ricco e variegato come l’800. Quella dedicata al Legno è una esposizione che, pur affrontando un ambito meno aulico e più quotidiano, talvolta rurale e contadino come alcune sezioni della mostra dimostrano, ricerca e presenta i pregevoli esiti che un’arte povera come quella della lavorazione di questa straordinaria materia ha saputo raggiungere nei secoli passati -si pensi alle scuole di intagliatori del Seicento- e, al giorno d’oggi, nelle botteghe e aziende che del legno hanno saputo creare una forza economica e produttiva. Protagonisti della mostra sono i maestri artigiani di Acquaformosa, Cariati, Cosenza, Bisignano, Bocchigliero, Castiglione cosentino, Fuscaldo, Mandatoriccio. Importanti contributi arrivano dal Parco Nazionale della Sila, al quale abbiamo rivolto una particolare attenzione per lo storico sfruttamento del legname e della pece fin dall’età neolitica e dall’Archivio di Stato di Cosenza che ci ha fornito documenti utili a testimoniare l’esistenza della lavorazione artigianale del legno, nonché dai Musei di Aiello, Bocchigliero, Longobucco e Trebisacce, i cui manufatti in legno sono utili alla ricostruzione del nostro sostrato artigianale e contadino di un tempo. on. Gerardo Mario Oliverio Presidente della Provincia di Cosenza

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’iniziativa assunta dalla Provincia di Cosenza sulla storia e la lavorazione del legno nel territorio provinciale è una risposta concreta all’esigenza diffusa di non disperdere un patrimonio legato alla storia, ai costumi, ai valori, alle tradizioni della società calabrese, ripercorrendo le tappe di un cammino che si è snodato nel corso dei secoli, rappresenlando un elemenlo identilario della noslra stessa civiltà. C’era e c’è ancora il rischio che le “immagini” di tale patrimonio, articolato nella sua evoluzione dinamica, diventassero sempre più sfocate, fino a dissolversi nel limbo dei ricordi, stante anche la colpevole distruzione di tracce significative che pure erano presenti in larga parte del nostro territorio. Esse contrassegnavano luoghi di lavoro, prodotti e manufatti, modesti o di eccellenza, attività tipiche di un mondo e di una realtà rurale e contadina che ha rappresentato nel tempo il segno distintivo della nostra comunità regionale. Il merito della mostra è, tra gli altri, quello di aver valuto “fissare” la memoria, bloccando il processo di... dispersione e consentendo una lettura organica e non episodica del patrimonio esistente. L’idea della mostra è peraltro funzionale all’individuazione di uno strumento e di una modalità che consente la più ampia diffusione di conoscenze e di valori in cui ciascuno può riconoscere un pezzetto della propria storia e della propria identità. Costituisce un elemento importante e significativo l’articolazione della mostra, che si caratterizza per una strategia a tutto campo, in cui i vari soggetti comunque coinvolti (Enti, Istituzioni, rete museale diffusa, laboratori, rappresentanti del mondo artigianale, ecc.) sono chiamati a concorrere per meglio “ricostruire” e rappresentare un mondo ormai lontano, di cui è lodevole rinverdirc la presenza nella nostra realtà provinciale e regionale, affidando ad uno strumento apposito, il catalogo, la funzione di raccogliere e trasmettere gli elemenli oggetto della mostra, con gli opportuni approfondimenti tematici che ne arricchiscono i contenuti e la valenza di carattere conoscitivo, con l’ambizione di farne un segmento importante per l’offerta culturale e turistica della Regione. L’Archivio di Stato guarda con interesse e compiacimento all’iniziativa, e concorre, per la sua parte, mettendo a disposizione i documenti in suo possesso: essi sono peraltro la testimonianza storica di quella realtà su cui il Museo delle Arti e dei Mestieri della Provincia di Cosenza ha inteso focalizzare l’attenzione di istituzioni, studiosi, ricercatori, cittadini, nella consapevolezza che le esperienze del passalo sono valori da preservare e trasmettere, in uno sforzo sinergico di costruzione di una società migliore per le generazioni future. Anna Maria Letizia Fazio Direttore Archivio di Stato di Cosenza

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l legno è da sempre una risorsa inestimabile del territorio del Parco Nazionale della Sila che, con i suoi 60.000 ettari di foresta, ne costituisce una ricchissima fonte. Questa la ragione alla base della collaborazione e del sostegno dell’Ente Parco a questa ricca ed interessante mostra che presenta, nel suo percorso espositivo, anche una sezione dedicata proprio al Parco silano. La “Sylva Brutia” è stata molto sfruttata nel passato ed è stata oggetto di numerose contese. Fin dall’epoca degli antichi Romani e Greci forniva alberi adatti all’edificazione di case ed alla costruzione di navi ed il legno dei boschi silani, spedito via mare, riforniva l’Italia e le colonie greche. L’importanza delle foreste della Sila è testimoniata anche dalla presenza dell’antica segheria del Centro Visita Cupone, costruita dall’Azienda di Stato Foreste Demaniali del Corpo Forestale dello Stato all’inizio del secolo scorso e restaurata recentemente dall’Ente Parco con interventi di recupero conservativo che mirano a suggerire nuovi spunti di riflessione sul ricco patrimonio boschivo che la Sila ha rappresentato nei secoli e di cui ancora oggi è testimonianza. Anche la valorizzazione dell’artigianato silano passa senza dubbio attraverso la lavorazione del legno, che si distingue per l’importante e storica presenza della filiera “foresta-legno” che attraversa le fasi della lavorazione dal bosco alla realizzazione di manufatti tipici, tradizionali e legati indissolubilmente al territorio. La presenza di un’ampia superficie forestale, fattore determinante dello sviluppo storico della produzione artigianale del legno, e le caratteristiche morfologiche della Sila hanno contribuito notevolmente alla diffusione di attività di lavorazione di questo materiale ed hanno influenzato significativamente la produzione artigianale locale, al punto che in tutti i centri del Parco ci sono botteghe di artigianato del legno, il cui carattere tradizionale è profondamente radicato e teso al recupero ed alla salvaguardia di questa preziosa risorsa del territorio. Il Parco Nazionale della Sila tutela e valorizza, in linea con le sue finalità istitutive, le risorse, le tradizioni storiche e culturali, i valori identitari delle sue aree protette, le produzioni tipiche e tradizionali e l’artigianato di qualità. Da ciò l’idea di collaborare ad una mostra che ha come oggetto la valorizzazione della lavorazione artigianale del legno, un tema che ben si coniuga con la nostra missione. Sonia Ferrari Presidente del Parco Nazionale della Sila

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’istituendo Museo comunale di Aiello calabro, e con esso il Sindaco e l’Amministrazione comunale, partecipano con grande entusiasmo alla mostra temporanea Il legno. Mostra sulla storia e la lavorazione del legno nella provincia di Cosenza, condividendone pienamente gli intenti. Il Museo delle Arti e dei Mestieri della Provincia di Cosenza, con la sua specifica missione di esplorare e valorizzare le produzioni artigianali del territorio, riveste altresì la funzione di polo catalizzatore delle molteplici e variegate esperienze che i Musei del territorio provinciale quotidianamente vivono, portandole sotto lo sguardo di tutti. E’ per questa ragione che il Museo comunale di Aiello, ancora in corso di allestimento ma già dotato di una imponente collezione di reperti legati all’antica civiltà contadina e rurale, accoglie con gioia l’invito a partecipare alla mostra, poiché riteniamo che un fondamentale apporto alla crescita e alla promozione del territorio calabrese risieda proprio nella ricerca e nello studio del nostro passato. Franco Iacucci Sindaco di Aiello calabro

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ome è a tutti noto, il passaggio dalla civiltà agricolo – pastorale alla civiltà industriale, anche se è indice di progresso e di naturale cammino della storia e di evoluzione dello spirito umano, a partire già dagli anni Cinquanta, ha spazzato via ciò che ancora rimaneva della civiltà contadina di un tempo. Infatti, milioni di persone hanno abbandonato le campagne e i piccoli centri, riversandosi soprattutto verso le città per trovare un’occupazione nel terziario o nell’industria. Nessuno penserebbe mai di andare contro il progresso, ma tutti, secondo me, possiamo contribuire a recuperare le testimonianze della civiltà contadina di un tempo, evitando così gravi dicotomie e separazioni tra il passato e il presente. Tenuta presente la frase tratta dagli Annali dello scrittore e storico latino Tacito Omnia quae nunc vetustissima creduntur nova fuere (Tutte le cose che ora sono ritenute vecchissime furono nuove), il museo della civiltà contadina di Bocchigliero non deve essere inteso soltanto come semplice raccolta di attrezzi arrugginiti delle attività agricole o di prodotti scheggiati dell’artigianato locale, ma anche, e soprattutto, come patrimonio culturale che ci è stato lasciato dai nostri padri, dai nostri antenati, come testimonianza storica di un mondo di grandi risorse umane che dovrebbero costituire per noi tutti un saldo punto di riferimento e una preziosa eredità morale e spirituale da custodire. Il museo può, attraverso le antiche testimonianze del passato, far capire alle nuove generazioni che l’attuale progresso affonda le proprie radici nella passata civiltà agricolo-pastorale e artigiana connotata dalla laboriosità e dai duri sacrifici dei loro antenati. A tal proposito, desidero ricordare prima a me stesso che agli altri l’importanza della funzione coscientizzante della storia, la presa di coscienza, cioè, di tutto ciò che è avvenuto o che avviene intorno a noi. La storia, che è un passato che non passa, non deve essere intesa,infatti, soltanto come un susseguirsi di battaglie, di vittorie e di sconfitte, ma è anche vita associata dei popoli, fatta di tradizioni, usanze, riti religiosi, sagre, costumi, mestieri e così via. Insomma, la storia è prosecuzione dello spirito umano e noi, attraverso le testimonianze che ci hanno lasciato i nostri antenati, possiamo risalire alla cosiddetta “civiltà delle mani” per conoscerne non solo attività e mestieri tramandati di padre in figlio ma anche per conoscerne e apprezzare valori e modelli di comportamento. Ispirandomi a una citazione di uno scrittore africano che afferma Quando muore un vecchio brucia una biblioteca desidero rivolgere a tutti coloro che dovessero venire a visitare direttamente il nostro museo l’appello di collaborare all’ampliamento dello stesso con proposte, suggerimenti, idee e, possibilmente, anche con la donazione di oggetti relativi alla Civiltà contadina, tenendo presente che tutti gli oggetti del museo possono rappresentare, simbolicamente, i libri di una ricca biblioteca se sappiamo “interrogarli” e sappiamo farci “raccontare la loro storia”. A tal proposito, l’iniziativa della Provincia di Cosenza rappresenta un valido lavoro nel processo di informazione e di formazione dei visitatori, i quali possono essere sollecitati a osservare la realtà circostante, interrogarsi sul proprio vissuto sociale e fare raffronti con situazioni e realtà del passato per sviluppare lo spirito critico e per conoscere valori e modelli di comportamento di una civiltà che costituisce un ricco patrimonio culturale e spirituale. Luigi De Vincenti Sindaco di Bocchigliero

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l Museo dell’artigianato silano e della difesa del suolo, che ha sede a Longobucco nella suggestiva cornice dell’ex convento dei frati francescani minori, è un prezioso contributo alla diffusione della conoscenza del territorio della Sila e della sua storia e si configura quale n odo importante della rete delle strutture turistico-ricettive del Parco Nazionale della Sila (insieme al Museo dell’olio di oliva e della civiltà contadina di Zagarise, al Museo della civiltà agrosilvopastorale, delle arti e delle tradizioni di Albi, e ai centri visite Cupone, A. Garcea, Trepidò). Nelle sale museali è esposta una ricca collezione di oggetti d’artigianato derivanti dalla lavorazione dei tessuti, dei metalli, del legno, della terracotta e della pietra: oggetti che rappresentano concretamente gli antichi mestieri dell’altopiano silano. Nell’obiettivo condiviso di diffondere le tradizioni locali nel recupero delle origini della sapienza artistica del territorio, il Museo di Longobucco partecipa con interesse alla mostra allestita nel Museo delle arti e dei mestieri della Provincia di Cosenza offrendo in prestito uno dei telai della collezione. Nel telaio, interamente realizzato in legno, ed ancora presente in molte abitazioni di Longobucco, si riconoscono l’operosità degli ingegnosi artigiani e le abilità delle accurate tessitrici di cui desideriamo dare testimonianza in questa mostra. Giovanna Ioele Servizio educativo Museo dell’artigianato silano e della difesa del suolo di Longobuco

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l Museo è nato con lo scopo di recuperare la memoria storica di un patrimonio culturale, materiale e immateriale, di grande pregio per la collettività e di qualificarne la presenza nel territorio. Il Museo documenta, inoltre, alcune attività che si sono progressivamente estinte e che hanno avuto un ruolo tutt’altro che marginale nell’economia di sussistenza dell’area. Il mondo contadino tratteggiato attraverso l’esposizione museale è senza dubbio un mondo in cui prevale la fatica, il bisogno, la ristrettezza economica, il sacrificio e la dedizione al lavoro. Una presenza dai molti richiami storico-culturali e agricoli, interessante soprattutto per rendersi conto delle condizioni che hanno preceduto e determinato il progresso e per valutarne i vari risvolti. Sono queste le motivazioni che informano la missione del Museo dell’arte olearia e della civiltà contadina di Trebisacce, ben lieto di partecipare alla mostra sulla storia e la lavorazione del legno esposta al Museo delle Arti e dei Mestieri della Provincia di Cosenza. Piero De Vita Direttore del Museo “Ludovico Noia” dell’arte Olearia e della Cultura Contadina Trebisacce

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Sommario

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Anna Cipparrone, Introduzione alla mostra Il legno. Mostra sulla storia e la lavorazione del legno della provincia di Cosenza. Dalle risorse naturali agli attrezzi da lavoro. Dagli strumenti musicali alle pipe alle opere del maestro d’ascia. Dalle fonti d’archivio agli intagli artistici Il legno nel “Gran bosco della Sila” Luciana De Rose, Industria, maestri d’ascia e arte ebanistica nel mondo antico. La Sila in epoca romana. Maria Rosaria Salerno, Lo sfruttamento delle risorse lignee in età medievale: il territorio dell’attuale provincia di Cosenza Francesco Cosco, L’arte della resinazione in Sila. La pece: un dono di Dio Silvano Avolio, Tipologie forestali significative della Sila Giuseppe Luzzi, La riserva naturale guidata biogenetica “I Giganti della Sila” in Calabria. Esempio di pineta di laricio con caratteristiche di vetustà Pino Iannelli, Il taglio e la stagionatura del legno Estrazione e lavorazione del legno nelle fonti dell’Archivio di Stato di Cosenza Cinzia Altomare, L’estrazione e la lavorazione del legno attraverso i documenti Maria Paola Borsetta, Liutai e organari in provincia di Cosenza tra i secoli XVI e XIX attraverso i documenti d’archivio Appendice La produzione artistica delle scuole di intaglio in provincia di Cosenza Materiali per una storia dell’intaglio ligneo in Calabria Mostra fotografica di Giulio Archinà Giorgio Leone, Appunti per una storia (s)conosciuta: intaglio ligneo e maestri nell’attuale provincia di Cosenza L’intaglio ligneo nella provincia di Cosenza: schedatura del patrimonio storico-artistico A cura di Antonella Salatino, Edvige De Rose, Michele Abastante, Marina Ameduri, Alberto Pincitore, Ludovico Noia, Cecilia Perri, Catia Salfi, Francesca Carvelli, Maria D’Ermoggine Bibliografia schede Anna Maria Lico, Una storia (s)conosciuta: frammenti d’archivio per il forziere ligneo di Scalea. Storia di una perdita


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Il legno nell’esperienza quotidiana dell’antica civiltà locale Schede dei manufatti in legno concessi in prestito dai Musei della Rete Museale della Provincia di Cosenza Schede dei Musei prestatori Aiello Bocchigliero Longobucco Trebisacce

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L’artigianato del legno nella provincia di Cosenza Giorgio Belluscio, La surdulina calabrese. Breve storia e aspetti tecnico-musicali Maestro di surdulina calabrese Angelo Le Rose - Acquaformosa Calabria Pipe di Carlino Vito - Mandatoriccio Maestro d’ascia Antonio Montesanto - Cariati Liutaio Andrea Palermo - Cosenza Liutaio Alessandro Carpino - Cosenza Falegname Francesco Marra - Bocchigliero Ditta Perri - Bocchigliero A.G.M. Arredamenti - Cosenza Scultore del legno Riccardo Magarò - Castiglione cosentino

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Installazione di un antico forno per l’estrazione della pece

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Introduzione alla mostra Il Legno Mostra sulla storia e la lavorazione del legno nella provincia di Cosenza. Dalle risorse naturali agli attrezzi da lavoro. Dagli strumenti musicali alle pipe alle opere del maestro d’ascia. Dalle fonti d’archivio agli intagli artistici Anna Cipparrone Direttore del Museo delle Arti e dei Mestieri della Provincia di Cosenza Gli studiosi concordano nel ritenere che la storia dell’uomo abbia avuto inizio nel momento stesso in cui questi si rese capace di utilizzare i materiali che la natura metteva a sua disposizione per creare oggetti e utensili utili a soddisfare le esigenze della vita quotidiana. L’estrazione e lo sfruttamento del legno costituì fin dal principio un’esperienza fondamentale della vicenda umana: dai cucchiai e le ciotole per l’alimentazione ai bastoni per la pastorizia, alle abitazioni, le imbarcazioni, la ruota fino alle macchine da guerra, tutto fu realizzato dall’uomo grazie alla preziosa risorsa del legno. La lavorazione del legno si configura come una delle attività prevalenti nel nostro territorio sia per l’abbondanza della materia prima (Aspromonte, Sila, Pollino) sia per l’eccezionale diffusione dell’arte dell’intaglio, praticata inizialmente dai pastori durante le lunghe ore di pascolo ed evolutasi in una fervida produzione artistica da parte di specializzati artieri del legno. Sebbene la scultura lignea e, con essa, l’ambito più propriamente artistico e sacro dell’artigianato del legno abbia trovato nelle esposizioni e negli studi già condotti in passato un concreto momento di indagine storiografica1, resta quasi del tutto oscura e sporadicamente documentata la variegata attività, oscillante tra una dimensione propriamente artigianale ed una artistica, che ancora oggi caratterizza la provincia di Cosenza e che si intende proporre in questa mostra monografica sul tema delle lavorazioni in legno. La mostra affronta diverse tematiche ruotanti attorno al tema del legno e del suo utilizzo sia per soddisfare esigenze quotidiane e rurali sia per elevarsi ad una dimensione più artistica. Essa prende le mosse dall’ambito delle risorse naturali, di cui la provincia di Cosenza è estremamente ricca, e del loro sfruttamento. L’attenzione sulle risorse del Parco Nazionale della Sila risulta uno dei temi centrali della mostra e del catalogo e tende a valorizzare la presenza di un’eccezionale varietà di boschi, e dunque di legnami, nell’altopiano silano e la storia del loro sfruttamento nei secoli. L’indagine sullo sfruttamento del legno calabrese riporta, difatti, ad epoche assai remote ed è ampiamente affrontata da Luciana De Rose e Mariarosaria Salerno. Essa si configurò come un’attività redditizia e indispensabile per l’evoluzione dell’economia locale, rivelando le sue numerose sfaccettature. Tra le attività afferenti allo sfruttamento dei boschi silani spicca l’estrazione della pece che risultò un affare di dimensioni colossali fino ad un secolo fa. Nota e ricercata fu la pece bruzia fin dai tempi della Repubblica Romana ma, ancora prima, in età neolitica e nel periodo enotrio2. Gli studiosi hanno potuto ripercorrere le tappe dell’estrazione della pece, rinvenendo antichi forni e tronchi di pini incisi a lisca di pesce3. Francesco Cosco ne sintetizza gli esiti e le conoscenze nel suo contributo, mentre Pino Iannelli ne ripercorre le fasi impiantando nella mostra una installazione dell’antico forno rinvenuto nei pressi del Lago Cecita3. La consapevolezza di possedere una insostituibile risorsa naturale fece sì che numerosi e costanti furono i provvedimenti legislativi per il “Gran bosco della Sila”4 fino all’epoca borbonica, periodo in cui l’altopiano costituiva il principale fornitore di legno per il Regio Arsenale. Il governo napoletano, difatti, consapevole dell’importanza del legname silano per la costituzione della flotta, varò una serie di provvedimenti utili a tutelare l’estrazione del legno e della pece nei boschi5. Al tema dello sfruttamento delle risorse boschive, solo in parte documentate in mostra con la sezione fotografica sui Giganti di Fallistro e l’installazione sull’estrazione della pece, ne fanno seguito

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altri tra cui l’utilizzo del legno per il soddisfacimento delle esigenze quotidiane e rurali da parte della nostra antica civiltà contadina. Il Museo comunale di Aiello, il Museo della civiltà contadina di Bocchigliero, il Museo dell’artigianato silano e della difesa del suolo di Longobucco e il Museo dell’arte olearia e della civiltà contadina “Ludovico Noia” di Trebisacce, consentono -grazie ai loro prestiti di antichi manufatti in legno della tradizione locale- di indagare sul capillare utilizzo del legno in qualunque sfera dell’attività umana: la conservazione degli alimenti, la produzione del vino e dell’olio, la pastorizia e così via. In tal modo e in continuità con le precedenti esposizioni, il Museo delle Arti e dei Mestieri della Provincia di Cosenza persegue uno specifico intento culturale, conseguendo il duplice obiettivo di offrire risalto e visibilità alle collezioni periferiche dei Musei della Rete Museale Provinciale (www.retemuseale.provincia.cs.it) e di ricostruire le origini di ciascuna categoria artigianale del nostro territorio. L’esposizione continua esplorando e analizzando le testimonianze più antiche dell’intaglio ligneo nel territorio della provincia di Cosenza: panche, pulpiti, confessionali, cori, troni, seggi, soffitti, portali, colonne e capitelli diffusi nelle strutture monastiche ove la presenza di frati artieri, un tempo esperti in questo tipo di lavorazione, consente di giustificare la forza del fenomeno, sono state rintracciate nel nostro vasto ambito territoriale e presentate nel catalogo. Si costituirono vere e proprie scuole di intagliatori -a Rogliano e a Morano si registrano quelle più produttive6- le quali si distinsero ciascuna per uno specifico repertorio ornamentale e per l’utilizzazione di tecniche innovative. Nelle opere degli intagliatori roglianesi “grande parte all’istinto, quasi un congenito per l’arte dettava loro lo stile”, mentre l’uso di un particolare repertorio iconografico e stilistico ha permesso di individuare e raggruppare le personalità attive nell’area del Pollino rientranti nella sfera della Scuola moranese7. La produzione artistica degli intagliatori attivi in queste due località si rintraccia in ogni angolo del territorio della provincia di Cosenza e la mostra fotografica realizzata da Giulio Archinà consente di ripercorrerne le tappe evidenziando gli esiti più pregevoli e sollecitando un sentimento di denuncia a quanti pezzi vanno ormai depauperandosi. Tali opere, e numerose altre che per ragioni di spazio espositivo non è stato possibile presentare in mostra, sono ampiamente documentate nell’importante sezione di questo volume curata da Giorgio Leone. Il Museo delle Arti e dei Mestieri si caratterizza per una spiccata predilezione all’universo artigianale della provincia di Cosenza8; un universo fatto di tante piccole realtà talvolta assolutamente sconosciute, altre volte forti e consolidate, alle quali si è inteso destinare uno spazio espositivo di assoluta centralità nel territorio cosentino, il MaM appunto, capace di istituire collegamenti e sinergie non solo con altri enti del panorama locale ma anche con realtà artigianali di altre regioni al fine di alimentare il confronto e la contaminazione culturale9. Il Museo possiede questa specifica peculiarità, ovvero l’andare alla ricerca di quanti artigiani riescano oggi a salvaguardare e continuare le tradizioni del nostro paese pur nell’incalzare della modernità, e nel perseguire questa missione intende valorizzare quei microcosmi spesso isolati, spesso sconosciuti che risultano però impregnati della vicenda storica di ogni singolo paese. Ciò avviene ricercando e invitando gli artigiani ad esporre i loro manufatti per poi farli dialogare, nel corso delle esposizioni, con i reperti archeologici, le opere d’arte, gli oggetti dell’artigianato storico locale o, come in questa occasione, le fonti documentarie dell’Archivio di Stato di Cosenza utili a storicizzare la categoria artigianale oggetto della mostra. La mostra Il Legno comporta quindi un dialogo tra le opere artigianali prodotte nella provincia di Cosenza, connotate da un carattere di concreta unicità ed eccellenza, e le fonti documentarie dell’Archivio di Stato di Cosenza. I lavori dei maestri liutai di Bisignano e Cosenza, del maestro di surdulina di Acquaformosa, del maestro d’ascia di Cariati erede di un’antichissima e ormai quasi del tutto scomparsa tradizione, di alcune falegnamerie storiche di Bocchigliero e Cosenza e di moderni scultori del legno, vengono proposti al pubblico con una evidente tendenza a trasmettere il procedimento artigianale e l’iter lavorativo non solo con la presenza di attrezzi e opere non finite in mostra, ma anche con la scelta di insistere sui laboratori didattico-artigianali destinati agli

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studenti e ai visitatori spontanei. L’intento che informa l’esposizione è soprattutto quello di evidenziare l’antichità di queste attività artigianali nel nostro territorio, accompagnando le opere dei maestri artigiani con i documenti dell’Archivio di Stato di Cosenza studiati da Cinzia Altomare e Maria Paola Borsetta, connotati da un carattere di estremo approfondimento storico e di concreta utilità storiografica. L’attenzione si focalizza poi sulla produzione di pipe in radica, altro fiore all’occhiello dell’economia e della cultura artigianale cosentina, con lo spazio dedicato a Calabria Pipe azienda di Mandatoriccio. La mostra offre la possibilità di partecipare ai laboratori artigiani (gratuiti) di liuteria, surdulina calabrese, estrazione della pece, maestro d’ascia -ovvero costruzione di imbarcazioni- e alla visita guidata all’antica segheria nel Parco Nazionale della Sila. Dalle risorse naturali del territorio alla presenza del legno nelle fonti dell’Archivio di Stato di Cosenza, dalla storica diffusione degli stilemi e del linguaggio artistico degli artieri del legno alle odierne lavorazioni artigianali, la mostra offre uno spazio al tema dell’utilizzo del legno nell’esperienza quotidiana dell’antica civiltà contadina e del moderno artigianato locale d’eccellenza, configurandosi come un concreto momento di approfondimento e attenzione sulla nostra realtà culturale ed economica e offrendo un contributo storiografico sull’argomento.

1 Sculture in legno in Calabria dal Medioevo al Settecento, catalogo a cura di Pierluigi Leone De Castris, Altomonte 2008-2009; 2 La Calabria, in Storia d’Italia, a cura di Piero Bevilacqua e Augusto Placanica, Torino 1985; Storia della Calabria moderna e contemporanea, a cura di Augusto Placanica, Reggio Calabria 1997; A. Placanica, Uomini, strutture, economia in Calabria nei secoli XVI-XVIII, Catanzaro 1976 3 D. Marino, A. Taliano Grasso, Ricerche topografiche e scavi archeologici nella Sila grande, in Atlante tematico di topografia antica, n. 19 2009 4 G. Galasso, Economia e società nella Calabria del ‘500, Napoli 1992; F. Cosco, La via della pece. L’antica arte della resinazione nelle foreste del Parco Nazionale della Sila, Castrovillari 2010 pp. 13-77 5 A. Berardelli, La Sila: il gran bosco d’Italia, Roma 1932; M. Pezzi, La Sila borbonica tra usurpazioni e prescrizione (1878-1840), Cosenza 1991; Stato della Regia Sila sotto la delegazione dell’illustre Giudice della Gran Corte della Vicaria Giuseppe Zurlo nell’anno 1790, Napoli 1866; 6 M. Pezzi, La Sila borbonica tra usurpazioni e prescrizione (1838-1840), Cosenza 1991, pp. 17 -151

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7 L’intaglio ligneo in Calabria dal XVII al XVIII secolo, Soprintendenza BSAE, Cosenza 1991; G. Leone, Altari, balaustre e arredi, in “Il Serratore”, 1996, anno 9, n. 41 pp. 34-38; G. Leone, Altari, balaustre e arredi, in “Il Serratore”, 1995 n. 39 a. 8 pp. 39-43; G. Leone, Per una storia dell’intaglio in Calabria: appunti sulla cosiddetta “Scuola di Morano”, in “Daedalus n.7-8, 1991-1992; R. Iannace, L’intaglio ligneo nel cosentino, in I Beni culturali e le chiese di Calabria, Reggio Calabria-Gerace 1980; R. Iannace, Artigianato, arti minori e le scuole degli intagliatori roglianesi, in Dentro la memoria. La tutela dei beni culturali per riattivare la spiritualità del nostro popolo, Cosenza 1993; 8 L’argomento dell’intaglio ligneo è ampiamente affrontato nella sezione sulla produzione artistica in provincia di Cosenza, curata da Giorgio Leone in questo volume, nonché nella schedatura di intagli artistici della provincia di Cosenza documentata da studiosi dell’Università della Calabria. 9 Artigianato in Calabria, Roma 1971; Con calafati e maestri d’ascia. I protagonisti dell’arte navale dal XVII al XVIII secolo, Lega navale italiana, Trieste 2004; Liuteria nel Mezzogiorno 1985-1987, a cura di

Francesco Sanvitale, Roma 1989; C. Caliendo, M. Tiella, Catalogo degli strumenti esposti nella I mostra sulla Liuteria storica del Mezzogiorno, Ravello 1996; V. Napolillo, La liuteria dei De Bonis in Valle Crati, in “Calabria letteraria”, n.1-3 1995 10 Faccio riferimento alle precedenti esposizioni Artessile. Capolavori dell’arte tessile cosentina e Cosenza Preziosa. Maestri e opere dell’arte orafa a Cosenza.


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Il legno nel “Gran bosco della Sila”

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Industria, maestri d’ascia e arte ebanistica nel mondo antico. La Sila in epoca romana. Luciana De Rose

Gli alberi: dono degli dèi Che il legno fosse caro agli dèi è noto. Le querce di Dodona, sacre a Zeus, profetavano mediante lo stormire delle foglie. L’oracolo della Tessaglia era il più antico e per molto tempo anche l’unico1, dedicato a Zeus Naios; mantenne nomea e prerogative in età tardo/romana: Claudio Claudiano riportò che proprio in quel bosco il goto Alarico udí la frase Penetrabis ad Urbem (penetrerai sino all’Urbe), riconosciuta tra le foglie accarezzate dal vento, una profezia che si avverò puntualmente pochi anni dopo, quando, nell’agosto del 410 d.C., saccheggiò Roma, per poi morire poco tempo dopo a Cosenza2. L’albero di olivo e l’olio sono un dono divino della dea della sapienza. Il racconto dell’episodio, da parte di Apollodoro, si apre con la contesa degli dèi per avere il culto nelle città dell’Attica. Poseidone per primo colpì con il tridente in mezzo all’acropoli della futura Atene, ne scaturì un mare chiamato Eretteide. Atena invece vi piantò un olivo. Il duello si concluse quando il consiglio di dodici dèi decisero che il territorio andasse assegnato ad Atena, che diede il nome alla città3. E dopo le querce di Zeus, l’olivo di Atena, abbiamo ancora l’alloro di Apollo, il mirto di Venere, il pioppo di Ercole4. Dal cavallo di Troia in poi la letteratura e la storiografia classiche sono pregne di riferimenti al “materiale” per eccellenza: il legno. Nel mondo antico, l’utilizzo del legname racchiudeva, come e più di oggi, svariati campi. Il settore principale era costituito senz’altro alle attività primarie per la vita e la sussistenza stessa: il legno corrispondeva al “focolare”, ossia era il sistema per cuocere i cibi e il primo combustibile per riscaldarsi, semplice da usare e facilmente reperibile. Ma anche procacciare il cibo comprendeva arnesi in legno, dalle frecce e gli archi per la caccia, agli arpioni per la pesca. A tal proposito la narrazione di Polibio, che ci illustra cognizioni del II secolo a.C., riferita da Strabone, nel descrivere i pescatori delle acque di Scilla, da sembrare antesignano precedente del capolavoro di Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare, fornisce una accurata descrizione della lunga arma atta alla cattura dei pericolosi pescispada: “Un’antica sentinella guida una flottiglia di barche a due remi (skafidion), ciascuna delle quali ha a bordo due uomini. Uno di essi spinge l’imbarcazione, l’altro sta ritto a prua tenendo un arpione; non appena la sentinella segnala la presenza del pesce – esso nuota tenendo un terzo del corpo fuori dell’acqua – avvicinatasi la barca, l’uomo colpisce da vicino il pesce, quindi estrae dal suo corpo la lancia eccettuato il puntale che è uncinato, poco solidamente fissato alla lancia e porta attaccata una lunga corda che il marinaio lascia scorrere. Con questa l’animale ferito viene trascinato finché non si stanchi di dibattersi e di cercare di fuggire, poi, se non è eccessivamente pesante, viene tirato a terra e issato sulla barca. La lancia anche se cade in mare non va perduta, poiché è fatta di una parte di legno di quercia e di una di pino, di modo che mentre la parte di quercia per il suo peso tende ad affondare, l’altra rimane a galla, permettendo di recuperare facilmente la lancia. Talvolta avviene che il feritore sia a sua volta colpito all’interno dell’imbarcazione, tanto lunga è la spada del pesce, che riesce perforare i fianchi della barca, perché è un pesce molto forte e combattivo; la caccia dell’animale, come in qualche cosa il suo aspetto, è simile a quella del cinghiale”5. Nella pesca al pescespada, il genio umano si estrinseca nell’utilizzo della lancia descritta da Strabone, composta dal cilindro di legno e dalla punta uncinata di ferro, per arpionare il pesce, legata

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con una lunga corda di canapa (la sagola) per trascinare e “sfinire” la preda, ma con il rischio che il sangue fluente potesse attrarre pesci a loro volta predatori, come gli squali6. La parte di legno, la lancia, era formata a sua volta da due parti incastrate ed estraibili, una di robusta quercia, resistente, e una di pino, leggero, adatto a galleggiare, per poter recuperare facilmente l’arma e riutilizzarla per la seguente battuta. Questo strumento ha una semplicità da sembrare ovvia, eppure è tanto complesso da sfruttare ben tre principii di fisica: la forza di inerzia, la forza di gravità e il principio di Archimede. La parte robusta consentiva, grazie al “lancio”, di acquistare gittata e potenza (forza di inerzia), una volta caduta in acqua, grazie alla forza di gravità affondava nella porzione di quercia pesante, ma in virtù del principio di Archimede il legno leggero di pino tendeva a risalire, impedendo l’affondamento e rendendo facile il recupero, nonché il conseguente riutilizzo dello strumento7. L’uso del legno era altresì diffuso nelle attrezzature idonee all’agricoltura, prima dell’avvento del ferro gli aratri, i manici, i gioghi dei buoi. All’esterno e all’interno delle abitazioni il legno era il vero dominatore. Mobili – chi non rammenta la descrizione omerica del letto di Odisseo – utensili per la cucina, mestoli, cucchiai, ciotole, recipienti, e ancora travi, capanne, case, ponti, pontili, il fasciame delle navi, tutto era costruito con il legname, con tutti i conseguenti rischi, erano noti gli incendi nelle insulae romane, i quartieri popolari costruiti in gran parte con materiale igneo. Anche l’economia dell’oikos dipendeva in gran parte da questo materiale, il telaio, per rimanere nell’ambito omerico, era interamente fabbricato in legno. Il legno era protagonista persino in battaglia, mediante la manifattura di armi da lancio e macchine da guerra, catapulte etc. Dall’arte ebanistica ai “mastri d’ascia” il legname era protagonista della vita domestica, sociale, economica e militare del mondo antico. Data la deperibilità del materiale rari sono i reperti archeologici tutt’ora visibili.

La “magna” Sila Le descrizioni geografiche relative alla Magna Grecia sono copiose di immagini che descrivono una terra fertile e ricca di alberi e foreste. La Calabria del passato era una regione a vocazione rurale, rinomata per la fecondità e la qualità della produzione agricola. Verso questa penisola i Greci, nell’VIII secolo a.C., veleggiarono in cerca di terre e di fortuna. Trovarono ambedue: l’Italia meridionale, regione fertile e ricca di terra nera, di acque abbondanti, dolci e salate, di pascoli per le mandrie e di foreste per la caccia, il tutto contornato dal clima clemente, adatto alle coltivazioni, apportatrici di orti rigogliosi e alberi carichi di frutti, fu un asilo generoso per i nuovi giunti, che diedero alla nuova patria il nuovo nome di Megàle Hellàs, Magna Graecia. Le colonie greche fondate in Calabria, le prime poleis della Calabria magno greca sulla costa ionica, Sibari, Crotone, Caulonia, Locri e Reggio diventarono città opime, ammirate ma più spesso invidiate, di volta in volta ambite da potenze concorrenti. Rappresentazioni più dettagliate del panorama montano sono relative all’epoca romana, quando la Sila8 era ormai da decenni adoperata come risorsa economica per le materie prime dell’industria navale ed edilizia, nonché nello sfruttamento del legno come combustibile, e per le praterie utilizzate per i pascoli. I principali prodotti erano, ovviamente, il legname e la pece. Da Strabone proviene l’informazione relativa alla sua estensione. L’altopiano bruttio si stende per 700 stadi9, che Givigliano traduce in circa 130 km10. Il geografo prosegue delineando il territorio ricco di vegetazione e copioso di acque. Informazione certamente corrispondente al vero: la sorgente del fiume Crati si trova nelle pendici occidentali del monte Timpone Bruno nella Sila Grande e del fiume Savuto nella Sila Piccola11. E proprio questi fiumi hanno avuto un ruolo importantissimo ai fini dello sfruttamento del legname, fungendo da arterie per lo spostamento sino al mare dei tronchi. L’altra indicazione straboniana è confortata da Dionigi di Alicarnasso, il quale, nel I secolo a.C., precisava anche quali tipi di alberi era possibile incontrare nella selva della Sila:

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Vi crescevano abeti che toccavano il cielo, numerosi pioppi, pingui pini marittimi, faggi, pini, ampie querce, frassini fecondati dalle acque che scorrono in mezzo, e ogni altro genere di albero che coi rami densi mantiene ombreggiato il monte tutto il giorno12. L’elenco comprende dunque abeti secolari, pioppi, pini larici - ora definiti “i giganti della Sila, gli epigoni del Gran bosco d’Italia, i testimoni dell’antica imponenza della foresta primigenia”13, da ammirare nella riserva di Fallistro -, querce e frassini, talmente fitti da creare ombra su tutta la superficie. Nel leggere il citato saggio di Francesco Bevilacqua si incontrano nuovamente questi nomi, con l’aggiunta di aceri e castagni, nelle “estensioni sconfinate di boschi”, poeticamente definite dall’autore nel loro aspetto cromatico in modo da immaginare il pennello divino che ha creato cotanta bellezza di colori e sfumature: ... il verde-bottiglia dei pini larici è il colore prevalente, subito seguito dal verde vivido (d’estate), giallo ed arancione (in autunno), marrone-fulvo (d’inverno dei faggi. Vengono poi gli aceri (in autunno, talvolta, addirittura scarlatti), i pioppi tremuli, simili a gialle fiammelle... gli ontani neri dai bei filari ... i cerri che in autunno acquistano un arancione dai sorprendenti toni pastello, sino alle picchiettature verde scuro degli abeti bianchi, capaci di sovrastare perfino le pinete più dense14. Le vicende della Sila si intersecano con quelle della popolazione dei Bretti. La memoria classica designa variamente il popolo dei Brettii, la cui genesi è stata differentemente descritta dagli antichi autori. Confederatasi nel 356 a.C., l’etnia si estese in seguito fino a popolare quasi tutta la Calabria15. La tradizione che fa capo a Diodoro Siculo racconta di un gruppo multiforme di persone di estrazione e origine differente; il maggiore insieme sarebbe stato quello composto da schiavi fuggiaschi. La sopravvivenza al di fuori da un ethnos o da una entità giuridica portò questa massa a vivere alla macchia, praticando saccheggi e guerriglie, a danno delle popolazioni locali. Con l’aumento del potere della compagine, le città, che componevano il mosaico territoriale, erano destinate a soccombere; questo fu infatti il destino di Terina, Ipponio, Thurii e altre città, che finirono nelle mani dei Brettii, patronimico indicante, secondo Diodoro, nella lingua locale, i “fuggitivi”16. Meta di fuggitivi fu proprio la macchia silana, che con la sua selva impenetrabile forniva rifugio e nascondiglio17. Testimone della presenza dei Bretti, l’altopiano silano fu una delle risorse economiche più redditizie di questo popolo. Nell’area montana cosentina è ricordata la presenza di armenti, sovente l’origine dei Brettii è stata derivata appunto dai “pastori” ed eccellente era considerato il bestiame che essi allevavano. Varrone rammentò le celebri greggi di Caio Lucilio Irro nel territorio dei Bruttii18, mentre mandrie della Sila, splendide giovenche e focosi tori, sono citate da Virgilio nelle Georgiche19. L’attività pastorale, resa ancor più redditizia grazie all’antichissima pratica della transumanza20, era prediletta da questo popolo forte e ribelle per antonomasia. L’erba delle praterie silane, caratterizzata da sottobosco di natura fluviale godeva di una eccellente qualità dell’aria e di una prolungata continuità ecologica21. Ma la vera ricchezza fu senz’altro raggiunta grazie all’impiego del legno. Dionigi di Alicarnasso scrive a proposito: Gli alberi che crescono più vicini al mare e ai fiumi sono tagliati fino al ceppo in un unico pezzo e vengono spediti ai porti più vicini e forniscono a tutta l’Italia il fabbisogno per costruzioni navali ed edilizie; quelli invece che si trovano lontani dal mare e dai fiumi sono tagliati in diversi pezzi e trasportati a spalla dagli uomini; questi alberi forniscono remi, pertiche e ogni genere di attrezzi e suppellettili domestiche22. Depauperata dai tempi della Magna Grecia, la Sila fece gola a Roma, vittoriosa dalla contesa contro Annibale. Alla conclusione delle campagne annibaliche, Roma ritornò domina della penisola, e la sorte dei Brettii, colpevoli di tradimento e tenuti a bada con reiterate operazioni punitive,

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non fu certo delle migliori: per esempio essi furono privati di una parte della Sila, preziosa per la fornitura di pece e di legname23. L’industria navale romana, fu incrementata grazie al legname dell’altopiano calabrese, gli arsenali continuavano a costruire biremi e trireme non solo a uso militare, ma anche commerciale, armatori privati trasportavano mercanzie in tutti i porti del lago Mediterraneo, spostandosi oltre le Colonne d’Ercole alla ricerca di merci esotiche. Nel corso dei secoli al piccolo cabotaggio fu affiancato e poi sostituito dalla navigazione di lungo corso. Durante il principato di Claudio (41-54) un liberto di Annius Plocamus si spinse attraverso l’Oceano Indiano fino a Ceylon (Sri Lanka), rientrando con una delegazione per istituire il commercio con l’Impero24. Ancora i monsoni non erano stati sfruttati per viaggiare più lontano. Quando i venti ippalici iniziarono ad essere adoperati, fornivano la spinta per le lunghe distanze e il carattere stagionale modificava la direzione ogni semestre. Questo fattore fu estremamente favorevole per l’utilizzazione dei bastimenti mercantili25. Una rotta marittima collegava l’Estremo Oriente, con tutti i suoi prodotti che piacevano tanto a Roma, dalle spezie alla seta, con i porti del Mediterraneo.

La pix Bruttia Sempre la nostra fonte di Alicarnasso sostenne che però ancor più del legno e della pastorizia, la Sila fu grande dispensatrice di pece, la vera “ricchezza” della zona: Ma la parte più abbondante e resinosa viene utilizzata nella fabbricazione della pece, di cui fornisce la qualità più odorosa e soave che si conosca, la cosiddetta pece bruzia, dal cui appalto lo stato romano ricava ogni anno grosse entrate26. La prima informazione che incontriamo inerente lo sfruttamento della resina, da parte di società appaltatrici romane è specchio di quanto affermato da Dionigi. Dietro lo sfruttamento dell’ager publicus stavano fortissimi interessi economici, tali da provocare anche massacri: Ricordo di aver udito a Smirne da P. Rutilio Rufo, mentre raccontava ciò che era accaduto quando egli era ancora giovane, come i consoli P. Scipione e D. Bruto - come credo - fossero stati incaricati di indagare con un senato consulto su un avvenimento atroce e grave. Poiché infatti nella foresta della Sila vi era stato un massacro ed erano stati uccisi degli uomini noti e di ciò venivano accusati gli schiavi, ma anche alcuni dei liberi di quella società che aveva avuto l’appalto della pece dai censori P. Cornelio e L. Mummio, il senato aveva stabilito che su questo episodio dovessero istituire la causa ed emettere il giudizio i consoli. La causa a favore dei pubblicani fu sostenuta da Lelio in modo accurato, sebbene fosse usuale, ed elegante27. L’episodio è narrato da Cicerone nel Brutus, e racconta di torbidi avvenuti nel 138 a.C. I censori del 142 a.C., Publio Cornelio e Lucio Mummio avevano concesso l’appalto per l’estrazione della pece a una societas picaria. I proventi di questa attività, nella foresta della Sila dei Brutti, erano davvero ingenti, sia per gli imprenditori, che per lo stato Romano28. Dietro ai fatti di sangue, evidentemente stavano proprio motivazioni economiche. Uomini noti (noti homines), personaggi che avevano ruoli nella vita pubblica, erano stati trucidati. I principali sospetti, caddero su schiavi e uomini liberi, componenti della società che deteneva la concessione. Accusati di omicidio, o di essere i mandanti, i pubblicani si rivolsero a Lelio, affinché li difendesse in giudizio. L’istruttoria fu presieduta dai consoli di quell’anno, Scipione e Bruto, cui fu altresì affidato l’oneroso compito di istituire un senato consulto e celebrare il processo. Per la gravità dei fatti, che aveva messo contro due potenti fazioni, spinte da forti interessi, che si contendevano lo sfruttamento del territorio della “silva Sila”, l’elegante eloquenza di Lelio dimostrò essere inefficace, e dopo soltanto due udienze l’oratore fu sostituito da Servio Galba, il quale, grazie alla sua oratoria più veemente, riuscì a portare la causa a suo favore, che terminò con l’assoluzione degli imputati29. L’impiego della migliore pece che si conosca, detta “pece brettia”, prodotta in Sila, per usare per parole di Strabone30, era vario. La resina, costosissima (ai tempi di Scribonio Largo costava

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100 denari la pece sminuzzata a uso medico), era utilizzata sostanzialmente per calafatare, ossia per rendere i materiali impermeabili. E che la pece proveniente dai pini larici della Sila fosse di qualità superiore è opinione comune a tutte le fonti31: In Italia la pece più rinomata per i recipienti da vino è quella del Bruzio. la si ottiene dalla resina di picea, mentre quella ricavata dai pini marittimi di Spagna è poco stimata32. Plinio stigmatizza, con una punta di orgoglio, la bontà della pece silana, rispetto a quella spagnola, sebbene fossero note anche la pece asiatica della regione dell’Ida e quella greca della Pieria. Utilizzata dunque per le navi, botti e giare, la pece bruzia era utile soprattutto nel campo alimentare, in quanto profumata rendeva i recipienti odorosi e aromatizzava i contenuti, il vino in primis. Il prodotto del pino laricio aveva bisogno di un procedimento molto accurato, prima del suo impiego. Così descrive Plinio, sottolineando, nuovamente, la migliore qualità della pece brettia: In Europa, la pece liquida si ottiene per cottura dalla taeda: serve per rendere stagne le costruzioni navali e per molti altri impieghi. Il legno, fatto a pezzi, viene messo a scaldare in fornaci con il fuoco acceso tutt’intorno all’esterno. Un primo liquido cola come acqua, da un canale. (...) Il liquido che cola dopo di questo è ormai più denso e fornisce la pece liquida. quest’ultima, versata a sua volta in caldaie di bronzo, viene fatta addensare usando dell’aceto come coagulante, e prende la denominazione di pece bruzia, adatta soltanto per sigillare le botti e altri recipienti del genere; differisce dall’altra pece sia per la sua viscosità sia per il suo colore rossiccio, e per il grasso che contiene in misura superiore agli altri tipi33. Differente per colore, profumo e qualità, la pece doveva essere impiegata quaranta giorni prima della vendemmia, solo seguendo una determinata procedura poteva migliorare il vino. Columella nel de re rustica insegna: Anche i dolii e le giare e gli altri vasi devono essere impeciati quaranta giorni prima della vendemmia, in modo differente a seconda che siano interrati o meno. (...) 25 libbre di pece dura sono invece sufficienti per i dolii di un culleus e mezzo; né vi è dubbio che, se si aggiunge una quinta parte di pece bruzia in tutta la cottura, sia utilissima per tutta la vendemmia34. Le grandi giare atte a conservare il vino, i dolia, sovente interrati nelle dispense della case per mantenerne la temperatura costante, venivano rese impermeabili dalle resine, meglio dunque se le sostanze potessero rilasciare essenze aromatizzanti. Inoltre la pece estratta dal pino laricio aveva anche proprietà officinali e il uso nella farmacopea antica era noto. Lo stesso Plinio riteneva la pece Bruttia più idonea rispetto alle altre in quanto più grassa e resinosa oltre che più compatta35. Gargilio Marziale, dal canto suo la indicava come cura per il carbonchio, se unita a uva passa setacciata e grasso animale36. Scribonio Largo, quando citava il prezzo della pece, la indicava come panacea per una grande quantità di mali, sostanza medicamentosa che non doveva mancare a gladiatori e lavoratori a rischio37. La pece era lenitivo per i lividi e le lussazioni, con effetto cicatrizzante per le ferite da taglio, le piaghe e le ulcerazioni, le lesioni ai muscoli e ai tendini, e aveva un grande potere disinfettante, da impedire le necrosi: Il suo impiastro nero, chiamato barbara, è adatto per ogni ferita recente e contusione; questo è usato generalmente tra i gladiatori: pece bruzia cento denari, resina sminuzzata cento denari, bitume giudaico cento denari, cera cento denari. Queste cose ridotte in piccoli pezzi vanno cotte con un sestario di olio fino a che si coagulino (...)38. L’impiatro nero del chirurgo Trasea giova a tutte le ferite recenti, in particolare anche alle lesioni dei tendini e dei muscoli, alle contusioni, alle lussazioni, e in genere impedisce la crescita di qualsiasi tumore, ricongiunge le articolazioni tagliate. Quattro libbre di cera, quattro di pece brettia, quattro di resina sminuzzata (...)39

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L’impiastro nero di Trifone, viene chiamato “basilice”, giova alle contusioni, alle ferite, al morso dei cani e ai foruncoli. Stemperato con olio della stessa rosa ripara le ferite profonde: quaranta denari di pece bruzia, quaranta denari di cera, quaranta denari di resina, due di galbano, un ottavo di henna con nove denari di olio comune40. Gli impacchi con la pece sono familiari anche a Teodoro Prisciano, che suggerisce la pece brettia mescolata con resina di pino, ossido di arsenico, allume, miele e olio41, un utilizzo differente è invece proposto come anti emetico e utilizzato per i suffumigi42.

1 Erodoto, II, 52, a proposito dell’adozione di divinità straniere, riferì che i Pelasgi: “... Interrogarono... l’oracolo di Dodona, poiché è considerato il più antico degli oracoli che vi siano in Grecia e in quel tempo era unico”. 2 Claudius Claudianus, De bello Gothico, vv. 544547. Cfr. L. De Rose, Il delirio di Cassandra, in F. Dionesalvi (a cura di), L’evento, «Ou. Riflessioni e provocazioni», n° 16, fasc. 1/2005, pp. 81-111; ead., Il viaggio di Alarico, in AA.VV., Alarico re dei Visigoti, Cosenza 2000, pp. 9-83. 3 III, 14, 1. 4 Alcune specie di alberi sono oggetto di una continua protezione in quanto dedicate ciascuna a una sua propria divinità, come il farnetto (varietà di quercia) a Giove, l’alloro ad Apollo, l’olivo a Minerva, il mirto a Venere, il pioppo ad Ercole” XII, 3 arborum genera numinibus suis dicata perpetuo servantur, ut Iovi aesculus, Apollini laurus, Minervae olea, Veneri myrtus, Herculi populus. quin et Silvanos Faunosque et dearum genera silvis ac sua numina tamquam e caelo attributa credimus. Cfr. L. De Rose, L’alimentazione nella Calabria greca e romana, in Raccontiamoci la città. Cosenza tra storie, miti, leggende (parte quarta), le nuvole, Cosenza 2009, pp. 35-61; ead., La triade mediterranea: grano, vino, olio. La base dell’alimentazione nella Calabria greca e romana, in «Rogerius», n° 2, anno XI, Soriano Calabro, luglio-dicembre 2008, pp. 29-42; 5 Polyb. XXXIV,3 in Strab. I,2,15-16. Non dissimile è il racconto fatto Friederich L. von Stolberg quando, nel 1783, giunse a Scilla, che considerava la pesca del pesce spada per i Calabresi “un momento di grande gioia”, F.L. von Stolberg, Viaggio in Calabria, trad. it. di S. De Laura, Rubbettino, 1996, p. 55. 6 La presenza degli squali è attestata in Polyb. XXXIV,2 in Strab. I,2,15. 7 Cfr. L. De Rose, Tecniche di pesca tra Magna Grecia e Cartagine, in Atti del Convegno internazionale “Fenici e Italici, Cartagine e la Magna Grecia. Popoli a contatto, culture a confronto (sec. VII-II a.C.)”, Università della Calabria – Istituto di Studi sulle Civiltà Italiche e del Mediterraneo Antico/CNR, Arcavacata di Rende 27-28 maggio 2008, “Rivista di Studi Fenici” XXXVII, 1-2/2009, pp. 155-177. 8 Non bisogna dimenticare che il nome “Sila” compreso nelle fonti storiche, non corrisponde esattamente all’area geografica che intendiamo ora. Cfr. G.P. Givigliano, La Sila in età romana, in Artissimum memoriae vinculum. Scritti di geografia storica e

di antichità in ricordo di Gioia Conta, Firenze 2004, pp. 209-210. 9 Strabone VI, 1, 9: “L’entroterra di questa città è occupato dai Brettii; vi si trovano la città di Mamertium e quella foresta che chiamano Sila che produce la migliore pece che si conosca, detta ‘pece brettia’. È ricca di piante e di acqua e si estende in lunghezza per 700 stadi”. 10 Cfr. G.P. Givigliano, La Sila in età romana, cit., p. 211 e relativa nota 9. 11 “Le foreste della Sila devono molto all’acqua, a quell’acqua che sgorga copiosa e pura da ogni dove... In Sila l’acqua sbalordisce: fuoriesce dal suolo con fonti e sorgenti che rendono leggiadri i mille angoli delle foreste...”, F. Bevilacqua, Sila: Grande Nord del Sud, § Tesori d’acqua, in Foreste di Calabria, Regione Calabria 2003, p. 184. 12 Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, XX, 15. 13 F. Bevilacqua, Sila: Grande Nord del Sud, cit. p. 183. 14 Id., pp. 181-182. 15 Sulle altre notizie che tendono a retrodatare la presenza di una compagine diversa, sia pur connessa ai Lucani, nota con il nome di Brettii cfr. P. G. Guzzo, I Brettii, Milano 1989, pp. 9, 41, 44; Per approfondimenti cfr. L. De Rose, Cosenza “faro splendidissimo di cultura”. L’Atene della Calabria e i Brettii raccontati da Gabriele Barrio, in G. Masi (a cura di), Tra Calabria e Mezzogiorno. Studi storici in memoria di Tobia Cornacchioli, ICSAIC, Cosenza 2007, pp. 31-63; ead., I Brettii. Quando restano solo frammenti, in G. de Falco (a cura di), Cosenza, la storia e le sue storie, Cosenza 2006, pp. 109-139; ead. Tracce di un antico popolo italico: i Brettii, in Per le antiche strade, Luoghi, persone e fatti della Cosenza storica, a cura di G. de Falco, Cosenza 2003, pp. 11-24. 16 Biblioteca Storica, XVI, 15, 1-2. G. Pugliese Carratelli, Brettii, Greci e Romani, in F. Costabile, F. Mosino (a cura di), Brettii, Greci e Romani, “V Congresso storico calabrese (Cosenza, Vibo Valentia, Reggio Calabria 28-31 ottobre 1973)”, Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Roma 1983, p. 25. Per tutte le problematiche e i riferimenti relativi al passo di Diodoro, cfr. M. Intrieri, A. Zumbo, I Brettii, t. II, Soveria Mannelli 1995, p. 16, nn. 1-2. Il testo raccoglie le fonti letterarie ed epigrafiche connesse ai Brettii, al quale si rinvia per tutti i brani citati nel presente lavoro. 17 Così Sallustio riguardo a dei fuggiaschi:

furono nella foresta della Sila: Sallustius de fugitivis in silva Sila fuerunt, Sallustio, Historiae, IV, fr. 33, apud Serv. in Verg. Aen., XII, 715, B. Maurenbrecher, Lipsiae 1891-1893. 18 De re rustica, II, 1: «Ego vero, inquam, dicam dumtaxat quod est historicon, de duabus rebus primis quae accepi, de origine et dignitate, de tertia parte, ubi est de arte, Scrofa suscipiet, ut semigraecis pastoribus dicam graece, hos per mou pollon ameinon. Nam is magister C. Lucili Hirri, generi tui, cuius nobiles pecuariae in Bruttiis habentur» («Io, per vero – risposi – parlerò limitatamente all’aspetto storico del problema dicendo quel che so sui primi due punti, sull’origine e sul pregio della pastorizia. Sulla terza parte, cioè sulla tecnica, prenderà a parlare Scrofa, il quale, per dirla in greco a pastori mezzo greci, è di molto superiore a me. Infatti egli è stato maestro di Gaio Lucilio Irro, tuo genero, le cui greggi nel territorio dei Bruzi sono famose». 19 III, 219-223; 242-244. 20 Sul fenomeno della transumanza nella Calabria antica resta insuperato il lavoro di G. P. Givigliano, Aspetti e problemi della transumanza in Calabria, in “Miscellanea di studi storici-Università della Calabria”, 1986, vol. V, pp. 7-25. 21 Di fatto, nonostante il trascorrere dei secoli (dei millenni), ancora oggi si assiste a una ottima qualità di sottobosco e prateria: cfr. sull’argomento D. Puntillo, M. Puntillo, Sottobosco, erbe e arbusti, in Foreste di Calabria, cit., pp. 44-63. 22 Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, XX, 15. 23 Sebbene la notizia potrebbe essere relativa alla fine della guerra contro Pirro. Dionigi di Alicarnasso, XX, 15; Appiano, La guerra annibalica, 29; Le guerre puniche, 256-257. G. P. Givigliano, Territorio e malaria nei Bruttii, in «Rivista Storica Italiana», III, 2001, p. 597, nn. 56-57. 24 Plinio, Nat. Hist., VI, 24, 84. 25 J. I. Miller, Roma e la via delle spezie, dal 29 a.C. al 641 d.C., trad. it. di A. Rebecchi, Torino 1974, p. 121. 26 Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, XX, 15. 27 ...memoria teneo Smyrnae me ex P. Rutilio Rufo audisse, cum diceret adulescentulo se accidisse, ut ex senatus consulto P. Scipio et D. Brutus, ut opinor, consules de re atroci magnaque quaererent. Nam cum in silva Sila facta caedes esset notique homines interfecti insimulareturque familia, partim etiam liberi societatis eius, quae picarias de P. Cornelio L. Mummio censoribus redemisset, decrevisse senatum, ut de ea re cognoscerent et statuerent consules. [86]

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Causam pro publicanis accurate, ut semper solitus esset, eleganterque dixisse Laelium, Cicerone, Brutus, XXII, 85-88. 28 Dionigi di Alicarnasso, XX, 15, 2. 29 Cicerone, Brutus, XXII, 89. 30 Strabone, VI, 1, 9. 31 Erano note, ma ritenute meno pregiate, la pece spagnola, quella asiatica nella regione dell’Ida, quella della Pieria in Grecia: L’Asia apprezza soprattutto la pece dell’Ida, la Grecia quella della Pieria, Virgilio quella naricia; Asia picem Idaeam maxime probat, Graeciam Piericam, Vergilius Naryciam, Plinio, Naturalis Historia, XIV, 128. 32 Pix in Italia ad vasa vino condendo maxime probatur Bruttia. Fit e piceae resina, in Hispania autem e pinastris minime laudata; est enim resina earum amara et arida et gravi odore, Plinio, Naturalis Historia, XIV, 127. 33 Pix liquida in Europa e taeda coquitur, navalibus muniendis multosque alios ad usus. lignum eius concisum furnis undique igni extra circumdato fervet. primus sudor aquae modo fluit canali. ... Sequens liquor crassior iam picem fundit. haec rursus in cortinas aereas coniecta aceto spissatur ut coagulo et Bruttiae cognomen accepit, doliis dumtaxat vasisque ceteris utilis, lentore ab alia pice differens, item colore rutilante et quod pinguior est reliqua omni. Plinio, Naturalis Historia, XVI, 52-53. 34 Dolia quoque et seriae ceteraque vasa ante quadragesimum vindemiae diem picanda sunt atque aliter ea, quae demersa sunt humi, aliter, quae stant supra terram: nam ea, quae demersa sunt, ferreis lampadibus ardentibus calefiunt, et cum pix in fundum destillavit, sublata lampade rutabulo ligneo et ferrea curvata radula educitur, quod destillavit aut quod in lateribus haesit; dein penicillo detergitur et, ferventissima pice infusa, novo alio rutabulo et scopula picatur. [6] At quae supra terram consistunt, <ant>e compluris dies, quam curentur, in solem producuntur, deinde, cum satis insolata sunt, in labra convertuntur et, subiectis parvis tribus lapidibus, suspenduntur; atque ita igni<s> subicitur et tam diu incenditur, donec ad fundum calor tam vehemens perveniat, ut adposita manus patiens eius non sit; tum, dolio in terram demisso et in latus deposito, pix ferventissima infunditur volutaturque, ut omnes doli partes linantur. [7] Sed haec die quieto a ventis fieri debent, ne admoto igne, cum adflaverit ventus, vasa rumpantur. Satis autem sesquicullearibus doleis picis durae pondo vicena quina; nec dubium quin, si[c] quinta pars picis Brut<t>iae in universam cocturam adiciatur, utilissimum sit omni vindemiae, de re rustica, XII, 18, 5-7. 35 In ambito officinale la più utile delle peci dense è quella bruzia, perché essendo sia molto grassa, sia molto resinosa, offre i vantaggi della resina come della pece (da questo punto di vista,

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la qualità rossa più delle altre). Spissarum utilissima medicinae Bruttia, quoniam pinguissima et resinosissima utraque praebet utilitates, ob id et magis rutila quam ceterae, Plinio XXIV, 37. 36 Per il carbonchio. (...) La pece brettia con uva passa privata dei noccioli con l’aggiunta di sugna purga. Ad carbunculum. (...) Pix brittia cum uva passa demptis nucleis addita axungia purgat, Gargilio Marziale, Lydia dic per omnis edicina ex oleribus et pomis, III, 8. 37 Così anche Calpurnio Siculo, Bucolica, V, 78-82, consigliava di “non dimenticare” la pece bruzia, per ungere le spalle: “Providus (hoc moneo) viventia sulphura tecum / et Scillae caput et virosa / itumina portes / vulneribus laturus opem. nec Brutia desit / pix tibi: tu liquido picis unguine terga memento, / si sint rasa, linas”. 38 Emplastrum nigrum eius, barbara dicitur, facit ad omne recens vulnus et contusum; hoc plerique in gladiatoribus utuntur: picis Bruttiae * p.C, resinae frictae * p.C, bituminis Iudaici * p. C, cerae * p.C. Haec concisa in minima frusta coquuntur cum olei $ uno, donec spissentur..., Compositiones, 207. 39 Emplastrum nigrum Thraseae chirurgi facit ad omnia recentia vulnera, proprie autem ad nervorum, musculorum punctus, contusiones, luxa, et in totum tumorem non patitur fieri, articulos incisos iungit. Cerae pondo IIII, picis Bruttiae pondo IIII, resinae frictae pondo IIII..., Compositiones, 208. 40 Emplastrum nigrum Tryphonis, basilice appellatur, facit ad contusa et canis morsum et forunculos. Eadem rosa diluta explet concava ulcera: picis Bruttiae * p. XL, cerae * p. XL, resinae * p. XL, galbani * p. II, olei cyprei pondo sescuncia cum oleo communt pondere * IX”, Compositiones, 210. 41 ... et emplastra haec utilia superaddimus (...) Cerae, pityniae, picis brittiae libras binas, auripigmenti, aluminis scisi unc binas, aceti unc IIII, olei libram I, Euporiston (Logicus), II, 81. 42 Se persistono i conati di vomito o la pesantezza, che chiamiamo sintomi del tenesmo, e che frequentemente provocano quel senso di leggerezza per il ventre svuotato, è necessario mettersi sui vapori attraverso i quali spesso l’infiammazione viene mitigata (...) E spesso i suffumigi di pece brettia hanno arrecato giovamento a coloro che si sottopongono ad un simile bagno di vapore”. “Si conationes vel pondera perseveraverint quas tenesmodis appellamus, quae frequenter procurant ventris exponendi suavitatem, (...) et picis brittiae saepe sedentibus post vaporem fumigia profuerunt. Euporiston (Logicus) II, 104.


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Lo sfruttamento delle risorse lignee in età medievale: il territorio dell’attuale provincia di Cosenza Mariarosaria Salerno

Il ruolo del bosco e dell’incolto nel Medioevo Il bosco e l’incolto hanno rappresentato per l’uomo del Medioevo una realtà imprescindibile, che ha condizionato in maniera totale l’esistenza umana non soltanto negli aspetti materiali, ma anche negli atteggiamenti mentali e nell’immaginario1. Le aree incolte furono luoghi di produzione alternativi e complementari a quelle coltivate: l’incolto stesso non fu percepito in accezione negativa, vissuto come luogo deserto e inutile contrapposto all’abitato e al coltivato, ma come luogo “percorso, sfruttato, protetto, rastrellato quotidianamente per soddisfare esigenze di ogni tipo”2. Fu dunque parte integrante dell’economia agraria, in special modo nell’alto Medioevo, e costitutivo del regime fondiario3. I boschi medievali furono una miniera ricchissima di materie prime, ad iniziare dal cibo, costituito dai frutti spontanei; vi si traevano poi le piante officinali per la medicina popolare; i coloranti tratti dalle piante tintorie selvatiche, come la ginestra, per il giallo, il guado, per l’azzurro, la robbia, per il rosso. Gli alveari nascosti nel cavo degli alberi fornivano miele, pappa reale e cera per le candele. Fogliame e ghiande servivano da foraggio per gli animali allevati allo stato brado; le foglie secche si utilizzavano per imbottire i materassi. La resina prodotta dalle conifere veniva usata per fabbricare torce, pece e colla. Dalle cortecce si ricavavano tegole, coperture per capanne e per imbarcazioni, e canestri. Anche gli incendi avevano un propria utilità: la cenere rappresentava un buon fertilizzante, in un periodo in cui la possibilità di concimazione era assai ridotta, o poteva essere adoperata per il bucato. La caccia forniva carne, pellicce, cuoio, corna per fabbricare manici e altri utensili. La risorsa principale era rappresentata dal legno: legna e carbone rappresentavano il combustibile utilizzato per riscaldarsi e cuocere il cibo, il legno era la materia prima per attrezzi ed armi, dato che il ferro – troppo costoso – veniva utilizzato solo per le parti esposte, e per le macchine da guerra; infine come materiale da costruzione, il più economico in circolazione; anche gli alberi giovani potevano essere piegati e legati per ottenere la forma desiderata per manici di falci o elementi da costruzione. Vi erano alberi il cui legname era prevalentemente utilizzato per specifici impieghi. La corteccia del sughero veniva adoperata per fabbricare calzature, tappi, guarnizioni, scatole; per i cerchi dei tini e delle botti erano particolarmente indicati il frassino, il nocciolo o la betulla, mentre il sambuco veniva impiegato per costruire archi e frecce; il corniolo, molto duro, veniva preferito nella fabbricazione delle macchine molitrici, e l’altrettanto duro legno del bosso serviva per fabbricare pettini e manici. Dai pini e dalle altre conifere si ricavava la resina, utilizzata per preparare vernici, mastici colle e coloranti4. L’uomo del Medioevo conosceva molto bene le possibilità di utilizzo di ogni specie di albero e ha contribuito all’evoluzione di alcune di esse, come il castagno. Il bolognese Pier dÈ Crescenzi, autore nel trecento della più importante opera agronomica del Medioevo, il Liber ruralium commodorum5, dimostra di sapere molto bene caratteristiche, pregi, difetti, possibilità di impiego del bosco: fa una netta distinzione tra le piante dei luoghi elevati quali erano il faggio, l’abete, l’acero, il pino e la betulla. Si sofferma sulle qualità del castagno e della quercia, che ritiene preziosi sia per i loro frutti che per il legname. Fa un quadro su tutte le cosiddette piante ghiandifere: faggio, elice, cerri, soveri, e quant’altro, sottolineando in particolare come nei boschi, con le ghiande, si ingrassavano maiali o come la corteccia dei sugheri veniva adoperata dai calzolai per fare le scarpe6. Le foreste erano dunque patrimonio della comunità, il cui utilizzo era regolato dalle consuetudini

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e gli accordi tra signori e coloni variavano da zona a zona a seconda del clima, delle specie di alberi, il tutto allo scopo di impedire che vi fosse uno sfruttamento troppo indiscriminato. In generale, dall’analisi delle consuetudini messe per iscritto emerge che la prima cosa rivendicata da uomini, vassalli e coloni era la legna da utilizzare come combustibile. Altrettanto importante era il diritto di utilizzare l’incolto per il pascolo degli animali: spesso i documenti regolamentavano le specie ed enumeravano gli animali il cui ingresso era consentito, i periodi dell’utilizzo per ogni specie e il tipo di foglie o frutti prelevabili come foraggio. Il pascolo aveva anche una funzione importante per il bosco e l’incolto, con vantaggi per i proprietari, poiché impediva una crescita troppo invadente del sottobosco, apriva sentieri per la comunicazione o il passaggio dei cacciatori, creava degli spazi tagliafuoco. Da tutto ciò si deduce che il bosco - e l’incolto in genere - erano luoghi di “inclusione” per le comunità locali che li utilizzavano e vivevano in simbiosi con essi, ma al tempo stesso luoghi di “esclusione”, in particolare le selve e le foreste più disagevoli, per alcune categorie di persone che desideravano fuggire dalla umana convivenza, come monaci, eremiti, ma anche fuorilegge7. Definire la foresta luogo dell’asocialità è dunque un luogo comune, in particolare per l’alto medioevo, quando il bosco pulsava di vita grazie alla presenza delle numerose attività che vi si svolgevano. L’asocialità, l’esclusione dal bosco diventano invece più comuni nel basso medioevo, ma non dovunque nella stessa misura. La ripresa demografica, seppure non dovunque incisiva, e le basse rese agricole comportarono un maggiore bisogno di terra da mettere a coltura e quindi la graduale erosione dell’incolto e l’abbattimento di alberi, ad iniziare dalle aree limitrofe ai coltivi. Anche laddove la messa a coltura fu piuttosto contenuta, l’azione dell’uomo contribuì all’indebolimento del manto forestale che, pur restando una risorsa ancora solida, mostrò i primi segni di trasformazione con il diradamento, la coltivazione, la modifica del proprio assetto ed ecosistema. Questa situazione di precarietà fu acuita da cause naturali, come i periodi di piogge intense e alluvioni, e dall’uso e dal consumo indiscriminato del legno. Gli incendi, una piaga frequente nel Medioevo, distrussero intere città, costruite quasi esclusivamente in legno; lo stesso discorso vale per i castelli, che prima dell’XI secolo erano in legno, e di legno erano le macchine da guerra, distrutte durante le battaglie. Di legno erano le navi e frequenti erano i naufragi: tutto ciò aumentava considerevolmente la domanda di materia prima. In più c’era un buon numero di attività artigianali in cui era richiesto l’uso del legno, come la fabbricazione del vetro e la lavorazione del ferro, e il commercio a breve raggio faceva largo uso del trasporto della merce su semplici imbarcazioni di legno che, una volta usate, spesso venivano vendute come legna da ardere. Nemmeno il sottobosco fu risparmiato, in particolare dalle devastazioni delle voracissime capre. Tutte queste azioni e fenomeni concomitanti posero in taluni casi le basi del dissesto idrogeologico. Riducendo le aree boschive, l’uomo inoltre perdeva quelle risorse e quelle possibilità che la foresta gli aveva fino a quel momento offerto, e il legno diventava un materiale sempre più raro, e così anche la selvaggina. Già a partire dal basso medioevo si intravedono le prime preoccupazioni di difendere fisicamente i boschi da interventi e usi indiscriminati. I diritti d’uso che le comunità rurali avevano a lungo esercitato sui boschi demaniali e anche su quelli di proprietà privata vennero progressivamente meno, oppure furono regolamentati in maniera più rigida. Sempre più spesso i boschi divennero proprietà privata di signorie laiche o ecclesiastiche, o furono riservati all’uso di pochi, del re e dei suoi fedeli, là dove si affermò un potere monarchico forte, come nel regno normanno-svevo di Sicilia8. L’economia locale ebbe gravi danni da questi provvedimenti, dato che le comunità locali si vedevano private di usi e diritti di cui fino a quel momento avevano goduto, delle preziose risorse del bosco, per loro un’importante fonte di sussistenza9.

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Il patrimonio boschivo e il suo utilizzo nel territorio dell’attuale provincia di Cosenza Nei secoli del Medioevo il manto boschivo e l’incolto hanno avuto un ruolo fondamentale anche per la Calabria, una regione ancora oggi interessante dal punto di vista della realtà forestale. «I frequenti richiami a spazi boschivi nei testi medievali» sembrano provare non soltanto il perdurare di un rapporto di dipendenza e di necessità che legava gli uomini al bosco, ma anche una sua ancora larga presenza in una regione varia dal punto di vista paesaggistico, non soltanto contrassegnata dalla montagna, e poco densamente popolata anche alla fine del Medioevo10. Il patrimonio arboreo del Mezzogiorno si presentava raramente come grandi selve inaccessibili e improduttive; nella maggior parte dei casi i boschi erano prossimi ai centri abitati, le cui comunità vi esercitavano diritti e usi consuetudinari, vi facevano legna, vi pascolavano animali, vi raccoglievano frutti spontanei. I numerosi richiami nelle fonti medievali relative all’area in oggetto giunte sino a noi, in particolare documentarie, consentono di esaminare la terminologia utilizzata per designare le terre boscose. Ne emergono dati che attengono all’aspetto paesaggistico dell’area in esame, al rapporto tra l’uomo e l’ambiente naturale non coltivato del suo contesto di riferimento. Negli atti di donazione, nelle concessioni e principalmente negli inventari di beni (platee) pervenuti, risaltano il termine silva (o l’aggettivo silvosus), il più raro nemus (molto più diffuso l’aggettivo nemorosus), espressioni come terra cum arboribus, ad indicare aree coperte da un manto arboreo, e le puntuali segnalazioni di terre inculte, ma il loro uso differenziato richiama l’esistenza e la percezione del bosco come realtà molteplice e l’esistenza di diversi livelli di familiarità e di utilizzazione del patrimonio boschivo e dell’incolto in genere11. Il termine silva sembrerebbe essere più generico rispetto a nemus, boscus, foresta, ad indicare spazi di incolto, non necessariamente alberato. C’era, per esempio, una viam silve in contrada Racanelli dell’allora territorio di Cassano12. In base alle attestazioni documentarie, il termine foresta sembrerebbe connesso ad una realtà boschiva difesa e protetta dal potere pubblico, regio o signorile, non aperta a tutti, e in quanto tale anche oggetto di concessioni13. Il termine foresta, inoltre, sembra non indicare esclusivamente macchia arborea, ma anche canneto, destinato per esempio alla caccia. Il territorio del casale di San Lorenzo, allora appartenente alla sede vescovile di Cassano, si trovava in montagna, «cum aquis, herbis, nemoribus, forestis»14, dove i due termini sono dunque distinti, ad indicare realtà naturali differenti. Nel Mezzogiorno il termine foresta fu introdotto dai normanni, dall’XI secolo, e vi conservò a lungo significati affini all’originaria accezione franca di riserva reale di caccia. Il valore istituzionale, giuridico di foresta emerge da documenti datati tra il 1181 e il 1199 che menzionano le foreste del Moccone, in Sila, un’area ben delimitata della quale si conosce il reddito, controllata dal potere pubblico e gestita dal baiulo regio di Luzzi15. Sono poi note una località Foresta di Acri, si parla di furestam unam in località de Ursonis di Bisignano, di foreste a Regina, di una foresta a San Basile16. Foresta tuttavia non tarda ad entrare nell’uso comune per identificare genericamente una formazione boscosa, come sinonimo di nemus o addirittura di silva: per esempio nel 1199 si parla della divisione di una «furesta de quercubus»; nello stesso anno in una conferma pontificia dei possessi dell’abbazia di S. Maria della Sambucina di Luzzi compare la formula «cum terris ... et forestis» invece della consueta «cum terris et silvis»17. La terminologia presente nelle fonti riflette la trasformazione del bosco nel senso della silvicoltura, e la vocazione di determinate zone. A termini generici, che indicano insiemi di diverse specie arboree, il ceduo misto, si affiancano specifiche indicazione di boschi denominati in base alle essenze arboree in essi prevalenti: termini come cerretum, castanetum, quercetum, salicetum, fraxinetum, cannetum, suveretum, distinti dai nemora indifferenziati, lasciano traccia nei testi, sia nelle descrizioni che nella toponomastica, e si tratta per lo più di specie preziose per la loro utilizzazione. Abbiamo così una netta prevalenza di castaneta, riscontrati presso Acri, S. Benedetto, Rose, San Fili, Pietrafitta, Aprigliano, Altomonte18; e di querceti, situati a Regina, Torano, nei pressi di Cosenza, di Pietrafitta, di Canale, di Altomonte19. La vocazione arborea prevalente in determinate località per attrazione ha determinato il topo-

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nimo della località stessa: località Sovarette di Rose, S. Maria de Carpino a Regina e una chiesa di S. Nicola de Carpinita in località Carpinus ad Acri, il casale Quercito, la località Castanea di Bisignano20, Calosuber e Tassitanum località sedi di monasteri facenti parte del patrimonio florense in Sila, Frassanitum, località e poi casale21. L’identificazione della silva arborea attraverso le sue caratteristiche fitologiche, indica l’interesse per le capacità produttive del bosco: il toponimo Calosuber, che mantiene in latino la denominazione Bonum Lignum contiene una sottolineatura dell’uso produttivo del sughereto22. Tra le specie arboree più diffuse c’erano l’abete, l’onnipresente quercia, sia da sughero che da ghianda, contesa dalla presenza del castagno selvatico e domestico, che rappresenta una sorta di modello di bosco produttivo, il risultato di maggior rilievo del panorama boschivo dei secoli XI e XII. Si può ipotizzare, infatti, una crescente diffusione e domesticazione del castagno in età medievale anche per la Calabria, ampiamente attestata dalle fonti esaminate, sotto la spinta di esigenze alimentari (come fornitore di castagne), anche se non è possibile valutare quale fosse la sua importanza come fornitore di legname. I castagneti subirono tra alto e basso medioevo un’evoluzione positiva, rappresentarono una grande risorsa per la montagna, sia che si trattasse di cedui, di castagneti d’alto fusto o di castagneti da frutto, assunsero sempre più un ruolo di spicco come alimento rifugio. L’espansione dei boschi di castagno molto probabilmente fu dovuta al fatto che di questa coltura nulla andava perduto, nemmeno i frutti rimasti sul terreno o gli scarti bacati, che divenivano il pasto dei maiali23. Va dunque sfatata la teoria che l’estensione dei castagneti in Calabria nel medioevo non fosse estremamente importante. Il territorio a maggiore estensione è proprio quello dell’attuale provincia di Cosenza, con alcuni esemplari secolari, quasi certamente medievali, ancora visibili nel territorio di Marzi, in località Orsara (Fig. 1), ma ne sono attestati anche in Aspromonte e nelle Serre, con una netta presenza del castagneto da taglio su quello da frutto, ma dovunque il castagno ha perso l’importanza economica che ricopriva nel Medioevo. Nonostante ciò, nel Quattrocento rappresentava ancora una delle principali produzioni dell’agricoltura anche se, secondo alcuni documenti, è proprio in questo periodo che inizia un disboscamento selvaggio della pianta a favore del seminativo. Così come nelle altre regioni anche in Calabria la pianta del castagno costituiva una presenza familiare; molte istituzioni religiose avevano nei propri domini dei boschi di castagni, importanti per la sussistenza delle popolazioni calabresi. Nel secolo scorso Vincenzo Padula richiamava l’attenzione sull’importanza dei castagneti calabresi nella vita degli abitanti del luogo, così come anche a cavallo tra il settecento e l’ottocento il Galati elogiava l’ottima qualità dei castagneti calabresi24. L’utilizzo delle risorse del bosco Se le fonti sono piuttosto generose nell’offrire informazioni sulla presenza e le caratteristiche del manto boschivo dei territori in esame, non altrettanto lo sono nell’esplicitare l’ampio ventaglio di possibilità di sfruttamento del bosco e delle risorse lignee. Delle tante attività svolte da contadini, montanari, pastori nel bosco e dei molteplici usi che essi facevano del legname, poco risulta direttamente dalla documentazione e meno ancora delle tecniche di lavoro, salvo qualche notizia sull’impiego di accette, asce, mannaie, scuri, seghe25. Si proveranno a delineare i termini del molteplice rapporto fra uomo e incolto alberato, un rapporto che si articola in varie forme di utilizzazione delle risorse boschive più che nella loro distruzione. Utilizzazione della vasta gamma di prodotti che, a vari livelli di spontaneità, il bosco offre alle comunità umane in epoca preindustriale26. Nei primi secoli dell’alto medioevo continua ad essere documentato l’utilizzo del legname calabrese, della Sila in particolare, in loco e fuori. Come testimonia l’epistolario di papa Gregorio Magno, risulta chiaro come alla fine del VI sec. i boschi della Sila, facenti parte ancora del Patrimonium Sancti Petri nel Bruzio venissero incontro alle necessità del mercato di Roma. Il papa nel 599 sollecitò l’invio di travi per la riparazione delle chiese dei Santi Pietro e Paolo, trasportate via mare forse attraverso il porto di Vibo Valentia. L’importanza del legname calabrese sembra dimostrato nelle lettere dal fatto che Gregorio Magno coinvolse in questa attività più personaggi del mondo politico-amministrativo ed ecclesiastico, tutti di alto livello, come il suddiacono Savino, rector del

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patrimonio della Chiesa nei Bruttii, l’ex prefetto Gregorio, due vescovi, tra cui Venerio di Vibo Valentia, il magister militum Maurenzio e anche il duca Arechi di Benevento. A tutti Gregorio chiese di agevolare il suddiacono Savino nel compito che gli era stato assegnato, procurandogli uomini e buoi e non ostacolando il trasporto del legname fino al mare. A Savino chiese di farsi aiutare nel trasporto dai coloni di quei terreni che egli aveva dato in enfiteusi, con i loro buoi27. Questo sfruttamento e il commercio in direzione Roma continuarono almeno fino alla fine del secolo successivo, se in un passo del Liber Pontificalis relativo al pontificato di Sergio I (687-701) ritorna la notizia del legname da costruzione fatto pervenire a Roma dalla Sila, stavolta destinato alla basilica di San Paolo28. In primo luogo, il rapporto fra gli uomini ed il bosco implicava l’uso del territorio boscoso in sé, come complesso di suolo e di piante, e l’utilizzazione dei prodotti del bosco, primo fra tutti il legno, sia il legname degli alberi d’alto fusto, sia la legna secca e verde, per il fuoco e per la costruzione di attrezzi. In secondo luogo, vari erano i livelli di sfruttamento delle risorse del bosco, dall’uso della terra libera, alla raccolta di frutti spontanei, al pascolo di bestiame, alla caccia. Nella documentazione pervenuta, che ritrae per lo più patrimoni di enti ecclesiastici, si enumerano quasi sempre boschi e silve, con diritti su di essi, sulle acque, sui canneti, che rivelano una vastissima gamma di utilizzi, primo fra tutti il pascolo29. Boschi e foreste con diritti furono, per esempio, confermati all’abbazia cistercense di Corazzo nel 1225, oltre che un castagneto di Bucita, presso San Fili30. Le notizie di usi collettivi nel bosco da parte delle popolazioni o le concessioni a monasteri di boschi, o di diritti di sfruttamento mostrano per via indiretta l’importanza che il legname e gli alberi avevano nella vita degli abitanti. Tali diritti, in particolare quello di far legna, è al limite fra un uso non distruttivo ed un uso distruttivo del bosco; alle consuetudini si aggiungevano concessioni esplicite dei sovrani, tanto da rendere il taglio del bosco per gli usi quotidiani una delle maggiori minacce all’esistenza delle aree boschive. Nel XV secolo, ad esempio, gli uomini di Trebisacce, per concessione della Curia vescovile di Cassano, potevano tagliare alberi per la legna e prelevare frutti spontanei nelle defese della Curia31. Sono numerose le segnalazioni di uomini, vassalli, angararii dipendenti da signorie ecclesiastiche i cui servizi dovuti al proprietario ne includevano alcuni che si svolgevano nel bosco. Verso la metà del XIII secolo i contadini dei casali di S. Sofia, degli abitati un tempo situati nello stesso circondario di Musti e Appi, e del casale di S. Benedetto, angararii del vescovo di Bisignano, dovevano salire sui monti con i propri buoi o asini per caricare tronchi, tavole e altro legname, e costruire i pali per la vigna32. I vassalli dei monasteri florensi, sia nei territori della Sila, che in quelli prospicienti la costa tirrenica, avevano il diritto di approvvigionarsi di legname33. Nel XV secolo tra le prestazioni gratuite dovute dagli Albanesi del casale Frascineto al vescovo di Cassano era incluso il trasporto di legname per le necessità del mulino della Curia; i baiuli della stessa Curia erano tenuti a prestare personalmente opera per la riparazione dei mulini e delle macchine follatrici della Curia stessa, procurandosi legna e travi necessarie in montagna e trasportandole sulle proprie spalle34. Nella raccolta di prodotti spontanei bisogna includere il sughero e la resina dei pini, usata nelle attività cantieristiche. L’estrazione della resina fu praticata sia dai bizantini che dagli arabi, che producevano anche catrame; fu raccolta dai monaci, si pensi ai Florensi in Sila, utilizzata da Federico II, che rese inalienabili le rendite provenienti al regio demanio dalla pece che si estraeva dai boschi della regione, come ribadirono Roberto d’Angiò nel 1333 e Ferdinando I nel 144835. Forse il più importante utilizzo del legno era quello relativo al riscaldamento e alla cottura dei cibi, ed era la ligna sicca ad essere adatta per il fuoco, mentre la ligna virida per la costruzione di attrezzi; la legna per il fuoco era in gran parte legna morta, da fascina, da raccogliere e non da tagliare, ma in parte si trattava di legna da taglio, sia per uso diretto, sia per farne carbone: nei miracoli di San Francesco di Paola abbiamo, per esempio, un accenno alla tecnica della carbonaia36. Per quanto riguarda gli attrezzi si impiegava prevalentemente il legno per la costruzione degli aratri, talvolta la mancata menzione nelle fonti, in particolare negli inventari di beni di questi strumenti indica che c’era assenza di parti metalliche, poiché il legno, facilmente deteriorabile, non si registrava sempre negli inventari37. Il legno era il materiale più utilizzato nella fabbricazione di

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carri, aratri, erpici, rastrelli, botti, tini, ponti, armi da guerra come trabucchi, gatti, torri, balestre, archi, frecce38. I baiuli della Curia vescovile di Cassano, per la riparazione delle macchine follatrici, in caso di necessità di strumenti come cumba, sagitta, castella, fusa et omnia alia erano tenuti a fabbricarli procurandosi il legno adatto39. Oltre che per una gran quantità di attrezzi agricoli e suppellettili domestiche (botti, aratri, carri, plance, letti) gli usi agrari del legno comprendevano la palificazione per la vigna, per la quale al legno, specie di salice, si affianca la canna palustre, e la costruzione di palizzate per recintare campi e frutteti. Se per la costruzione delle abitazioni si poteva usare la legna del querceto e del castagneto, altro tipo di legname richiedeva la costruzione e la riparazione di edifici di maggiori dimensioni, i castelli e i grandi edifici di culto: la richiesta di lunghe travi di abeti e di cipresso o di olmo. Tutto il legname da costruzione era dunque un genere prezioso. Al di fuori dell’ambito agricolo il tipo di sfruttamento che certamente incise più profondamente sul bosco, e in specie quello d’alto fusto, fu la costruzione delle imbarcazioni. La corte dei re normanni fu grande consumatrice di legname, ma sembra che gli arsenali calabresi si servissero del legname dei boschi della Basilicata fluitati lungo il Bradano40. La raccolta delle resine dei boschi di conifere della Sila contribuiva pure alle costruzioni navali. La necessità dell’esercizio di un controllo sul bosco e sul legno derivava immediatamente dall’uso militare che di esso poteva essere fatto: già nella prima fase della conquista, ad esempio, il normanno Roberto il Guiscardo utilizzò le tecniche rapide di fortificazione che facevano perno sulle palizzate di legno, come nel caso del primo castello di San Marco Argentano, dove secondo il cronista Amato di Montecassino trovò un monte molto fornito di legname41. Notizie interessanti si riscontrano per l’età angioina, quando la corte si approvvigionava in Calabria della maggior parte del legname che le occorreva per i bisogni della flotta. In generale nel corso del Medioevo un po’ dovunque si misero in atto forme di tutela del bosco dallo sfruttamento indiscriminato: già l’editto del re longobardo Rotari, del 643, previde la protezione e la tutela di alcune specie arboree, come il castagno42; statuti iniziarono a regolamentare usi e tagli, distinzione tra silva cedua, destinata al taglio, e zone destinate al pascolo43. Forme di tutela furono messe in atto anche in Calabria, dove comunque la pressione demografica non fu tale da implicare un eccessivo ampliamento dello spazio coltivato, che pure ci fu, a partire dall’età normanno-sveva. La libertà di movimento, di utilizzo delle risorse del bosco da parte delle comunità riscontrò anche in Calabria delle limitazioni nel corso del Medioevo. Già con la conquista dei normanni, si è detto, si avvertono alcuni segnali in tal senso nel significato da attribuire al termine foresta e nella presenza di tale realtà nel contesto in oggetto. Ad essere difeso con recinti e palizzate non era solo l’incolto produttivo, il castagneto, ma l’incolto arboreo in genere, che si rivela dunque come terra di valore cospicuo. Un’indicazione di come una foresta costituisse una risorsa economica quantificabile e rilevante viene da un documento del 1181 relativo alla cessione in pegno della già citata foresta del Moccone alla chiesa di S. Maria della Sambucina, da parte del baiulo di Luzzi per un prestito di 1.600 tarì: la rendita della foresta veniva calcolata sui 300 tarì annui, mentre il suo valore totale giungeva a 2.300 tarì44. Le fonti documentano divieti nei confronti delle popolazioni, come nel XV secolo il divieto di tagliare gli alberi da frutto, e in particolare le querce, per i vassalli del vescovo di Cassano45. Federico II aveva nella regione molti territori ad uso esclusivo della corte, come i rilievi montuosi presso Altomonte, territori nei quali si poteva cacciare sia con il falcone che con i cani; anche al tempo di Carlo d’Angiò le riserve erano presenti in tutta la regione. Questo tipo di regime contribuì a tutelare l’integrità del manto boschivo del regnum, o tutt’al più la trasformazione in silva produttiva, anche in zone a maggiore concentrazione demica. In età normanna e sveva una certa disponibilità di foreste d’alto fusto in aree a bassa densità di popolazione fece sì che l’utilizzazione militare e la manutenzione della flotta regia non incidesse particolarmente sul complesso del paesaggio boschivo: l’ampiezza delle concessioni di diritti sul demanio e la privatizzazione delle aree boscose testimoniano abbondanza di risorse di legname. Le grandi foreste montane furono molto meno intaccate, perché spesso di difficile accesso per trasporti che richiedevano o favorevoli condizioni idrologiche per la fluitazione o imponenti sforzi collettivi.

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Difese regie, montagne impenetrabili e bassa densità di popolazione non furono a quanto pare determinanti per la Calabria, che in già in età angioina, intorno al XIV secolo, appare purtroppo molto sfruttata per quanto riguarda l’utilizzo e l’esportazione di legname, eccetto che per il territorio della Sila46.

1 Il bosco nel Medioevo, a cura di B. Andreolli e M. Montanari, Bologna 1988. 2 Berthet B., De la forêt inutile à la forêt précieuse, in «Annales E.S.C.», 1951, p. 351. 3 Montanari M., Colture, lavori, tecniche, rendimenti, in Storia dell’agricoltura italiana. Il Medioevo e l’Età moderna, Firenze 2003, pp. 59-81. 4 Andreolli B., L’uso del bosco e degli incolti, in Storia dell’agricoltura..., cit., p. 134. 5 Pier dÈ Crescenzi, Trattato della agricoltura già traslato dalla favella fiorentina e di nuovo rivisto e riscontro con testi a penna dell’inferigno della Crusca, Firenze 1605 (ci sono molte edizioni del Liber ruralium commodorum). 6 L’uomo e la foresta. Secc. XIII-XVIII, a cura di S. Cavaciocchi, Atti del della XXVIII settimana di studi dell’Istituto internazionale di Storia Economica «F. Datini» (Prato, 8-13 maggio 1995), Firenze 1996, p. 358. 7 Cherubini G., Agricoltura e società nel medioevo, Firenze 1972, cap. II, par. I. 8 Montanari M., Colture, cit., p. 76. 9 Bechmann R., Trees and man: the forest in the Middle Ages, New York 1990; Andreolli B., L’uso del bosco, cit., pp. 123-144. 10 Rugolo C.M., Paesaggio boschivo e insediamenti umani nella Calabria medievale, in Il bosco, cit., pp. 321-348. 11 Plaisance G., Les appellatifs de forêts et lieux boisées, in «Bulletin Philologique et Historique du Comité des Travaux», 1959, pp. 39-55. 12 Il riferimento è tratto dalla Platea cinquecentesca dei beni appartenenti alla sede vescovile di Cassano, edita in Vaccaro A., La Platea di Cassano, Assisi 2013 (qui p. 106). Gli inventari di beni, quasi sempre esemplati su codici o comunque su documentazione originale precedente, servivano alla grande proprietà per attestare in forma pubblica e reiterare nel tempo la legittimità dei possessi, la loro localizzazione ed estensione, le forme di gestione e concessione. 13 Von Falkenhausen V., La foresta nella Sicilia normanna, in La cultura materiale in Sicilia, Palermo 1980, pp. 73-82. 14 Vaccaro A., La Platea di Cassano, cit., p. 72. 15 Cfr. Pratesi A., Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Città del Vaticano 1958, docc. 32, 49, 54 (anni 1181, 1196, 1199). 16 De Leo P., Un feudo vescovile nel Mezzogiorno svevo. La platea di Ruffino vescovo di Bisignano, Roma 1984, pp. 25, 131, 206; Vaccaro A., La Platea di Cassano, cit., p. 157. 17 Pratesi A., Carte latine, cit. docc, 55, 60. 18 De Leo P., Un feudo vescovile, cit., pp. 134, 176-177, 206; Salerno M., Istituzioni religiose in Calabria in età medievale. Note di storia economica e sociale,

Soveria Mannelli 2006, pp. 144, 148, 152; Dalena P., Società, economia e istituzioni ad Altomonte tra Medioevo ed età moderna, Galatina 1990, pp. 53-54. 19 De Leo P., Un feudo vescovile, cit., pp. 206, 208; Delaborde H.F., Chartes de Terre Sainte provenant de l’abbaye de Nôtre Dame de Josaphat, Paris 1880, doc. 36 ; Salerno M., Istituzioni religiose, cit., p. 144, 152; Dalena P., Società, economia, cit., p. 54. 20 De Leo P., Un feudo vescovile, cit., pp. 66, 124, 134,135, 206, 207. 21 Riferimenti in Salerno M., Istituzioni religiose, cit., pp. 76, 133. 22 Ivi, p.133. 23 Cortonesi A., Il castagno nell’Italia medievale, in «Rivista di storia dell’agricoltura», XLIII, 2003, 1, pp. 25-29. 24 Cherubini G., L’Italia rurale del basso Medioevo, Roma-Bari 1985, p. 155. 25 Cfr. per esempio, Le “Liber Visitationis” d’Athanase Chalkéopulos (1457-1458), Contribution à l’histoire du monachisme grec en Italie méridionale, par M.H. Laurent et A. Guillou, Città del Vaticano 1980, Index des termes techniques. 26 Fumagalli V., Economia silvo-pastorale e colonizzazione agricola, in Id., Coloni e signori nell’Italia settentrionale. Secoli VI-XI, Bologna 1978 e Montanari M., Campagne medievali. Strutture produttive, rapporti di lavoro, sistemi alimentari, Torino 1984. 27 Gregorius Magnus, Epistole, ed. D. Norberg [Corpus Christianorum Series Latina, 140 A], 1982, IX, 125-127, e in generale su alcuni dati archeologici coevi cfr. Vivacqua P., La produzione della pece nel Bruttium: nuovi dati alla luce della ceramica da fuoco, in Università di Siena, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, voll. 23-25, 2002, pp. 1-25. 28 MGH, Gestorum pontificum romanorum vol I, Liber Pontificalis, pars prior, ed. Th. Mommsen, Berolini 1898, cap. LXXXVI. 29 Sui diritti di pascolo cfr. per esempio Salerno M., Istituzioni religiose, cit., p. 142, 30 Riferimenti ivi, p.144. 31 Vaccaro A., La Platea di Cassano, cit., p.194. 32 De Leo P., Un feudo vescovile, cit., pp. 138, 151, 165, 196. 33 Salerno M., Istituzioni religiose, cit., p, 153. 34 Vaccaro A., La Platea di Cassano, cit., pp.

39 Vaccaro A., La Platea di Cassano, cit., p. 131. 40 Edrisi, in Biblioteca Arabo Sicula, I, p. 127. 41 Storia dÈ Normanni di Amato di Montecassino volgarizzata in antico francese, ed. V. De Bartholomaeis (FSI, 76), Roma 1935, p. 121. Sulle fortificazioni normanne cfr. Martin J.M, Centri fortificati, potere feudale e organizzazione dello spazio, in Storia della Calabria medievale. I quadri generali, a cura di A. Placanica, Roma 2001, pp. 485-522. 42 Cfr. Fourquin G., Storia economica dell’Occidente medievale, tr. it. Bologna 1987, p. 26. 43 Petronio U., La proprietà del bosco e delle sue utilità, in L’uomo e la foresta, cit., p. 426; Cortonesi A., Il castagno nell’Italia medievale, cit., pp. 25-29. 44 Pratesi A., Carte latine, cit., doc. 32. 45 Vaccaro A., La Platea di Cassano, cit., p. 43. 46 Yver G., Le commerce et les marchands dans l’Italie méridionale aux XIII et XIV siècle, Paris 1903, pp. 99-100 ; Rugolo C.M., Paesaggio boschivo, cit., p. 336.

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35 Salerno M., Istituzioni religiose, cit., p. 162; Rugolo C.M., Paesaggio boschivo, cit., p. 329. 36 Roberti G., S. Francesco di Paola fondatore dell’ordine dei minimi (1416-1507). Storia della sua vita, 2a ed., Roma 1963, p. 147. 37 Montanari M., Colture, cit., p. 68. 38 Andreolli, B., L’uso del bosco..., cit., p. 134.

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L’arte della resinazione in Sila La pece bruzia: un dono di Dio Francesco Cosco

Un dono di Dio, la pece in Sila, la resina del pino laricio, estratta in grandi quantità e famosa nell’antichità come “pece bruzia”, ricercata, commerciata in tutto il Mediterraneo si che a ragione ivi si parla di “Via della pece”. Fu detta “bruzia” dall’antico popolo calabro, i Brettii, che seppero ben estrarla dall’albero caratteristico dell’altopiano silano, il “Pino Laricio” e per essi costituì una vera grande ricchezza. Sembra addirittura che il nome Brettii derivi dal nome originario della pece. Diffusissima e varia la sua utilizzazione, gli Egizii la usavano per imbalsamare i defunti, Etruschi e Latini vi aggiustavano il vino, le navi non potevano intraprendere la via del mare se il loro fasciame non fosse tenuto insieme dalla pece tanto che nel XVIII sec. un bastimento di mille e cento tonnellate aveva bisogno di 100 cantari di pece per essere varato (un cantaro equivaleva a circa 90 kg). Ma la pece serviva anche in medicina, per l’illuminazione notturna, per rendere impermeabili i contenitori di liquidi, per molti usi nell’artigianato, per impermeabilizzare tessuti, nella cosmesi, nella pitturazione dei soffitti. Tramite la distillazione si otteneva poi l’acqua ragia, più recentemente usata per elaborare colori, vernici ed utilizzata nell’industria farmaceutica. Ma, come già detto, era la “pece bruzia” la più ricercata tanto che presso gli antichi romani il prodotto calabrese era attestato con bolli su anfore. Se ne produceva, secondo alcune fonti, a fine medioevo, oltre 10.000 cantari all’anno, ma la cifra non teneva conto delle migliaia dei piccoli produttori. Nel 1600 i paesi di Campana e Bocchigliero avevano una economia basata su pece e manna! Le commesse allora pervenivano in gran copia anche dalla Liguria dove nel ‘600 e ‘700 erano i più grandi cantieri navali. Una vera ricchezza la pece bruzia che contribuì ad alimentare intorno all’altopiano della Sila la nascita delle grandi abbazie medievali dei Benedettini, dei Cistercensi e dei Florensi. Una risorsa immane dunque si che le istituzioni in tutti i tempi imposero sul suo commercio imposte e balzelli. I romani praticarono il sistema dell’appalto, Federico II richiese la quintaria, gli Aragonesi imposero le loro tasse, la Regia Corte borbonica esigeva lo jus picis, ma anche il regno d’Italia, appena istituito, impose tasse sulla pece. Le più grandi distillerie di pece nella Calabria del ‘600 furono operanti a Policastro (Petilia), a S. Severina e presso i Casali di Cosenza, ultima, operante addirittura fino agli anni ’60 del secolo scorso e gestita dall’Azienda Forestale dello Stato, sorse presso il complesso del Cupone, oggi centro d’elezione di visitatori gestito dal Parco Nazionale della Sila. Nel suo museo sono conservati numerosi elementi ed utensili che ricordano l’estrazione della pece. Le testimonianze storiche Due tipi di testimonianze emergono per affermare il fiorire dell’attività della produzione di pece in Sila: il documento storico e la toponomastica. Il documento storico. Numerose citazioni in documenti ufficiali e in croniche storiche del passato parlano della preziosa resina organica prodotta in Sila: Cicerone nel “Bruto” parla di uomini e servi che dai censori P. Cornelio e L. Mummio avevano avuto, nella Sila, l’appalto dell’estrazione della pece. Plinio parla della pece bruzia e ricostruisce la struttura dei forni di pece nera. Dionigi di Alicarnasso in “Antichità di Roma” parlando della Sila precisa che La maggior parte di quegli alberi trasuda una resina molto pingue, e fra quelle note ai mercati, la più odorosa e gradevole, chiamata pece bruzia, da cui i romani traggono annualmente notevoli rendite.

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Strabone in “Geografia” ammette che “I Bretti abitano l’entroterra di questo territorio. Vi si trovano la città di Mamertium e quella foresta che chiamano Sila produce la pece migliore che si conosca, detta pece brettia”. Moderato Columella (I sec. d.C.) ...e non c’è dubbio che, se alla quantità totale di pece che si fa bollire, si mescolo un quinto di pece del Bruzio, questa precauzione sia utilissima a tutta la vendemmia. Plinio nella “Naturalis Istoria” ammette che In Italia le pece bruzia moltissimo si apprezza nella impermeabilizzazione di vasi da vino. Importante poi la testimonianza di Renato Vegezio nel suo trattato intorno alle bestie da soma e veterinaria. (IV-V sec d.C.): Agita e fai cuocere una libra di pece bruzia, aggiungendo la polvere di tutto il resto, di modo che si forma un’unica e sola mistura che userai contro le bolle e le pustole che nascono nelle ginocchia, negli stinchi, nelle articolazioni, nelle giunture; si crede che curi anche le ghiandole e il callo, Eccezionale la testimonianza di Scribonio Largo nell’uso medicamentoso della pece in antichità: (“Della pece bruzia”) Questo condensato è piuttosto asciutto e specialmente puro, denso, dal profumo aspro: riscalda, ammorbidisce, fa uscire il pus, dissolve e cicatrizza le piaghe. Ed ancora in medicina per Pietro Ruello: Nella nomenclatura della Veterinaria, (la pece bruzia) è un fluido benefico più denso che defluisce dal legno avvolto dal fuoco e questa (pece) versata poi in caldaie di bronzo si condensa e si coagula. Altra testimonianza: XVI e XVII sec., Campana; la pece rappresentava una delle attività più importanti. Il suo commercio, proprio per le dimensioni economiche, era regolamentata da una “Regia Generale Capitolazione” che imponeva una sopratassa in caso di esportazione, e l’autorizzazione del Preside della Provincia. In un registro dei “relevi” del ‘600 della famiglia Caracciolo, una delle ultime appartenenti al tardo feudalesimo spagnolo, così é riportato: Fra i corpi di Policastro è denunziato in detto relevio un forno di pece nera ed un caccavo (recipiente pastorale) di pece bianca prodotte in montagna e precisamente in contrada Macinello. E sempre nel testo suddetto, citando il Barrio, si testimonia della presenza di forni di pece e dello jus picis nel ‘600 quando Policastro era terra del Granduca di Toscana Nella descrizione di Giuseppe Zurlo (giudice) in “Dello stato della Regia Sila” si riscontra che La Regia Corte, per la proprietà che vanta su l’aIberatura di tutto il Regno, vi ha lo jus picis per diritto d’incisione, quindi la pece bianca (raffinata), vale carlini dieci a cantajo (kg 89 circa), la pece nera (grezza) carlini cinque a cantajo. Ed ancora: “Il secondo Corpo delle rendite della Regia Sila nasce dal jus Picis, dal quale se ne ritraggono somme non indifferenti. In un altro documento, da Internet, viene riportato nel capitolo Vita economica del Monastero nel Settecento (Calabromaria): Così ai monaci rimasero sulle difese di Tassito, Caprara, Caprarella e Trepidò Sottano solo il ius picis ed il ius granetterie. Giuseppe Maria Alfano Nella Istorica Descrizione del Regno di Napoli, dice di S. Giovanni in Fiore: produce grani, granidindia, legumi, frutti, vini, olj, castagne, erbaggi, pece, olio di pino, e legni per costruzione dei bastimenti. La toponomastica. Numerosi i toponimi sul territorio calabro che ricordano la pece, se ne riferiscono alcuni: esiste un fiume alle sorgenti del Tacina nomato Pisarello; il toponimo non è riportato dal Rohlfs né dall’Alessio. È presente però su un diploma imperiale del 1224 e in una carta geografica della Sila di Cosenza del 1663. L’etimo più confacente é il greco-bizantino pissères = piceo, resinoso. Ma un altro fiume nei pressi denunzia l’attività estrattiva della pece: “U’ Piciaru”. Sulla stessa carta del 1663 compaiono altri due toponimi che richiamano alla produzione della pece questa volta nella Sila Grande: Pecatello Soprano e Pecatello Sottano. La pece ed i suoi derivati nei nostri dialetti La lingua è la testimonianza più veritiera della nostra storia, infatti basta dare uno sguardo al linguaggio dialettale, all’idioma storico calabro, e ci si rende conto dell’importanza della pece. Col radicale “pic” emerge, infatti, in tantissime voci:

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‘mpiciata = copertina idrorepellente tramite uno strato di pece, picata = impiastro medicamentoso ottenuto con la pece, picatìari = imbroglione o che combina azioni da cui non si sa facilmente districare, appicciare = propagare il fuoco tramite la pece, ‘mpicciu = situazione scabrosa in cui ci si avviluppa come nella pece, ‘mpicciùsu = attaccaticcio, pìcula = gocce di resina prodotte per surriscaldamento, picciu = attaccarsi morbosamente come la pece ad un pensiero o desiderio, ‘mpicciàre = attaccarsi come la pece ad una questione fuori dai propri interessi. Ma é presente anche in termini italiani: appiccicare = legare insieme, appiccicaticcio = che tende facilmente ad attaccarsi, impicciarsi = legarsi in situazioni che non competono impiccione, spicciare = finire (districarsi dalla pece), spicciolo = moneta staccata dall’intero, “spiccicare le parole” = districare voci dalla balbuzie. Nomenclatura dei lavoratori di pece Stiddràri: coloro che preparavano i forni di pece tramite tronchetti detti stelle Piciàri: operai che accudivano sia i forni, anche erano incisori del fusto dei pini Arrendatori di pece: funzionari che provvedevano ad interessarsi degli appalti sulla estrazione della pece Partitari di pece: funzionari che rilevavano produzione e contabilità riguardante la produzione di pece

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L’arte della estrazione della pece Due le tipologie estrattive della pece dal pino laricio, per due distinte qualità di pece: 1 L’estrazione della pece tramite il calore da rami tagliati degli alberi del pino laricio. Si allestiva quindi un vero e proprio forno di pece nera, una “carcara ‘e pice”, nell’idioma storico, perché assai somigliante alle calcarie per cuocere la pietra calcarea o la terracotta. Nel vano superiore si sistemavano i rami tagliati del pino laricio, posti in verticale, sotto il fuoco. Lungo le scanalatire della sezione centrale, in materiale refrattario, la linfa del pino scorreva e veniva raccolta lateralmente. Era pece nera, meno buona, ma pure utilissima. 2 La più nobile arte per l’estrazione della pece e la più diffusa era la resinazione, cioè l’incisione della corteccia dell’albero a lisca di pesce col vertice in giù, con fenditure che intaccavano la parte più superficiale dell’albero (Figg. 1-2-3).. Da li colava la linfa dell’albero che andava a finire in piccoli contenitori di terracotta e li si rapprendeva. Pece nera dal forno a) Da Plinio si riportano le varie fasi della estrazione della pece per cottura. Il legno, fatto a pezzi, si metteva a scaldare in fornaci circondate dal fuoco: la prima pece è molto liquida e vien fuori da un canalino. Ha proprietà particolari tanto che in Egitto ne cospargono le salme per imbalsamarle. La seconda pece è più densa e fornisce la classica pece che veniva a sua volta ancor più addensata per cottura in caldaie di bronzo; vi si versava anche l’aceto per favorirne maggiore coagulazione. Veniva usata soprattutto per rendere impermeabili botti, barili, anfore; è di colore rossiccio. Tale pece, apprendiamo da Plinio, viene ridotta talvolta in polvere ed aggiunta al vino per conferirgli un colore più marcato. Se si riporta pian piano ad ebollizione e si setaccia togliendo impurità varie si ammorbidisce e viene detta resina in gocce. b) Altra testimonianza perviene da uno studioso settecentesco (1773), Nicola Venusi, nominato commissario per la Regia Sila ed uditore a Cosenza e Catanzaro: ecco la sua descrizione di come si fabbrica un forno di pece nera: Pece nera: si fabbrica un forno a figura di cono troncato. Si riempie con pezzi di legno di Pino tagliato a strisce lunghe, larghette, e poco grosse, dette da loro Stelle. Situandosi con ordine, verticalmente il legno da pece scarso di alburno, e resinoso, che essi chiamano Vutullo. Si ci dà il fuoco dalla cima; il catrame cola al basso del forno, Il suolo di questo ha una data inclinazione, al favor della quale esso scorre per un condotto, e da questo passa a’ barili. Pece bianca da resinazione La gran parte della pece veniva comunque prodotta per estrazione diretta dalla corteccia del pino laricio. Vi si praticava un quadro di incisioni a lisca di pesce, profonde alcuni centimetri e lunghe e larghe per quanto la circonferenza del busto lo consentiva. Se la incisione era smisurata o ripetuta più volte sullo stesso tronco, la produzione era molto più abbondante ma l’albero era destinato a perire dopo alcuni anni, la si chiamava, “a morte!” Ed ecco alcune testimonianze: a) Campana, sec. XVI e XVII la produzione della pece è una delle attività più praticate. La sua estrazione aveva una procedura minuziosa.

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Nel mese di marzo si praticava l’intacco sul lato del tronco (esposto a Sud) togliendo la corteccia. Ogni settimana la tacca veniva rinfrescata allungandola verso l’alto. In primavera, con lo scaldarsi della temperatura, la resina cominciava a scolare fino a tutto settembre. b) Le testimonianze più fresche sono riportate invece da schede di un progetto recente di cui se ne commentano alcuni stralci significativi: anche in tale occasione è ribadito che l’economia prevalente delle popolazioni dei casali di Cosenza era rappresentato dall’estrazione della pece. Gli addetti erano chiamati “stellatori” da “stelle”, stecche di legno resinoso (tagliate per essere immesse nel forno). L’attività veniva ripresa ogni anno in ottobre. Era prescelta l’area e prescelto anche il pino per la sua robustezza ed il verde della chioma, che indicavano una notevole circolazione di linfa, quindi veniva scavato nel tronco (slupatura), certo nella parte rivolta a mezzogiorno. Ma la linfa cominciava a venir fuori in primavera: dapprima era la trementina, riporta la nota, liquida ma destinata a prendere consistenza con l’aria. Ogni 10 giorni e per tutta l’estate, gli “stellatori” si recavano alla pianta per la raccolta della resina. La quantità di trementina raccolta era sottoposta al riscaldamento nelle caldaie e alla distillazione; il risultato della distillazione era l’acqua ragia. Quel che rimaneva dall’estrazione dell’acqua raggia era resina, piuttosto solida detta pece bianca buona per far sapone, ma sempre doppia di valore rispetto alla pece nera. Dai pini si poteva ricavare anche l’olio di pino, utilizzato per scopi farmaceutici. Pece bruzia: una risorsa dalla preistoria e fino agli anni ’60 del XX secolo. Il pino laricio, “Varietas Calabrica”, è diffusissimo in tutto l’altopiano della Sila, vere foreste ne coprono i crinali, soprattutto quelli rivolti a sud, quelli a nord, dopo i 1300 metri sono coperti dal faggio, dall’acero e dall’abete. Tale pece è quella che più si confà alla titolazione di “Pece Bruzia”; il termine deriva da Brutium antico nome della Calabria poi così nomata dai Bizantini (8oo d.C. circa) per consolarsi della perdita della Puglia, l’antica Calabria, conquistata dai Longobardi. I forni di pece nera rispondevano alla descrizione che ne ha fatto Plinio: contenevano tronchi e rami su una base di pietra con le dovute scanalature. Al di sotto vi si appiccava il fuoco ed il surriscaldamento provocava dai rami la fuoriuscita della resina che opportunamente incanalata riempiva caldaie. La produzione di pece in Sila fu così vasta e diffusa, in tutte le epoche, dalla preistoria e fino a mezzo secolo fa, che ancora si notano migliaia e migliaia di alberi con i segni della resinazione. Ma ancora si notano i resti delle “carcare ‘e pice”, i forni di pece nera, talvolta così piccoli che dovevano essere a conduzione unifamiliare. La produzione fu così attiva e generalizzata che impiegava numerosi addetti. Costituiva una rendita sicura per i proprietari terrieri ed abbazie monastiche, per un ius picis codificato da norme di legge. Gli stellatori erano una miriade, per una miriade di piccole aziende che lavoravano alacremente. Ma l’indotto a valle era ancora più florido perché impegnava tutti gli operai che gestivano le distillerie di pece.

1 Da “La via della Pece” di Francesco Cosco n. 3 della collana del Parco Nazionale della Sila 2 A cura dell’amministrazione Provinciale di Cosenza - la Sila storia-natura-cultura --Edizioni Prometeo – Assunto da internet 2007 3 Autori vari – Il parco Nazionale della Sila , natura, storia, cultura – Ed. Prometeo – Castrovillari 2008 4 Autori vari – Il parco Nazionale della Sila , natura, storia, cultura ...opera già citata 5 Damiano – Soria di Campana: La famiglia Spinelli - 2009 – Si riporta il testo per riassunto - www.campanesionline.com/campana-cs/storiadi-campana/famiglia-spinelli.html 6 Sisca Domenico – Petilia Policastro – Magraf – Catanzaro 1996. 9 www.arealocale.it – Vita economica del monastero nel ‘700 – a cura di Andrea Pesavento: si riporta una stralcio di documento tratto da un archivio

catanzarese sui possedimenti del Monastero di Calabro Maria di Altilia. 7 Giuseppe Zurlo: “Dello Stato della Regia Sila” (1790) estratto dal testo: “A cura dell’amministrazione Provinciale di Cosenza - la Sila storianatura-cultura --Edizioni Prometeo – Assunto da internet 2007” 8 Andrea Pesavento - Vita economica del Monastero (Calabromaria) nel Settecento - La Provincia KR per internet 10.06.08 9 Giuseppe Maria Alfano - Istorica Descrizione del Regno di Napoli – 1798 – Per Internet 2009 10 Alessandro Pratesi – Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall’archivio Aldobrandini – Biblioteca Apostolica Vaticana – Città del Vaticano 1958. Diploma imperiale di Federico II di Svevia 11 Archivio di stato Maggiore – Cosenza – Galluccio Tavolario - Carta della Sila del 1685

rielaborata successivamente con indicazione delle delimitazioni relative alla Regia Sila. 12 Tale tipo di lavorazione, come vedremo in autori più recenti, è analoga alla lavorazione che avveniva sia durante il medioevo che nell’età moderna; ma anche in tempi recenti, secondo il ricordo dei nostri nonni. 13 P. De Leo - I Manoscritti di Nicola Venusio e la ricostruzione del Cartulario Florense, “Florentia, 1996 14 Damiano – Storia di Campana: La famiglia Spinelli – Internet 2009 www.campanesionline.com/campana-cs/storia-di-campana/ famiglia-spinelli.html 15 Officina ecologica trenta realizzazione di un CENTRO VISITE, scheda progetto n. 82 interventi P.I.S. Rete Ecologica Regionale – Misura 1.10a POR 2000/2006

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Tipologie forestali significative della Sila Silvano Avolio

Premessa L’altopiano silano, con un’altitudine media di 1200-1400 m s.l.m., costituisce il gruppo montuoso più esteso dell’Appennino meridionale e, in un susseguirsi di dossi, versanti e valli, assume forme variamente e fortemente ondulate, ancorché monotone, con rilievi che si ergono cupoliformi fino a 1500-1900 m (vetta più alta Monte Botte Donato, 1923 m). Al suo interno sono presenti aree di eccezionale complessità naturalistica, di valore e interesse internazionali, famosi per la presenza di particolari tipologie forestali o associazioni vegetali e animali. Contribuiscono a ciò, inconfutabilmente: • l’origine della Sila, da considerare fra le più antiche terre emerse nel Mediterraneo; • l’ossatura geologica granitica dei suoi maggiori rilievi, analoga a quella che si riscontra nelle montagne del sistema alpino occidentale; • l’ubicazione in ambiente mediterraneo e nella parte meridionale della Penisola, con clima variabile in senso altimetrico e assimilabile ora al costiero di tipo oceanico (nelle fasce presilane), ora al submontano e montano di tipo appenninico (sugli altipiani), ora all’altomontano di tipo alpino (sulle aree cacuminali delle principali vette); • la mancanza di trovamenti di manufatti e sepolture umane preistoriche (da interpretare come accentuato perenne nomadismo dell’Uomo), nonché di vestigia di faune primitive (collegata anche alla non esistenza di caverne naturali); • la presenza esclusiva (fitogeografica, latitudinale, altitudinale) di “Biotopi arborei forestali” d’alto interesse scientifico e conservazionistico; • l’edificazione del pino laricio, conifera autoctona e riferimento principe della “silva brutia” dei romani, i cui gruppi naturali di vegetazione calabresi ricadono per intero in Sila e in Aspromonte; • le praterie di altitudine, corredate da numerosi endemismi erbacei; • gli animali selvatici, piccoli e grossi, con elementi di fauna calda (tipo Istrice), temperata (Capriolo), fredda (Lupo). Tutto ciò è possibile perché il sistema montuoso della Sila costituisce un ambiente d’alta quota tipico dell’Appennino granitico meridionale, caratterizzato da una gamma esclusiva d’ecosistemi forestali che non si realizzano nelle montagne circostanti (Pollino, Catena Costiera), a diversa e più recente costituzione geologica. Di seguito i riferimenti essenziali relativi alle categorie forestali che - per tipologia colturale, qualità della produzione legnosa prodotta, espressività paesaggistica, specificità ambientale - risultano peculiari e importanti per l’altopiano silano: pinete di laricio, faggete, castagneti cedui, querceti di farnetto, abetine di abete bianco, pioppeti di tremolo.

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* Presidente dell’Associazione regionale onlus “FONDAZIONE SELVICOLTORI FORESTALI DELLA CALABRIA”, già Direttore del Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura - Unità di ricerca per la selvicoltura in ambiente mediterraneo (2004-2010) e dell’Istituto Sperimentale per la Selvicoltura - Sezione di Cosenza (1991-2004).

silvanoavolio@alice.it www.selviforcalabria.it/

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Fig. 1 Pineta naturale di laricio con insediamento di faggio Fig. 2 Pineta naturale di laricio di 140-180 anni

Pinete di laricio Il pino laricio (Pinus laricio Poiret), elevato negli anni ’90 del secolo scorso a rango di specie, occupa in Italia il settore appenninico meridionale. L’estensione nazionale delle pinete naturali è di circa 48.000 ettari, distribuiti in tre settori separati: Sila (40.000 ha), Aspromonte (4000), Etna (4000). In Calabria, nel periodo 1950-70, la specie è stata diffusa artificialmente su diverse migliaia di ettari per cui, nelle fasce altimetriche di transizione con le pinete naturali, l’areale secondario del pino laricio non è sempre agevole da distinguere da quello primario. Sull’altopiano silano le pinete di laricio si stimano in circa 55.000 ettari, per il 70-75% di origine naturale, distribuite prevalentemente nelle province di Cosenza e di Catanzaro. Peculiarità ecologiche e temperamentali della specie risultano la ragguardevole plasticità edafica, la buona adattabilità a condizioni stazionali difficili, la facilità di superare periodi anche lunghi di siccità estiva, l’levata capacità colonizzatrice, la considerevole attitudine a ricostituire aree boscate percorse dal fuoco. Nell’ottimo ambientale di vegetazione la specie costituisce estese pinete, per lo più dense e monospecifiche, dalle quali a maturità si rinnova facilmente. Per il portamento le piante in bosco si presentano eleganti e slanciate, a radici fittonanti saldamente ancorate al suolo, a fusto eretto e dritto relativamente sottile rispetto all’altezza, a chioma appuntita e raccolta in alto. Il cosiddetto “pino bello”, posto sulla strada che dal bivio Lago di Cecita porta alla Fossiata, è noto per la forma quasi cilindrica del fusto e per essere privo di rami fin oltre i due terzi dell’altezza. Il legno è fortemente resinoso, ad alburno chiaro e durame rosso scuro, distinto e ben marcato. In alcune foreste della Sila di Cosenza (Gallopane) e Catanzaro (Marù) esiste una buona percentuale di individui in cui la duramificazione è precoce ed estesa; tali piante, il cui legno è comunemente detto “vutullo”, sono molto ricercate dagli artigiani locali che, per altro, riescono a riconoscerle in bosco. Le produzioni legnose dei soprassuoli naturali sono notevoli, ma variabili con la fertilità della stazione: 450-950 m3/ha a 100 anni. Per i rimboschimenti la densità a ettaro a 40-50 anni è ancora elevata (1200-1600 piante), con provvigioni legnose da buone ad ottime: 300-700 m3. Attualmente il legno è impiegato soprattutto per imballaggio. La pratica della resinazione, fiorente in Sila fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, è da allora del tutto abbandonata (Figg. 1-2).

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Fig. 3 - Fustaia di faggio adulta e rada Fig. 4 - Ceduo di faggio invecch iato e denso

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Faggete I boschi di faggio (Fagus sylvatica L.) occupano in Calabria un’estensione di poco superiore ai 77.000 ettari, distribuiti in una fascia altitudinale compresa tra gli 800-900 m dei versanti costieri (stazioni particolarmente umide e piovose) e i 1800-1900 m della Sila e i 2000-2100 m del Pollino, ove peraltro, seppure a portamento arbustivo e prostrato, la specie mantiene salde le proprie posizioni serrate a protezione della rigidità dei fattori del clima d’altitudine. Nelle faggete calabresi le due forme di governo, fustaie (soprassuoli derivati da seme) e cedui (originati dal ributto vegetativo delle ceppaie) presentano un rapporto alquanto disomogeneo, variabile da 1,3 a 2,1 secondo la regione montuosa ove la specie vegeta. In Sila, come anche nel resto delle montagne della regione, le fustaie di faggio, grazie anche alla meritoria azione di risparmio nelle utilizzazioni legnose operata per più di 50 anni in Calabria dal Corpo Forestale dello Stato, stanno lentamente ricostituendo la normalità strutturale e lo stato biologico che caratterizzavano questi boschi prima dell’ultima guerra. Le faggete migliori sono edificate sui versanti mediamente acclivi o pianeggianti. I suoli sono acidi e profondi, poggianti su substrati geologici rappresentati da graniti, scisti e gneiss. Il turno da adottare nelle fustaie silane di faggio è 100-120 anni, dalle quali è possibile ritrarre provvigioni legnose variabili da 300 a 500 m3 per ettaro. Nell’ultimo decennio, per la grave crisi economica in atto nella filiera foresta-legno calabrese, anche in Sila la produzione legnosa di faggio è destinata principalmente all’imballaggio. Nel passato la specie, associata all’abete bianco, doveva occupare nell’altopiano silano vaste aree montane. Oggi i superstiti boschi misti faggio-abete bianco costituiscono complessi forestali di elevato valore bioecologico, paesaggistico e ambientale. I cedui di faggio si riscontrano invece alle quote più alte e nelle zone a maggiore pendenza e orograficamente difficili. Lo stato vegetativo di questi soprassuoli di proprietà privata è ancora oggi precario. Ciò si deve soprattutto alla brevità dei turni adottati, alla non elevata capacità di rinnovazione agamica della specie, alla mancata applicazione di interventi selvicolturali mirati e indispensabili, all’irrazionale esercizio del pascolo in bosco durante la stagione secca,. Tutto ciò in palese contrasto con le reali necessità di questi popolamenti che, di fatto, ubicati in aree montane ove massima è la funzione primaria di protezione da assolvere, finiscono col degradarsi lentamente e a invecchiare le ceppaie prematuramente (Figg.3-4).


Fig. 5 - Castagneto ceduo sottoposto a diradamento di grado forte Fig. 6 - Castagneto ceduo sottoposto a diradamento di grado medio

Castagneti cedui La coltivazione del castagno (Castanea sativa Miller), pianta da frutto e da legno di antica tradizione e di elevato valore estetico, rappresenta per le fasce pedemontane calabresi una delle principali attività agrario-forestali. Ancora oggi, nonostante il perdurare nel settore della castanicoltura da frutto di una profonda crisi che ha origini lontane e motivi diversi, la diffusione della specie in Calabria è notevole (69.370 ettari). Nelle fasce ioniche e tirreniche della Presila cosentina e catanzarese i boschi cedui di castagno, diversamente dai castagneti da frutto, si presentano generalmente in buone condizioni di vegetazione e di produttività. Alle ragioni di ordine selvicolturale e biologico, quali la spiccata capacità di rinnovazione agamica della specie e la maggiore resistenza dei polloni alle insidie di ordine parassitario (Cancro della corteccia, Cinipide galligeno), se ne accompagnano altre che possono riassumersi: 1) nel particolare tipo di soprassuolo che consente al proprietario privato di ottenere produzioni legnose e redditi elevati in turni relativamente brevi; 2) nella vasta serie di assortimenti di buona qualità che soddisfano anche fuori regione le diverse esigenze di mercato; 3) nella gestione relativamente facile del castagneto, con poche spese di anticipazione durante il ciclo colturale. In Sila l’estensione complessiva di questi castagneti cedui si stima in 22-25.000 ettari, gran parte dei quali coltivati per la produzione di paleria variamente assortita, ma in prevalenza media e grossa rispetto a quella piccola. I turni che prevalgono sono quelli medi (10-18 anni), seguiti dai lunghi (20-25 anni) e da quelli alti (30-35 anni), destinati in particolare alla produzione di travi di castagno uso fiume. Nei cedui a turno medio le produzioni legnose ad ettaro che si ritraggono sono di 2200-3000 polloni, per un’altezza media di 12-15 m e una massa dendrometrica di 160-210 m3. Le variazioni che si riscontrano dipendono dalla classe di fertilità della stazione e dal numero di tagliate agamiche - cicli di generazione - operate sul soprassuolo, dopo l’utilizzazione del preesistente castagneto da frutto. Per la gestione ottimale dei cedui di castagno a turno lungo o da portare a turno alto, si rendono necessari i tagli colturali o diradamenti, da diversificare per inizio, grado e frequenza (Figg. 5-6).

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Fig. 7 - Popolamenti di farnetto nella Sila Greca Fig. 8 - Fustaia di farnetto in buono stato vegetativo

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Querceti di farnetto Poco conosciuto forestalmente sotto l’aspetto colturale e produttivo e ancor meno per le qualità tecnologiche del legname, il farnetto (Quercus conferta Kit.) è esteso in Calabria su superfici ragguardevoli, stimate in circa 31.400 ettari. La distribuzione geografica è discontinua e frazionata, ma riconducibile a quattro distinti gruppi naturali di vegetazione: Sila (78%), Aspromonte (11%), Serre (10%), Pollino (1%). I motivi di una tale diffusione nella regione sono da ricercare soprattutto: 1) nelle condizioni ecologiche ottimali che la specie trova in aree geografiche pedemontane del versante costiero orientale dell’Appennino calabrese; 2) nell’utilizzo che si fa ancora nella regione delle ghiande di farnetto; 3) nel diverso uso del legname. In Sila gran parte dei popolamenti sono governati ad alto fusto. I cedui sono poco presenti e per lo più radi e degradati I querceti di farnetto ad alto fusto si presentano per lo più puri, densi e di buona vigoria vegetativa, da cui discende l’interesse forestale per la specie e l’importanza fitogeografica e paesaggisticoambientale. I fusti in bosco risultano eretti e dritti, sia nelle piante giovani che in quelle adulte, con ramificazioni laterali ascendenti. La Chioma delle piante è a profilo piramidale, raccolta in alto e con cimale distinto. Le fustaie di farnetto si rinvengono quasi esclusivamente nei versanti submontani orientali della Sila, non molto distante in linea d’aria dal mare Jonio, in molteplici isole e isolotti anche estesi, al di fuori dei quali, anche per lunghi tratti, la specie non si incontra neppure allo stato isolato. La densità e le provvigioni legnose risultano alquanto variabili. Nella Sila Greca, in fustaie di farnetto di età media 66 anni, in aree di saggio sperimentali permanenti, sono state rilevate una densità media di 939 piante, un’area basimetrica variabile da 15 a 43 m2, un volume cormometrico compreso tra 170 e 475 m3. Il legno, limitatamente a campioni prelevati a Campana nella Sila di Cosenza, si presenta differenziato e con largo alburno e non ha caratteri che lo diversifichino da quello della quercia rovere calabrese. Idoneo per costruzioni pesanti, doghe, liste per pavimento; fornisce altresì ottima legna da ardere (Figg. 7-8).


Fig. 9 - Formazione naturale di abete bianco Fig 10 - Abetina nella Foresta Gariglione

Abetine di abete bianco Durante l’ultimo periodo glaciale l’abete bianco (Abies alba Miller) è rimasto relegato in due principali “aree rifugio” nel settore meridionale del suo areale europeo: nel nord-ovest della Grecia e nell’Appennino calabrese. Nella regione la diffusione della specie è di 4.851 ettari, sommatoria di molti nuclei sparsi e disgiunti di non facile valutazione topografica. I popolamenti di origine naturale, che rappresentano la quasi totalità dell’estensione, si rinvengono nella Sila di Cosenza e di Catanzaro, sulle Serre e in Aspromonte, ove gravitano in aree montane soleggiate e fresche, al di fuori delle quali la specie lascia al faggio e all’acero di monte i versanti più freddi e la fascia superiore prossima ai crinali. Dalla constatazione che nel passato l’abete bianco, da solo o associato al faggio, doveva occupare vaste aree dell’Appennino meridionale e che in Calabria le poche formazioni superstiti costituiscono complessi forestali di alto valore ecologico, paesaggistico e produttivo, gli interventi selvicolturali da eseguire in tali popolamenti debbono mirare a ricostituire il preesistente bosco misto faggio-abete bianco. Le abetine artificiali più importanti sono state realizzate all’inizio del secolo scorso e sono localizzate sulla Catena Costiera, tra 850 e 1200 m di altitudine. Per le formazioni naturali della Sila, il nucleo più importante ricade nella Foresta Gariglione, sottoposta tra il primo e il secondo conflitto mondiale a intense utilizzazioni boschive e a eccessivo carico di bestiame bovino. Sull’altopiano silano l’optimum di vegetazione e il massimo di frequenza delle abetine si hanno nel piano montano inferiore (1200-1400 m), caratterizzato annualmente da 8-10 °C di temperatura media e 1500-1700 mm di piovosità. È albero di prima grandezza, a fusto dritto, slanciato e colonnare. Sulle pendici del Gariglione, in località Garina di Petronà, sono edificate due piante maestose di abete bianco - una misura 530 cm di circonferenza, l’altra 48 m di altezza - da ritenere per la Calabria, rispettivamente, l’esemplare più grosso e più alto della specie. Le produzioni legnose nelle abetine naturali sono considerevoli: in soprassuoli di 100 anni anche 1200 m3/ha di volume cormometrico. Il legname si presenta bianco o giallastro, leggero, con venature diritte, si spacca bene e si lavora facilmente. È usato ampiamente in interni, per tavole, mobilio e imballaggi. All’esterno non è durevole (Figg. 9-10).

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Fig. 11- Pioppeto di tremolo nel Bosco Fallistro Fig. 12 - Fusti basali di pioppo tremolo con rinnovazione di abete bianco

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Pioppeti di pioppo tremolo In bosco il pioppo tremolo (Populus tremula L.) si distingue dal pioppo bianco e nero principalmente: per il tronco colonnare e diritto, lungamente nudo; per la corteccia liscia, di caratteristico colore grigio-verde, che con l’età si screpola e si scurisce nella parte bassa del fusto; per le foglie sub orbicolari, con picciolo lungo e appiattito lateralmente che favorisce il tremolio delle lamine fogliari sotto l’azione di movimenti d’aria anche debolissimi. È presente in tutte le regioni, dalla fascia subalpina agli ambienti mediterranei dell’Appennino, collocandosi nelle stazioni più fresche, ma è in Calabria che la specie dimostra una maggiore frequenza, edificando formazioni naturali anche di una certa estensione. Nei boschi della Sila si rinviene sia nelle chiarìe che nelle radure, costituendo piccoli gruppi, a volte di poche (5-10) piante, ma a seguito di tagli o di incendi, tende a diffondersi rapidamente anche su notevoli superfici laddove trova condizioni di temperatura e di piovosità favorevoli. Si dimostra indifferente al substrato geologico, esigente in fatto di umidità del terreno (per apparato radicale superficiale), sensibile ai suoli acidi, caratteristico di boschi umidi e terreni di nuova genesi (non distanti da corsi d’acqua). Poco tollerante dell’ombra allo stato giovanile. Moltiplicandosi molto attivamente per polloni radicali, la tendenza peculiare del pioppo tremolo è di colonizzare aree nude e a diffondersi rapidamente nelle tagliate e nei boschi percorsi dal fuoco, invadendo le pinete di pino laricio e, non di rado, le cerrete e le faggete o faggeto-abetine scarsamente dense, costituendo boschi misti a superiore valenza ecosistemica. Longevità non elevata, soprattutto in boschi densi: su piante singole o a piccoli gruppi la specie può arrivare anche a 120-140 anni. Negli esemplari dei viali storici della Sila i fusti di maggiori dimensioni hanno per lo più la parte centrale, il cosiddetto “cuore nero”, completamente inutilizzabile per attacchi di funghi. L’accrescimento è sufficientemente rapido in altezza, ma non in diametro, soprattutto quando (ed è la norma) non vengono effettuate per tempo nel pioppeto sfollamenti o diradamenti. La produttività in Sila è elevata: su soprassuoli d’età compresa tra 29 a 36 anni, incrementi di massa corrente da 6 a 14 m3 per anno e per ettaro, con provvigioni legnose da 221 a 478 m3, non sono infrequenti. Il legno è tenero, pallido, leggero, omogeneo, idoneo per l’industria cartaria. Poco conosciuto forestalmente per le sue qualità tecnologiche. I fusti silani di tremolo di forma migliore e a chioma leggera sono denominati “candelisi” (Figg. 11-12).


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La riserva Naturale Guidata Biogenetica “i Giganti della Sila” in Calabria

esempio di pineta di laricio con caratteristiche di vetustà Giuseppe Luzzi

Terra di forti contrasti, la Calabria. Chi dal nord o dal centroeuropa per amore di conoscenza o per necessità di lavoro si avvia ad attraversare l’Italia per raggiungere la Calabria, immagina questa regione come un avamposto dell’Africa settentrionale: una terra arsa dal sole, un’area con forti limiti allo sviluppo della vegetazione forestale ecc. E invece trova un’alternanza affascinante. Dal Tirreno allo Ionio: un paesaggio che in brevi spazi diviene incredibilmente forte e aspro, ma anche piacevolmente dolce e riposante. Dal Pollino alla Sila all’Aspromonte: un mondo inaspettato e avvincente si schiude (Ciancio, Iovino & Menguzzato, 1998). Chi pensava a una regione bruciata dal sole con prevalenza di macchia mediterranea scopre una vegetazione forestale fra le più complesse e variegate. Quante sorprese quando ci si inoltra in Calabria; quanti luoghi comuni scompaiono quando ci si imbatte nella Selva brutia; quanta biodiversità è ancora presente. Una sorpresa dopo l’altra. Una scoperta continua. La Calabria, penisola nella penisola: terra in cui il mare e la montagna raffigurano la forza e la durezza del carattere dei suoi abitanti: segno dei luoghi, impronta indelebile, orma del passaggio di popoli. In primavera, dopo il letargo invernale, la vegetazione manifesta un’esuberanza straordinaria. Ciò che più colpisce è la veemenza del risveglio. La Calabria è qualcosa di unico nel bacino del Mediterraneo, completamente diversa dal resto dell’Appennino di cui rappresenta l’estrema propaggine verso sud. È una terra migrata al centro del Mediterraneo, nella fase di formazione degli attuali continenti, dalla sua originaria posizione attaccata alla Liguria. Nelle aree montane e in quelle collinari, oltre il limite di diffusione delle colture agrarie mediterranee tradizionali (soprattutto, oliveti e vigneti), dove la morfologia si fa più dolce e le pendenze si attenuano, l’aspetto largamente prevalente è quello dei boschi che si alternano ad aree che, nel passato, in estate erano destinate a pascolo. Dopo la seconda guerra mondiale, le aree più favorevoli sono destinate alla coltivazione della patata. Alle quote inferiori, invece, il bosco è relegato nelle zone ove è possibile un uso del suolo alternativo. In molti casi, a seguito di una gestione scorretta (pascolo intenso e incendi) il bosco ha lasciato il posto a formazioni dominate da arbusti, tipici delle zone con clima mediterraneo, dai colori forti e dai profumi intensi, che si fanno ancor più intensi e fragranti dove le condizioni sono più difficili. Anche ai visitatori più distratti e frettolosi che percorrono questa terra, non possono certamente sfuggire alcune peculiarità, come la vastità dei boschi (l’Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi Forestali di Carbonio – 2005 – attribuisce alla Regione Calabria una superficie di oltre 600 mila ettari, pari a oltre il 41% della superficie territoriale e complessiva), la varietà delle specie che contribuiscono a determinare una molteplicità di paesaggi che si alternano in brevi spazi. È una terra ancora scarsamente conosciuta nelle sue molteplici realtà e nelle sue potenzialità, ma è sufficiente soffermarsi anche pochi attimi per riconoscere e comprendere i molteplici aspetti di questa realtà. Ed ecco dischiudersi un mondo del tutto inaspettato, ricchissimo di colori, sapori, usi e tradizioni. La vegetazione è ricca di specie che danno origine a paesaggi mutevoli nel tempo e nello spazio, dove s’incontrano, mescolandosi intimamente, elementi propri dell’ambiente centro-europeo con quelli più prettamente mediterranei. Si ritrovano piante e animali che si pensava scomparsi, se ne scoprono di nuovi. Le piante raggiungono età e dimensioni davvero considerevoli. I prati in primavera sono un’esplosione di colori che sembrano usciti dalla fervida immaginazione di un

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pittore. Ciò che noi oggi possiamo osservare non è che una piccola parte di quello che hanno ammirato alcuni viaggiatori (Jean-Claude Richard, Henry Swinburne, Edwar Lear, Norman Douglas, ecc.) che hanno visitato, nella seconda metà del XIX secolo, alcune zone dove si era conservata la foresta primaria. Raccontano di un paesaggio incontaminato, con foreste mai toccate dalla mano dell’uomo, ricche di selvaggina e di ogni altro tipo di animale. Di quella realtà oggi rimane ben poco. Per lo più, si tratta di piante di grandi dimensioni, poste in zone difficilmente accessibili, quasi volessero nascondersi, timorose, agli sguardi dell’uomo. Testimoni di un tempo ormai passato che aveva visto il bosco dominare incontrastato le montagne, offrendo all’uomo tutto ciò di cui aveva bisogno, chiedendo in cambio solamente un po’ di rispetto. Nonostante le distruzioni perpetrate nella seconda metà del XIX secolo fino alla fine degli anni cinquanta del novecento, ci sono ancora resti di boschi che testimoniano la ricchezza e lo splendore dei boschi Calabresi fino a non molti anni fa. Uno di questi si trova proprio nel cuore della più importante e famosa montagna della Calabria, la Sila, nel comune di Spezzano della Sila, a poche centinaia di metri dalla località Croce di Magara in direzione ovest, vicino alla località turistica di Camigliatello Silano. Si tratta di un’area di appena 6 ettari di superficie, posta a 1420 m s/m, nella testata del fiume Neto. L’area è inserita in un’ampia vallata nella quale da giugno a ottobre viene esercitato il pascolo bovino stanziale. Alcune aree pianeggianti sono saltuariamente coltivate a patate. Il bosco prende il nome dalla località dove si trova, ed è conosciuto come Bosco di Fallistro o, facendo riferimento alle dimensioni delle piante che in esso vegetano, I giganti della Sila (Figg.1-2-3-4). Esso costituisce un esempio di come poteva apparire la foresta silana di pino laricio all’inizio del

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XIX secolo. La peculiarità di questo sito è data dalla presenza di piante di grandi dimensioni, con un portamento maestoso e da un elevato numero di soggetti concentrati su un’area di limitata ampiezza, sufficiente però a dare l’idea di ciò che rappresentava la pineta di laricio un tempo non molto remoto. Altro elemento importante è la presenza nella stessa area di boschi di pino laricio di età differente che consentono di comprenderne le dinamiche evolutive. Accanto alle piante di pino laricio sono presenti anche 12 piante di acero montano, presumibilmente coeve di quelle di pino laricio, messe a dimora la strada di accesso ai fabbricati in modo da costituire un monumentale viale di cui rimangono solamente alcuni esemplari di dimensioni considerevoli (diametro a 1,30 m da terra tra 214 e 52 cm e altezza totale tra 16 e 27 m) (Avolio & Ciancio, 1987). Fino al 1987 il Bosco Fallistro è stato di proprietà della una nobile famiglia dei Mollo di Cosenza che nel primi decenni del 1600, nell’omonima località eressero alcuni edifici destinati ad abitazione durante il periodo estivo e una filanda, attività allora molto fiorente in Calabria e in molte zone della Sila che procurò per lungo tempo un commercio molto apprezzato su tutti i mercati. Successivamente si aggiunsero anche un mulino, una serra ad acqua e vari altri edifici utilizzati dalle persone al servizio del padrone. Sulla base di un’analisi dendro-cronologica effettuata su una rotella prelevata alla base di una pianta di pino laricio di grandi dimensioni caduta negli anni settanta del secolo scorso, è possibile anche ricostituire la storia del bosco di pino laricio, in particolare per quanto riguarda le piante di maggiori dimensioni. Queste piante dovrebbero avere un’età di poco inferiore a 400 anni e costituiscono il gruppo di piante vetuste più numeroso attualmente presente in Sila.

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L’origine del bosco dovrebbe essere e la sua piantagione è da ricollegare, molto probabilmente alla volontà dei proprietari di realizzare, sul lato di nord-occidentale degli edifici, un soprassuolo di protezione contro i venti dominanti di tramontana e per assicurare ricovero e meriggio ai pastori al bestiame. Infatti, all’interno del bosco sono presenti piccole superfici appianate che fanno pensare a basi di eventuali ricoveri. E ancora, l’esame degli accrescimenti annuali osservati sulla pianta caduta evidenzia come essi siano elevati e costanti nel tempo, fatto che fa presupporre che le piante siano cresciute in condizioni di ridotta densità. Negli anni ottanta del novecento il Bosco Fallistro è stato acquistato dall’Ente di Sviluppo Agricolo in Calabria (E.S.A.C.). Il 21 luglio 1983, una commissione di esperti di cui facevano parte anche alcuni delegati del Consiglio d’Europa – Comitato Europeo per la salvaguardia della natura e delle risorse naturali – raccomandava l’istituzione di una riserva naturale biogenetica. Il 30 marzo 1987 l’E.S.A.C. (oggi A.R.S.S.A) proponeva al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, all’Assessorato all’Ambiente della Regione Calabria e, per conoscenza, al Parco Nazionale della Calabria, l’istituzione di una riserva naturale guidata biogenetica. Nel 1987 con D.M. n° 426 del 21 luglio è stata dichiarata Riserva Naturale Biogenetica Guidata Statale e la gestione è stata affidata al Corpo Forestale dello Stato - Ufficio Territoriale per la Biodiversità di Cosenza. Successivamente con la realizzazione di Rete Natura 2000 il Bosco Fallistro è stato dichiarato Sito di Interesse Comunitario (SIC n° IT9310080 – “Bosco di Fallistro”) e la gestione è di competenza dell’Ente Parco Nazionale della Sila. Dal 27 marzo 2012 l’A.R.S.S.A ha concesso la Riserva “I Giganti della Sila” in comodato d’uso gratuito all’Ente Parco Nazionale della Sila. Nel 1976 l’Istituto Sperimentale per la Selvicoltura di Arezzo – Sezione Operativa Periferica – ha effettuato il primo censimento (Avolio & Ciancio, 1987), misurando di ciascuna di esse il diametro a 1,30 m da terra e l’altezza totale. Complessivamente le piante di grandi dimensioni – piante vetuste – erano 58 con diametri tra 185 e 70 cm e altezze comprese tra 20 d 43,6 m. Nel passato la base di molte piante era stata scavata per ricavare pezzetti di legno impregnati di resina utilizzati per accendere il fuoco. Successivamente, per preservare il legno dagli attacchi dei patogeni, la base dei tronchi veniva leggermente bruciata. Da qui il colore nero che caratterizza la base dei fusti. A distanza di dieci anni, a seguito di mortalità, le piante vive si erano ridotte a 53. Le nuove analisi, eseguite con le stesse modalità del precedente rilievo, evidenziano come, nonostante l’età elevata dei singoli alberi, sia aumentata sia l’altezza che il diametro dei singoli soggetti (Avolio & Ciancio, 1987). I diametri sono compresi tra 71 e 187 cm e le altezze tra 22 e 43,9 m. Purtroppo in questi ultimi anni sono crollate altre piante sotto l’azione delle intemperie (vento, fulmine) oppure sono state gravemente danneggiate a causa del peso della neve. Ma nonostante ciò, la maggior parte degli esemplari, nonostante l’età, manifestano ancora condizioni vegetative soddisfacenti e non presentano attacchi di patogeni o insetti che possano far presagire una loro morte a breve tempo.

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Il taglio e la stagionatura del legno Pino Iannelli

I nostri nonni sapevano che avere nel cortile di casa una grande quercia era di buon auspicio, e ritenevano che poggiare la schiena al suo tronco donava vigore. Avevano conoscenza e rispetto delle qualità nascoste delle piante e degli alberi, così come del bosco che era parte del loro quotidiano; sapevano bene come far uso di tutto ciò che il bosco offriva, della conoscenza degli alberi, della qualità del legname che se ne ricavava e dei segreti della sua lavorazione. Oggi quel contatto quotidiano si è perso ma il bosco rimane sempre un luogo sacro dove silenzio e rispetto, sono da condividere e trasmettere alle nuove generazioni. Il bosco intero era sfruttato secondo l’assoluta logica del massimo utilizzo, infatti dai diversi tipi di alberi ed arbusti si ricavava non solo il legname atto alla lavorazione di mobilio, ma anche una serie di altri tipi di legni da utilizzare per diverse attività. Si raccoglieva la legna da ardere, le fascine per la cottura del pane, i pali per le recinzioni, i pali per gli orti che servivano per fare arrampicare i fagioli o tenere diritti i pomodori, la legna per la lavorazione dei cesti, la legna per la lavorazione dei collari delle mucche, la legna per utensili da cucina, la legna per doghe di botti e barili, la legna per sedie, la legna per le travi da utilizzare nella costruzione delle case, la legna per tavole ecc. Si procedeva dunque ad una selezione accurata di tutti i tipi di alberi ed arbusti che si trovavano ed il bosco era così sempre molto pulito e protetto dagli incendi. Nel servirsi del legname si sceglieva il più adatto al lavoro che si voleva fare, era dunque importante tutto un sapere tramandato da padre in figlio. Innanzitutto per giudicare della bontà del legname si deve aver riguardo al sito, ove gli alberi nascono, in quanto quelli nati in luoghi asciutti, battuti dai venti, e riscaldati dal Sole sono più sodi e ardono meglio, non fanno fumo bruciando e il carbone che se ne ricava è più resistente. E’ bene sapere anche che i legni bianchi sono meno densi ma si lavorano con più facilità rispetto a quelli colorati, e che alcuni legni esposti all’aria durano per lungo tempo, come accade all’olmo. Altri, come il castagno, sono adatti per i lavori al coperto, altri ancora amano stare sotto terra come il pino e la picea. L’ontano e la quercia nell’acqua durano moltissimo, l’abete oltre il pregio della sua lunghezza, è adatto a vari usi perché resiste a gravi pesi anche se è molto facile a prendere fuoco. Alcuni legni sono di lunga durata come la vite, il cedro, l’olivo, il ginepro ed altri invece meno e quindi marciscono facilmente, come il cerro, il sughero, e il faggio. Gli antichi ad esempio per realizzare le statue si servivano del cedro, del cipresso e del loto; e per quelle più piccole adoperavano la radice di olivo, o il legno di giuggiolo. Il castagno era usato per le botti e i vasi per conservare i liquidi. Il corniolo si usava per realizzare le ruote dei carri. Con il sorbo o il bosso si realizzavano i manici degli strumenti per pulire il legno. Il larice femmina, il quale verso il midollo è di colore del miele, per le tavolozze dei pittori. Sul tempo ed il modo di tagliare il legname, gli antichi sostenevano che era bene farlo all’inizio dell’autunno prima che cominciasse a soffiare il vento caldo di ponente e quando la luna rimaneva sotto l ‘orizzonte, e se tagliati nel solstizio d’inverno, quando non hanno più le frondi e non germogliano, così non sono soggetti al tarlo. Per alcuni tipi di alberi però bisogna avere qualche attenzione particolare così l’abete e il pino, si tagliano invece proprio quando incominciano a germogliare, per togliere più facilmente la corteccia e far rimanere il legno più bianco e più bello. L’elce femmina, l’olmo, l’acero,il frassino, il carpine, e il tiglio si tagliano dopo la vendemmia.

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Per quanto riguarda la modalità di come eseguire il taglio Plinio scriveva: “che gli alberi s’intacchino fino al midollo, e cosi si lascino in piedi per qualche tempo avanti d’abbatterli, affinchè perdano il soverchio umore, che li farebbe presto marcire”. Ai tempi dei nostri nonni, i maestri conoscitori del processo di lavorazione del legno erano detti i mannisi coloro che trasformavano il legno in tavole, attraverso diverse fasi di lavorazione e con l’utilizzo di attrezzi particolari. Il taglio dell’albero era effettuato con una sega a mano molto grossa detta strungaturu, l’albero una volta abbattuto e privato dei rami e della corteccia, viene piallato con l’accetta sui due lati; con una corda, intrisa di una soluzione di carbone impastato con acqua, si segnano delle linee che vanno da una estremità all’altra del tronco precedentemente squadrato. Le linee segnate sono sul tronco sono quelle da seguire durante il successivo taglio delle tavole, le linee sono tante a seconda del numero delle tavole da tagliare. Sempre in loco, nel bosco, veniva scavato un fosso ed intorno ad esso collocata una struttura di legno, che doveva servire a sostenere il tronco sospeso il quale veniva tagliato con a trainella, una sega particolare a quattro mani racchiusa dentro una cornice di legno. La tecnica di taglio consisteva nel porre la trave sopra questa struttura elevata sul fosso, la trave doveva sporgere dalla struttura ed avere la parte con le linee di taglio da seguire rivolta verso l’ alto,sul lato opposto venivano segnate le linee corrispondenti, sopra la trave si posizionava un uomo che doveva essere quello che dava la cadenza del taglio e la direzione della sega, al di sotto della trave vi era un’altra persona che impugnava anch’essa la sega e seguiva il ritmo del taglio che dava l‘operatore che stava al di sopra. Una volta tagliato e selezionato il legname veniva portato in paese e sistemato per la stagionatura che variava in base alla grossezza delle tavole e al tipo di albero, ad esempio il castagno che conteneva molto tannino veniva sistemato all’esterno per essere quindi spurgato dalla pioggia, spesso veniva posizionato in verticale accostando tra una fila e l’altra dei distanziatori di pochi cm in legno che servivano per fare circolare l’aria più facilmente; il legname di noce invece, essendo molto delicato e sensibile all’umidità, spesso si lasciava stagionare al coperto e lontano da fonti umide. Tale stagionatura naturale che è il metodo più semplice e più antico è un processo lungo che richiede notevoli spazi ma non richiede impianti particolari, l’umidità evapora lentamente e senza forzature, il legname si presenta così più pastoso e duttile alla lavorazione. Venivano usati diversi modi di conservare il legname dopo averlo tagliato, veniva coperto con lo sterco, principalmente di bue, affinchè, si asciugasse lentamente senza comportare lesioni al legno, e per lo stesso scopo si usava anche la morchia. Se invece il legname era destinato all’acqua, si doveva spalmare con la pece. Il legno poi, per avere una lunga durata, si cospargeva di olio bollente, e per renderlo ignifugo si usavano diverse precauzioni, si verniciava con l’allume oppure si collocava il legname, appena tagliato, sotto terra per diverso tempo affinchè divenisse più sodo, poi si esponeva all’aria ma riparato dalle pioggie, e dal sole. Fino a qualche decennio passato i nostri artigiani del legno, depositari di un sapere antico, provvedevano direttamente a munirsi del legname necessario alla loro attività di falegnameria e lo stesso era per tutte quelle arti e mestieri che ruotavano intorno all’uso del legno.

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Estrazione e lavorazione del legno nelle fonti dell’Archivio di Stato di Cosenza

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L’estrazione e la lavorazione del legno attraverso i documenti Cinzia Altomare

La lavorazione del legno, nobile e antichissima arte, ha accompagnato l’uomo evolvendosi e cambiando con i tempi. Materiale facilmente modellabile, presente in tutti bisogni quotidiani dell’uomo: dall’aratro al mulino, dal telaio al baule, dalle carrozze alle imbarcazioni, il legno è stato utilizzato e sfruttato per ogni cosa e con esso sono nate le città e le civiltà. Nei tempi antichi gli unici combustibili erano la legna e il carbone vegetale, quindi scegliere il legname migliore per riscaldarsi o cuocere i cibi, nel rispetto dell’ambiente era il lavoro del “Mannise”, sostantivo arcaico per indicare il boscaiolo. Egli svolgeva una mansione indispensabile alla sopravvivenza poiché tutto iniziava dal buon taglio dell’albero e dall’essicazione dello stesso. Una corretta procedura consisteva nell’incidere il tronco (abauzare), da tale incisione si poteva sfruttare al meglio la pianta ricavandone la pece, richiestissima per la fabbricazione delle navi. La produzione della pece era prerogativa riservata al signore di turno e quindi proibita alla popolazione, che di fatto, malgrado le innumerevoli leggi, editti, provvedimenti, continuava ad occupare le terre e a tagliare gli alberi per ottenere terreno per la semina e il pascolo1. D’altra parte, le leggi non erano mai abbastanza severe e il lassismo dei vari governi contribuiva non poco al disboscamento e allo sfruttamento del legno2. Nel 1741 i reverendi don Francesco Mauro e don Domenico Mojo dichiaravano di possedere un mulino funzionante nel territorio di Grimaldi, [...] detto Mulino vi sta un pezzetto di terre sterile inculta ed aperta, e nel medesimo e proprio della parte superiore di detto Molino v’era e vi stava una pianta di quercia la quale li giorni scorsi d’ordine e mandato di detti possessori di Molino fu incisa e tagliata per repararne del medesimo qual’incisione di quercia si fece col supposto che la detta quercia unitamente col detto pezzetto di terra circum circa di detto mulino fusse stato proprio di detti Reverendi Sacerdoti ed infatti con tal supposizione intendevano quello mettere in cultura ed impedire a cittadini l’uso e comune comodo che al immemorabile ne anno tenuto e goduto[...] avvertiti gli Eletti del popolo, l’intera comunità si mosse verso la zona per impedire [...] a lavoranti il lavoro di detta quercia per mantenere e difendere le ragioni dell’Università[...]. I cittadini temevano di perdere gli usi civici e si giunse alla lite generale dopo la quale si decise di concedere la quercia già tagliata ai padri, ma l’uso della terra doveva rimanere pubblico3. Oltre al normale taglio dell’albero, con accetta e olio di gomito, da tempo si usava la “serra ad acqua4”, ne abbiamo testimonianza già nel 1518 per un affitto di una [...]serra de acqua posta in la sila de cosentia loco dicto riyie[...]5 tra Angelo Donato e Leonetto detto di Pedacio. Questa era una delle prime “macchine” utilizzate per modellare e lavorare legnami anche piuttosto duri (noce, quercia, castagno, ciliegio, etc.). La prima lavorazione del legno prevedeva semplice legname segato, da ridurre a tavolame, listellame, pali per costruzioni edilizie, ai pannelli semplici oppure tavole per pavimenti, doghe per botti e simili. La lavorazione dei prodotti primari culminava con la costruzione di mobili, infissi, strumenti da lavoro e domestici, intarsi, opere d’arte, fino ad arrivare ai caratteri a stampa. Gli strumenti tradizionali del falegname potevano essere come quelli riportati dall’inventario del 1591, nel quale tra i beni del defunto Paolo Corrado di San Lucido, probabilmente di professione carpentiere, compaiono i seguenti oggetti: [...] Stigli di putigha di Carpenteri Item quattro serre vide licet una di serrare volice et li altre tre mazzane. Item altre serre di una mano et una piccola Item quattro verrine di tilere di scopette et cinque mezze verrine di detti tileri

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Item due trapane di trapanare canne di scopette Item due serrachie item due verruggie Item sei chiave di diverse sorte Item quindici altre chiave di diverse sorte Item octo chiave senza ferri Item due verrine de grupare butti Item tre raspe Item diece altre verrine di diverse sorte Item sette lime di diverse sorte Item tre senbij(?) Item unaltra senbia grande Item undeci scarpelli di diverse sorte Item unaltra senbia piccola et unaltra grande Item uno ferro di chiavi grande Item uno di tinaglie grande et unaltro piccolo Item tre martella due piccole et uno grande Item due ascie una grande et una piccola Item uno piconello di ferro Item uno caiconera(?) di butti Item quattro serrachielle Item uno ferro di serra Item due mole una piccola et una grande Item uno tavola di castagne Item due pezzi di legname di olmo Item due mazze di circhi di cribi di farina Item due banchetta Item puleggi di fragata Item una rota di fare pignate Item due ammacza preiti Item uno pezzo di tilari signato Item una coffa vecchia di tinere ferra Item uno cippo di legname item uno squadro grande et uno piccolo di legname Item due confrasse(?) piccole di ferro Item uno banco di carpenteri Item uno fuso di mangano [...]6. Nel 1749 un caso di compravendita di tavole di legno, introduce al commercio delle stesse: Francesco Scarnato di Spezzano Grande faceva testimonianza che Saverio Motta del casale di Aprigliano possedeva la terza parte della frutta della terra di [...] Serra [...] nel luogo chiamato Trionti [...] di cui possedevano in due terzi Francesco Morelli di Celico e Lelio Abbenante di Rossano [...] E perciò la terza parte del Lucro deve percepirsi dallo stesso Saverio il quale fattosi li conti Francesco Maurello, lo medesimo li restò a rifare, tavole numero nove Cento, Stante esso di Maurello se l’havea fatte prima, ed in tempo che poi se le voleva fare detto Saverio Non gliele lasciò fare, e più esso Saverio si Protesto Contro detto di Maurello in presenza delli Compagni della Serra, dicendo, che mente che non l’have permesso di farli dette tavole, voleva quelle pagate a grana cinque l’una, ma per quanto voleva esso di Maurello, che li havesse fatte, non fu possibile per Causa delle neve, che sopragiunse, e restò esso Saverio a Conseguire dette Tavole Nove Cento, e Sa che ancora non le hà ricevute(?) Inoltre continuava a testimoniare che [...] Maurello assieme con Biase suo figlio de novo contribuire al predetto Saverio, altre Tavole due cento in circa per havercile improntate. Come altresi con detto giuramento attesta esso [...] Francesco Scarnato [...]che il predetto Saverio deve ancora havere dal detto di Maurello, e figlio volici numero quaranta in circa per havercili parimente Inprontati [...] E ancora Francesco Morelli doveva pagare a Saverio Motta [...] sei giornate per haverlino fatto Carra, Dippiù attesta Sapere benissimo; che il suddetto Biase Morello deve pagare il prezzo di tavole quattro Cento al sudetto

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Saverio, e diece scelte per havercile vendute; come altrese esso Biasi deve sodisfare di vantaggio al predetto Saverio Ottanta parefile scelte dal medesimo parimenti venduteli Di vantaggio detto Biasi deve ancora sodisfare allo stesso Saverio Motta, due Cento e diece fila di Tavole Serrate dal detto Saverio per suo Conto [...]7. Le tavole di legno, abbiamo già accennato, venivano impiegate in diversi lavori, sia come semplici impalcature che come materia prima per costruire mobili, mezzi di trasporto etc. Il falegname ne faceva largo consumo quando era chiamato a costruire edifici, egli assieme ai muratori, faceva parte integrante di squadre di operai per la costruzione di palazzi e chiese. Oltre a fornire i pali e le travi per le strutture in legno utili alle costruzioni e a lui era affidata la fabbricazione di porte e finestre. Nel 1771, Vincenzo Longo mastro falegname, assieme a Filippo Cimbalo mastro muratore e Pasquale Orrico manipolo, firmano una testimonianza per il rifacimento di un’abitazione. L’atto pubblico era stato voluto da [...]Donna Angela Bombini Vedova del fu Don Carmine Tirelli, Dama Patrizia di questa Citta di Cosenza supplicando [...] come li necessita de giurata per atto pubblico dal Mastro Muratore Filippo Cimbalo, Pasquale Orrico e dal Mastro Falegname Vincenzo Longo di questa Suddetta Città, li quali han rifatto il quarto Superiore della Sua casa, ove abitata havea il fù [...] Don Bartolomeo Polacchi, rimasta infetta per il di lui morbo, che però loro ben consta l’importo della spesa occorsa in Tali rifezioni, dal che si necessita un tale atto publico[...]8. Mastro Longo, in pratica assieme agli altri mastri ha dovuto ristrutturare un appartamento che per la proprietaria rimaneva infetto, lavorando su [...] quattro bussole, ed una Finestra nuova nel Suo Palazzo Superiore, ove morì di Maltisicia pulmonare attaccaticcia il fù [...] Don Bartolomeo Polacchi; per le quali Si son Spesi ducati Quarantadue, cioè trentasei per le cennate quattro Bussole, sia porte alla ragione di ducati nove L’una, e sei per la finestra, oltre d’altri ducati quattro per fermature, maniglie, e maschetti [...]9. Nel 1742, per la fornitura dei materiali dell’edificazione del Monastero di Santa Maria di Costantinopoli, la dote del defunto Arcivescovo di Cosenza, Brancaccio, viene messa all’incanto e convertita in un secondo momento nei fondi per la chiesa che tra rimaneggiamenti e abituali manutenzioni, aveva bisogno di liquidità di fondi. Venne così stilato un “quaderno” delle giornate lavorative dei mastri operai tra il 1741 e il 1742, nel quale si trovano le spese dei materiali in legname: [...]Tavoli lunghi di Castagnia per la detta Porta palmi cinque a grana 25 il palmo10 ___________1-1-05 E di più palmi tre a grana 18 il palmo ____________________________________________0-2-14 E di più una Tavola di Castagnia ________________________________________________0-1-15 Che in tutto sono ___________________________________________________________2-0-14 [...]Tavoli di Castagnia per un Infallacato, e per altri residui palmi ventiquattro __________________2-2-0 Per tre Quancie di Ferro per tenere il Finestrone di Rimpetto, a Paradiso_____________ ______0-0-12[...]11. E le spese delle maestranze: [...] Mastria di Carpenteria di Mastro Antonio Morelli la Covertura di Paradiso, Portone del Giardino, e Infallacato, e altri residui giornati undici ____________________________________________3-1-10 [...] Mastri di Carpenteria di Mastro Antonio Morelli per le forme della Lamia12 dalla Scala, Crucera una Porta della Cucina, Quarto Finestre e altri residui giornate Quaranta quarto e meza______________________________________________________________13-1-15[...]13. Uno degli utilizzi che del legno veniva fatto consisteva nella costruzione di mezzi di trasporto, molto importanti per permettere gli spostamenti e il trasporto delle merci consentendo, quindi, gli scambi socio economici di intere comunità, importazioni ed esportazioni di molti beni e articoli di vario genere, non prodotti in loco. Per la costruzione di una nuova imbarcazione, Giovanni Bavoso di Belvedere e Don Pietro Tufarelli di Mormanno, nel marzo 1743 stipulano un contratto: [...] Giovanni [...] have asserito [...] Come intende costruire una nuova felluca14 per tutto il prossimo venturo mese di maggio del Corrente 1743 per il quale tiene approntata Ed allestita la legname, ferramenti, ed altro necessario per la Costruzione di quella; E perché non tiene presentemente tutto il danaro per poterla Complire, e principiare, e Renderla atta a navigare per l’attriti, ed ordegni, che vi necessitano, è venuto à Convenzione Con detto Don Pietro di vendere ed alienare al medesimo [...]. La terza parte di detta Felluca, che deve costruire, la quale deve essere interamente finita per tutto detto mese di maggio,

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e guarnita di tutti necessari attrezzi, ed ordegni nuovi per poterla Rendere atta a navigare, per il Convenuto e finito prezzo di ducati Cento Cinquanta, [...]15. È difficile trovare l’elenco completo di tutti i materiali necessari alla costruzione di una imbarcazione, ma alcune notizie ci vengono dalla disavventura di Romualdo Infante di Vietri, proprietario di una “Bartella”, che nel 1745 faceva testimonianza, assieme a cinque dei suoi marinai [...] come sin dalli 25 del passato mese d’ottobre, di essi per andare in Paola per alcune commesse di Caricar seta, ed altro si portarono delle Marina di detta Città di Vietri con una Bartella inforcata con tutti l’ordegni necessari per navigarla, nominata S. Maria di Porto Salvo, e L’Anima del Purgatorio, padroneggiata da esso Padron Romualdo dove furono caricate da detta Marina di Vietri tre casse, ed una Scatola di dolci, cioè una piena di mostaccioli, e l’altre due piene di Scioroppate da Diego Maria Giordano per conto di Francesco Antonio Canale della città della Cava pure consegnarla in detta città di paola al suo corrispondente[...] sulla Bartella furono imbarcate anche pasta lavorata, zucchero, cannella, noccioline e tela. Proseguendo il viaggio per il mal tempo si erano dovuti trattenere in diversi porti sino ad arrivare a Scalea, per ripartire il 17 dicembre e giungere nella Marina di Cirella, per poi proseguire sino alla Punta di Diamante, ove iniziò a soffiare il vento ed ad ingrossare il mare, tanto che furono costretti ad andare a remi e a pensare di attraccare nel porto si S. Ritirata, purtroppo proprio davanti la spiaggia andarono contro uno scoglio che fuoriusciva dall’acqua e [...] la veemenza del mare col Scoglio, fracassio quasi tutto il piano di detta Barcella, e si empirono d’un subito d’acqua, in tale maniera, che furono costretti girare la prora a terra per salvarsi la vita, ma a corrente del mare portò la suddetta Barcella ad ingagliare nelli Scogli di terra [...] ed andarono tutte le robbe a noi fatte osservare e vedere [...]lo scafo tutto fracassato, ed aperto da ogni verso, e senza le farde(?) = due pezzi di tenda = la vela parturia, ed il pallaccone = quattro remi = la pertica16 = l’asta = il ferro = l’alboretto = quattro falanghe17 = la gumminetta = e diverse vitte18 minute [...]19 inoltre si persero gli abiti dei marinai e quasi tutta la merce. In questo caso abbiamo un elenco minimo delle parti dell’imbarcazione, oltre alle informazione dello scambio attivo di merci che esisteva nei vari porticcioli della costa tirrenica. Persi i pezzi dell’imbarcazione ecco quali potevano essere le vicissitudini a cui si andava incontro per riacquistarli, per una partita di remi consegnati e mai pagati, nel 1685, Don Angelo Cavalcante, procuratore di don Carlo Cavalcante suo figlio, decideva di mettere nero su bianco e asseriva che aveva consegnato a Nicola Melfi l’allora [...] Guardiano del Legname del Regio Arsenale di Napoli Settanta sette remi di Galera Caricati Sopra la Barca nominata nostra Signora della Purificazione et Consignati al detto Nicola, et riconosciuti da Girolamo Maglio Capo Mastro in esso Regio Arsenale, [...], ma passati molti anni da tale consegna, il Signor Cavalcante decide di ricorrere alla giustizia e chiedeva a Andrea Pascale di Napoli, regio tesoriere di Calabria Citra, la somma di [...] Ducati Cento Sessanta Uno carlini (?) tre e grana dieci alla ragione di Carlo vent’uno per ciascheduno remo, ha ritardato esso Signor Andrea il pagamento predetto replicando non esser balevole per detto pagamento [...] maggiormente che in detto Nicola sostituto Guardiano in detto Regio Arsenale non è per anche Cognito al medesimo ecci havrebbe stimato necessaria l’attestatione del magnifico Antonio Dodaro Attuario d’esso Regio Arsenale [...]20. Il tira e molla sul pagamento dei remi dura per tutto il mese di agosto del 1685, alla fine si mettono d’accordo e il tesoriere Pascale pagherà a Cavalcante la somma di 111 ducati 3 carlini 10 grana a saldo e completamento dei 161 ducati 3 carlini e 10 grana per i 77 remi consegnati. Anche i mezzi di trasporto terrestri erano prevalentemente in legno: dai carri alle carrozze o lettighe, alle imbarcazioni. Chi si occupava della costruzione dei mezzi di trasporto terrestri era un falegname specializzato: il lettighiere. Al 1760 risale l’inventario della famiglia Scervo, il notaio, come al solito annotò tutto quello che si trovava nell’abitazione, venne poi condotto nella bottega del defunto Antonio Scervo, che di professione era lettighiere, ovvero colui che fornisce barelle e carrozze. Ed [...] entrati in una camera esistente Sopra la bottega che lo stesso tenea, dove esercitava il suo mestiere di Lettichiere, ivi si son trovate le seguenti robbe In primis uno stipo dentro del quale vi si è trovato un cofano di paglia vacuo; [...] due mezzi tumula21 di tavola una cassa senza fermatura vacua, un’altra cassa senza fermatura dentro la quale vi si son trovati due bacili di fajenza, [...] un’altra cassa senza fermatura vacua, boffetta22 di legno vecchia, un scanno per sedere vecchio, [...] ed una

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Majlla che son rimaste dentro detta camera. Scesi della medesima nella bottega di sotto, vi si son trovate dentro le seguenti robbe vide licet---Una Sella usata, cinque lettighe usate colle di loro Sdanghe [...] Appese in una Sdanga vi si son trovate cinque biglie per le mule, una sonagliere per la posta, due sonagliere di petto, tre altre di mula, una briglia di cavallo, quattro vertole usate, una Gualdrappa di Cavallo usata, tre pelle di melogna, due capizzoni di cavallo, due mante di mula, una vecchia e l’altra nuova, un mazzo di fune nuova in capacità di rotola cinque, due gacce grandi ed una zappa piccola [...] E dalle stalle dove si trovavano muli e cavalli si passa ad un’altra stalla ove sul piano di sopra della stessa si trovava un una camera [...] si è trovata quasi piena di legna di fago, con pochi ceramili nuovi poca paglia d’orzo e fieno[...]23. Nella bottega, purtroppo, non furono trovati molti strumenti del mestiere, infatti, non di rado, le cose di un certo valore venivano fatte sparire da qualche furbo eredeprima dell’arrivo del notaio. Il mezzo di trasporto più diffuso, fino all’inizio del ‘900, fu il carro. Nel 1902 alcune testimonianze su processi penali testimoniano spezzoni di vita goliardica d’altri tempi: [...]Verso le ore 4 p.m. del giorno due corrente mese incontrai in questa città il mio amico Pietro Gervasi, il quale mi chiese in prestito il mio mandolino e la chitarra, e siccome questa era di grande valore, così mandai io stesso a prendere un’altra chitarra in casa di mio suocero per darla al Gervasi, il quale mi disse che doveva vestirsi in maschera uno a Giuseppe Pizzarelli e Tommaso Grisolia; in pari tempo mi pregò di fare parte anche parte della maschera. Io annuì al desiderio del Gervasi, tutti ci vestimmo di maschera, e messici sulla carrozza del cocchiere Domenico Galiano, dopo di avere girato per la piazza, ci fermammo alla “Pergola” sopra Portapiana. Ivi il Pizzarelli ed il Galiano stavano per fare quistione perché si disputavano intorno a chi di loro sapeva meglio guidare la carrozza, ma per il mio intervento nulla successe di notevole. Subito dopo tutti ci tornammo a mettere in carrozza e ci avviammo verso il quartiere dei Rivocati; ivi giunti io mi smascherai e mi unì al Gervasi il quale mi invitò a seguirlo in una festa che teneva il pentolaio Antonio Florio [...]24. Oppure per festeggiare il Carnevale: [...] Entrambi ci avviammo verso la piazza dei Valdesi per trovare una carrozza, ma arrivati verso il Ponte dei Pignatari vidi il cocchiere Salvatore Pellegrino che allora aveva tolto i suoi cavalli dalla carrozza e lo invitai se voleva portarmi a quattro miglia, ed avendo costui accettato, salimmo nella di lui carrozza io ed il Mirabelli e siccome vicino alla stessa vi erano altri amici, così invitai tutti a salire nella carrozza stessa perché era di carnevale[...]25. Altri tipi di utilizzo del legno erano legati ad opere strutturali, a Cosenza alla fine del settecento, personalità di spicco in questo campo, era il falegname Domenico dell’Osso, egli capo mastro ed esperto conclamato era chiamato a risolvere un gravoso problema: [...] personalmente costituiti nella nostra presenza il capo mastro Muratore di questa città di Cosenza Ignazio Salerno, Tommaso Puzzo Soldato a cavallo di questo Regio Tribunale, l’altro capo nastro Falegname Domenico dell’Osso di Rogliano[...] e Michele Sisca delle Piane, abitante ancora in Cosenza suddetta qualmente Prattico del Taglio degli alberi, e con giuramento liberamente asseriscono, come per l’incessanti tempi cattivi occorsi ne passati mesi di Dicembre 1791 e Gennaio del Corrente anno 1792, si son gonfiabili due fiumi che passano per questa città, specialmente quello di Busento, in tal maniera che mai da persone più antica si è osservata l’addietro fino ad essersi devastato l’inespugnabile ponte de Revocati, Causa per la quale si era impedito il trafico non solo de Cittadini che di la Commorano, ma ben’anche de forastieri tutti, che per detto ponte necessariamente devono passare, e quindi ad istanza dell’attuale Eletto del popolo della Città Suddettà Don Nicola Maria Vitari mosso del Zelo, e dall’amor della patria [...] essendosi del don Michele Sisca rinvenuti quattro ben grossi, e lunghi alberi nel bosco chiamato la Coda della Volpe, otto migli distante d’essa città, coll’anzicitato soldato a Cavallo mandato da detto Regio Tribunale per farsi tagliare li suaccennati alberi, siccome del detto prattico del taglio de medesimi subito si fecero tremare e conduttare con più paja di bovi in detto Fiume Busento, dove fin dalli principi del primo passato mese di Febrajo furono accomodati in luogo del detto ponte, Con altri legni ben incatinati di così darsi libero il passo, e trafico di questa popolazione, e Forestieri, che felicemente da questo tempo fin oggi esiste intiero, e sopra d’esso comodamente di passa anche con cavalcature cariche, avendoci li anzidetti Capi mastri Muratore e Falegname [...] con altra Gente, allorché detti alberi vi si situarono[...]26. Nello stesso anno, 1792, un altro impiego non meno importante tenne impegnato mastro Domenico dell’Osso, infatti don Andrea Contestabile Ciaccio, nobile patrizio di Cosenza, e Don Gaetano Miceli, in società, avevano eretto a Cosenza un teatro, sito nel quartiere della Giostra Nuova, proprio dove abitava il nobile Ciaccio. Ognuno dei due aveva investito 323 ducati per acquistare il

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materiale in legname, tele e tutto ciò che serviva per la sua costruzione, si passa poi ai patti che la società doveva rispettare riguardo agli introiti e riguardo alla prima fila del palchetto che doveva essere del Contestabile Ciaccio, vista la collocazione del teatro nel palazzo dello stesso. Secondo l’inventario il teatro era composto da: [...]Un Scenario Compito di Bosco, e Camera Tre Teloni diversi Un Sipario anche di Tela dipinto. Un Stipo con Fermatura, Chiave Una Scala. La Platea composta di quattro File di Sedie Serrate con Fermature e chiave, e l’altre File tutte Sedie aperte. La Prima Fila di Palchi nel numero di Undici tutte con Fermature e chiave. La seconda Fila di detti Palchi anche numero di 11 con Fermature, e chiavi. La terza fila, o sia Piccionara tutt’aperta le tre porte di detto Teatro tutte con Fermature Chiavi, e maniglie di Ferro: uno scanno e Lettorino per i Musici. Trenta Lucerne di Latta bianca per uso di detto Teatro, e la volta del medesimo tutta intelata = Due Palchetti eguali alla Piccionara con porte di fuori, Fermature, e chiavi, e le rispettive Finestre tutte con Maniglie, e schioppi di Ferro [...]27. Mastro dell’Osso sottoscriveva Mi obligo Io sottoscritto Domenico dell’Osso tenermi consegnato l’intiero Teatro, sito dentro il Palazzo del sottoscritto Signor D. Andrea Contestabile Ciaccio, tale quale si attrova, giusta il retroscritto Inventario; Da dovere essere duraturo la serie di anni diece, giusta l’Istrumento stipolato tra detto Signor Ciaccio, e Don Gaetano Mileti di questa Città di Cosenza, E doppi terminati detti anni diece mi obligo Io sudetto dell’Osso di restituirlo a detti Signori tale quale me l’ho ricevuto, giusta L’iventario sudetto. E alli incontro Noi sottoscritti D. Andrea, e D. Gaetanovci obligamo di pagare a detto domenico dell’Osso, annui carlini venti per suoi incommodi, in ogni fine di Dicembre, da seguire il primo pagamento in fine di Dicembre del corrente anno 179due, così seguire in appresso durante i detti anni diece [...] Cosenza li 22 Settembre 1792. Il falegname era chiamato anche ad eseguire apprezzi sui materiali: nel 1587 mastro Fabio Oliveri e mastro Nardo Fiure, mastri d’ascia devono eseguire l’apprezzo su [...]lo legname mastria tanto de travi fallacche scale porte finestre tavolati tiilli28 chovame maniglie cancari mascature[...]29fatta nella proprietà di Antonia Massari in località Moio. Oltre ai servizi per l’edilizia, stime e costruzione di mezzi di trasporto, i falegnami costruivano telai per la tessitura, torchi per l’uva o l’olio, casse per custodire la biancheria o conservare cereali, finestre, mobili, botti, fusti e tini, inoltre madie e attrezzi di uso quotidiano. Quindi all’interno di ogni abitazione, vi erano vari strumenti in legno come testimoniato dagli inventari stilati dai notai dopo la morte di un proprietario e l’intervento interessato degli eredi. L’inventario riportato di seguito descrive la casa della famiglia Greco che apparteneva a ceto agiato. L’abitazione era molto spaziosa: una sala, una cappella, cinque stanze, dei ripostigli, una cucina, tre diversi vani nella soffitta tre magazzini, di cui uno in un altro stabile di fronte all’abitazione. La descrizione che il notaio ha fatto è ricca di particolari, per professione, in questi casi, doveva accedere in ogni ambiente dell’abitazione e segnare con cura i mobili e gli oggetti che vi erano conservati. I mobili, sono quelli che si usavano alle normali azioni quotidiane, tutti di un certo pregio e di qualità: [...] Mobili che si son ritrovati nella Casa dove abitava detto fu Don Nicola, quale casa e propria del cennato Don Rafaello Greco[...] Nella Sala una Boffetta d’abeto usata, altra di noce usata, un scanno d’abeto, un cassone piccolo d’abeto vacuo, un Stipo d’abeto pittato a sguazzo torchino dentro il quale diverse lettere a scritture, e due guantiere di legno alla cinese[...]. Casse grandi e piccole sono presenti in tutte le abitazioni in numero notevole, ovviamente erano alla base del mobilio poiché in esse erano conservati tutti gli oggetti di uso quotidiano tra utensili da cucina e biancheria. Alle pareti: [...] Quattro quadri in oglio colle quattro Stagioni con cornice dorata a mistura: Altri Sei in paesaggi, un lampadari di vetro appeso nel mezzo, ed un bilancione per pesar seta colli suoi pesi d’ottone in libre ventisei = Nella prossima camera tre tondini di legno indorati a mistura con piede di marmo color m**** di sopra; Quattro Specchi piccoli con intagli dorati a mistura: altri due simili dorati con oro di zecchino: altro più grande colla stessa doratura: un sofà di noce coverto con pelle gialla: Dodici Sedie tinte torchine = una boffetta di noce con due foderini, dentro il primo diverse Scritture; [...] un quadro con cornice dorata a mistura coll’effigie di San Sebastiano = altro con quella della Maddalena = Quattro eguali, uno colla effigie della Sacra Famiglia altro con quella della Madre Santissima di Costantinopoli; altro con quella di S. Filippo Neri; e l’altro con quella di San Francesco d’Assisi = altri due piccioli, uno col Bambini, e l’altro con S. Giovanni = Otto Tondini con frutti = Quattro quadri con cornice alla cinese di figure = Due Zinefre30 indorate a mistura [...]. I

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quadri non vengono quasi mai descritti riguardo alla loro raffigurazione, oppure se si trova la descrizione non si specifica l’autore, la cornice invece viene sempre segnata, anzi elencare la cornice indica il quadro di per se. Particolare ciò che si trova nella cappella di famiglia: [...] nella Cappella un stipo grande all’altarino di dentro con li Suppellettili Sagre per uso della celebrazione della S. messa: [...] un inginocchiaturo di legno alla cinese[...]. Nell’altra Stanza dodici sedie di riposo indorate a mistura con estremi di drappo rosso e gallone di seta gialla usate, le quali son coverte di pelle fiorata; un picciolo canapè della stessa maniera; quattro specchi uguali dorati con oro di zecchino; dodici placche della stessa doratura; quattro tavolini di legno dorati a mistura con pietre di marmo bianco venato nero; una zinefra di legno dorata a mistura [...] Nella terza stanza sei sedie rosse usate, due tavolini di legno dorati a mistura con pietre ad uso di marmo, due quadri con cornice dorata a mistura, uno coll’effigie di S. Pietro e l’altro con quello della Susanna; altri tre più piccioli con cornice nera uno coll’effigie di S. Girolamo, altro con quella della Madre Santissima degl’Angeli, e l’altro con quella di S. Bruno: Due zinefre di legno dorate a mistura; [...] Nel Camerino appresso sei sedie Torchine usate, un piccolo tavolino di noce, un quadro istoriato in oglio con cornice indorata a mistura; otto quadri di figure, con cornici alla cinese; [...] Nella seconda camera a man sinistra sedie rosse numero sei, [...] due quadri con cornice nera uno colla effigie della concessione in oglio, e l’altro con quella della Madre Santissima di Costantinopoli, altro più piccolo nascita, due quadri con figure alla cinese, un tavolino di legno tinto nero [...]. Gli specchi dorati erano con cornice di legno dipinto d’oro, così come il tavolino. [...] In altra Stanza oscura appresso, un stipo di legno grande entravi pochi commestibili = In un cassone varie sorti di legumi, in altro un sportone mezzo di maccarroni, altro più picciolo pieno di vermicelli, ed una pietra di sale, in rotola quindici = Un piede di bacile di legno col suo bacile di creta; un cantarano31 d’abeto [...]. In cucina erano molti utensili e in un [...] bancone di legno con piatti di creta ordinari numero quattro, bacili di detta creta numero sei, zuppettera della stessa una due ciccolatere una di rame e l’altra di latta bianca, tre ciccare di ciccolata, e tre di caffè della stessa creta, un calzone, entrovi un sacco pieno di farina, due tovaglie di bambace per uso di pane, sacchi vacui numero tre[....]. In Soffitta [...,] al primo una cassa con una sella vecchia di dentro, diverse pentole, tielle di creta: altro interamente vacuo, altro con diverse frutta = In un cassone mezzo tumulo di fichi secche; altro con un tomolo di noci, altro con passi; altro entrovi sei coverte di bambace bianca, altre tre di bambace e lino gialle tutte usate, sei paja di facci di cuscini di tela femminella un pajo di Stivali di pelle appesi nel muro e l’altri due Soffitti vacui[...]. E ancora in una stanza in basso: [...]due boffette di legno lavorate alla cinese usate, due casse piene di lettere, un bauglio entrovi una coverta di capisciola uccelli novigna e diverse scritture, una Scanzia colli Seguenti libri; un Dizionarietto Francese tomi 2: in quarto; una Grammatica dello Stesso idioma, dieci tomi di più raccolte e pochi libricciuoli di vite de Santi[...]32. Nella descrizione riportata sono stati tralasciati abiti e corredo, pur presenti in numero notevole e di un certo gusto, mentre sono riportate le descrizioni degli oggetti che vi erano conservati, per dare l’idea dell’uso che se ne poteva fare. Sembra interessante la lavorazione alla “cinese” che ricorre più di una volta, forse questa era una decorazione in voga all’epoca. Nel magazzino, allora come oggi, si trovavano oggetti in disuso o vecchi, ma anche e soprattutto mobili usati come dispensa e grossi contenitori per l’olio e botti per il vino. Infatti: [...] Nel magazzino per uso di cellaro: Botti di legname di castagna numero sei della Capacità di barili quaranta l’una quattro di esse vacue, una piena e l’altra mezza[...]33. Nell’inventario del defunto Saverio Del Vecchio, invece, si trovano diversi quadri con la cornice dorata e oggetti dal gusto particolare. In una delle stanze: [...]un lettino in dove dorme il Signor Don Pasquale Suo figlio di legname di torno [...] un braciere di rame gialla col suo piede di noce lavorato. Un buffettino da Scrivere di noce, con due Tiratori pieni di scritture[...] in un’altra stanza [...]uno scarabatto di noce lavorato con cristallo a tre lati col bambino fasciato, padiglione color Rose, e suo coscinetto con trincilli34, e fiocchetti di oro, e diversi frutti di cera, colla sopraveste detto Scarabattolo di tela di persia - un boffettino di noce lavorata bislungo a quattro piedi, con quattro tiratoretti - altro boffettino di noce a libretto - un burò di noce lavorato, con un tiratoro grande e quattro piccoli - altro piccolo buroncino con due tiratori di noce lavorata[...] in una cassa [...]Un presepio con personaggi di legno - una toletta di noce lavorata a mostica[...] un crocefisso d’avolio col suo piede di noce alla

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mosaica - una testa di morto di legno - un quadretto di S. Francesco Saverio d’argento[...] quattro quadretti con cornice d’oro ricamati – altro quadretto con cornice d’oro ricamato - [...] un bastone di canna d’india col pomo d’oro[...] un crocefisso d’ottone con legno nero – un quadretto piccolo di noce [...] Quattro Candilieri di legno dorati [...]35. Forse il notaio ha descritto con più precisione e con ricchezza di particolari gli oggetti trovati nelle stanze, ma si nota un continua lavorazione del legno anche se si tratta del piedistallo di un braciere. Particolare è la testa di morto che potrebbe essere evocativa di un ricordo, per un defunto in famiglia, oppure semplice oggetto usato contro il malocchio. Nell’inventario della casa del fu Pietro Greco in una stanza, quasi all’entrata dell’abitazione erano riposti, fra tanti quadri: [...]due stipi di legno[...] Ed in unaltro moltissimi pastori di Presepe al numero di quarantatre ed Angeli numeri sei [...]. In un camerino [...]...una Cappella di Legname indorata; quadri di pittura numeri sei[...]. In un’altra camera [...] che stanno sistemati a man destra di detta saletta abbiamo ritrovato stipi di legno numero due, con dentro pastori di legno dell’altezza d’un palmo, e più numero quarantadue pastori di creta numero dieceotto; Angiolo di cartapesta numero dodeci; vacche di legno numero otto; pecore di legno numero sessantatre cani di legno numero quattro pecore di creta numero trenta [...]36, poi ancora quadri piccoli e grandi, mobili per gli utensili da cucina e majlla37 di legno. In genere tutti gli inventari presentano una certa ricchezza di mobili e oggetti che riempiono la casa, in effetti le abitazioni sembra non avessero spazi vuoti, persino le pareti erano piene di quadri, la differenza stava solo nelle possibilità economiche dei protagonisti. Trovare particolari in un mobile o in un oggetto fatto di legno, non è facile, tutto dipende anche da ciò che il notaio riporta, alcuni notai, forse la maggior parte, contano e numerano gli oggetti, descrivono con dovizia di particolari, alcuni altri riportano solo sommarie citazioni. In quest’ultimo caso può essere stata la stessa famiglia a decidere se elencare o meno tutto quello che rimaneva in casa. Altro strumento in uso nelle case dell’epoca era il telaio, di solito posizionato in camera da letto o in camere adibite a laboratorio, la dove la produzione famigliare si allargava e si apriva alla vendita. Filatura e tessitura, il cui apprendimento era trasmesso da madre a figlia, erano svolte nelle mura domestiche e contribuivano all’autonomia delle donne, oltre che all’integrazione del reddito famigliare38. Nel 1734 Marzia Martino, vedova di Luca Cento, e la figlia Lorenza, così testificano: [...] di Napoli da anni quaranta in circa habitanti in questa città di Belvedere [...]con giuramento fanno fede, come per lo spazio d’anni quindici in circa sono stati ed habitare in affitto nella Casa del quondam Capitano Carlo di Paola loco detto lo Prajo, [...] nella quale casa vi hanno continuamente tenuto il Telaio da tessere, senza che fusse stato dato fastidio alcuno, o impedimenti in tempo che hanno tessuto in detto telaio[...]39. Anzi, per evitare che la loro attività potesse essere bloccata da un vicinato preoccupato, si chiamarono in causa dei periti: [...] Antonio Scannavino[...] e Giuseppe Amoroso[...] mastri fabbricatori [...] dichiarano, attestano e fanno fede, come ad istanza e richiesta del detto Carlo di Paola di Tommaso, questa mattina istessa si sono personalmente conferiti in una sua casa loco detto la Prajo, che al presente habita in affitto Giuseppe di Lena per osservare su il forno in quella esistente appatesse suggestione o fastidio alcuno a convicini, e se in quella vi si potessero tenere telaio da tessere, senza recare pregiudizio alli mura delle case superiori[...]40; i quali, dopo controlli meticolosi diedero responso finale positivo, il telaio e il forno non pregiudicavano le mura dell’abitazione. Le singole parti di un telaio raramente si trovano elencate, poiché ciò presupponeva un impegno alla vendita del telaio, cosa che accadeva raramente in quanto lo stesso rappresentava un patrimonio economico per la famiglia. Nei bassi, adibiti a bottega un altro strumento dalle varie componenti in legno è un congegno per preparare i Maccheroni. Mastro Giuseppe Picci e Caterina Fera, sua moglie, nel 1779, mettono in vendita un: [...]ingegno peruso di Tirar maccarroni, consistente in Trafile di Rame numero quattro del peso di libre trent’otto in circa un Fonte di bronzo col suo Ceppo di legname, due colonne di legname che mantengono l’Ingegno suddetto, una Scrofina con Vite di Legname, e con occhio e archi di ferro, Tine numero due Criva di Semola numero quattro, Sbirga con sua Stanga, Criva di farina fini minati numero due, Caccature numero due, Tinella una,

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un mezzo Tumolo, una Bilancia di Rame con un mezzo rotolo di bronzo, e l’altri pesi per pesar maccarroni tutti di Ferro, un Caldarone di Rame col suo Treppiedi di ferro, una Statera grande, una Majella di Tavole d’apite con sue Scalette, due Sporte di Tavole, un Mortaro di legnamen con Piastra di Ferro; una Piastra di Ferro che entra nel Fonte, una Forcina di Ferro, e due Pezzi di Legname che entrano benanche nel Fonte, quali sopra annotate Robbe tutti con atti al mestiere di Maccheronari, e buoni per tal opra [...]41. I Coniugi avevano la necessità di avere liquidità per estinguere dei debiti e poiché la macchina non dava loro i profitti sperati, decisero di venderla per 70 ducati a Antonio De Bonis. Nelle cantine erano spesso presenti le botti nelle quali si conservavano le vivande, come ad esempio il vino, bevanda alcolica che deve essere conservata con la massima cura. Il legno deve essere compatto, non resinoso. Le botti, quindi, venivano fatte di legno di castagno, di quercia e gelso. Al falegname era richiesta molta precisione, per la costruzione delle singole parti della botte, che dovevano tutte combaciare, tuttavia poteva succedere che il notaio raccogliesse testimonianze negative sull’argomento [...] nel magazzeno del vino [...] della Città de Cosenza posto Dentro le Casi del Dottor Giovanni mauro della detta Città poste In detta Città loco detto Santo francesco d’assisa a richiesta a noi fatta per horatio Beltrano uno de Deputati del vino In spetie de detto magazzeno [...] le havendo In presentia de noi perquisito le botti de detto magazzeno havemo retrovato uno botte de Salme42 tre evacuata per la portella de detta botte et in unaltra Ci manchava una [...] Salma et piò de vino quale era fuso de la parte de mezzo le detta botte fra una doga e l’altra et una loro botte de Salme tre ci manchava pio delle meta del vino quale era evacuato della parte d’avanti de mezzo la botte delle parte del timpagno denanti sincome ocularmente appare In dette botti per noi perquisite et evidente appare detto vino essere evacuato per l’effusione d’esso quale evidentemente pare In detto magazzeno per molte borge(?) appare haver fatto sotto dette botti sotto dette botti et il terreno bagnato [...]43 Il contadino, invece, lontano dal contesto del paese o della città, non chiedeva al professionista era costretto a costruirsi da solo gli utensili utili per il suo lavoro: l’arredo per la sua abitazione e le botti per il vino,le vanghe e le zappe, in pratica ciò che gli serviva, un esempio concreto risale al 1747, Giovanni Pellegrino di Belvedere, di professione contadino, per una questione del tutto personale raccontava al notaio che [...]verso l’ora di mezzo giorno finì li cerchi per detti barili, e non avea altro da fare e conoscendo che non v’era più rumore di piovere pensò ritornare indetta sua Possessione per nettare lo spandituro44, e fare le legna, e cose necessarie per fare li passi45, giacché il tempo era vicino[...]46. Accanto ai lavori in legno, quelli comuni e quotidiani, si sviluppa con il tempo una vena più artistica della lavorazione pura e semplice, essa si esprime con tutto il suo splendore nell’arte monastica portando alla specializzazione di veri e propri mastri riconosciuti e convocati solo per la creazione di altari, arredi, statue lignee. Attorno agli artieri si sviluppano delle vere e proprie scuole di cantiere come la “scuola roglianese”47 o la “scuola di Morano”48, ove intere famiglie di artisti trasmettono l’apprendimento ai discepoli. Gli accordi erano stipulati tra comunità religiose e artisti più o meno locali, alcune volte si tratta di arredi o soffitti, oppure l’arricchimento di un altare, in ogni caso era previsto un disegno che doveva essere eseguito alla perfezione, così come le opere non eseguite da accordi presi, erano tutte a carico dell’artista. Si stipulavano con precisione le scadenze, la “parcella” e i tempi di realizzazione. I tempi erano molto brevi, quindi l’artista lavorava a pieno ritmo. La prima convenzione risale al 1601, fra il falegname Bernardino Costanzo e il Monastero di San Francesco di Paola. Le parti così si accordarono: [...] che detto mastro Bernardino [...] fare le infradette ornamenti et opere di carpenteri: li stipi a torno a torno detta sacrestia incomenciando da che se entra da la porta di li incanstri et girare a torno a torno per fia lo lavatorio et li stipi con ornamenti hanno di essere di questo modo In pedi fare A torno atorno uno scabello alto uno mezzo palmo et atorno atorno fare uno bancato con li tiraturi di lo bancato abascio et delo abancatao ad alto fare le spallere guarnite conforme le spallere di lo arciviscovato de Cosenza levate le sedie arcivescovali ma solum farle con forme le spallere dove sedino li preiti et fare li tiraturi lisci et le portelle guarnite con cornice conforme al disigno49 quale resta in potere di essi parti et a mezzo detta scanczia (?) et proprio dove al presente sta lo altare et se habia di fare uno ornamento di Cappella seu stipo per conservazione de la argenteria de detto monasterio la quale la habia di lavorarla cioè (?) fare [...] li baleastri scannellati et catipitelli conforme sonno quelli dela sedia arcivescovale di retro lo altare de la matre ecclesiacuria di Cosenza et sotto dello stipo di detto altare restare voto per conservarci li carte quale habia de ornare conforme le altre opere de detta sacrestia et [...] di detta sacrestia

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farci uno quatro proprorzionato con lo pede alla romana quale servera per scriptorio quale la habia di ornare conforme le altre opere et fare allo vacante dela porta de la parte sinistra di lo accoro(?) cioè de la parte di dentro detta sacrestia farci uno stipo grande quanto lo loco recerca co le scansie conformi li patri de detto monasterio la adimanderanno lavorato conforme le altre opere et alla parte sinistra quando se entra nella Sacrestia de li incastri farce una cascia de le quattro chiave lavorata modernamente et si ce serva loro in detta Sacrestia farci uno confessionario di lo instesso lavoro quale opera havere da essere de questa ligname: tutta la apparencia di nuce et laltre ligname di castagna et apite quale opera dello mastro Bernardino predetto farla bona et di tutta perfettione ad arbitrio di experti conforme il detto disegno con declaratione che esso monasterio et patri di esso le haveranno da Consignare a detto mastro Bernardino tutti li ligname [...] tutte le tijlli ciovi et altre cose necessarie per detta opera [...]50. A mastro Bernardino verranno corrisposti 80 ducati: 20 per il giugno del 1601, gli altri 20 ducati per la realizzazione di metà dell’opera e i restanti 40 ducati ad opera finita. Del tutto differente la convenzione del 1633, viene essa sottoscritta fra il Convento di San Domenico di Cosenza e tre mastri: Giuseppe Ioffrida di Paterno Gio Aurelio Muto di Rogliano e Sertorio Perrotta di Tessano, con specifiche sulla divisione del lavoro, ma con la postilla di mantenere le direttive delle vecchia convenzione stipulata 16 anni prima con mastro Fabrizio Volpe di Paterno per la costruzione di un [...]Choro di noce Intagliato, et Laurato conforme al disegno [...] Per prezzo di ducati mille e quattrocento in circa e perché detto mastro fabrizio passò di questa vita con haver lavorato parte d’esso choro et li Padri per Tempo e di detto Convento Convennero con li sopradetti mastri Giuseppe Gio: Aurelio e Sertorio Che seguitassero detta opra conforme detto disegno [...] per lo stesso prezzo concordato con mastro Volpe, anche se [...] per quanti si recordano .. scendono alla Somma di ducati trecento, cinque, et havendono detti mastri Continuato detta opra per in sino a quele se hoggi si Cerca Confessano con Giuramento havere Ricevuto ducati novecento Includendonose li sopradetti ducati 305 ut supra [...] sono Convenuti a dividerli l’opra in tre parti come Infatto se l’hanno divisa dell’Infradetto modo: Le sette sedie maggiori che e la testa del detto Choro co le Sedie a basso che si doveranno mettere a perfectione Toccano per Cartella al detto mastro Giuseppe Ioffrida quale di sopra; la parte sinistra già fatta dal detto quondam mastro fabrizio co lesedie d’abasso anchora da metterli a perfectione toccano al detto mastro Sertorio perrotta, E l’altra terza parte che si va alla saenistra co le Sedie d’abasso da mettersi anchora a perfectione toccano a [...] mastro Gio Aurelio muto; a Perche alla perfectione delle Sedie di sopra vi mancano quindici Colonne con li soi terzi e Capotelli ne sono toccati cinque per ciascheduno di loro et Intorno alli Frisi, che mancano ne doveranno fare tre pezzi per Ciascheduno et perche al detto disegno si doveranno fare anchora li finimenti si sopra al choro conforme app.re per il disegno mastro Giuseppe [...] s’obliga fare li finimenti che se sono notati pe le sedie maggiori; mastro Gio: Aurelio co Giuramento [...]s’obliga di fare li finimenti di sopra la sua parte già detta et mastro Sertorio [...]s’obliga fare li finimenti di sopra le sedie della sua parte già detta che sti tre insieme [...]s’obligono di portare a perfectione conforme al detto disegno le sedie d’abasso per tutto il mese di maggio [...] de presente anno 1633 cioè ogn’uno la sua parte co la divisione fatta di sopra [...]61. I padri domenicani pagarono ai mastri ducati 100 e l’ultimo pagamento di 200 ducati ad opera finita fino ad arrivare alla somma di 1400 ducati stipulati con il defunto Fabrizio Volpe. La Congregazione di Santa Maria della Consolazione, eretta dentro la Chiesa di Sant’Agostino stipulava un contratto con mastro Francesco Posteraro di Lago: [...]esso Mastro Francesco per tutto il mese di Dicembre del presente anno 1699 fare a tutte sue spese fatiche, e di legname Lavorata La Cappella Seu Cappellone del Altare di essa Congregazione e confraternita di Santa Maria del Soccorso nella forma che se ne è fatto disegno, e detta opera ponersi dentro, o fuori l’Arco di detta Cappella ad Arbitrio dell’Officiali, e fratelli di essa Venerabile Congregazione e Confraternità, e detta opera dovesse essere di Legname Secca, e Stascionata affinché non si aprisse, o Tompisse e la Legname dovesse essere cioè detta Cappella seu Cappellone di Legname d’Apite, e li fogliaggi di legname di Tiglia Con tre gradini all’altare; e le Credentiere debbiano pigliare da alto per insino a Basso Similmente lavorate, e Servata In.. busta forma che Se ni è formato, e che ut Infra si Consignerà al predetto Mastro Francesco Postararo. Con che però Se li do..re(?) da essa Congregazione e Suoi Officiali pagare detta Opera la Somma di Ducati Cento In questo modo cioè Ducati dieci presente e [...] oggi medesimo, docati quindici alla fine del Corrente mese, docati Venti Cinque alla fine del mese di Novembre, e li Remanenti Ducati Cinquanta a Completamento al mese di Dicembre del presente anno 1699, nel qual tempo doverà esser finita, [...] Con patto che volendosi fare detta Cappella nella Par...(?) di detto Arco, e li Risalti del Cornicione, e Pedestalli non Capendo debbiano Infrontarsi con detto Arco senza Risaltarsi, e le colonne debbiano esser tonde, et Isolate quindice.

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Con altro patto che finita Sarà detta Opera detto Mastro Francesco debbia esibire, e presentare il suddetto Disegno ut supra Consignatoli a fine di vedersi se detta Opera Sarà comodo, et forma del Suddetto Disegno [...] Con altro patto che finita sarà detta Opera per lo spazio di un’anno Continuo principiando a correre dal di che si Alzerà detta Cappella facendo qualche motivo di Rottura. In tal Caso di debbia Risarcire, e rifare a spese, e faticare di esso Mastro Francesco[...]52. Nel 1716 Antonio Vitaro Prefetto, il Dottore Francesco Perri e Gennaro Serpa, deputati delle città di Cosenza per il Capitolo delle Congregazione di S. Caterina da una parte e dall’altra parte Mastro Antonio Curcio di Belmonte, il quale si impegnava a costruire: [...]il Cappellone dell’Altare d’essa Gloriosa Santa di Legname di Tiglia lavorato Sincome il disegno, che sta in potere d’esso mastro Antonio firmato da essi Prefetto e Deputati, dal Procuratore Spirituale e dal predetto Nicola Zicaro [...] promette esso mastro Antonio Curcio Consignarlo a me Notaio fra il termine di Giorni quindici [...] cioè l’altare con tre gradini per detta la fine d’ottobre 1716, e la restante predetta Cappella per tutto la fine de Aprile 1717. Con che però il lavoro debba essere rilevato a proporzione e che sia tutto della mano d’esso Antonio, ed l’adossature seu tilaro di petto al muro si debba fare a spese di detta Congregazione. Ed questo per il prezzo fra loro Convenuto di ducati Cento, e diece[...]53. l’intero pagamento era così suddiviso 20 ducati in moneta d’argento e di rame, altri 20 ducati da pagarsi per la fine di maggio e la restante somma da pagarsi a lavoro finito Un altro lavoratore specializzato del legno era lo stampatore a cui veniva richiesta vena artistica e minuzia di particolari. A lui si commissionavano stampi in legno con la raffigurazione di figure e di caratteri, lavori unici che venivano conservati con cura e tramandati perché divenivano vere e proprie matrici, non riproducibili allo stesso modo, non recuperabili in caso di smarrimento o distruzione54. Nel 1591 Michele Vinaldi veneziano, torquoleri55 della Stampa di Cosentia e Filippo Corazzo di Tuscanella compositori56 in detta stampa dichiaravano che il detto reverendo Giovanni Andrea [...]de ordine de lo magnifico domenico contarini stampatori In questa città ha intagliato le infrascritte forme di figure57 di ligname di piro; videlicet complito uno piso(?) in foglio chenge mancava una parte una Santa caterina in quarto foglio Santo cipriano Insidici uno Jesus pure Insidici la trinità in mezzo foglio le armi del papa et le armi del cardinale de Cosentia Insidici quattro coppe in foglio sono lanuntiata Intrenta dui uno angelicchio finale pure Intrentadui et certi minaturi [...] et certi altri litteri di piro Intagliati quale forme fatte per esso don gio: Andrea utsupra forno consegnati al detto Domenico Contarini et quelli sonno stati in stampa [...]58. In pratica, tale Domenico Contarini per conto e richiesta del reverendo don Giovanni Andrea faceva intagliare una serie di figure sacre a due stampatori. Dall’elenco delle richieste e dalla dimensione, intesa in fogli tipografici, sembra che si dovesse mettere in uso la tecnica della xilografia. Nel testamento di Vincenzo Maurelli, abitante dei Revocati di Cosenza, si trovano degli oggetti tipici della tipografia: [...] Item dechiare haver d’haver da francisco beccamonti Carlini diece per resto di venditione di stampa, atteso diece altri Carlini li ha ricevuti per complimento dello prezzo di detta stampa. Item dechiara haver di donare a michele lo libraro carlini quindici de quali vole che si possa esigere li sopradetti Carlini dieci debito per lo sopradetto francesco beccamorti et li restanti Carlini cinque li paghi Angelo Campana per tanti li deve per lo prezzo di tante robbe[...] Inoltre dichiara di possedere [...]una stampa de ligno de la madonna[...] Una stampa di Anella di pietra[...]59. Possiamo ipotizzare dal testamento che Maurelli era un operaio tipografo. Nell’atto successivo, per una stamperia di Cosenza, si muovono i notabili e gli amministratori delle città. La stamperia veniva tramandata da stampatore a stampatore e le condizioni per l’ultimo proprietario erano che la facesse funzionare, la restituisse in caso di termine dell’attività, e stampasse gratis per la città di Cosenza. Tommaso Casello, il sindaco dei nobili di Cosenza, e il notaio Gio: Domenico di Alessandro sindaco dei cittadini assieme a Domenico Mollo Oranges asserivano che [...]come nell’anno 1635 fu consegnata al quondam Gio: Battista moio una stampa60 di essa Città consistente in uno torchio, due fraschetti61, e tre caratteri, cioè uno corsivo grosso uno caromone, et uno mezo di havere maiuscole62, quale pisate insieme con cinque cassette63 di tener Caratteri pesorno rotola64 cento settanta uno Con pacto fra loro, che esso Gio:Batta sua vita durante

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tenesse detta stampa, et quella custodire, et non maltrattasse, ne facesse maltrattare, ne ad movere da questa fedelissima Citta di Cosenza, [...] come essendo li mesi passati moriò detto Gio: batta di moio, restò detta stampa in potere al Gio: batta Russo stampatore, quale quanta esercitava in detta Città, et dopò essendo morto detto di Russo, quella remase in potere di Cianna marigliana nora di esso Gio: Batta russo. Et però sono venuti in attenzione esse parti, che esso Domenico mollo facesse esercitare detta Stampa in essa fedelissima città, et s’obligasse a tenere detti Caratteri vicini da detto quondam gio: batta di moio, et quella di restituire del medesimo modo, che detto quondam Gio: batta la ricevè servata la forma di detto instrumento, et per tanto essi Signori Sindici in detto nome promettono a detto domenico mollo le franchezze(?) [...] Esso domenico mollo promette sempre a quando di mettera detta stampa restituire a detta Città, et soi Signori Sindici, che pro tempore saranno l’istessa stampa comodo, et forma, che la ricevì detto quondam Gio: batta di moio et di più promette far stampare gratis tutte quelle Scritture che bisognaranno, et saranno necessarie per servitio di essa fedelissima Città parole siano tali, che essa Città fusse tenuta a pagarni la stampatura in caso di bisogno, nel quale et solo Città dabbi solo da administrare la spesa della Carte, et non altro [...]65.

1 Per approfondimenti si consulti: Pezzi M., La Sila Borbonia, Cosenza, Edizioni Orizzontali Meridionale, 1991 e Meluso S., La Sila e la sua gente, vol. II, San Giovanni in Fiore, Edizioni Grafica Florens, 1997. 2 Nel 1795 Mastro Nicola Stranges, di Cosenza, dichiarava che: «[...] del prossimo passato mese di maggio si portò col suo figlio a fare legna nell’Ischia di Campagnano, o sia Bosco del Signor Don Lelio Cavalcante nobile patrizio di questa città, e nell’atto, che Aquino di Mendicino, e Francesco Belmonte per arrestarlo, come fecero, a tenere del Bando Spedito dalla Regia Corte d’essa città Colla pena di docati dodici, e due mesi di Carcere per chi pascolasse o facesse Legna in detta Ischia di Campagnano [...]», ma per una piccola raccomandazione non venne portato in carcere e non pagò, la sua salute però non fu più la stessa perche nel tentativo di fuggire cascò nel fiume Crati. CSas, notaio Nicola del Pezzo, 28 giugno 1795, cc.124v-125v. 3 CSas, notaio Pietro Jacino, 13 dicembre 1741, cc.115v-116v. 4 Serra a d’acqua: Sega d’acciaio mossa da una turbina azionata ad acqua. Cfr. Meluso S., op. cit.. 5 CSas, notaio Napoli di Macchia, 14 aprile 1518, c.27rv. Su segnalazione di Maria Paola Borsetta. 6 CSas, notaio Giacomo Maugeri, 21 maggio 1591, cc 53r-60r. Su indicazione di Maria Paola Borsetta. 7 CSas, notaio Francesco Antonio Atella, 17 novembre 1749, cc.515v-516v. Segnalazione di Maria Paola Borsetta 8 CSas, notaio Pasquale Assisi, 13 settembre 1771, c.246. 9 CSas, notaio Pasquale Assisi, 13 settembre 1771, c.242v. 10 Palmo: unità di misura in lunghezza. Il palmo napoletano valeva 0,2633 metri. 11 I pagamenti sono in ducati, carlini e grana. Un Ducato Napoletano equivaleva a 100 grana, pari a 4,3685 lire italiane; una carlino, moneta d’argento o d’oro, nel Regno delle due Sicilie equivaleva a 10 grana pari a 0,4368 lire italiane; un grana equivaleva a 12 cavalli. 12 Lamia: volta di una stanza. Cfr. con Rohlfs G., Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria,

Ravenna, Longo Editore, 1977. 13 CSas, Notaio Filippo Sicilia, anno 1742, c.122v. Sullo stesso protocollo notarile in allegato al documento del 16 marzo 1742 c. 58, (sull’allegato c. 63). 14 Feluca: La feluca è un piccolo veliero mediterraneo diffuso nei secoli scorsi, a scafo di legno, attrezzato con due alberi a calcese, ciascuno con una vela latina. Cfr. su Dizionario Enciclopedico Italiano, fondata da Treccani G., Roma, 1970, vol. IV, s.v., “feluca”. 15 CSas, notaio Carlo Perrellis Junior, 15 marzo 1743, cc. 166-168v. 16 Pertica: Stanga, bastone di legno, abbastanza lungo, che si adopera in vari modi, come ad esempio misurare l’altezza dell’acqua oppure, spalmata di cera o di grasso, usata come scivolo di legno per la barca. Cfr. con Dizionario Enciclopedico Italiano, op. cit., Vol. IX, s.v., “Pertica”. 17 Falanghe: Unità di misura da 3 a 6 metri. 18 Vitte: Bitte. 19 CSas, notaio Carlo Di Paola, 18 dicembre 1745, cc. 120v-122v. 20 CSas, Notaio Giacinto Crocco, 28 agosto 1685, cc. 197r-200r. 21 Tumola: il tomolo era una misura di capacità per aridi. Nel Regno delle due Sicilie equivaleva a 55,23 litri circa. 22 Boffetta: tavola su cui si mangia o si scrive. Poteva anche essere un mobile da soggiorno o da cucina con più ripiani e cassetti. Cfr. con Rohlfs G., op. cit.. 23 CSas, notaio Pasquale Assisi, 3 marzo 1760, cc.59-66. 24 CSas, Processi Penali, B. 2713, Vol. I, cc.43-45. Su indicazione di Francesco Caravetta. 25 CSas, Processi Penali, B. 2713, Vol. I, cc. 43-45. Su indicazione di Francesco Caravetta. 26 CSas, notaio Nicola del Pezzo, 18 marzo 1792, cc.70v -71v. 27 CSas, Notaio Carmelo Maria Trocini, 3 ottobre 1792, cc.294r-295r; Inserto datato 10 settembre 1792. Per approfondimenti sul teatro si consulti: Teatro e musica a Cosenza e Provincia nel XVII secolo, in Giorgio Miceli e la Musica nel Mezzo-

giorno D’Italia Nell’Ottocento, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Arcavacata di Rende, 3-5 Dicembre 2004), a cura di Maria Paola Borsetta e Annunziato Pugliese, Vibo Valentia, Istituto di bibliografia musicale Calabrese 2012, pp.443-525. 28 Tiilli: Assi di legno usate per la copertura di tetti. Erano inchiodati a una certa distanza e fra gli spazi poggiavano le tegole che servivano da canali di scolo. Cfr. con Rohlfs G.,op. cit.. 29 CSas, notaio Angelo de Paola, 20 agosto 1587, cc.170v-176r. Su suggerimento di Maria Paola Borsetta. 30 Zinefre: ornamento d’ottone nella parte superiore dell’addobbo del balcone. Cfr. con Rohlfs G., op. cit.. 31 Cantarano: grosso vaso da notte. Cfr. con Rohlfs G., op. cit.. 32 CSas, notaio Pasquale Assisi, 18 gennaio 1768, cc. 45v-61v. 33 CSas, notaio Pasquale Assisi, 18 gennaio 1768, cc. 45v-61v. 34 Trincilli: Chiodi con la testa arrotondata che, di solito, i calzolai mettevano alle suole delle scarpe per ritardare l’usura. In questo caso sono decorativi e sostengono i fiocchetti. Cfr. con Rohlfs G., op.cit.. 35 CSas, notaio Antonio Rossi, 7 dicembre 1779, c.296. 36 CSas, notaio Gaetano Martirano, 12 settembre 1765, c.236v. 37 Majlla: Madia, arnese rustico costruito con tavole, usato per impastare la farina per la preparazione del pane. Cfr. con Rohlfs G., op. cit.. 38 Per approfondimenti si consulti: R. Ciaccio, Risorse Femminili. Storie di donne nella società calabrese tre Settecento e Ottocento, le Nuvole, Cosenza, 2002. 39 CSas, notaio Carlo Perrellis Junior, 24 febbraio 1734, cc.101v.102r. 40 CSas, notaio Carlo Perrellis Junior, 24 febbraio 1734, cc.115v-116r. 41 CSas, notaio Michele Romano, 7 gennaio 1779, cc. 12r-18r. 42 Salma: Antica unità di misura per capacità di aridi (semenze varie) e liquidi. Corrispondeva a valori da 70 a 300 litri.

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43 CSas, notaio Vito Antonio Arnone, 6 gennaio 1616, c.5. 44 Spandituro: Tavolo su cui si stendeva l’uva passa per farla asciugare. Cfr. con Rohlfs G., op. cit.. 45 Passi: Uva passa. 46 CSas, notaio Carlo Antonio de Paola, 26 novembre 1747, c.72v. 47 Si approfondisca su B. Mussari – G. Scamardì, Notizie sull’attività di Architetti, artisti costruttori in Calabria citra nei secoli XVI-XVIII, in Quaderni del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbano (P.A.U.), Università degli Studi di Reggio Calabria, Gangemi Editore, anno VII, 13-14. 48 Per la scuola di Morano si approfondisca su G. Leone, Per la storia dell’intaglio in Calabria: appunti sulla cosiddetta «scuola di Morano», Castrovillari, 1991. 49 Il disegno, spesso, non è presente all’interno dell’atto, di solito veniva specificato che questo rimane in custodia della comunità religiosa, sotto chiave, quindi era ritenuto molto importante. 50 CSas, notaio Giacomo Maugeri, 4 giugno 1601, cc.164v-166. 51 CSas, notaio Antonio Pizzuto, 12 marzo 1633, cc. 49v-51. 52 CSas, notaio Malatesta Salvatore, 6 settembre 1699, cc. 45-46. 53 CSas, notaio Vincenzo Assisi, 20 aprile 1716, cc.53-54v. 54 Si approfondisca su: Dizionario Enciclopedico Italiano, op. cit., vol. XII, s.v., “xilografia “ e “xilografico”. 55 Torquoleri: torcoliere ossia operaio impressore, che un tempo era addetto alla tiratura o stampa in torchio, in pratica la fase di stampa vera e propria. Cfr. con Dizionario Enciclopedico Italiano, op. cit., vol. XII, s.v., “torcoliere”. 56 Il compositore, ovvero, colui che compone le pagine assemblando i caratteri mobili in una cassa o forma di metallo e spaziando tra loro i caratteri con appositi spaziatori, anch’essi in metallo. Cfr. con Dizionario Enciclopedico Italiano, op. cit., vol. III, s.v., “compositore”. 57 Potrebbero essere matrici di stampa in legno, esse si usavano prima dell’avvento dei caratteri mobili per le prime forme di stampa al torchio oppure in seguito per le illustrazioni o forme tipografiche complesse quali ad esempio i capolettera. Questa tecnica è comunemente chiamata xilografia. 58 CSas, notaio Giacomo Maugeri, 6 set-

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tembre 1591, c.121. Su indicazione di Maria Paola Borsetta. 59 CSas, notaio Fabrizio Genise, 15 ottobre 1604 cc., 66v-67v. Su indicazione di Maria Paola Borsetta. 60 Qui il termine stampa va inteso come stamperia. 61 Un torchio da stampa, due fraschette, ovvero, un telaio rivestito in pergamena o carta molto spessa, dotato di riquadri vuoti in corrispondenza delle aree di stampa, serviva a mantenere la carta in posizione e ad evitare eventuali macchie di inchiostro sui margini bianchi del foglio. 62 Caratteri mobili: uno in corsivo grande per i titoli; uno medio con maiuscole per il corpo del testo. Cfr. con Dizionario Enciclopedico Italiano, op. cit., vol. II, s.v., “caratteri”. 63 Tali caratteri erano tenuti in cassette di legno. 64 Rotola: antica misura. Il rotolo napoletano equivaleva a 0,891 Kg. 65 CSas, notaio Antonio Arcucci, 27 aprile 1673, c.143v.


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Liutai e organari in provincia di Cosenza tra i secoli xvi e xix attraverso i documenti d’archivio1 Maria Paola Borsetta

I documenti archivistici qui esposti intendono fare luce su alcuni dei protagonisti, finora ignoti o poco conosciuti, della storia della produzione di strumenti musicali2 nella provincia di Cosenza tra i secoli xvi e xix. Come si vedrà anche dalla Tabella in appendice (che è relativa ai liutai con un solo cembalaro), Cosenza, Rogliano e Bisignano sono i centri della provincia che si qualificano per la presenza continuativa di costruttori di cordofoni, anche se in periodi diversi e successivi; a Cosenza si incontrano quasi per tutto il corso del Cinquecento e l’inizio del Seicento i membri della famiglia Ricca: Gennaro, G. Francesco e Alfonso,3 Angelo e Filippo, per il quale si trova la documentazione più ampia e interessante. Nei primi decenni del Seicento, quando sembra venir meno l’attività di artigiani autoctoni, alcuni documenti consentono di conoscere in modo frammentario, ma molto intrigante, la presenza di un chitarrarus (questa la qualifica destinata a durare fin oltre l’Ottocento, che soppianta, non solo nominalmente, quella precedente di violaro) di origine germanica, Giovanni Linfert. È solo a metà del secolo successivo, invece, che emerge la presenza dei chitarrari di Rogliano: allo stato attuale degli studi, è ancora necessario indagare se si tratti di un fenomeno interamente locale (magari in continuità con i tedeschi del secolo precedente) o se i mastri chitarrari Costanzo e Mazzeo, che emergono dal Catasto onciario di Rogliano del 1753, abbiano appreso il mestiere a Napoli e da lì l’abbiano importato in Calabria; è certo però che, grazie a loro, sul finire del Settecento e per tutto l’Ottocento diversi giovani si accostano a quest’arte e la trasmettono ai loro discendenti: sono i Morelli, i Gallo, i Fezza, i Pucci, che, evidentemente, sono in grado di soddisfare con i loro strumenti un mercato in crescita. Anche per Bisignano, stando ai documenti d’archivio, bisogna pensare ad un inizio un po’ improvviso: nessun liutaio compare nel Catasto onciario del 1749, mentre gli atti dello Stato civile, a partire dal 1809, evidenziano la presenza di un mastro chitarraro, Domenico Liguori, e di vari chitarrari (Giacinto e Vincenzo De Bonis, Francesco Saverio Ferraro, Giacinto Clausi). Diverso si presenta il campo dell’organaria: come si è accennato in nota, fin dopo la metà del Cinquecento, la presenza massiccia è quella di organari (organisti come si trova indicato nei documenti fino all’inizio dell’Ottocento) di origine napoletana, che contribuiscono alla diffusione capillare dell’organo nelle chiese regolari e secolari delle diocesi della provincia cosentina; negli ultimi decenni del secolo xvi, si assiste però all’afflusso di costruttori provenienti dalla Calabria centro-meridionale (è il caso sia di don Antonino Melina da Settingiano sia di Giuseppe Morfea da Dinami) o dalla Puglia (Gerolamo Volpe da Gravina) finché nel Settecento sembrano emergere, con una certa determinazione, costruttori di organi di origine locale destinati a carriere più ampie e distese su più generazioni (è il caso dei Lo Tufo di Morano o dei Roppi di Lago/S. Pietro in Amantea). Per quello che riguarda la liuteria, il percorso espositivo si apre con l’inventario dei beni del mastro liutaio Filippo Ricca di Cosenza, morto nel luglio del 1604, nel quale si incontrano [...] quattro Casciuni di chiuppo con Cento ottanta chitarre ad Sette Corde con due tiorbe uno nova, et un’altra usate dentro dette Cascie Item due Ribecchine nove, Item dui liguti novi. Item dui bordelletti novi, Item quaranta chitarre piccole nove per figlioli, Item vinti quattro maczzi di Corde di chitarre et di liguto. Item tre libre di Corde di Cimbali. Item una serra a doi mano Item un’altra serra ad una mano grande Item due altre serre piccole. Item due cascie. Item quattro varrine, Item una Raspa. Item tre scarpelli, Item quattro chiane doe di ferro et doi di ligname, Item due ferrorelle di rame dove si squaglia la colla Item quattro scubie per lavorare rose, Item una spinetta napolitana nova armata Item

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uno violone minato, Item uno cippo di vetullo con gli piedi Item uno ferro per imposimare li collari. Item tre ferri per incollare liguti. Item uno Crivo di anzite novo, Item due scupe Item sei libre di stuppa grossa [...].4 Prosegue poi riportando a titolo di esempio di una pratica musicale, almeno visivamente, molto raffinata e frutto di una committenza particolarmente esigente, alcuni strumenti musicali preziosi da due inventari di case patrizie cosentine: si tratta in un caso dell’inventario, redatto nel novembre 1611 ad istanza del figlio Francesco, del defunto Gasparo Sersale, figlio di Pompeo e abitante nel palazzo posto alla Giostra, nel quale si incontrano [...] uno chitarrunj de avolio rutto [...] uno cenbalo minato [...] Item una cascia vecchia con una viola vecchia [...] Item una cascia de chiuppo vechia dentro la quale sicci retrovorno quattro violonj minati [...];5 mentre nell’altro caso si tratta dell’inventario del 1625, redatto ad istanza del figlio Ottavio e della vedova Francesca Sersale, del defunto Filippo de Matera, abitante poco lontano dal precedente loco ubi dicitur la giustra nova, nel quale sono si trovano [...] uno liguto di ebano con cascia nuovo uno chitarune di ebano perfilato di avolio con cascia un altro chitarune ordinario[...].6 Il documento successivo introduce la presenza dei liutai tedeschi a Cosenza,7 ovvero di Giovanni Linfert citato nel testamento del 1640 di Vito Angrer todesco ad presens Cosentie ad quandam domum in qua habitat Joannes de roperto chitarrarus similiter Cosentie commorans [...]8 e qualificato come chitarrarus o anche come [...] Joanne limberto Chitarraro germano Cosentie Commorante [...],9 la cui presenza a Cosenza è citata più volte nei protocolli notarili tra il 1622 e il 1644, senza che però se ne possano desumere notizie più precise sull’attività professionale. Il Catasto onciario di Rossano del 1743 mostra una presenza importante anche se isolata: si tratta del Mastro citeraro Marco Antonio Arnone (ca.1669-ca.1759),10 attivo per molti anni, come si desume dalla sua lunga vita, ma isolato professionalmente, dal momento che nessuno dei figli maschi ne prosegue l’attività, dal momento che il figlio Pietro Paolo intraprende la carriera ecclesiastica e l’altro Alessio diventa notaio. I liutai di Rogliano, invece, come si è già notato, si mostrano sotto il segno della continuità distribuita su più famiglie e per più generazioni, almeno dalla metà del Settecento fino oltre la metà del secolo successivo.11 Il Catasto onciario di Rogliano del 1753 presenta due coppie di fratelli liutai: una è costituita dal mastro chitarraro Felice Mazzeo (ca.1727-?) con il fratello chitarraro Gerolamo Mazzeo (ca.1729-?) e l’altra dal più anziano mastro chitarraro Lorenzo Costanzo (ca.1711-?) con il fratello chitarraro Saverio Costanzo (ca.1713-?).12 Il documento che segue mostra anche il lato commerciale e itinerante dell’attività liutaria: il 9 luglio 1782 a Rogliano i mastri Giuseppe Antonio Manfrida e Vincenzo Morelli [...] spontaneamente, e non per forza, ma di loro libera volontà con giuramento fanno piena, certa, e veridica fede, come ritrovandosi li mentovati costituti di Manfrida, e Morelli nella Fiera nella Fiera [sic] della Ronza, il primo per venderci Campane per uso di Mandre, essendo la sua professione di Mastro Ferraro, ed il secondo per venderci chitarre, e l’altri costituti per esser molettieri [...],13 dichiarano di aver assistito all’arresto di alcuni ladri. Si prosegue con la sentenza di condanna a morte del 13 ottobre 1806 del luthièr Raffaele Fezza (ca.1778-1806) di Rogliano [...] accusè d’avoir fait partie des Brigands armèe contre les Troupe francaises, et d’avoir tenter par de chansons /: contenant les mauvais propos contre la famille glorieusement régnante :/ disposer les ésprits du peuple à la révolte contre leur Souverain legitime [...], inflitta dalla Commissione militare francese, che disponeva anche la scarcerazione, in quanto aveva consegnato le armi, nei confronti dell’altro luthièr Michele Gallo (ca.1761-1837), accusato con altri [...] d’avoir fait partie des rassemblements armés contre les Troupez françaisez [...].14 Lo Stato civile di Rogliano contiene l’atto di matrimonio tra il chitarraro G. Battista Gallo (17891845), figlio di Michele, e Serafina Mazzei, celebrato a Rogliano il 25 gennaio 1810.15 Segue l’atto del secondo matrimonio tra il chitarraro Gaetano Morelli (1774-1858), figlio del chitarraro Francesco Saverio (ca.1740-1819), e Lucrezia Altomare, celebrato a Rogliano il 6 giugno 1811.16 Infine gli atti di morte del chitarraro Michele, deceduto a Rogliano il 14 settembre 183717 e quello del figlio G. Battista, deceduto pochi anni dopo, il 27 aprile 1845.18 La presenza e l’attività dei liutai di Bisignano viene qui presentata solo attraverso i documenti dello Stato civile: non sono segnalati nel Catasto onciario di Bisignano 1749 (dove, invece, compare un Michele di Vona bracciante come i suoi fratelli Domenico e Francesco), per cui ritengo di

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poter ipotizzare che nei primi anni dell’Ottocento un gruppo di giovani apprendisti possa essersi raccolto intorno ad un mastro chitarraro di provate capacità progessionali, forse proveniente da fuori (come potrebbe far ritenere la presenza di un Giacinto Clausi chitarraro) o che avesse imparato il mestiere magari con un periodo di apprendistato a Rogliano nella bottega di Francesco Saverio Morelli, (come potrebbe invece far ipotizzare il mastro chitarraro Domenico Liguori, coetaneo di Gaetano Morelli, che, tuttavia, abbandona il mestiere già negli anni 1811-1812 per dedicarsi al commercio). Viene qui esposto, pertanto, l’atto di morte di Teodoro Rende di Tarsia deceduto a Bisignano il 19 luglio 1809, nel quale compare come dichiarante il maestro chitarraro Domenico Liguori (ca.1774-1817).19 Si prosegue con l’atto di matrimonio tra il chitarraro Vincenzo De Bonis20 (ca.1786-1850?) e Maria Rafaele Ferraro, celebrato a Bisignano il 18 ottobre 1809, nel quale compare nuovamente come testimone Domenico Ferraro.21 Nell’atto di morte del piccolo Vincenzo Cuda, deceduto a Bisignano il 16 febbraio 1810, uno dei dichiaranti è il chitarraro Francesco Saverio Ferraro (ca.1790-?), probabilmente congiunto della moglie di Vincenzo De Bonis.22 Quindi si può leggere l’atto di nascita di Raffaele, figlio del chitarraro Giacinto De Bonis (ca.17801832?) e di Elisabetta Panza, nato a Bisignano il 16 novembre 1811.23 E infine l’atto di morte del piccolo Filippo Pirri, deceduto a Bisignano il 1 febbraio 1813, nel quale compare come dichiarante il chitarraro Giacinto Clausi (ca.1780-?).24 La sezione dedicata all’organaria25 si apre con un documento particolarmente interessante, cioè il contratto di affitto di una sega ad acqua, stipulato a Castrovillari il 19 ottobre 1533 tra Francesco de Affattatis e Pomo de Oro, nel quale interviene come teste l’organaro napoletano Pompeo Guadagno, evidentemente interessato a partecipare in modo attento alla scelta e al taglio del materiale necessario alla costruzione degli strumenti che doveva avere in cantiere in quel periodo, dal momento che lo si incontra negli atti di alcuni notai di Castrovillari negli anni tra il 1533 e il 1535.26 Si prosegue poi con alcuni contratti per la costruzione di organi destinati a chiese di Cosenza e circondario ad opera di organari non autoctoni:27 il primo è quello per la chiesa di S. Francesco d’Assisi di Cosenza nel 1563, che vede impegnati gli organari napoletani Giustino e G. Francesco de Palma, padre e figlio, contratto al quale interviene come collaudatore il musicista Marco de Pitto; i padri francescani osservanti, con l’assistenza del procuratore Valerio Mangone e dell’economo G. Agostino de Gaeta, stabiliscono la costruzione di [...] un organo de palmi otto de tutta aparentia con sette castelletti alla moderna pintato e indorato juxta la forma de l’organo de santo angilo a nido in napoli circa lo indoratore et intaglatore con octo registri, cioè principale organetti ottava quinta decima, decima nona vigesima secunda et vigesima sexta et un registro de flauti, con la tastame de guaranta cinque alla moderna.28 Ho inserito il contratto che riguarda la costruzione nel 1583 di un organo per la chiesa di S. Angelo di Celico da parte dell’organaro di Settingiano di Catanzaro, reverendo Antonino Melina per il richiamo in esso contenuto all’organo precedente di S. Francesco d’Assisi: in esso, infatti, i procuratori dell’università di Celico, i reverendi Orazio Parise e Bartolo de Nuce si accordano con il costruttore per [...] uno organo accoristo alla napolitana con tutti quelli pezzi et registri et castelle juxta la forma de lorgano de la ecclesia de san francisco de assisa de Cosentia: versus che la canna maggiore sia un palmo de più de questo de san francesco et li altri canni correspondano alla proportione de ditta canna maggiore [...].29 Dell’organaro mastro Gerolamo Volpe di Gravina, abitante ad Oriolo, che aveva già concluso il 2 giugno 1586 un accordo con i domenicani di Cosenza, ho scelto quello stabilito pochi giorni dopo con gli agostiniani, perché qui intervengono anche i suoi collaboratori clerico Jacobo Sangariva e Giulio Volpintesta di Feroleto, per cui si stabilisce la costruzione di [...] uno organo in questo monasterio di santo Augustino dell’infrascritte qualità di Palmi nove della bocha insino alla cima uno palmo et mezzo di piedi di nove registri delli quali registri il numero è questo lo primo si domanda principale lo secondo organetto de la metà della testame ad alto unisonus con il principale lo terzo si domanda ottava lo quarto quinto decimo lo quinto decimo nono lo sexto vigesima seconda lo settimo vigesimo sexto l’octavo vigesima nona reduppiatj dalla metà della testame ad alto che serà duo decima accompagnato con una vigesima seconda che è specie di quarta lo nono lo flauto ottavo

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con lo principale lo riscigniuolo con lo tremante [...].30 Un altro documento molto interessante è quello che vede l’accordo nel 1632 tra l’arcivescovo di Cosenza, Giulio Antonio Santoro, e i sindaci della città, Gerolamo Quattromani e Orazio Boltrani, nel quale si stabilisce, tra l’altro, oltre al restauro dell’organo già esistente in cattedrale, anche la costruzione di un secondo strumento, ovvero che [...] essa Città debia pagare docati cinquanta ogni anno per spendersi tanto per reparazione di detto organo, et con farsi un piede tutto dorato con le arme di Monsignor Arcivescovo di una parte et le arme della Città de l’altra parte, et soverchiando dinaro delli detti docati cinquanta si ne faccia un altro organetto piccolo al’incontro con le arme ancore di ambidui [...].31 Il documento successivo è il contratto del 1695 per la costruzione da parte dell’organaro Giuseppe Morfea di un [...] organo a sette registri con tutte le canne di piombo massiccie, et il principale non sia meno di tuono di palmi dieci con prime cinque basi di piombo naturale, et il complimento del principale tutto di stagno [...] per la chiesa di S. Maria di Monte Carmelo di Cosenza, con il collaudo del maestro di cappella don Nicola Abbruzzino e del padre Arcangelo Migliaccio, priore dei carmelitani di Montalto e per il prezzo di 126 ducati.32 Segue ancora il contratto del 1781 per la costruzione da parte dell’organaro Pietro Cinnante di Pedace di [...] un organo tale quale è quello della Chiesa Parochiale di Santa Lucia di Cuti, cioè continente in sei Registro di sono corista, e con un altro Registro detto la voce umana, che in tutto sono sette Registri [...], per il prezzo di 67 ducati, destinato alla confraternita dell’Annnunziata di Rogliano, rappresentata dai procuratori Antonio e Gabriele Garofalo e dal prefetto Giuseppe Minardo.33 L’ultimo contratto che viene presentato è quello del 1814 e riguarda la costruzione di [...] un organo composto di sei registri di ripieno e voce umana, che sono sette registri con principiare la prima canna della mostra, o sia principale da Cesolfaut il nono tasto, e la mostra sudetta dev’essere a tre montetti, e di canne di stagno numero diecennove “19” e l’altre di piombo, con nove bassi di legno naturale [...] per la chiesa di S. Donato di Pedace, rappresentata dal reverendo Donato d’Ambrosio, da parte dell’organista Leonardo Lo Tufo fu Modesto34 di Morano.35 Gli ultimi documenti che propongo all’attenzione sono quelli che riguardano i fratelli organari Domenico (1782-1847), Nicola (1788-1849) e Raffaele Roppi (1803-1856), originari di Laghitello di Lago, ma successivamente trasferitisi a Cosenza, nel caso di Nicola, e a S. Pietro in Amantea, sicuramente almeno a partire dal matrimonio di Domenico del 1818;36 i primi tre atti riguardano l’attività e la vita di Nicola Roppi, in particolare nel primo caso si tratta di una sorta di avviso pubblicitario nel quale è detto: 10196. Annunzio. Belle Arti. Ritrovasi in questo capo-luogo il Sig. Nicola Roppi di Lago. Egli è uno dei buoni organisti. Non a guari ha formato un Organo di tutta perfezione a questo Convento dei domenicani, ed ha meritato l’approvazione dei Rev. Padri, professori di musica, e degli uomini intelligenti dell’arte quivi risiedono. Si rende noto altrettanto agli abitanti dell’intera provincia, onde bisogna in qualche comune di essa un simile istrumento, potranno servirsi della di lui opera, dirigendosi a dirittura dal medesimo. Cosenza li 17. Agosto 1819.37 Seguono l’atto del suo matrimonio con Luigia Scravellichia,38 celebrato a Cosenza il 5 febbraio 1827,39 e l’atto di morte del 6 marzo 1859.40 Due altri documenti riguardanti altri membri della famiglia, quali il fratello minore Raffaele, morto a S. Pietro in Amantea il 3 settembre 1856,41 e il pronipote Nicola Roppi, nato a Cosenza il 20 ottobre 1880,42 dimostrano la continuità di un artigianato musicale lungo oltre un secolo.

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1 Desidero ringraziare le persone che nel corso degli anni mi hanno aiutata nella ricerca archivistica e nell’interpretazione dei documenti: voglio ricordare, con particolare gratitudine, Cinzia Altomare, Felice Campora, Francesco Caravetta, Vincenzo La Vena, Palmino Maierù, Roberta Marino, Amalia Mazzuca (già funzionaria dell’Archivio di stato di Cosenza) e Vincenzo Antonio Tucci; i rimandi archivistici sono introdotti da CSas nel caso dell’Archivio di stato di Cosenza, CSasd per l’Archivio storico diocesano di Cosenza e CVillarias per la sezione di Castrovillari dell’Archivio di stato di Cosenza; ho desunto gli estremi cronologici di liutai ed organari, quando non indicato diversamente, dai dati contenuti nei catasti onciari e negli stati civili consultati nei registri cartacei in CSas oppure online . 2 Per il corretto inquadramento di tutte le problematiche riguardanti le metodologie di studio e l’ermeneutica degli strumenti musicali, pertinenti tanto all’ambito colto quanto a quello popolare, è d’obbligo il rimando a Guizzi F., Gli strumenti della musica popolare in Italia, Lucca, lim 2002 (alia musica 8), e, in modo specifico, a quanto egli scrive nell’Introduzione delle pp. xix-lviii e soprattutto a p. xx: «In particolare, nella loro consistenza materiale, gli strumenti musicali sono capaci di assumere nel presente e di conservare nel tempo differenti significati, altrimenti difficilmente esprimibili: essi sono infatti prodotto della fierezza tecnico-artigianale di chi li costruisce e li acconcia, sono fonte e ricettacolo di prestigio per il musicista che li possiede e li adopera, sono mezzi attraverso cui si esplicitano e si materializzano messaggio e valori relativi alla vita musicale e al suo ruolo nell’ambito della vita tout court. Questa molteplicità di funzioni e di significati produce effetti su piani diversi e tra loro connessi in modo vario e multiforme; perciò gli strumenti si offrono all’attenzione della musicologia e dell’antropologia, oltre che quali produttori di suoni, quali “suoni visualizzati”, quali tramiti della visualizzazione e “acusticizzazione” di cultural patterns (in campo sociale, sessuale o spirituale)». Per un’inquadratura generale degli strumenti musicali citati nel corso del saggio rimando a Baines, A., Storia degli strumenti musicali, a cura di Febo Guizzi, Milano, Rizzoli 1983. 3 Un documento molto importante, riguardante questi due fratelli, si trova nell’Archivio della chiesa di S. Maria Maddalena di Morano, Liber Baptizatorum, i, 1539-1601: c. 3v: «Anno 14e Indictionis 1542. Joanne Ambrosio figlio de Orlando de gua-

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ragna et de viola Jo Donno Domenico de Jannello le ho baptizato sub die primo Januarij 1542 fo patrino mastro Joanne francesco et mastro Alfonso de reccha de Cosencza fratrj et mastrj organistj et fero le organj in la Ecclesia de la Magdalena fo patrino de più berardino facio». Questa notizia consente di attribuire anche ad organari cosentini alcuni degli organi dei primi decenni del Cinquecento, in genere attribuiti complessivamente a costruttori napoletani; contemporaneamente mostra che nella stessa famiglia alcuni si dedicavano alla produzione di cordofoni (Gennaro, Angelo e Filippo), mentre altri agli aerofoni. 4 Cfr. CSas, notaio Giovanni Domenico Scarpelli, 29 luglio 1604, cc. 251v-254v: 252v, 253v, 254r; per la corretta comprensione degli strumenti elencati in questo inventario e nei successivi inventari rinvio a Meucci, R., Gli strumenti della musica colta in Italia meridionale nei secoli XVI-XIX, «Fonti musicali italiane» 3, 1998, pp. 233-264. 5 Cfr. CSas, notaio Mercurio Cacciola, 3 e 5 novembre 1611, cc. 448r-477r a penna: 455rv, 456rv, 457rv, 468v, 472r, 473rv. 6 Cfr. CSas, notaio Francesco Maria Scavello, 20 febbraio e 17 aprile 1625, cc. 101r-118v: 108v. 7 La presenza in Italia di liutai di origine germanica è stata studiata in Cervelli L., Brevi note sui liutai tedeschi attivi in Italia dal secolo XVI al XVIII «Analecta musicologica» v, 1968, pp. 299-337 e nel più recente Sisto L., I liutai tedeschi a Napoli tra Cinque e Seicento. Storia di una migrazione in senso contrario, Roma, Istituto italiano per la storia della musica 2010 8 Cfr. CSas, notaio Marco Antonio Scalise, 25 luglio 1640, c. 53rv. 9 Cfr. CSas, notaio Marco Antonio Scalise, 20 novembre 1642, cc. 128v-129r. 10 Cfr. Catasto onciario di Rossano, n. 47, trascrizione in Maierù P., Il Catasto Onciario di Rossano (1743), Corigliano Calabro (cs), Libreria editrice Aurora 2010, pp. 404-405; Palmino Maierù mi ha fornito anche la rivela dello stesso Marco Antonio Arnone, datata 22 settembre 1741, da cui desumo l’anno di nascita, mentre ricavo quello di morte dai protocolli dei notai rossanesi che lo vedono spesso presente fino al 1759. 11 Vincenzo La Vena mi comunica che il maestro Vincenzo De Bonis di Bisignano negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso ricordava la presenza di costruttori di chitarre provenienti da Rogliano e dalla frazione Policastrello di S. Donato di Ninea; per quest’ultimo caso non ho potuto

ancora compiere le opportune verifiche d’archivio. 12 Cfr. Catasto onciario di Rogliano Spani, 1753, c. 21rv (Felice e Gerolamo Mazzeo) e cc. 43v-44r (Lorenzo e Saverio Costanzo), che ho consultato in http://www.onciario.beniculturali.it. 13 Cfr. CSas, notaio Michele Clausi, 9 luglio 1782, cc. 97r-99r. 14 Cfr. CSas, Commissione militare francese, busta 3, volume i: Raccolta delle sentenze della Commissione Militare, rese durante l’occupazione dei Francesi dell’ex Reame di Napoli dall’anno 1806, 13 ottobre 1806, pp. 183-192; questo particolare processo è citato e utilizzato in Campora F., La lettera di Matteo. Gaetano il tamburino. Raffaele canta. Tre racconti in forma di teatro, Amantea, Felice Campora Edizioni 2007, pp. 17-22; in generale cfr. Guêze, R., Guarasci, R., Rovella, A., La rivolta anti-francese delle Calabrie, 1806-1813. 1: Sentenze della Commissione militare francese e della Corte speciale di Calabria Citeriore, Cosenza, Progetto 2000 1990. 15 Cfr. CSas, stato civile di Rogliano, matrimoni 1810, atto n. 2, c. 1v. 16 Cfr. CSas, stato civile di Rogliano, matrimoni 1811, registro n. 3, atto 11. 17 Cfr. CSas, stato civile di Rogliano, morti 1837, atto n. 105, c. 53. 18 Cfr. CSas, stato civile di Rogliano, morti 1845, atto n. 63, c. 32r. 19 Cfr. CSas, stato civile di Bisignano, morti n. 28, c. 14v. 20 Sulla famiglia dei liutai di Bisignano si veda il recente Piro M., voce De Bonis, in Dizionario dei Musicisti Calabresi, a cura di Marilena Gallo, con la collaborazione di Maria Elena Murano e Pierangela Pingitore, Catanzaro, Abramo 2010, pp. 128-139, con relativa bibliografia, e anche Curia R., I fratelli De Bonis e la liuteria in Bisignano, Bisignano, Banca di credito cooperativo 1995. 21 Cfr. CSas, stato civile di Bisignano, matrimoni 1809, atto n. 13, c. 7r. 22 Cfr. CSas, stato civile di Bisignano, morti 1810, atto n. 7, c. 7r. 23 Cfr. CSas, stato civile di Bisignano, nascite 1811, atto n. 84, c. 42v. 24 Cfr. CSas, stato civile di Bisignano, morti 1813, atto n. 18, c. 9v. 25 «Lo studio degli organi storici è un avventura scientifica e musicologica di grande valore – scrive Febo Guizzi – che vanta nel nostro Paese una tradizione di primo’ordine; del resto sarebbe stato strano il contrario, non solo per le ragioni storiche di eccellenza costruttiva di molte tradi-


zioni nostrane, ma per la rilevanza stessa, fonica e strutturale dei grandi e meno grandi strumenti disseminati capillarmente pressoché ovunque, per il fascino esercitato dalla loro complessità costruttiva, per il valore documentario che ogni “agglomerato” organario porta con sé e che spesso somma numerose tracce, sotto forma di stratificazione molteplice di interventi innovativi, di ampliamenti, di adeguamenti anuove esigenze timbriche e musicali; la stessa imponenza di manufatto artistico – in particolare per la parte architettonica e decorativa – per molti versi ascrivibile a un raro connubio tra gusto estetico del tempo, scuole artistiche e competenze artigiane altamente specializzate, attrae da sempre, quanto meno per la parte esposta allo sguardo di tutti, cuoriosità e ammirazione che a loro volta esigono studi accurati e un forte impegno conservativo. Infine è ovviamente determinante il valore densamente simbolico, legato al suo ruolo religioso [...]» (Guizzi, F., Premessa, in Suoni e voci di cantoria. L’organo Serassi di Rota Fuori, a cura di Fulvio Manzoni, S. Omobono Terme (bg), Centro studi Valle Imagna 2009, pp. 11-13: 11); per quanto riguarda la Calabria rimando ai volumi, con relativa bibliografia, di Loizzo C., Organi ed organari in Calabria dal xvii al xx secolo, Cosenza, Periferia 1990; Capolavori di arte organaria restaurati in Calabria, a cura di Giorgio Ceraudo, Soveria Mannelli, Rubbettino 1995; Organi e organisti in Calabria. Contributi per lo studio dell’organo e delle tradizioni musicali religiose, a cura di Maria Paola Borsetta e Vincenzo La Vena, Rossano, Il Cerchio 2002. 26 Cfr. CVillarias, notaio Roberto Baratta, bastardello, cc. 46r-47r. 27 Ho pubblicato la trascrizione completa di questi contratti degli anni 1563, 1583, 1586 e delle convenzioni del 1632 in Borsetta M. P., La cappella musicale della cattedrale di Cosenza. Canto liturgico, libri, strumenti musicali e musicisti tra Cinque e Seicento, in Tra Scilla e Cariddi. Le rotte mediterranee della musica sacra tra Cinque e Seicento. Atti del Convegno internazionale di studi (Reggio Calabria-Messina, 28-30 maggio 2001), i, a cura di Nicolò Maccavino e Gaetano Pitarresi, Reggio Calabria, Conservatorio di musica F. Cilea 2003, pp. 85-184: Appendice ii, pp. 167-176; allo stesso saggio, pp. 143-149, si può far riferimento per le notizie che riguardano l’attività musicale di Marco e G. Battista Pitto, quest’ultimo impiegato nella cappella musicale del principe di Bisignano, Pietro Antonio Sanseverino, negli anni 1540-1544; mentre nella nota 101, pp. 119-121, si trova l’elenco di tutti gli organi della

diocesi di Cosenza che furono rilevati nel corso della visita apostolica del 1628, ora pubblicata in Tucci, V. A., La Visita apostolica di mons. Andrea Pierbenedetto alla città e diocesi di Cosenza 1628, Cosenza, Archivio storico diocesano di Cosenza 2012. 28 Cfr. CSas, notaio Giovanni Andrea Giordano, 29 novembre 1563, cc. 832r-833r; per la discussione delle complesse problematiche relative alle caratteristiche costruttive e foniche di questi strumenti del Cinquecento rimando a La Vena, V., Per lo studio dell’organo in Calabria, in Organi e organisti in Calabria, cit., pp. 17-33. 29 Cfr. CSas, notaio Marcello del Giudice, 29 maggio 1583, cc. 289r-290r. 30 Cfr. CSas, notaio Giustiniano d’Aiello, 9 giugno 1586, c. 210rv; va notato che l’organo in questione non è citato nella visita apostolica del 1628 nel corso della descrizione della chiesa agostiniana (cfr. V. A. Tucci, La Visita ..., cit., pp. 370-371), per cui se ne potrebbe dedurre che esso sia stato in effetti costruito; in CSas, notaio Gaetano Martirano, 17 giugno 1766, cc. 213v-214r si trova la perizia dei mastri muratore Benedetto Rizzi e falegname Carlo Siculo, i quali dichiarano che «[...] l’orchesto [= la cantoria] di detta Chiesa, ed in effetto avendo quello visto l’anno ritrovato cascato devante per causa di non essersi trovato incatenato dentro del muro di legname per colpa , et incuria delli Mastri, che lo fecero [...]», ma tacendo completamente dell’organo. 31 Cfr. CSas, notaio G. Matteo Catanzaro, 6 novembre 1632, cc. 307v-309r. 32 CSas, notaio Gaetano Infante, 2 marzo 1695, cc. 222v-225v; della lunga vicenda legata alla costruzione di questo organo (dopo il pagamento i padri si accorsero che «[...] si è ritrovato non esser dell’istessa forma li registri che si era obligato fare detto Giuseppe, anzi alcune canne non hanno il tuono giusto [...]», cfr. ibidem, 28 febbraio 1696, cc. 213v-214v ) scrive, in una chiave piuttosto negativa, anche Moretti P., Immagine di una società in crisi. Cosenza dal 1685 al 1704, Milano, Giuffrè 1979, pp. 173-174 e note 156, 157, 158; l’organaro Giuseppe Moffeo, detto qui di Cosenza, in realtà era presente, e probabilmente anche attivo nella manutenzione dei tanti organi cittadini e del circondario, nel capoluogo almeno da un decennio, stando a quello che si legge in un atto di battesimo del 30 marzo 1685, in cui Giuseppe Morfea di Dinami (ora in provincia di Vibo Valentia) riconosce come proprio il figlio naturale nato da Angela Lo Giudice di Spezzano, cfr. CSasd,

Liber renatorum 1679-1687, p. 86 a penna e anche CSasd, Liber renatorum 1688-1700, c. 181r: atto di battesimo del 3 novembre 1696 in cui Giuseppe Morfea organista fa da padrino a Serafino Aiello; quanto al maestro di cappella Nicola Abbruzzino e agli altri musicisti cosentini a cavallo tra fine Seicento e Settecento, rimando al mio Borsetta, M. P., Teatro e musica a Cosenza e provincia nel xviii secolo, in Giorgio Miceli e la musica nel Mezzogiorno d’Italia nell’Ottocento. Atti del convegno internazionale di studi, Arcavacata di Rende, 3-5 dicembre 2004, a cura di Maria Paola Borsetta e Annunziato Pugliese, Vibo Valentia, Istituto di bibliografia musicale calabrese 2012, pp. 443-525. La costruzione e la continua manutenzione degli organi coinvolgeva, in questi anni, anche altri artigiani e commercianti come si può rilevare, ad esempio, dall’inventario dei beni del fu Andrea Bartolomeo, abitante nella piazza dei mercanti di Cosenza, dove si trovano: «[...] Item uno stipo dentro il quale vi sono molti ferramenti vecchi si anche per fatigare la mastranza di baulli, e seggie ed una cascietta con taccie rotte [...] Item uno scorzo di mantice d’organo di legno senza pelle [...]» (CSas, notaio Antonio Conte, 20 dicembre 1696, cc. 523v e 556r-561v: 560v-561r) oppure dall’inventario della bottega del fu Gaetano Bruno Piluso, abitante nella piazza delle foglie, dove si trovavano: «[...] Carta di scrivere grisime dieci [...] Uno officiolo nuovo lungo [...] un altro officiolo con coverta bianca nuovo [...] piombo d’organo pezzi sei seu imbogli numero cinque in peso rotola cinquanta [...] [nella bottega] Item un altro cassone pieno di colla di nervo [...] Pelle di Cosenza Camorcie numero sedici Pelle nargentate, e dorate numero sessanta nove [...] Piombo a landa rotola ventiotto [...] Uno Cassone, et una cassa piene di colla di nervo Uno Sacco con rotola ventisei di detta colla [...] Una pelle camorcia [...] landie d’organo libre quarantaquattro [...] Piombo in virga rotola quaranta nove [...]» (CSas, notaio Vincenzo Assisi, 2-3-4-5-9-17 luglio 1704, cc. 86r96r, 109v-110v, 118r-120r, 120v-127r: 89rv, 90v, 91rv, 92rv, 93rv, 94rv, 95rv, 96r, 109v, 110rv). 33 CSas, notaio Vincenzo Bilotti, 27 novembre 1781, cc. 107v,112r-113r; va evidenziato, tuttavia che Pietro Cinnante di Pedace compare nel Catasto onciario di Pedace del 1753, al numero 78, c. 28r, come speziale di 30 anni, abitante con moglie e figli nella casa parrocchiale del fratello parroco G. Battista (cfr. http://www.onciario. beniculturali.it/?pa ge_id=7&album=1&gallery =64&nggpage=2); la sua attività decennale di or-

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ganaro, invece, risulta da un codicillo del 1750 al testamento di Alessio Gerbasi di Cosenza, che dichiara: «[...] Item dichiaro d’aver sodisfatto il prezzo dell’organo fattomi dal signor Pietro Cennante, come dal suo Bilancio, e più dovendo conseguire altri docati cinque e carlini due gli li rilascio perché perché in detta nota non vi ha posto fatiga [...]» (CSas, notaio Matteo Martirano, 7 ottobre 1750, cc. 332v-338r: 335r), il che potrebbe far pensare ad un attività intrapresa inizialmente non in modo professionale; un atto di parlamento della cedola di Pedace Iotta del 1717 apre uno spiraglio interessante sulle precedenti mansioni di organisti di alcuni ecclesiastici della stessa famiglia: il nuovo procuratore della chiesa di S. Maria di MOnteoliveto, avvocato Stefano Mele, avrà il compito di «[...] per fare esercitare l’organi per le musiche si faranno nei giorni festivi di detta Chiesa pregasse detto Procuratore il signor D. Stefano molle della Serra come nostro primo Concittadino, che come avvocato, ed interessato di detta Chiesa sincome se ne sono veduti, e dalla giornata se ne vedono l’effetti, ed affezzionato di detta Cedola come dependente da suoi Antenati a ciò si vogli compiacere mercé alla sua bontà tenere esercitare detti Organi e le musiche si faranno in detta Chiesa de giorni solenni debbia detto Signor D. Stefano disponerle a suo belleggio; senza però che ci havessero d’intervenire li Cinnanti a riflesso d’essersi dimostrati con detta Chiesa sopra modo interessati che volevano per il solo giorno di pasca per detta musica docati quattro, oltre dell’altre festi che correvano alla giorna havendo fatto capitale alla loro casa sopra detta Chiesa di qualche somma, che era voleve totalmente dissipare le sue annue rendite, e perché similmente si vidde da tutti essendo stati chiamati da femine di dentro la Chiesa di questa Cedola per confessarsi se ne uscirono ambedui fratelli senza volerle confessare perché non furono amessi in detta musica con molto scandalo del publico, quando come Parochi volevano dare esempio = che per tanto il Procuratore presente, o futuro che sarà omni futuro tempore volesse fare sonare detti organi, e far fare le musiche dalli sudetti di Cinnante et iamdio senza stipendio de fatto non obstante che sia in detto Procuratore infra annum sia lecito, a detta Cedola, e suoi Cittadini subito creare altro Procuratore, e fare esercitare le musiche delli sudetti di Cinnante per le cause asserite come di sopra, e li musichi farle venire da Cosenza, o dove meglie le potrebbe havere con spendersi tutto e quanto sarà necessario, come anche per

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la causa che li sudetti di Cinnanti Parochi hanno cercato tuttavia in detta Chiesa mettere abusi, e soggezzioni Parrochiali contro la forma dell solito, che sono stati causa di far costare molto spesa in detta Chiesa per la lite, che a lungo tempo à vertito nella Città di Roma in questo corrente anno, e per altri giusti fini, e legitime cause moventino la saggia mente di detti Congregati come di sopra vonno che in conto veruno di detti di Cinnante ardiscano per appresso venire in detta Chiesa ad oggetto di sonare l’organi sudetti [...]» (CSas, notaio Filippo Castellano, 29 marzo 1717, cc. 36v-38v). 34 Cfr. per questa famiglia di organari Saraceni A., voce Lo Tufo, Carlo, in Dizionario dei Musicisti Calabresi ..., cit., pp. 228-229, anche se non vi si fa menzione di questo Leonardo. 35 Cfr. CSas, notaio Tommaso Maria Adami, 27 maggio 1814, cc. 59r-62r. 36 In Salerno, E., Maestri organari attivi in Calabria, in Capolavori di arte organaria ..., cit., pp. 95101: 99 viene attribuita al solo Domenico Roppi di S. Pietro in Amantea (altri studiosi li ritenevano di origine napoletana) la costruzione di undici organi situati per lo più in chiese del Vibonese e del Tirreno cosentino; è probabile, piuttosto, che l’attività costruttiva in queste zone fosse il frutto dell’impegno congiunto di Domenico e Raffaele; all’attività di Nicola, invece, va ricondotto almeno, oltre all’organo di S. Domenico citato nel testo, quello del 1821 della confraternita dei nobili della cattedrale di Cosenza, come recitava il cartiglio: «Nicolaus Roppi a Lacu Fecit A. D. 1821. Sumpt. Arciconfraternitatis. Cura ac diligentia D. Philippi Castrileonis Maurelli», riportato in Minicucci C., Cosenza Sacra. Notizie storiche sulle chiese e confraternite, sui conventi e monasteri della città di Cosenza. Cronaca dei vescovi ed arcivescovi della chiesa cosentina, Cosenza, Domenico Chiappetta 1933, p. 48. 37 Cfr. «Giornale d’Intendenza della Calabria Citeriore», 1819, n. 217. 38 Servelichia nell’atto di morte del marito. 39 Cfr. CSas, stato civile di Cosenza, matrimoni 1827, registro n. 19, atto n. 5. 40 CSas, stato civile di Cosenza, morti 1849, atto n. 218, c. 109v. 41 CSas, stato civile di S. Pietro in Amantea, morti 1856, registro n. 48, atto n. 21. 42 CSas, liste di leva classe 1880, registro n. 168, atto 123, p. 42 sezione c.


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Appendice

Liutai e cembalari a Cosenza e provincia nei secoli xvii-xix Maria Paola Borsetta

anno persona

origine

luogo

qualifica tipologia atto

1529 Ricca, Gennaro

La Costa

Cosenza

magister

1530 Ricca, G. Francesco (teste)

Cosenza

1530 Ricca, Gennaro (sposo)

La Costa

Cosenza

magister

1533 Ricca, Gennaro (teste)

La Costa

Cosenza

magister

Cosenza

magister

1533 Ricca, G. Francesco e Alfonso1 1534 Ricca, Gennaro

La Costa

Cosenza

magister

1534 Ricca, Gennaro (teste)

La Costa

Cosenza

magister

1534 Ricca, Gennaro 1536 Ricca, Gennaro Ricca, Gennaro2, Francesco, 1540 Angelo

La Costa La Costa

Cosenza Cosenza

magister magister

La Costa

Cosenza

magister

1546 Ricca, G. Francesco (padre)

Cosenza

Cosenza

1547 Ricca, G. Francesco e Alfonso

Cosenza

Cosenza

magister

1547 Ricca, Alfonso

Cosenza

Cosenza

magister

1548 Ricca, G. Francesco

Cosenza

Cosenza

violarus

1551 Ricca, Angelo

La Costa

Cosenza

magister

1554 Ricca, Nicola Giovanni

Cosenza

Cosenza

replica protesta

de la Monaca, Adante, Conte, Rafaele

matrimonio

De Paola, Laura (sposa)

Longobucco, Francesco e de Bonis, G. Battista (sindaci), Vela, G. Battista atto pubblico (mastrogiurato), Garofalo, G. Pietro (avvocato) Migelio, Camilla (sposa), Ricca, Mario matrimonio (padre), Migelio, Berardino (padre) Picardo, Petruccio di Chiusano, compravendita Giordano, Bernardino di Sanseverino, muli Iuele, Antonio di Cava Verre, Adriana (vedova del fu discolpa Vincenzo Verre di Mendicino) censo Carolei, Tomaso discepolato Rispolo, Giacomo di Napoli maestro musicale di musica, Sisca, Filippo allievo acquisto acquisto casa Cristiano, Pietro deposito e D’Amico, Paolo inventario3 Ricca, Vittoria (figlia sposa), Granaro, matrimonio G. Pomponio di Roccabernarda (sposo) Aaffrancamento Tornisello, Angelo fu Alfonso di censo Ricca, Nicola Giovanni (figlio erede), Ricca, Gioannella (figlia erede), testamento Tudeschina, Polissena (moglie tutrice), Ricca, G. Francesco (fratello tutore) proprietà Scornaienco, Fasano di Benedetto terreno Ricca, Diana (figlia erede), De Grazia, testamento Caterina (moglie tutrice), Ricca, Francesco (fratello tutore)

1554 Spiritu, G. Nicola (teste)

Cosenza

violaro

testamento

1555 Spiritu, G. Nicola alias violaro

Cosenza

mastro

procura

1556 Ricca, Nicola Giovanni †

84

Cosenza

Cosenza

altre persone

inventario

Aiona, Fabio di Montalto (testatore), Russo, Scipione (erede) Russo, Scipione Tudeschina, Polissena (madre), Ricca, Gioannella (nipote?)


1558 Spiritu, G. Nicola alias lo violaro

Cosenza

1571 Ricca, G. Vincenzo (padre) â€

Cosenza

Cosenza

1592 Ricca, Filippo e Ottavio (testi)

Cosenza

Cosenza

1594 Ricca, Filippo 1596 Ricca, Filippo

Cosenza Cosenza

Cosenza Cosenza

1604 Ricca, Filippoâ€

Cosenza

Cosenza

1622 Roperto, Giovanni (teste)

Germania

Cosenza

1635 Linferto, Giovanni (teste)

Germania

Cosenza

1635 Linferto, Giovanni (teste)

Germania

Cosenza

1635 Linferto, Giovanni (teste)

Germania

Cosenza

1638 Limberto, Giovanni (teste)

Germania

Cosenza

1640 Roperto, Giovanni (legatario)

Germania

Cosenza

1641 Limperto, Giovanni (teste)

Germania

Cosenza

1642 Limberto, Giovanni (teste)

Germania

Cosenza

1644 Linfere, Giovanni

Germania

Cosenza

1729 Di Paola, Domenico

Cosenza

1743 Di Paola, Domenico

Cosenza

1743 Arnone, Marco Antonio

Rossano

Rossano

1753 Costanzo, Lorenzo

Rogliano Spani

Rogliano Spani

1753 Mazzeo, Felice

Rogliano Spani

Rogliano Spani

Rogliano Serrone

Rogliano

1774

Morelli, Francesco Saverio (padre)

Russo, Caterina (madre), fu Russo, Scipione Gallo, Antonina (vedova e tutrice), inventario Ricca, G. Francesco, Filippo, Ottavio, G. Andrea, Lucrezia (figli ed eredi) Balsano, G. Tomaso (padre) e G. Andrea (figlio studente di musica), procura Cavalcanti, Marzio (procuratore), Falcone, Achille (musicista) compravendita Maurello, Maurizio censo Gallo, Fulvio di Castrofranco Ricca, G. Vincenzo (figlio erede), testamento e Ricca, Ottavio (fratello tutore), di inventario Palmo, Laudonia (vedova) Pino, Vittoria (vedova di Maurizio consegna Pino), Pino, Corinna (suora) testamento Grillo, G. Leonardo (testatore) Scozzafave, mastro Giacomo di Rovito testamento (testatore) testamento Maiorana, Luca di Ancona (testatore) Paf, Abramo tedesco (testatore), testamento Cheiel, Giacomo tedesco (erede), Branli, Corrado (debitore) Angrer, Vito tedesco (testatore), Maura, Giulia (legataria e suocera chitarrarus testamento di Giovanni), Bader, Marco tedesco (erede), Jacco, Michele tedesco (legatario) Belmonte, Pietro u.j.d. prete, citarraro procura Belmonte, Teodoro (fratello procuratore) affrancazione Cozza, Flaminia, Cirella, G. Giacomo chitarraro censo e Filippo prete Dodaro, Gerolamo, Altimare, G. atto generico Paolo e Pietro Domenico Frugiuele, Domenico Antonio, De mastro apprezzo Paola, Cecilia vedova di Nicolò cembalaro mobili Toscani mastro Mollo, Emanuele (defunto), de inventario cimbalaro Fabritiis, Giuseppe (curatore) Straface, Caterina (moglie), Arnone, mastro catasto Pietro Paolo prete, Alessio notaio, ceteraro onciario Vittoria, Sigismina, Artensia e Benedetta (figli) Costanzo, Saverio (fratello chitarraro), Veramente, Agnese (moglie), mastro catasto Costanzo, Lucrezia, Rosanna e chitarraro onciario Antonio (figli), Costanzo, Ursula e Teodora (sorelle), Palazzo, Auria (madre) mastro catasto Mazzeo, Gerolamo (fratello chitarraro) chitarraro onciario Morelli, Gaetano (figlio), Talarico, chitarraro nascita Teresa (madre) mastro

lite

85


1782 Morelli, Vincenzo

Rogliano

1801 Fezza, Rafaele Morelli, Francesco Saverio 1802 (padre)

Rogliano

Campana, fiera della Ronza Rogliano

Rogliano Serrone

Rogliano

1806 Fezza, Rafaele

Rogliano

Cosenza

1806 Gallo, Michele

Rogliano

Cosenza

1806 Fezza, Rafaele (†)

Rogliano

Rogliano

mastro

1809 De Bonis, Vincenzo (sposo)

Bisignano

Bisignano

chitarraro matrimonio

1809 Liguori Domenico (teste)

Bisignano

Bisignano

mastro morte chitarraro

1810 Gallo, G. Battista (sposo)

Rogliano

Rogliano

chitarraro matrimonio

1810 De Bonis, Vincenzo (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro nascita

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro morte

1811 Morelli, Gaetano (sposo)

Rogliano Spani

Rogliano

chitarraro matrimonio

1811 Gallo, G. Battista (padre)

Rogliano Rota

Rogliano

chitarraro nascita

1810

Ferraro, Francesco Saverio (teste)

testimonianza mastro

fideiussione capitoli mastro matrimoniali luthièr de processo e profession condanna luthièr de processo e profession assoluzione affitto

Ferraro, Francesco Saverio (teste)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro morte

1811 De Bonis, Giacinto (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro nascita

1812 De Bonis, Giacinto

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro morte

1812 Morelli, Gaetano (padre)

Rogliano Spani

Rogliano

chitarraro nascita

Bisignano, S. Croce

Bisignano

chitarraro nascita

1812 Ferraro, Francesco (teste)

Bisignano

Bisignano

chitarraro morte

1812 De Bonis, Giacinto (teste)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro morte

1812 Morelli, Gaetano (padre)

Rogliano Spani

chitarraro nascita

1812 De Bonis, Giacinto (teste)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro morte

1812 De Bonis, Giacinto (teste)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro nascita

1812 De Bonis, Giacinto (teste)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro morte

1811

1812

86

Ferraro, Francesco Saverio (teste)

Rogliano

Morelli, Maria Antonia (figlia), Rocco, Giacinto (genero)

Minardo, Antonia (vedova), Sottile, Isabella (suocera), Gallo, Michele e G. Battista (chitarrari e testi ) Ferraro, Rafaele (sposa), De Bonis, Aurelia (madre sposo), Liguori, Domenico (teste) Rende, Teodoro di Tarsia Gallo, Michele (padre), Mazzei, Serafina (moglie) De Bonis, Antonio (figlio), Ferraro Raffaele (madre) Cuda, Vincenzo (defunto), Cuda, Rosa (madre) Altomare, Lucrezia (sposa), Morelli, Francesco Saverio (padre), Gallo, Pietro Vincenzo (figlio), Mazzei, Serafina (moglie) Murano, Pasquale (defunto) De Bonis, Raffaele (figlio), Panza, Elisabetta (madre) De Bonis, Raffaele (figlio defunto), Panza, Elisabetta (madre) Morelli, Rosaria (figlia), Altomare, Lucrezia (moglie) Pucciano, Giacinto (figlio), Pucciano, Atanasio (padre), Salituri, Carlotta (madre) Panza, Marianna (defunta) Malizia, Rosa (figlia defunta), Malizia, Ferdinando (padre), Montalto, Isabella (madre) Morelli, Vincenzo (figlio), Altomare, Lucrezia (moglie), Gallo, Michele (chitarraro e teste) Formoso, Vincenzo (figlio defunto), Formoso, Pietrantonio (padre), Granieri, Belluccia (madre) Mango, Fortunata (figlia), Mango, Antonio (padre), Iaquinta, Maria (madre) Mango, Domenica (figlia defunta), Mango, Pasquale (padre defunto), Panza, Cecilia (madre)


1812 De Bonis, Giacinto (teste)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro morte

1813 Clausi, Giacinto (teste)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro morte

1813 De Bonis, Giacinto (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro nascita

1813 De Bonis, Vincenzo (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro nascita

1813

Ferraro, Francesco Saverio (teste)

Bisignano Piazza

Bisignano

chitarraro nascita

1813

Ferraro, Francesco Saverio (teste)

Bisignano Piazza

Bisignano

chitarraro nascita

1813

Ferraro, Francesco Saverio (teste)

Bisignano Piazza

Bisignano

chitarraro nascita

1813

Ferraro, Francesco Saverio (teste)

Bisignano

Bisignano

chitarraro nascita

1813

Ferraro, Francesco Saverio (teste)

Bisignano Piano

Bisignano

chitarraro nascita

1813

Ferraro, Francesco Saverio (teste)

Bisignano Piano

Bisignano

chitarraro nascita

1813

Ferraro, Francesco Saverio (teste)

Bisignano Piazza

Bisignano

chitarraro nascita

1813

Ferraro, Francesco Saverio (teste)

Bisignano Piazza

Bisignano

chitarraro nascita

1814 De Bonis, Giacinto (teste)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro nascita

1814 De Bonis, Vincenzo (teste)

Bisignano S. Simone

chitarraro nascita

1814 Clausi, Giacinto (teste)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro morte

1814 Clausi, Giacinto (teste)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro morte

1814 Morelli, Gaetano (padre)

Rogliano Spani

Rogliano

chitarraro nascita

1814 Gallo, G. Battista (padre)

Rogliano Rota

Rogliano

chitarraro nascita

1816 Gallo, G. Battista (padre)

Rogliano Rota

Rogliano

chitarraro nascita

Bisignano

Pirri, Anna (figlia defunta), Pirri, Francesco (padre), Russo, Maria (madre) Pirri, Filippo (figlio defunto), Pirri, Giuseppe (padre), Bisignano, Maria (madre) De Bonis, Francesco Maria (figlio), Panza, Elisabetta (madre), Ferrari, Francesco Saverio (chitarraro e teste) De Bonis, Pasquale (figlio), Ferraro, Raffaele (madre) Spadafora, Domenico (figlio), Spadafora, Andrea (padre), Cirenzia, Rosa (madre), Liguori, Domenico (negoziante e teste) Mulino, Giuseppe (figlio), Mulino, Paolo (padre), Di Marco, Caterina (madre), Liguori, Domenico (negoziante e teste) Pirri, Maria Rosa (figlia), Pirri, Marco (padre), Preziosa, Maria Rosaria (madre) Fuscaldo, Vincezo (figlio), Fuscaldo, Giuseppe (padre), Miringulo, Maria (madre) Altomare, Carmela (figlia), Altomare, Tommaso (padre), Sprovieri, Giuseppina (madre) Salvo, Rosa (figlia), Salvo, Giuseppe (padre), Aiello, Eugenia (madre) Amodio, Maria Teresa (figlia), Amodio, Francesca (padre), Camera, Rachele (madre) Russo, Isabella (figlia), Russo, Niccolò (padre), Majuri, Maria (madre) Ferraro, Umile (figlio), Ferraro, Giuseppe (padre), Braile, Carmela (madre) Todaro, Barbara (figlio), Todaro, Francesco (padre), Amodio, Angela (madre) Pirri, Marianna (figlia defunta), Pirri, Francesco (padre), Russo, Maria (madre) Veltri, Antonio (figlio defunto), Veltri, Francesco (padre), Lo Giudice, Teresa (madre) Morelli, Rosa (figlia), Altomare, Lucrezia (moglie), Gallo, G. Battista (chitarraro e teste) Gallo, Giorgio (figlio), Mazzei, Serafina (moglie) Gallo, Rosario Antonio (figlio), Mazzei, Serafina (moglie), Gallo, Michele (chitarraro e teste)

87


1816 De Bonis, Giacinto (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro nascita

1817 Morelli, Gaetano (padre)

Rogliano Spani

Rogliano

chitarraro nascita

Cosenza

catarraro

1818

Ranieri, Antonio Gaetano (sposo)

matrimonio

De Bonis, Giacinto (padre 1818 sposa)

Bisignano Giudeca Bisignano

1819 Morelli, Francesco Saverio â€

Rogliano Serrone

1819 De Bonis, Giacinto (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro nascita

1819 Pucci, Vincenzo (padre)

Rogliano Rota

chitarrajo

1820 De Bonis, Vincenzo (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro nascita

1820 Gallo, G. Battista (padre)

Rogliano Rota

Rogliano

chitarraro nascita

1821 Morelli, Luigi (padre)

Rogliano Serrone

Rogliano

chitarraro nascita

1821 De Bonis, Giacinto (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro morte

1822 Morelli, Gaetano (padre)

Rogliano Spani

Rogliano

chitarraro nascita

1822 Pucci, Vincenzo (padre)

Rogliano Rota

Rogliano

chitarrajo

1822 De Bonis, Vincenzo (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarraro nascita

1822 Morelli, Luigi (padre)

Rogliano Serrone

Rogliano

chitarrajo

nascita

1823 Gallo, G. Battista

Rogliano Rota

Rogliano

chitarrajo

nascita

1824 Minardi, Nicola (teste)

Rogliano

chitarrajo

morte

1824 Pucci, Vincenzo

Rogliano

chitarrajo

nascita

1825 De Bonis, Vincenzo (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

1826 Morelli, Gaetano (padre)

Rogliano

Rogliano Spani

chitarrajo

nascita

1826 Fezza, Francesco fu Raffaele

Rogliano

Rogliano

chitarrajo

matrimonio

1828 De Bonis, Vincenzo (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

chitarrajo

nascite

1829 Pucci, Vincenzo

Rogliano

Cosenza

chitarrajo

matrimonio

1829 Morelli, Gaetano (padre)

Rogliano Serrone

Rogliano

chitarrajo

nascita

88

Rogliano Spani

Rogliano

Rogliano Rota

chitarraro matrimonio

chitarrajo

morte

nascita

nascita

chitarraro nascita

De Bonis, Carolina (figlia), Panza, Elisabetta (madre) Morelli, Rosaria (figlia), Altomare, Lucrezia (moglie) Esposito, Caterina (sposa) Camera, Francesco Saverio (sposo), De Bonis, Maria Giuseppe (sposa), Panza, Elisabetta (madre sposa), Camera, Maddalena (madre sposo) Morelli, Domenico (padre), Celenza, Carmina (madre), Morelli, Gaetano (figlio chitarrajo) De Bonis, Aurelia (figlia), Panza, Elisabetta (madre) Pucci, Carmina (figlia), Morelli, Giuseppina (moglie), Morelli, Gaetano (chitarrajo e teste) De Bonis, Arcangela (figlia), Ferraro, Maria Raffaele (madre) Gallo, Mariannina (figlia), Mazzei, Serafina (moglie) Morelli, Pietro (figlio), Malfone, Carmela (moglie) De Bonis, Michele (figlio defunto), Panza, Elisabetta (madre) Morelli, Gabriele (figlio), Altomare, Lucrezia (moglie) Pucci, Giorgio (figlio), Morelli, Giuseppina (moglie) De Bonis, Mariangela (figlia), Ferraro, Maria Raffaele (madre) Morelli, Giovannino (figlio), Malfone, Carmela (moglie) Gallo, Maria Caterina (figlia), Mazzei, Serafina (madre), Gallo, Michele (padre e teste) Fezza, Agata (figlia defunta), Fezza, Ferdinando (padre), Moraca, Rachele (madre) Pucci, Michele (figlio), Morelli, Giuseppa (moglie) De Bonis, Michele Maria (figlio), Ferraro, Maria Rafaele (madre) Morelli, Raffaele (figlio), Altomare, Lucrezia (moglie) Tosto, Carolina (moglie), Gallo, Michele (chitarrajo e teste) De Bonis, Annunnziato Carmine e Umile (figli gemelli), Ferraro, Maria Rafaele (madre) Berardi, Rosa (2a moglie), Gallo, Michele e G. Battista (chitarraj e testi) Morelli, Michele (figlio), Altomare, Lucrezia (madre)


1830 Fezza, Gaetano fu Raffaele

Rogliano Rota

Rota

chitarrajo

matrimonio

1831 Fezza, Gaetano (padre)

Rogliano Rota

Rogliano

chitarrajo

nascita

1831 De Bonis, Vincenzo (padre)

Bisignano Giudeca Bisignano

1832 Morelli, Gaetano

Rogliano Spani

Rogliano

1833 Fezza, Gaetano (nascita)

Rogliano Rota

Rogliano

chitarrajo

nascita

1836 Fezza, Gaetano (nascita)

Rogliano

Rogliano

chitarrajo

nascita

1837 Gallo, Michele †

Rogliano Rota

Rogliano

chitarrajo

morte

1837 Fezza, Gaetano

Rogliano Rota

Rogliano

chitarrajo

nascita

1840 Fezza, Gaetano

Rogliano Rota

Rogliano

chitarrajo

nascita

1842 Fezza, Gaetano

Rogliano Rota

Rogliano

chitarrajo

nascita

1844 Morelli, Raffaele †

Rogliano

Rogliano

chitarrajo

morte

1845 Gallo, G. Battista †

Rogliano Rota

Rogliano

citarrajo

morte

1845 Fezza, Gaetano

Rogliano Olivitello Rogliano

citarrajo

nascita

1845 Fezza, Gaetano

Rogliano Olivitello Rogliano

citarrajo

morte

1847 Morelli, Vincenzo

Rogliano Serrone

citarrajo

nascita

1847 Morelli, Vincenzo

Rogliano

citarrajo

matrimonio

1851 Morelli, Giuseppe Antonio

Rogliano

chitarrajo

matrimonio

1852 Morelli, Giuseppe Antonio

Rogliano Spani

Rogliano

chitarrajo

nascita

1853 Morelli, Giuseppe Antonio

Rogliano Serrone

Rogliano

chitarrajo

nascita

1859 Morelli, Luigi

Rogliano Serrone

Rogliano

chitarrajo

morte

1864 Morelli, Giuseppe Antonio

Rogliano

1 Il 1 gennaio 1542 i fratelli mastri G. Francesco e Alfonso de Ricca di Cosenza risultano attivi nella costruzione dell’organo di S. Maria Maddalena di Morano Calabro, come detto alla nota 3 del testo. 2 Nell’inventariare nel 1542 dei beni della bottega del fu Antonello di Bartoluccio (nella quale, tra l’altro, si trovano anche Corde de viole duczine trenta

Rogliano

chitarraro nascita morte

chitarraro morte

quattro) si dice che essa è posta loco dicto subtas santo dominico juxta de uno lato la casa de lo quondam mastro Januario de ricca, quindi mastro Gennaro a questa data era già defunto. 3 Tra gli oggetti lasciati in deposito ai cugini (fratelli consobrini) Angelo e Francesco, mastro Gennaro, in partenza per la Costa, lascia anche una viola di

Gatto, Agata (moglie) Fezza, Nicolò (figlio), Gatto, Agata (moglie), De Bonis, Rosanna (figlia), Ferraro, Maria Rafaele (madre) Altomare, Lucrezia (moglie defunta) Fezza, Domenica (figlia), Gatto, Agata (moglie) Fezza, Pasqualina (figlia), Gatto, Agata (moglie) Gallo, G. Battista (padre defunto), Crispini, Chiara (madre defunta), Clausi, Caterina (moglie defunta) Fezza, Pasqualina (figlia), Gatto, Agata (moglie) Fezza, Parma (figlia), Gatto, Agata (moglie) Giuseppe Fezza (figlio), Gatto, Agata (moglie) Morelli, Gaetano (padre chitarrajo), Altomare, Lucrezia (madre defunta) Gallo, Michele (padre defunto), Clausi, Michelina (madre defunta) Fezza, Pietro Maria (figlio), Gatto, Agata (moglie) Fezza, Pietro Maria (figlio), Gatto, Agata (moglie) Morelli, Gaetano e Filippo (figli gemelli), Crispini, Pasqualina (moglie) Crispini, Pasqualina (sposa) Zumpano, Concetta (sposa), Morelli, Gaetano (padre) Morelli, Francesco Saverio (figlio), Zumpano, Concetta (moglie) Morelli, Rosa (figlia), Zumpano, Concetta (moglie) Morelli, Francesco Saverio (padre), Carmina (madre), Malfone, Teresa (moglie defunta) Morelli, Gaetano (padre defunto), Sicilia, Rosa (madre defunta), Zumpano, Teresa4 (moglie defunta)

sonare fornita. 4 È un nome errato, il nome corretto della defunta è, invece, Concetta Zumpano.

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La produzione artistica delle scuole di intaglio in provincia di Cosenza

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Materiali per una storia dell’intaglio ligneo in Calabria Fotografie di Giulio Archinà

Zumpano, Chiesa di San Giorgio: Pulpito, particolare, metà del XVII secolo. © Fotografia Giulio Archinà, 2008.

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In Calabria, regione ricca di boschi, la lavorazione del legno è molto diffusa su tutto il territorio: connessa alla realizzazione di carpenterie per l’architettura o per i cantieri navali, come informano le fonti; connessa alla produzione di suppellettili di uso quotidiano e di arredamento, come è facile supporre; connessa infine alla creazione artistica, sia di intaglio sia di scultura. A fronte di una scarsità di attestazioni documentarie, la ricerca sul territorio ha restituito molto materiale utile alla storia dell’arte regionale, cosicché l’intaglio ligneo oggi è sicuramente il fenomeno più indagato e conosciuto, naturalmente accanto alla pittura e alla scultura in marmo e in bronzo, decisamente più noti. Le prime opere utili alla classificazione sono databili tra l’Undicesimo e il Tredicesimo secolo, ma sono documenti isolati, così come scarse le sculture in legno trecentesche e quattrocentesche sicuramente locali. Un primo gruppo omogeneo di opere - assimilabile a un discorso stilistico unitario - appare solo tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento. Si tratta di cori, leggî e portoni lignei appartenenti alle chiese dell’Osservanza francescana di Bisignano, Cosenza e Morano Calabro, fortunatamente sopravvissuti ai terremoti e ai rifacimenti che hanno interessato nel tempo gli edifici che li ospitano e, soprattutto, scampati all’incuria. Lo stile e le caratteristiche tecniche di questi manufatti sono


Cosenza, Chiesa di San Francesco d’Assisi: Coro, particolare, 1505. © Fotografia Giulio Archinà, 2008.

perfettamente in linea con le tendenze artistiche del Regno di Napoli, trovando precisi confronti sia nella Capitale stessa sia nelle altre province del Regno, come la Basilicata. Di numero ridotto sono ancora le testimonianze artistiche del Cinquecento. Quelle sopravvissute rendono conto della persistenza di modelli e stilemi quattrocenteschi, quasi arcaicizzanti. Viceversa, la ricchezza degli arredi lignei intagliati e dorati delle chiese calabresi raggiunta sino a quell’epoca emerge in modo alquanto affascinante dalla lettura della Sacre visite, divenute norma dopo il Concilio di Trento e consuete soprattutto nel Seicento. In molte di esse i visitatori menzionano la presenza nelle chiese di altari, tabernacoli, statue e armadi, spesso reliquari, di legno “intercisio” e “aurato” o di più modesta fattura, restituendo, almeno nelle pagine d’archivio, la certezza di contesti ormai perduti e certamente suggestivi. Il Seicento e il Settecento, cioè i secoli delle manifestazioni artistiche barocche e tardo barocche, in uno sguardo generale di quanto sopravvissuto e di quanto finora studiato, sono senz’altro quelli maggiormente conosciuti quanto alla produzione dell’intaglio calabrese. La fioritura di maestranze di ottimo livello nei “centri-fucina” di Morano Calabro e Rogliano, almeno per la sola attuale provincia di Cosenza, permette di seguire con maggior documentazione, ora anche archivistica, la diffusione delle maestranze specializzate sul territorio e in essa lo sviluppo di personalità emergenti che diedero vita a vere e proprie specificazioni stilistiche, nonché a opere di sicuro impatto artistico. Giulio Archinà, fotografo d’arte tra i più raffinati e ricercati, ha fotografato per mostre e cataloghi d’arte numerosissimi manufatti d’intaglio ligneo delle chiese della Calabria. In questa selezionata ma intensa rassegna di scatti, che rappresenta una sezione della mostra legata strettamente alle indagini storiche e artistiche presenti in catalogo ma del tutto indipendente per la scelta e l’esposizione delle opere, le fotografie riescono a evocare un contatto pressoché diretto e una dimensione quasi tattile con gli esemplari riprodotti. Riunendo materiali eccezionali, necessari per il proseguimento dell’approfondimento scientifico, le fotografie di Archinà ci presentano il colore delle diverse essenze lignee e delle dorature e delle tinte, insistono sui segni del tempo visibilissimi sui

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Cosenza, Chiesa di San Francesco d’Assisi: Coro, particolare, 1505. © Fotografia Giulio Archinà, 2008. Paola, Chiesa dell’Annunziata: Cappello di fonte battesimale, metà del XVII secolo. © Fotografia Giulio Archinà, 2012.

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manufatti, siano polvere o corrosioni, e si pongono di fronte a noi in maniera del tutto tridimensionale, con la stessa immanenza di una presenza viva. Abituati finora alle sue fotografie aeree, dove, dall’alto, il particolare è risucchiato nel totale, divenendo parte di una composizione equilibrata di colori e luci, qui le foto di Giulio Archinà agiscono secondo un procedimento inverso, presentandoci un mondo figurativo fatto di particolari …e stavolta è proprio il dettaglio a racchiudere in sé il tutto. Un processo che, a ben guardare, non è il semplice divenire della forma nel replicarsi del particolare, quantunque sia sempre diverso, bensì è quel divenire proprio dell’attimo dell’esistenza, che contiene in nuce tutta l’esistenza stessa, con l’intensità, calma o drammatica, comunque sempre carica di pathos, insita nel caratteristico taglio della luce. Grazie a questa sezione della mostra rivivono alcuni dei più interessanti e bei manufatti lignei della provincia di Cosenza ed è la luce che li cattura e ci cattura, eternando l’attimo come un frammento di poesia dei lirici greci o dei poeti ermetici italiani. Del resto è proprio Giulio Archinà che ne svela il segreto, quando, per rispondere alla mia domanda sugli obiettivi usati, mi risponde che, per giungere a questi effetti, più che la meccanica a lui servono «il cavalletto, tanto cavalletto e le luci giuste, meglio quelle offerte dalle atmosfere naturali», cioè, se ho inteso bene, a lui, per giungere a questi risultati, servono solo “appostamenti alla ricerca di luce”. Giorgio Leone


Celico, Chiesa di San Michele Arcangelo proveniente dal convento di Sant’Antonio di Padova: Tabernacolo, particolare, 1760. © Fotografia Giulio Archinà, 2009. Celico, Chiesa di San Michele Arcangelo proveniente dal convento di Sant’Antonio di Padova: Tabernacolo, particolare, 1760. © Fotografia Giulio Archinà, 2009.

Rogliano, Chiesa di San Giorgio: Altare di San Francesco di Paola, particolare, fine XVII-inizi XVIII secolo. © Fotografia Giulio Archinà, 2013. Rogliano, Chiesa di San Giorgio: Altare di San Francesco di Paola, particolare, fine XVII-inizi XVIII secolo. © Fotografia Giulio Archinà, 2013.

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Rogliano, Chiesa di San Giorgio: Altare di San Francesco di Paola, fine XVIIinizi XVIII secolo. © Fotografia Giulio Archinà, 2013.

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Rogliano, Chiesa della Madonna delle Grazie detta di Camina: Soffitto, fine XVI- inizi XVII secolo. © Fotografia Giulio Archinà, 2013. Rogliano, Chiesa di San Giorgio: Altare maggiore, fine XVII-inizi XVIII secolo. © Fotografia Giulio Archinà, 2013.

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Rogliano, Chiesa di San Giorgio: Altare maggiore, particolare, fine XVII-inizi XVIII secolo. © Fotografia Giulio Archinà, 2013.

Cosenza, Chiesa di San Domenico: Cappella del Rosario, fine XVII-inizi XVIII secolo. © Fotografia Giulio Archinà, 2008.

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Spezzano della Sila, Chiesa di San Francesco di Paola: Soffitto, seconda metà XVII secolo. © Fotografia Giulio Archinà, 2013.

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Rovito, Chiesa di Santa Barbara: Altare maggiore, Santa Barbara, metà XVII secolo. © Fotografia Giulio Archinà, 2013.

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Carpanzano, Santuario della Madonna della Grazia: Portone, particolare, 1622. Š Fotografia Giulio Archinà , 2013.

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Appunti per una storia (s)conosciuta: intaglio ligneo e maestri nell’attuale provincia di Cosenza Giorgio Leone

Uno sguardo storiografico d’insieme. Credo che nella storiografia storico-artistica calabrese l’intaglio ligneo sia il fenomeno più indagato e conosciuto, naturalmente insieme a quelli della pittura e della scultura in marmo e in bronzo, decisamente i più noti1, tanto che la foto di un particolare del coro di Agostino e Mario Fusco della chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Morano Calabro è stata inserita da Anna Maria Matteucci a illustrazione del paragrafo dedicato alla Calabria del capitolo “L’architettura nel Regno delle Due Sicilie” all’interno del suo volume L’architettura del Settecento, edito nel 1988 e facente parte della collana “Storia dell’arte in Italia” della Utet diretta da Ferdinando Bologna2. L’altra foto che l’autrice appone è quella della facciata della chiesa dell’Addolorata di Serra San Bruno. Ritengo che entrambe le figure siano ben espressive di quel rinnovamento, cambiamento dello scenario artistico della regione che la studiosa commenta nel relativo paragrafo3, anche se purtroppo in termini non del tutto lusinghieri per la compagine sociale dell’epoca. Quindi, il fatto stesso che lei abbia scelto di illustrarlo anche con un dettaglio relativo a un’opera d’intaglio, al di là della nuova attenzione e considerazione critica delle attualmente dette “arti applicate” nel panorama degli studi storico-artistici, sia dovuto soprattutto alla conoscenza più diffusa che il patrimonio di arredi in legno calabresi aveva in quell’anno già raggiunto. Alla luce di quanto affermato e prima di addentrarmi in successive considerazioni di natura più squisitamente artistica e tecnica, mi è d’obbligo indicare, in sintesi, la bibliografia di riferimento indispensabile per chiunque voglia conoscere, anche nel suo svolgimento storico, lo stato degli studi sull’intaglio. Si devono ad Alfonso Frangipane le prime opere con essenziali citazioni: Per l’arte in Calabria, pubblicato nel 1915 nella rivista «Archivio Storico della Calabria», e Arte in Calabria edito nel 1927 seguite a breve distanza dalla fitta schedatura, curata dallo stesso studioso, per il secondo volume dell’Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, dedicato alla Calabria, e pubblicato nel 1933 dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti dell’allora Ministro della Educazione Nazionale, le cui competenze e funzioni in materia di tutela del patrimonio culturale furono nel tempo, attraverso ulteriori passaggi, raccolte dall’attuale Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Seguono, in ordine cronologico, le revisioni e il parziale completamento della schedatura del precedente citato volume compiute da Biagio Cappelli nella recensione dello stesso che nel 1934 consegnò alla rivista «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania» e le brevi, ma diffuse segnalazioni delle varie riedizioni della “Guida Rossa” del Touring Club Italiano, via via incrementate: a partire da quelle del tutto pioneristiche di Luigi Vittorio Bertarelli del 1928 e 1938 fino a quelle curate da Biagio Cappelli e da Maria Pia Di Dario Guida rispettivamente nel 1965 e nel 1980 e poi aggiornate nel 2005; in quest’ottica, tra la schedatura e la guida, segue Emilio Barillaro con il suo Calabria: guida artistica e archeologica del 1972, in cui le indicazioni o sole citazioni di luoghi e oggetti sono sintetiche e, a volte, solo quantitative. La prima, più estesa e articolata trattazione sull’argomento è contenuta nell’articolo Maestranze di Calabria pubblicato da Alfonso Frangipane nel 1950 sulla rivista «Il Ponte», mentre per un primo aggiornato tentativo di inquadramento scientifico e di sintesi bisogna attendere l’intervento di Maria Pia Di Dario Guida, Formazione e consistenza del patrimonio artistico delle chiese di Calabria, tenuto al Convegno Ecclesiale Regionale promosso nel 1980 dalla Conferenza Episcopale Calabra, con atti pubblicati nel 1981, e il volume Itinerari per la Calabria, curato nel 1983 dalla stessa studiosa per la collana “Itinerari

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de l’Espresso”4. Questi tre contributi, sebbene a distanza di molti anni, di certo hanno favorito la conoscenza dell’argomento oltre i confini della regione, di cui la citata menzione della Matteucci non è l’unica da dover registrare, sebbene sia quella che, per il contesto in cui è inserita, ha senz’altro un respiro più internazionale e che richiami espressamente artieri di Morano rispetto a quelli di Rogliano senz’altro fino a quel momento più noti. Contestualmente hanno posto le basi alla successiva ricerca che, tra estesi approfondimenti di ricognizione territoriale e documentaria5, tra fonti letterarie e archivistiche6, vanta l’allestimento di una mostra didattica L’intaglio ligneo in Calabria: dal XVII secolo al XVIII secolo, curata da Rita Iannace nel 1991 e indetta dalla Soprintendenza di Cosenza nell’ambito della “VII Settimana dei Beni Culturali”, nonché l’organico inserimento nella sintesi dedicata all’Arte del legno operata da Renato Ruotolo nel 1993 per l’undicesimo volume della Storia del Mezzogiorno, curata da Giuseppe Galasso e Rosario Romeo, e la pubblicazione, senz’altro più estesa, di essenziali repertori tipologici e schede biografiche sintetiche degli intagliatori più attestati nel Seicento e nel Settecento, distintamente redatti da chi scrive, da Rosa Maria Cagliostro, Mario Panarello e da Attilio Spanò7, nell’ormai fondamentale volume dedicato alla Calabria, curato da Rosa Maria Cagliostro nel 2002 per l’Atlante del Barocco in Italia diretto da Marcello Fagiolo. Dai risultati raggiunti nel volume appena ricordato e dai titoli dei contributi raccolti nelle note 4 e 5 è palese che il periodo maggiormente indagato è quello decorrente dal Seicento al Settecento, cioè i secoli delle manifestazioni artistiche barocche e tardo barocche che, in uno sguardo generale della situazione della storiografia artistica, sono senz’altro quelli maggiormente conosciuti relativamente alla Calabria. Indagare, dare motivazioni a questo più insistito interesse rispetto alle altre epoche non è facile: altri studiosi prima di me e recentemente hanno cercato di dare una risposta. Non solo al divario che, negli studi più specifici inerenti la lavorazione del legno per fini artistici, oggi esiste tra la Calabria e le altre regioni meridionali e centro-italiane un tempo appartenenti all’esteso Regno di Sicilia, prima, e di Napoli, dopo8, ma anche alla differenza che esiste tra gli interessi storici e metodologici locali calabresi e quelli nazionali9. In sostanza, consapevole di non essere depositario della verità, mi pare che il lato oscuro stia proprio nel fatto che in Calabria siano mancati per molto tempo, forse mancano tuttora, o sono stati altalenanti un coordinamento generale e una divulgazione extra-regionale che, in questo campo di studi, sono di norma affidati alle università e alle soprintendenze, cosicché si è assistito a interessi parziali, fondati su personali ricerche e coinvolgimenti, non sempre legati a un’effettiva conoscenza del territorio. Da ciò, a mio avviso, è derivata la celebrità, del tutto meritata e giusta ma non del tutto giustificabile ancora a ottant’anni dalla sua pubblicazione, del menzionato Inventario del 1933 che, a detta di tutti gli studiosi che si interessano di cose calabresi, rimane ancora adesso l’approccio essenziale di ogni studio artistico regionale. Sono mancati, come hanno sottolineato spesso Rossella Vodret e Giovanna Capitelli, e a volte io stesso, repertori e mostre capaci di dare un’amplificazione agli studi condotti localmente - e ce ne stanno di meritevoli! - e contemporaneamente proporre nuove strade e indirizzi di ricerca poco battuti dai ricercatori locali. Il Seicento e il Settecento, per ragioni cronologiche e per ragioni storiche legate al cambiamento del gusto e delle compagini sociali, sono i secoli che maggiormente hanno restituito materiale artistico e nei quali sono stati fondati e ricostruiti, anche a causa di terremoti, molti edifici. Per questo sono molti i manufatti artistici in legno, materiale di per sé molto deperibile, giunti da questi due secoli fino a noi, almeno relativamente alla Calabria settentrionale immune al funesto terremoto del 1783 che sconvolse la Calabria meridionale. Certo, nemmeno queste ragioni sono esaustive, perché, come ha notato recentissimamente Giovanna Capitelli10, anche per l’Ottocento all’abbondanza di opere presenti nelle chiese e in altri edifici, sia pittoriche sia scultoree in marmo e in legno nonché di intaglio, non è corrisposto un coerente recupero che solo ora, accanto ad alcune importanti mostre dedicate espressamente alla pittura11 e a studi incentrati sugli episodi più direttamente scultorei di Serra San Bruno12 - quest’ultimo ha senz’altro avuto un singolare a autonomo sviluppo nel contesto di studi calabresi, unitamente a quello degli scalpellini, dell’architettura e dell’urbanistica cittadina -, può contare su un’interessante Anagrafe della ricerca promossa dalla stessa studiosa che nel 2009 ha organizzato un convegno nell’ambito del Dipartimento di Studi umanistici dell’Università

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Fig. 1 - San Demetrio Corone, Chiesa dei Santi Adriano e Natalia: Coppia di pilastrini (Secolo XII), part. (ph. Attilio Onofrio)

della Calabria. Tale importante simposio, di cui si attendono ancora gli atti, ha messo a confronto studiosi specialisti e ricercatori locali di vari settori, dando vita a un variegato e attuale contesto storico e storiografico che ha gettato nuova luce su un secolo lungo, ma poco e mal conosciuto, ed estremamente ricco di molteplici espressioni artistiche. Ciò, ci si augura, dovrebbe già mettere al sicuro il prosieguo degli studi sul periodo da quel rischio, sempre latente, di privilegiare un settore a un altro e di mettere in ombra alcuni aspetti significativi e importanti solo perché non eclatanti o comunque meno comuni alla fruizione estetica. In una sezione del convegno ho avuto modo di presentare l’intaglio e la scultura in legno dell’Ottocento, perciò, con le specifiche ricerche di giovani laureati: Michele Abastante e Antonella Salatino13, ho avuto modo e occasione di chiudere il cerchio sui discorsi iniziati nel precedente volume di Rosa Maria Cagliostro. Sulla situazione degli studi sui manufatti artistici in legno, specificatamente sulla scultura, dell’età medioevale e della prima età moderna ha già discusso Pierluigi Leone del Castris. Lo studioso ha cercato di individuare le cause dell’inadeguata conoscenza storiografica e soprattutto della scarsa attestazione di siffatte opere rispetto alle altre regioni italiane. In particolare, con molta cautela, ha motivato quest’ultimo aspetto con una giustificazione storica, ipotizzando che la mancata attestazione di sculture per l’alto medioevo sia dovuta alla maggior incidenza della cultura greca, anche dopo la latinizzazione della regione avvenuta con i Normanni. Cultura che, come è noto, relativamente all’arte sacra, predilige le immagini dipinte, cioè le icone, alle sculture, considerate retaggio di paganesimo14. L’ipotesi, alla luce della storia della Calabria, della forte adesione alla cultura greco-bizantina e della presenza estesa di piantagioni arboree cedue, materiale primario per la realizzazione di tali manufatti, reggerebbe abbastanza bene ma è molto diversa da quella suggerita precedentemente da altri studiosi. Questi, infatti, non tenendo conto degli squilibri storici e storiografici della documentazione artistica pervenuta, analisi che appunto compie Leone de Castris, hanno supposto ‘autoctonie’ della lavorazione molto più antiche di quelle effettivamente rintracciabili sul territorio15 oppure hanno suggerito un’antica sostituzione del simulacro ligneo all’immagine dipinta, cioè l’esatto contrario della tesi di Leone de Castris, a seguito di un’analoga povertà di icone in Calabria16. Tale ultima tesi è stata anche da me controbattuta in un contributo rivolto alle testimonianze artistiche calabresi al passaggio tra la cultura greco-bizantina e quella occidentale17, con un’idea cronologica e storica non affatto dissimile a quella di Pierluigi Leone de Castris discussa in questa sede. Le prime attestazioni dell’intaglio nelle fonti e sul territorio calabresi A testimonianza dell’antichità della lavorazione del legno in Calabria sono state spesso richiamate fonti attinenti la carpenteria per l’architettura e per i cantieri navali, dall’Undicesimo al Diciottesimo secolo18, e si è anche ipotizzato che a tale attività, per una regione ricca di piantagioni di ogni specie, dovesse corrispondere, anche in minima parte, una produzione legata a suppellettili di uso quotidiano e in genere all’arredamento. Purtroppo finora mancano fonti relative a una produzione più eminentemente artistica, sia d’intaglio propriamente detto sia specificamente scultorea. Distinguo i due campi solo per esigenze di chiarezza della ricerca che si presenta, giacché ritengo che sia molto difficile, specialmente per l’epoca a cui ci si riferisce e per i settori che si indagano, proporre una detta-

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Fig. 2 - Bisignano, Chiesa della Riforma: Portone in legno (secolo XV, fine - secolo XVI, inizi) (ph. Attilio Onofrio) Fig. 3 - Bisignano, Chiesa della Riforma: Portone in legno (secolo XV, fine - secolo XVI, inizi), part. (ph. Attilio Onofrio)

gliata distinzione di lavorazioni, così come, tenendo sempre presenti i chiarimenti teorici di Ferdinando Bologna19, nella scultura in marmo non viene distinta la produzione della scultura da quella dei rilievi e tantomeno le personalità in esse operose. Se per la scultura i più antichi esemplari sopravvissuti e finora conosciuti non sono anteriori alla metà del Trecento20, per l’intaglio, invece, rimane l’eccezionale documento della coppia di pilastrini in legno della chiesa di Sant’Adriano di San Demetrio Corone (fig. 1) che gli studi più aggiornati tendono a datare tra l’Undicesimo e il Tredicesimo secolo21. Se questa datazione risultasse esatta e non c’è ragione stilistica e storica per cui non si possa ritenere tale, anche se attualmente una semplice indagine diagnostica risolverebbe efficacemente il problema cronologico, la coppia di pilastrini in questione si porrebbe come l’essenziale documento di una produzione, tutta ipotetica ma senz’altro verosimile, collegata agli spazi architettonici e liturgici delle chiese. Rimane comunque misteriosa l’originaria collocazione di questa coppia di pilastrini i quali, molto simili a pilastrini di templon o iconostasi, potrebbero, se così fossero, protrarre la datazione verso l’estremo cronologico più tardo, se non ancora oltre. Infatti, a quest’ultima presunta datazione corrisponde la più copiosa documentazione del legno nella storia di tale arredo nell’architettura bizantina a meno che la coppia di pilastrini non appartenga a una composizione più simile alle pergulae medievali occidentali, quindi essere più antica, ovvero, a rischio di risultare anche pedanti, non rechi i segni di manipolazioni successive. Nessun’altra testimonianza così antica mi sembra sia emersa finora sul territorio calabrese, mancanze forse motivate dal deperimento del materiale, dall’incuria e dai continui rifacimenti degli edifici storicamente deputati a contenere simili manufatti. Per trovare altre attestazioni bisogna giungere alla matura età aragonese: si tratta di un manipolo di arredi sopravvissuti in chiese dell’Osservanza francescana a Bisignano, a Cosenza e a Morano Calabro alquanto uniforme stilisticamente e datato tra il tardo Quattrocento e l’avanzato Cinquecento. Nella chiesa della Riforma di Bisignano l’Inventario del 1933 di Alfonso Frangipane scheda direttamente un leggio e indirettamente un coro, all’epoca non più esistente, e un portone affermando che il «leggio corale è in noce, intagliato e intarsiato secondo il motivo della porta lignea quattrocentesca ...[e che]... doveva appartenere al vecchio coro ligneo non più esistente»22. Queste opere attualmente non sono rintracciabili in situ: il leggio lo vidi nel 1994 in un locale del convento adibito all’epoca a deposito provvisorio in attesa dell’istituzione di un museo; il portone lo ritrovai fortuitamente e lo identificai nel 2006 in un deposito di vario materiale attiguo al chiostro di San Francesco di Paola a Cosenza (figg. 2,3), dove probabilmente era stato trasportato durante lavori di restauro dell’edificio bisignanese e poi qui dimenticato. Molto rovinato il por-

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Fig. 4 - Cosenza, Chiesa di San Francesco d’Assisi: Coro ligneo (1505, datato) (ph. Giulio Archinà) Fig. 5 - Cosenza, Chiesa di San Francesco d’Assisi: Coro ligneo (1505, datato) (ph. Giulio Archinà)

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tone corrisponde alla sintetica descrizione del 1933 e alle schede inventariali storiche della Soprintendenza di Cosenza: mostra un partito a griglia ortogonale di cinquantaquattro formelle quadrangolari intagliate con motivi geometrici, animali reali e fantastici e con lo stemma dei Sanseverino, feudatari della città e finanziatori di molti lavori del convento francescano. Nell’archivio fotografico della Soprintendenza di Cosenza è documentata un’altra porta più piccola appartenente allo stesso convento, con un analogo partito decorativo di otto riquadri, che forse in origine era di accesso alla sacrestia e che probabilmente corrisponde a quella che vidi molto malmessa e segnalai nel 199123. La datazione di questi arredi al Quattrocento proposta da Frangipane è sicuramente plausibile a livello stilistico, ma la realizzazione effettiva degli stessi andrebbe cronologicamente circoscritta nella seconda metà del secolo, se non proprio tra la fine di esso e i primi decenni del Cinquecento, considerando che simili decorazioni risultano su opere sicuramente datate o databili, come il portone della chiesa di San Francesco a Potenza del 149924, il portone della chiesa di Sant’Antonio a Rivello databile al 151425 e il leggio della chiesa di San Bernardino a Morano Calabro datato 153626. Nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza, nel vecchio coro dei frati rimasto indenne nei rifacimenti seicenteschi e settecenteschi dell’edificio, esiste tuttora un coro (figg. 4,5,6) che fa corpo con questi arredi, nonostante presenti un partito esornativo differente e che mostra diverse connotazioni stilistiche, più arcaiche in certo qual modo o forse arcaicizzanti, tanto da aver indotto l’ipotesi di una realizzazione in momenti cronologici distinti tra i sedili e la cornice aggettante, per certi versi stilisticamente più evoluta27, ovvero di un abbellimento successivo. Il coro è arricchito di begli intagli a giorno, cioè a traforo, che nelle mensole che reggono la cornice e sui braccioli ritraggono animali fra racemi, sui prospetti dei braccioli colonnine a tortiglione con fiori e pigne apicali, aperte e chiuse nel primo e nel secondo ordine di sedili, e da grandi tarsie sulle spallette dei sedili esterni e sul prospetto della cornice aggettante di chiusura, raffiguranti, le prime, simbologie dell’Osservanza come il Santo Nome inscritto nel clipeo raggiato, e, le seconde, un corposo viluppo di racemi fogliati con l’iscrizione della data 1505


Fig. 6 - Cosenza, Chiesa di San Francesco d’Assisi: Coro ligneo (1505, datato), part. (ph. Giulio Archinà)

in numeri romani. Tale combinazione di elementi di carattere tardo gotico e classicistico insieme non è affatto isolata, ma si associa a quella già individuata come circolante nel Regno meridionale tra i manufatti di intaglio ligneo pressappoco della stessa epoca28 e che, per quel che consentono i confronti sul territorio calabrese, può essere localmente ricondotta a quella simile temperie che connota alcuni portali lapidei datati sul finire del Quattrocento, come quelli della chiesa del Carmine di Corigliano Calabro e della chiesa di Santa Maria Maggiore di Aiello Calabro e di altri che a questi si possono unire29. La presenza di questi arredi lignei nelle chiese francescane dell’Osservanza, che allo stato attuale mi pare siano ancora i soli conosciuti sull’intero territorio regionale, non sembra abbia finora suscitato dirette attenzioni della critica regionale ed extra-regionale, a parte l’interesse dimostrato a essi da Ruotolo che li inserisce nel paragrafo dedicato alla diffusione di forme consimili nel Regno meridionale a partire dal portone del palazzo napoletano dei Carafa di Maddaloni, databile negli anni sessanta del Quattrocento, fino all’arrivo, sempre a Napoli - capitale del Regno e dunque centro di attrazione e di irraggiamento culturale -, delle novità lombarde e toscane30. Queste novità, secondo lo studioso, inaugurano nel meridione una breve stagione dell’uso della tarsia che, per quel che intuitivamente si può cogliere, potrebbe certo giustificare cronologicamente la presenza di tarsie sulle spallette dei sedili esterni e sulla cornice aggettante del sopradetto coro francescano cosentino. L’attestazione di questi arredi lignei in Calabria, però, come ho avuto modo di evidenziare almeno in discorsi più generali31, potrebbe essere esemplificativa anche di un contesto culturale fatto di scambi reciproci tra i Francescani, i cui arredi lignei sono adeguati per ispirazione e consuetudine a dettami propri dell’Ordine, e la produzione e l’attività degli intagliatori locali. In quegli anni di passaggio da un secolo all’altro, sull’ultima onda dell’età aragonese, del resto, come ha di recente proposto Pierluigi Leone de Castris32, l’attività di botteghe locali dedite alla scultura è ormai non solo documentabile con maggior frequenza ma anche aperta, al pari delle altre province dell’antico Regno meridionale, a interessanti scambi di carattere ‘me-

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Fig. 7 - Castrovillari, Chiesa di San Giuliano: Portale e portone ligneo (1568) (ph. Giulio Archinà) Fig. 8 - Altomonte, Chiesa di Santa Maria della Consolazione di Altomonte: Portone ligneo (1580, datato) (ph. Giulio Archinà)

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diterraneo’ e ‘adriatico’, coinvolgendo anche le importazioni di opere di alto livello. E se ci sono stati scultori ci saranno stati pure intagliatori, come ho a volte rimarcato in altri scritti dedicati all’intaglio regionale di altre cronologie, anche se l’indagine territoriale non ha rilevato ancora niente che possa veramente arricchire il catalogo calabrese quattro-cinquecentesco degli arredi lignei finora noto e chiarire così, non solo lo scambio, ancora una volta presunto in questa sede, tra l’ambito francescano e quello locale, ma finanche la realtà di quest’ultimo. L’arredo ligneo, infatti, molto più della scultura, almeno nei casi in cui quest’ultima è stata salvaguardata dalla devozione che pur alterandone o modificandone nel tempo le forme, recuperate in gran parte con i restauri novecenteschi, è stato soggetto a distruzioni, sostituzioni e deperibilità connaturata alla materia. Rimangono ancora storiograficamente legati al Quattrocento: il soffitto ‘carenato’ della chiesa di San Bernardino di Morano33, molto manomesso, probabilmente all’origine di una tipologia attestata nella regione fino al Seicento inoltrato34, e forse alcune porte lignee dello stesso edificio; il cassone di Tropea35, per il quale la datazione che è stata proposta è del tutto inadeguata apparendo invece più avanzata e per questo si guardi il cassone proveniente da Terranova da Sibari del Museo Nazionale di Reggio Calabria36 datato più coerentemente al Seicento. Scarsa è anche la documentazione specifica per quasi tutto il Cinquecento, secolo del quale, in Calabria, i primi esemplari superstiti conosciuti sono databili solo nella seconda metà. Nel particolare si tratta di alcune valve di portoni in legno, tra le quali le più antiche appartengono alla chiesa di San Giuliano a Castrovillari (fig. 7) e al Santuario della Madonna delle Armi a Cerchiara di Calabria, datate rispettivamente 1568 e 1570. Dei due portoni il secondo è firmato e datato «SYLVESTER SCHIFINVS DE MORANO ME FECIT A. 1570», mentre il primo gli è stato attribuito37. A questi portoni si devono annettere, anche se realizzati in un arco temporale subito successivo, quello di Altomonte del 1580 (fig. 8) e i portoni di Acquaformosa e di Rocca Imperiale dei primissimi anni del Seicento38, seguiti da quelli cronologicamente più avanzati di Cosenza39. Si uniscono a tali testimonianze: le tre belle alzate d’altare della chiesa delle Vergini sempre a Cosenza40, di cui una datata 1576 (fig. 9), delle quali è difficile affermare se siano state importate da Napoli o


siano frutto di intagliatori locali -; l’altrettanto interessante soffitto datato 1577 della chiesa di San Giorgio di Zumpano41 (fig. 10) - che si potrebbe porre come trait-d’union tra il perduto soffitto del Duomo di Cosenza, realizzato circa trent’anni prima, e altri simili manufatti attestati in Calabria Citra e fino alla chiesa di Santa Lucia di Cropani -; il ciborio pressoché unico della chiesa di San Pietro La Cattolica di Castrovillari42; la rara cornice della Madonna della Lettera della chiesa della Michelizia di Tropea43, sempre che sia veramente stata realizzata entro gli anni finali del Cinquecento e non già nel Seicento e quindi, come le alzate dell’altare del Crocifisso di Castrovillari44 e di quello dell’Immacolata di Montalto Uffugo45 un tempo pure datate entro il Cinquecento, essere soltanto l’espressione di un più generale riferimento stilistico di passaggio tra Cinquecento e Seicento, così come il tegurio di fonte battesimale della chiesa di Santa Maria del Colle di Mormanno e quello della chiesa di Santa Maria del Gamio di Saracena46, anch’essi verosimilmente realizzati nel Seicento sulla scorta di stilemi cinquecenteschi, come è documentabile per molti altri arredi lignei calabresi che presentano analoghe caratteristiche formali e tecniche. Viceversa, la ricchezza degli arredi lignei intagliati e dorati delle chiese calabresi emerge in modo alquanto affascinante dalla lettura della Sacre visite, divenute norma dopo il Concilio di Trento e consuete soprattutto nel Seicento. In molte i visitatori annotano altari, tabernacoli, statue e armadi, spesso reliquari, di legno “intercisio” e “aurato” o di più modesta fattura restituendo, almeno nelle pagine d’archivio, la certezza di contesti ormai perduti e certamente suggestivi. Non è certo questa la sede per rendicontare sulle vicende e i ritrovamenti di una annosa indagine che si sta conducendo su questa importante documentazione, basta solo rimandare alla descrizione già da me sinteticamente pubblicata nel 200847, della Visita apostolica del 1629 di mons. Andrea Pierbenedetto a Longobucco, dove è registrato un cospicuo numero di statue e di edicole in legno, oppure alle annotazioni finora edite delle Visite dello stesso presule del 1628 alla diocesi di Cosenza e del 1630 a quella di Bisignano e poi di quelle anteriori di mons. Annibale D’Afflitto del 1594 e del 1595 nelle diocesi di Reggio Calabria e di Bova, in gran parte pubblicate da Domenico Minuto e da Nicola Ferrante nelle annate del 1983 e del 1984 della rivista «Brutium», per rendersi conto di quanto Fig. 9 - Cosenza, Chiesa delle Vergini: Alzata dell’Altare laterale di destra (1576, datato) (ph. Giulio Archinà) Fig. 10 - Zumpano, Chiesa di San Giorgio: Soffitto ligneo (1577, datato) (ph. Giulio Archinà)

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possa essere interessante siffatta ricerca. Una particolare attenzione all’intaglio per l’arredo sacro, ancora, si coglie nei passi dedicati agli altari e alle sacre suppellettili degli Avvertimenti per l’Ufficio del Rettore Curato pubblicati a Roma, «Appresso Guglielmo Facciotto», nel 1606 da mons. Giovan Battista Costanzo, arcivescovo di Cosenza dal 1691 al 1617, che possono considerarsi alla stregua di cartina di tornasole per quanto finora ipotizzato in merito alla realizzazione e alla diffusione locale di manufatti lignei. L’intaglio barocco e tardo barocco nell’attuale provincia di Cosenza Se le testimonianze più antiche dell’intaglio in legno in Calabria finora citate sono quasi tutte attestate nell’attuale provincia di Cosenza il motivo non dovrebbe essere ricercato soltanto nella circostanza che questa parte della regione è stata meno soggetta a catastrofici eventi sismici, perché la storia annota quello del 1638, disastroso per alcuni centri urbani, che ha molto depauperato, se non totalmente distrutto, il patrimonio all’epoca esistente, ma probabilmente anche alla circostanza che gli arredi sopravvissuti alla storia di un edificio o di un ordine religioso, in previsione di successivi possibili rifacimenti, siano stati conservati come simbolo di antichità e tradizione della fondazione o della sua continuità. Non sembra un caso, infatti, che le vetuste testimonianze quattro-cinquecentesche finora ricordate siano soprattutto arredi di chiese francescane, nelle quali, tra l’altro, la presenza di frati artieri, periti nella lavorazione del legno, poteva garantire un migliore mantenimento dei manufatti, cioè una sorta di “conservazione preventiva” come si direbbe oggi. Gli anni successivi al Concilio di Trento, come la critica ha affermato, in Calabria hanno restituito un discreto numero di testimonianze artistiche risalenti, in particolare, a partire dalla prima metà del Seicento, perciò appaiono più favorevoli all’impostazione di discorsi e interpretazioni coerenti, pur dovendo annotare, almeno per l’intaglio, qualche lacuna ancora difficilmente colmabile. A uno sguardo generale sulle testimonianze dell’intaglio artistico nel cosentino, datate o databili dalla fine del Cinquecento e per quasi tutto il Seicento, appare con molta chiarezza la continuità e l’uniformità della diffusione di modelli strutturali e decorativi rinascimentali e tardo manieristici48. I modelli decorativi, inoltre, prevedono l’uso insistito di elementi di questi repertori esornativi, traducendoli a volte con estrema libertà e fantasia, inserendoli in ogni spazio, avviluppandoli ordinatamente sulle fasciature delle colonne e sui gradini degli altari, disponendoli con grazia sui frontoni, sulle ali laterali e sugli orecchioni degli stessi, giungendo a realizzare, come altrove accennato, un’originale variante locale del barocco che può essere confrontata, nonostante le mancanze, ai partiti ornamentali dei rilievi lapidei, delle argenterie e dei tessuti di sicura fattura locale. Tale compagine decorativa è la stessa che è dato constatare nello stesso periodo nelle altre province del Regno napoletano49, tanto che spesso è possibile effettuare convincenti confronti extra-regionali, come esemplarmente per l’alzata d’altare della chiesa di san Francesco d’Assisi a Tortora50, confronti che, piuttosto che indicare possibili importazioni, non sempre da escludere, fanno riflettere sull’univocità culturale e sulla possibilità di eventuali attività in loco di intagliatori e botteghe provenienti da altre aree dello stesso Regno o anche esterne a esso. Nel Seicento, con il favore di una documentazione artistica e archivistica più disponibile, si può constatare sul territorio il costituirsi di vere e proprie stanzialità operative, tant’è che si è potuto discutere di veri e propri “centri-fucina” - identificati a volte per motivi didattici, non sempre convenienti, come “scuole” -, in cui gli intagliatori e le botteghe, entrambi numerosi e concentrati, paiono addirittura adeguarsi a uno stile comune se non proprio costituire un riferimento culturale e tecnico per le maestranze attive nell’immediato hinterland. L’attuale provincia di Cosenza corrisponde in massima parte alla provincia di Calabria Citra del Regno di Napoli che, per giurisdizione, oltrepassava gli odierni limiti accogliendo le parti dell’attuale provincia di Crotone e di quella di Catanzaro che ricadono sul versante settentrionale del fiume Neto, il quale, come è noto, segnava il confine naturale tra Calabria Citra e Calabria Ultra. Sede pressoché ininterrotta, dal Trecento al Novecento, delle storiche diocesi di Cassano allo Jonio, San Marco Argentano, Rossano, Bisignano e Cosenza, l’attuale provincia di Cosenza risulta serrata tra il massiccio del Pollino e l’altopiano della Sila di cui un tempo superava le propaggini per le giurisdizioni diocesane di Cassano e di

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Fig. 11 - Rossano Calabro, Cattedrale: Soffitto ligneo della navata centrale (1592-1612, databile) (ph. Giulio Archinà)

Cosenza: la prima sconfinava nell’attuale provincia di Potenza in Basilicata sul lato tirrenico, mentre la diocesi lucana di Tursi scendeva lungo il versante jonico; la seconda, in diversi periodi di tempo, occupava parte delle attuali diocesi di Nicastro, di Catanzaro e di Santa Severina. Un presupposto geopolitico certo favorevole sia alla lavorazione del legno sia alla diffusione della produzione e delle maestranze oltre i confini amministrativi. Morano Calabro e Rogliano, individuati come sedi elettive della lavorazione del legno sul territorio della Calabria Citra, sono centri urbani situati in punti nodali della viabilità storica di quest’area e contemporaneamente adiacenti alle più prosperose riserve boschive naturali del Pollino e della Sila. L’analisi della propagazione sul territorio di attestazioni della produzione di arredi lignei collegata a questi due centri, di cui si spera in futuro di fornire una cartografia illustrata e commentata, può confermare una sorta di ulteriore suddivisione che lega le maestranze moranesi all’area più sensibilmente gravitante sul Pollino e sulla Piana di Sibari e le maestranze roglianesi a quelle della Val di Crati e della Valle del Savuto, senza inoltre escludere ulteriori irraggiamenti dovuti alle committenze dei feudatari e degli Ordini religiosi che frequentemente garantirono sconfinamenti e stimolanti travasi stilistici. Tutto questo, naturalmente, nella consapevolezza che le presenze di intagliatori sul territorio è comunque molto diffusa a prescindere dalla catalogazione critica e storiografica dei manufatti: in Calabria si può senz’altro asserire che il legno si lavorava dappertutto. Può capitare anche di imbattersi in intagliatori operosi in luoghi che non afferiscono ai centri di produzione e alle aree di riferimento prima indicate come canoniche ma che a esse in ogni modo si ispirano e quindi possono criticamente esservi inseriti al di là della storica afferenza di centri urbani, oggi comuni autonomi ma un tempo appartenenti alla bagliva di Rogliano, e dall’avvenuto trasferimento operativo di alcuni intagliatori o di botteghe da Morano a Castrovillari e da Rogliano a Cosenza che creò una sorta di sdoppiamento della stessa attività, situazione già abbastanza nota alla storiografia, per una naturale consequenzialità degli stessi centri urbani e per l’attestazione archivistica della residenza di alcuni intagliatori di sicura origine moranese e roglianese. Al contrario, può anche accadere di trovarsi di fronte a opere d’intaglio e di scultura in legno sicuramente di produzione locale del tutto diverse dalle tipologie e dagli stili dei manufatti solitamente connessi alle botteghe dei due centri intesi come elettivi e questo, in ultimo, potrebbe essere proprio la conferma sia della diffusione sul territorio di modelli e lavorazioni che combinano le due tipologie e i due stili finora identificati sia dell’autonomia elaborativa di taluni intagliatori51. Il manufatto artistico in legno che allo stato delle conoscenze introduce allo studio del Seicento parrebbe essere la porta della sacrestia del Santuario della Madonna delle Armi di Cerchiara di Calabria, datata proprio «Anno Domini 1600». Ha una lavorazione semplice che, nella ripartizione ortogonale a griglia della superficie e negli intagli delle formelle risultanti, potrebbe ancora ricordare i portoni tardo quattrocenteschi, ma il fitto decoro geometrico sulle superfici lisce e la lavorazione immediata, che includono anche lo stemma dei Pignatelli feudatari del luogo, la rendono sicuramente moderna e aggiornata, nonostante il carattere ‘rustico’ rilevato dall’Inventario del 193352 frutto, senz’altro, di una produzione locale legata e vicina alla lavorazione e decorazione di mobili e utensili quotidiani, come almeno risulterebbe dal confronto con i simili caratteri che compaiono sulla produzione lignea contadina, anche molto più avanzata e quindi ma comunque espressione della persistenza di alcuni stilemi nella cultura popolare. Una sorta di “arte povera” quella espressa dalla porta in questione dove tuttavia si coglie il carattere stilistico e tecnico dell’intaglio di riferimento moranese che, per tutto il corso del Seicento e gran parte della prima metà del Settecento, sembra distinguersi per una più stretta adesione a modelli rinascimentali e tardo manieristici, con una sorta di predilezione verso la componente architettonica dell’impianto strutturale e decorativo. La connotazione rinascimentale e tardo manieristica è in ogni modo comune a tutto l’intaglio ligneo calabrese del Seicento, non solo di Morano o di Rogliano e risulta ben inserita nella compagine culturale del Regno meridionale53. Per i necessari confronti si segnalano i soffitti a cassettonato ligneo della Cattedrale di Rossano (fig. 11), della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Rogliano e della chiesa di Santa Maria del Gamio di Saracena che permettono di cogliere questo comune indirizzo e adesione alle tendenze tardo cinquecentesche e primo seicentesche

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Fig. 12 - Pietrafitta, Chiesa di San Nicola, Cappella della Vergine (sec. XVII) (ph. Soprintendenza Bsae della Calabria) Fig. 13 - Pietrafitta, Chiesa di San Nicola, Cappella della Vergine: Soffitto (sec. XVII) (ph. Giulio Archinà) Fig. 14 - Cosenza, Chiesa delle Vergini: Portone ligneo (Secolo XVI, ultimi decenni - Secolo XVII, primi decenni) (ph. Giulio Archinà)

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napoletane oppure gran parte degli arredi in legno repertoriati nell’Atlante del Barocco curato da Rosa Maria Cagliostro, a cui ora si potrebbe unire il bellissimo ma rovinato insieme della cappella della Beata Vergine della chiesa di san Nicola di Pietrafitta (figg. 12, 13), completo pure, cosa ormai unica, dell’architrave posta sull’ingresso a sua volta impreziosito da un bell’arco lapideo di riferimento stilistico roglianese. La distinzione più specifica dei portati stilistici delle diverse botteghe calabresi, sulle quali si è discusso e spesso insistito nei contributi di ricercatori locali, sembra comunque delinearsi sullo scadere del secolo quando, rimanendo nel campo di indagine territoriale qui prefissato, fra le botteghe roglianesi inizia a diffondersi un modello di decorazione maggiormente ispirato da intagli vegetali che surclassando la componente architettonica strutturale del manufatto ne diverrà la connotazione più tipica54. A ben riflettere, però, sin dalle prime attestazioni seicentesche dell’intaglio di matrice e riferimento roglianese, come il coro della chiesa di San Domenico di Cosenza, iniziato nel 1616 da Fabrizio Volpe da Paterno e concluso nel 1635 da Giuseppe di Gioffrida da Paterno, Aurelio Muto da Rogliano e Sertorio Perrotta da Tessano55, il portone dello stesso edificio datato 161456 e altri simili manufatti realizzati nello stesso periodo, come il portone della chiesa delle Vergini (fig. 14) della stessa città57, appare evidente e sviluppata l’attenzione decorativa di queste maestranze sulla scia dei modi e delle evoluzioni napoletane tardo cinquecentesche, come già anticipato. Queste opere, infatti, pur unendosi efficacemente alla diffusione regnicola e inserendosi in un ben determinato filone, esprimono una minuzia d’intaglio e un interesse all’eccesso decorativo, a volte accompagnato da intenzioni espressamente figurative, che alle stesse date non sembra affatto apparire sui manufatti di riferimento moranese. In particolare, gli schemi e i modelli ornamentali del coro domenicano vennero successivamente ripetuti in altri edifici religiosi della città e di centri urbani distanti da Cosenza, come nella chiesa di San Domenico di Taverna58 (a. 1668), in quella omonima di Altomonte59 (a. 1650 circa) e nella chiesa di San Francesco di Paola di Cosenza60 (a. 1679), diffusisi senz’altro sulla scia della committenza degli ordini religiosi e proprio mentre a Napoli si era ben affermata la grande stagione barocca61. I connotati stilistici di questi cori, inoltre, informano armadi, panconi e tanti altri arredi delle chiese di Calabria Citra e attestano la diffusione dei modelli roglianesi o in alcuni casi degli arredi delle chiese degli Ordini e delle Congregazioni religiose presenti in questa circoscrizione territoriale. A Rogliano dove è difficile testimoniarne l’attività delle botteghe cittadine anteriormente al 1638,


Fig. 15 - Cosenza, Chiesa di San Domenico: Cappella del Rosario (Secolo XVII - Secolo XVIII) (ph. Giulio Archinà)

anno in cui il già ricordato violento sisma ne causò la rovina, come in altri centri del cosentino, si assiste a un progressivo innesto dei nuovi portati barocchi, fors’anche facilitato dall’accennata tendenza al decorativismo, che genererà interessanti varianti locali. In tale ottica va probabilmente interpretato il notevole episodio di incremento stilistico che avvenne a Taverna dove, per l’esecuzione del sopra richiamato coro ligneo della chiesa di San Domenico, improntato sulle soluzioni del coro cosentino, è testimoniato Romano Gabrieli da Cosenza, ma il cognome è ben attestato anche a Rogliano - ci si può trovare davanti a un caso di trasferimento operativo? -, insieme agli intagliatori Francesco Malacari e Marcantonio Giglierano che il 20 giugno 1668 si impegnano il lavoro con fra’ Domenico da Rogliano, in conformità a un disegno portato da Cosenza dal Gabrieli62. È diretta, quindi, la dipendenza del coro tavernese da quello cosentino, come è lampante l’affiliazione degli intagliatori della Presila catanzarese ai modi e alle decorazioni delle maestranze roglianesi e non solo per la presenza di un domenicano proveniente da Rogliano e di un intagliatore sicuramente attivo nello stesso ambito. Piuttosto, i legami sociali ed economici intercorrenti tra Cosenza, Catanzaro, Rogliano e Taverna e addirittura i movimenti di “mastri fabbricatori” e maestranze sono attestati già dal Cinquecento63 e ancorché attualmente non documentati a sufficienza, fanno intuire rapporti duraturi tra le botteghe. Si arriva così all’esecuzione delle splendide cornici e degli altari in legno che adornano le pale di Mattia Preti, dei quali altari un disegno spetterebbe, con molta ragionevolezza critica, allo stesso pittore. Si tratta dell’altare di San Giovanni Battista che fu preso a modello nel 1687 dall’intagliatore Ascanio Giglierano per l’altare di San Sebastiano64. Questa circostanza permette di chiarire ancora che la trasmissione, l’assimilazione e gli aggiornamenti di modelli nel passato e in una terra di difficile percorrimento, erano invece abbastanza frequenti. Del continuo ammodernamento stilistico di queste maestranze affiliate ai modi roglianesi ne sono testimonianza anche le grandi cornici delle tele pretiane poste nel presbiterio delle chiese di San Domenico e di Santa Barbara, sempre a Taverna, la cui articolazione strutturale e partito decorativo, benché conforme a quel gusto giudicato tipico del Regno meridionale65, compaiono a Cosenza specialmente negli intagli dell’oratorio del Rosario nella chiesa di San Domenico (fig. 15) databili tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento. Sulla base di consuetudini lavorative documentate e di confronti stilistici intuiti, dunque, si può veramente continuare a sostenere che gli aggiornamenti avvenuti a Taverna, attraverso l’attività di un intagliatore presumibilmente locale o catanzarese, possano in fondo riguardare tutto il patrimonio esornativo di riferimento roglianese. Accanto a queste attività proseguite fuori da Rogliano, emerge l’originale rielaborazione e sistemazione del patrimonio stilistico roglianese nell’opera di decorazione architettonica condotta da Niccolò Ricciulli66 che si impone come la personalità più eminente di Rogliano in questo lasso di tempo. Le nuove soluzioni appaiono chiaramente sulle opere di completamento architettonico da lui progettate per la chiesa di Montevergine a Paola, per la chiesa della Madonna della Serra a Montalto Uffugo e per la chiesa del Monte dei Morti a Catanzaro, sulle facciate delle quali cariatidi, fogliami e tutti quegli altri elementi che attengono al patrimonio decorativo di riferimento tardo

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Fig. 16 - San Pietro in Guarano, Chiesa di San Pietro Apostolo: Altare di Sant’Anna (Secolo XVIII) (ph. Giulio Archinà)

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seicentesco e primo settecentesco roglianese si compongono secondo nuovi schemi senz’altro più aperti alle espressioni barocche e tardo barocche67. È al momento difficile, nella mancanza di testimonianze archivistiche determinanti, chiarire l’effettivo rapporto di questi completamenti architettonici con le affini soluzioni adottate pressoché contemporaneamente nell’intaglio roglianese, spesso avvicinabili o avvicinate ai modelli diffusi dall’attività del Ricciulli considerando le ben documentabili contiguità dell’attività dei capomastri con quella degli intagliatori e la più generale uniformità stilistica tra questi ultimi e gli scalpellini. L’evoluzione più propriamente tardo barocca delle maestranze roglianesi attive nel settore del legno, così efficacemente spronata da Niccolò Ricciulli, ebbe senz’altro un continuatore in Nicolò Altomare, a cui è possibile ricondurre, tramite firme e documenti d’archivio, alcuni tra i più interessanti manufatti lignei di intaglio roglianese databili tra gli ultimi anni del Seicento e i primi decenni del Settecento. Si devono ricordare, allora, gli altari della chiesa di San Giorgio a Rogliano e, specificamente l’altare maggiore, che parrebbe suo, forse il bell’altare maggiore della chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza e quello del Rosario della chiesa di San Domenico a Rossano, fino agli altari dell’oratorio dell’Assunta a Rogliano, della chiesa del Ritiro a Rende e della chiesa di San Michele a Luzzi68, per i quali ultimi bisogna tener conto della possibile continuità del figlio Giovan Battista, a cui è stato ricondotto il bellissimo altare della chiesa dell’Abbazia di San Giovanni in Fiore69. A questi altari veramente strepitosi, va unito l’eccezionale trittico dell’altare dell’oratorio di Santa Caterina d’Alessandria nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza che fa corpo con l’arredo ligneo dell’intera cappella, eseguito probabilmente tra gli ultimi anni del Seicento e i primi decenni del Settecento, come testimonierebbe la lettura stilistica dei manufatti, e dove nel 1716 è documentato l’intagliatore Antonio Curcio di Belmonte Calabro che vi realizza dei lavori non meglio specificati70. La caratteristica di tutti questi manufatti e degli altri consimili, ma non citati - in questa sede e altrove per i quali valga almeno l’esempio dell’altare di Sant’Anna della chiesa di San Pietro Apostolo di San Pietro in Guarano (fig. 16) -, è l’aggiornamento tardo barocco attraverso l’elaborazione di modelli dipendenti dalle coeve risoluzioni napoletane su portati vaccariani e sanfeliciani, come dimostrano la realizzazione degli altari dell’Assunta di Rogliano, di San Michele di Luzzi e di San Giovanni in Fiore messa più volte messa in relazione a quelli marmorei, mentre il fitto intaglio che ricopre le colonne, il paliotto e altri elementi degli altari accostabili a quello maggiore della chiesa di San Giorgio di Rogliano sembra dar rilievo ai disegni dei marmi commessi che configurano gli altri napoletani eseguiti sulla tradizione della bottega dei Lazzari, nonché il singolare innesto con una decorazione di forme opulente che, propria della fastosità barocca, diviene essa stessa struttura. Il nodo critico del problema storiografico roglianese, come già affermato ma non ancora risolto71, sembra possibile individuarlo nella singolare modificazione che in questo frangente e soprattutto nella produzione di Nicolò Altomare, subisce la cimasa. Rispetto alla tipologia lineare più antica e comunque adottata ancora nel Settecento, questa, propone una variazione strutturata su profili curvilinei adorni di grandi foglie d’acanto, il più delle volte eccessivamente esorbitanti, che esprimono la sintomatica unione tra struttura e decorazione secondo una chiave interpretativa propria del barocco romano, comunque perseguita a Napoli72. Tale caratteristica, poi, trova un singolare sviluppo, quasi autonomo, nei grandiosi fastigi di molte immagini sacre, come quello della chiesa dell’Annunziata di Carpanzano o della chiesa della Madonna del Carmine di Belmonte Calabro, dove raggiunge effetti di fastosa monumentalità. Di questo modello, che si pone come il più evoluto in direzione tardo barocca dell’intaglio calabrese, sono state avanzate proposte di lettura relativamente alle sue affinità e derivazioni da originali soluzioni berniniane del secolo precedente73, ma rimane ancora da delineare, nell’intreccio dello sviluppo, le coordinate effettive della sua conoscenza da parte delle maestranze di Rogliano. Come già è stato avanzato, infatti, la cimasa in questione è diffusamente usata anche dagli intagliatori Cappuccini74, ma a tutt’oggi gli esempi ritenuti più antichi in tale ambito non sono stati ancora perfettamente sistemati cronologicamente, per consentire di disquisire su eventuali priorità, ascendenze e discendenze, ovvero trasmissioni e incrementi nelle stesse maestranze locali. La questione interpretativa delle confluenze operative e stilistiche tra gli intagliatori locali calabresi e gli intagliatori francescani, siano questi ultimi riformati o cappuccini, che in passato ha posto


Fig. 17 - Castrovillari, Chiesa di San Giuliano: Sedia presbiterale (sec. XVIII, inizi) (ph. Soprintendenza Bsae della Calabria)

molti interrogativi critici, facendo addirittura supporre veri e propri “regimi di autarchia” lavorativa e stilistica all’interno degli stessi ordini75, si può affermare ormai definita. Il rinvenimento di firme su manufatti ritenuti tipicamente francescani e la più accorta lettura stilistica degli stessi, infatti, hanno permesso di decifrare meglio la questione cosicché oggi non sono escluse a priori presenze non religiose operative all’interno delle chiese dei Francescani più direttamente interessati alla problematica, come i casi di Giovan Pietro Cerchiaro attivo nel 1667 nella chiesa di San Bernardino di Morano Calabro76 o di Nicolò Altomare attivo nel 1731 nella chiesa dei Cappuccini di Rogliano77 - per citare almeno i casi più noti -, e nemmeno reciproche influenze, certamente a volte cambia il registro tecnico, preferendo, i francescani, il legno a vista o tenui colorazioni dello stesso, spesso privo di doratura, ma il patrimonio esornativo proprio dell’intaglio manifesta certe contiguità. Tanto che alcuni tabernacoli cappuccini presenti sul territorio dell’attuale provincia di Cosenza sono stati ritenuti da Attilio Spanò e da me, ritengo indipendentemente e autonomamente in lavori editi nel 2001 e nel 2002, influenzati dalle maestranze maggiormente attive nei luoghi dove tali manufatti furono realizzati, cosicché si è potuta stabilire una certa influenza del patrimonio stilistico roglianese su quello di alcuni frati cappuccini, dei quali esemplificativi sarebbero i lavori di fra’ Lorenzo di Belmonte autore proprio del tabernacolo cappuccino di Rogliano78. Il problema, però, non riguarda esclusivamente i tabernacoli, ma come spesso ho annotato, più generalmente tutto l’intaglio ligneo francescano, riformato e cappuccino, tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento79 e oggi a riguardo posso tranquillamente ancora pensare che le operatività di intagliatori locali o francescani che sono una cosa e i modelli circolanti un’altra, bisognerebbe solo indagare sui tempi e sui modi in cui avvenne questa circolazione, ma su questo purtroppo ci sono ancora troppi interrogativi. Viceversa, l’essenzialità dei tabernacoli cappuccini, presenti specialmente nei conventi cappuccini dell’area elettiva dell’intaglio moranese, potrebbe dipendere dallo stile delle botteghe a essa afferenti, ma il problema investe campi molto più complessi che devono ancora tener conto dell’effettiva diffusione di taluni modelli all’interno dell’Ordine testimoniati almeno su tutto il territorio italiano. In ogni modo, la preminenza di Morano nella diffusione dell’intaglio nell’area meridionale del Pollino, considerato tra l’altro che non pare ancora riconosciuta storiograficamente una simile stanzialità operativa in nessun centro lucano collegato all’area del Pollino, scaturisce non solo dalla sua ‘centralità’ rispetto ai commerci e ai traffici del legname, ma anche per essere la cittadina d’origine o comunque residenziale delle prime e di molte successive personalità attive nel settore del legno e della lavorazione della pietra80, nonché per essere verosimilecentro d’irradiazione artistica dovuta alla presenza di importanti insediamenti religiosi che con le loro committenze influenzarono e incrementarono lo sviluppo delle attività locali81. Nella seconda metà del Seicento e nella continuità dei progressi raggiunti dall’intaglio moranese legato a forme rinascimentali e tardo manieristiche, spicca la singolare vicenda artistica di Giovan Pietro Cerchiaro († 1709) proseguita dalla bottega di famiglia, vera e propria dinastia del settore82. In questa bottega il patrimonio compositivo e iconografico di riferimento in alcuni lavori - forse i più belli e significativi dell’intera area - viene sapientemente combinato con la lavorazione a giorno del legno, come nella bella sedia presbiterale di San Giuliano a Castrovillari (fig. 17), cosicché si giunge a effetti di grande raffinatezza che troverebbero analogie sia con la decorazione delle casse di risonanze degli organi sia con taluni e pressoché coevi lavori d’argenteria della bottega dei Conte attiva a Castrovillari83. In entrambi i casi, la contiguità stilistica mostra chiaramente il permanere di una univocità dell’indirizzo culturale che, al momento, manchevole di altri riscontri, consente di ricostruire ipoteticamente l’humus in cui le maestranze moranesi si svilupparono e furono attive nonché di ribadire ancora l’uniformità con la produ-

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Fig. 18 - Cassano allo Jonio, Cattedrale: Coro ligneo (sec. XVIII, metà) (ph. Soprintendenza Bsae della Calabria) Fig. 19 - Saracena, Chiesa di Santa Maria del Gamio: Sedia presbiterale (sec. XVIII, metà) (ph. Soprintendenza Bsae della Calabria)

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zione d’intaglio del Regno napoletano. La bottega di G. P. Cerchiaro, trasferitosi probabilmente da Morano a Castrovillari già sul finire del Seicento, continua con Eugenio e Carlo84, impegnati in diversi settori e dà vita a un linguaggio di riferimento stilistico molto diffuso anche dopo la metà del Settecento, quando addirittura è possibile confonderlo con quello di altre personalità. Il rinnovamento delle tecniche e degli orientamenti stilistici delle maestranze moranesi attive nel campo dell’intaglio avviene, come sembrerebbe, con l’arrivo, intorno alla metà del Settecento, di Gaetano Fusco che in quell’anno risulterebbe attivo per il coro ligneo della Cattedrale di Cassano allo Jonio (fig. 18), commissionato dal vescovo Gennaro Fortunato (1729-1751). Fusco è di probabile origine napoletana ma prima di giungere in Calabria risulta documentato in Basilicata85. Il coro della Cattedrale di Cassano allo Jonio non è firmato o documentato archivisticamente, ma è molto simile agli arredi delle chiese di Saracena (fig. 19) e di Morano documentati a G. Fusco86, scartando ovviamente il coro ligneo della chiesa di San Domenico di Cassano allo Jonio, datato 1754 e firmato dal misconosciuto Domenico Antonio Maiure, analogamente indirizzato stilisticamente ma con diverse declinazioni anche tecniche. Il gusto promanato da queste realizzazioni, tanto sobrio nel decoro da offrire agganci con la tradizione napoletana e con quella cappuccina, rivela nella struttura compositiva riflessioni e aggiornamenti sulle nuove forme dell’intaglio e addirittura del mobilio napoletano87. L’attività di G. Fusco a Morano fu continuata dal figlio Agostino († 1795) e poi perseguita dal figlio di questi Mario (n. 1770), che termina il coro della chiesa di San Pietro sempre a Morano, già ricordato in apertura. I modelli diffusi dalla bottega dei Fusco risultano abilmente uniti a una tecnica ebanistica di buon livello che prevede, oltre al legno massello, l’utilizzo della lastronatura, della trancettatura, della impiallacciatura e della tarsia di tipo semplice, a volte finta a fuoco e realizzata espressamente da altre personalità, raggiungendo buoni risultati di equilibrio tecnico e formale. È veramente possibile che gli esiti di questa bottega siano stati recepiti da altre botteghe attive sul territorio, sia moranesi sia di altri centri della stessa area di riferimento, giacché i modelli e le forme or ora accennate sono ben riconoscibili nella produzione del moranese Giorgio Frunzi († 1801) e del figlio Nicola (n. 1783) e nella produzione di Tommaso Battaglia - se intagliatore locale - ,che nel 1775 realizza il coro della chiesa di San Francesco di Paola di Altomonte88, in quella del rossanese Pasquale Pelusio, attivo nel 1776-1777 a Corigliano Calabro89, in quella di Giuseppe Bava - intagliatore forse non locale -, che nel 1778 intaglia la bella libreria della biblioteca del Protoconvento a Paola90, e finanche in quella dei Lattari di Fuscaldo91. I Lattari risultano attivi proprio alla fine del Settecento e per gran parte


dell’Ottocento sul versante tirrenico dell’attuale provincia di Cosenza, spingendosi nell’interno fino alle soglie di Cosenza, dove sicuramente instaurarono contatti con gli intagliatori del luogo, continuatori dell’operosità delle maestranze roglianesi, che, come prima detto, avevano già aggiornato il loro repertorio su modelli tardo barocchi, includendovi nel tempo, a partire dagli anni quaranta del Settecento, anche realizzazioni non del tutto dissimili da quelle realizzate in seguito dai Lattari come si evince dai confessionali, dal pulpito e dalla bellissima porta della sacrestia del Duomo di Cosenza92, quest’ultima con le luci superiori tutte lavorate a traforo di foglie d’acanto, fino ai notevoli arredi lignei delle chiese di Scigliano93 (fig. 20), centro urbano dove in anni precedenti risultano attestate frequenti attività di intagliatori di Calabria Citra e di Calabria Ultra, che mostrano piena adesione alle forme del mobilio tardo barocco. La diffusione dei modelli tardo barocchi nelle botteghe degli intagliatori attivi in questo periodo in Calabria Citra, incontra anche quella degli intagliatori di Serra San Bruno che, ancor prima del fatidico terremoto del 1783, si dirama da Corigliano Calabro94, dove dal 1755 al 1759 risulta attivo Girolamo Franceschi di Serra San Bruno per il coro ligneo della chiesa di Sant’Antonio dei Francescani Conventuali, attualmente nella Cattedrale di Cariati95, e da San Giovanni in Fiore, dove nel 1786 sono almeno documentati pittori serresi96 e dove nel 1789 Mario D. Pasquale firma gli armadi di sacrestia della chiesa di Santa Maria delle Grazie97 che mostrano un accentuato riferimento al coevo mobilio documentato nelle chiese serresi e ciò, forse, piuttosto che denotare una supponibile analoga provenienza dell’intagliatore, esprime forme di un contatto stilistico tra le operosità regionali oppure denota ormai un uniforme indirizzo culturale delle stesse.

Fig. 20 - Scigliano, Chiesa di San Giuseppe: Sedia presbiterale (sec. XVIII) (ph. Archivio Giorgio Leone)

Tra intagliatori e scultori La documentazione archivistica finora conosciuta delle botteghe di intagliatori di Calabria Citra già consentirebbe l’ipotesi di più precise distinzioni operative all’interno delle stesse tra intagliatori, pittori e doratori, mentre al momento è molto parca sulla attività di scultori. Tale mancanza, però, è stata colmata molto bene dalla ricerca territoriale che ha recuperato agli studi storicoartistici locali non solo i nomi e le opere di alcune personalità attive in queste botteghe dedite alla scultura e all’intaglio, ma anche un cospicuo gruppo di opere “in cerca d’autore”. Opere di scultura queste che, disseminate dal Cinquecento in avanti in molte chiese98, non presentano caratteri tali da essere considerate di importazione, né da altre province dell’antico Regno meridionale né tantomeno da Napoli. Ho già discusso l’argomento nel mio contributo Scultura in legno in Calabria: l’apporto locale nel Seicento e nel Settecento pubblicato nel 2009 nel catalogo curato da Pierluigi Leone de Castris della mostra Sculture in Legno in Calabria: dal Medioevo al Settecento, tenutasi ad Altomonte nel 2008-2009 e curata da Salvatore Abita. Nel saggio ho raccolto alcune testimonianze alla luce delle quali, sulla base di questi nuovi elementi e di quelli già conosciuti, tentare una revisione del problema storiografico che, del tutto manchevole di repertori specifici e di un’adeguata catalogazione territoriale, escludeva e ha continuato a escludere siffatta possibilità. Quanto ho scritto in quel contributo mi esime dal ritornarci in questa sede, ma ribadisco che fra gli intagliatori, sia moranesi sia roglianesi, possa esserci stato qualche scultore: a Morano e a Castrovillari l’attività di scultore in legno di Giovan Pietro ed Eugenio Cerchiaro è così documentata da firme, documentazione archivistica e tipologia di intaglio che desta non poca meraviglia la scarsa considerazione riservatele nelle opportune sedi storiografiche99; a Rogliano e a Cosenza, in tutto il comprensorio, invece, sono così numerose le statue senza autore ma con evidenti affinità stilistiche che è veramente difficile capire perché non si possa ammettere che tale attività sia stata praticata anche fra gli intagliatori attivi in quest’area100. Certo, senza documenti il terreno diventa viscido e se a volte è possibile essere confutati da restauri o da rinvenimenti di firme, altre volte la conferma può giungere da documenti e da confluenze stilistiche. Ma, la domanda appare pertinente, quanti furono e sono gli artisti che, seppure non documentati negli archivi o da firme sulle opere, sono esistiti ed esistono lasciando la loro traccia solo nelle opere fino a quando non vengono recuperati e riconosciuti attraverso la formazione di corpus, prima anonimi e poi con nomi di comodo, e del conseguente approfondimento documentario? In ogni modo, la vicenda di scultori attivi tra le botteghe d’intaglio della Calabria Citra comincia

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Fig. 21 - Saracena, Chiesa di Santa Maria del Gamio: Angelo custode (sec. XVIII, inizi) (ph. Soprintendenza Bsae della Calabria) Fig. 22 - Spezzano Sila, Chiesa di San Francesco di Paola: San Michele Arcangelo (sec. XVII) (ph. Soprintendenza Bsae della Calabria)

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da lontano, sia per le molte statue prive di nomi e date, presumibilmente locali, sia per le recenti asserzioni di Pierluigi Leone de Castris che, riorganizzando tutto il materiale documentario e artistico pervenuto alla luce delle più aggiornate considerazioni critiche, ipotizza, con ragioni di causa, dapprima, sullo scadere del Quattrocento, il “radicamento” sul territorio calabrese di una bottega come fenomeno “di immigrazione piuttosto che d’importazione” e, poi, analizzando le altre interessanti presenze forestiere, adriatiche, venete e ultramontane, individua un numero di sculture che, a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, reca i segni di una possibile fattura locale101. Lo studioso, inoltre, afferma che nella continuazione cinquecentesca di questa produzione locale non si avvertono influenze esterne, come se le personalità interessate e anonime continuassero a operare senza avvertire l’influenza delle sculture che, con il sopraggiungere dell’età della Controriforma, cominciarono a giungere con frequenza da Napoli102. È in questa produzione locale e anonima continuata per gran parte del Seicento, quindi, che sono conservati i riscontri degli anonimi scultori afferenti alle botteghe calabresi dell’intaglio, impegnati a soddisfare le richieste di una committenza meno ricca ovvero diversamente legata alla produzione locale. Ritornando ai soli nomi conosciuti, la vicenda della scultura calabrese comincia con Giovan Pietro Cerchiaro che nel 1684 compie per la chiesa di San Giuliano di Castrovillari la grandiosa statua del titolare103. L’opera pare rielaborare, non senza qualche piglio dialettale, le suggestioni delle gigantesche sculture di ispirazione ispano-portoghese presenti a Napoli e sulle stesse coordinate si impongono altre opere che gli sono state attribuite: dal San Nicola da Tolentino della chiesa di San Nicola da Bari di Morano alla Madonna della Candelora della chiesa di San Pietro della stessa cittadina104. Quest’ultima scultura realizza un modello di simulacro mariano che, originato con probabilità da modelli marmorei del monastero agostiniano di Colloreto, diverrà tipico della bottega dei Cerchiaro, permanendo fin e oltre un secolo nella propria produzione, alleggerendosi di volta in volta e variando di poco le caratteristiche iconografiche, come è possibile leggere sulla Madonna del Carmine e sulla Madonna della Purificazione sempre a Morano, forse riconducibili a Eugenio Cerchiaro, al quale, inoltre, i documenti archivistici riportano il ‘rifacimento’ della statua dell’Angelo Custode della chiesa di Santa Maria del Gamio di Saracena105 (fig. 21) mentre la ricerca sul territorio ha evidenziato un gran numero di statue che si rifanno a sue caratteristiche stilistiche ed esecutive106. L’analisi della produzione plausibilmente collegata a Eugenio Cerchiaro ha rilevato l’estesa presenza sul territorio storicamente legato alla diffusione dell’intaglio moranese – a quest’epoca forse già castrovillarese, almeno per il Cerchiaro – di Agostino Pierri di Lagonegro, cittadina a quel tempo appartenente alla diocesi di Policastro e finitima a quella di Cassano allo Jonio sulle propaggini del Pollino. Lo stile di questo scultore presenta molte vicinanze con quelle che connotano la produzione attribuita a Eugenio Cerchiaro107, tanto da creare un vero e proprio rebus tra confronti e filiazioni di statue sorprendentemente identiche, indice di un’avviata produzione seriale, e tra presenze e assenze negli stessi luoghi, giacché spesso dove è documentato l’uno è attestato anche l’altro, come a Castrovillari, a Trebisacce e a Vaccarizzo Albanese. Cittadina quest’ultima dove, tra il materiale gentilmente segnalatomi dal prof. Francesco Perri di Corigliano Calabro, ho riconosciuto un gruppo di sculture


Fig. 23 - Pedace, Chiesa di San Francesco di Paola: San Michele Arcangelo (sec. XVII) (ph. Soprintendenza Bsae della Calabria) Fig. 24 - Rovito, Chiesa di Santa Barbara: Santa Barbara (Secolo XVII) (ph. Archivio Giorgio Leone)

plausibilmente assegnabili alla bottega di Eugenio Cerchiaro, tra cui una gradevole Madonna di Costantinopoli - all’origine perché oggi mal restaurata -, e di Agostino Pierri, al quale si riconduce la Madonna del Rosario che un documento, mostratomi sempre dal prof. Perri, data al 1774. La vicenda di questa bottega di scultori dell’area moranese andrà avanti fino all’Ottocento e creerà interessanti innesti di riferimento neoclassico prima e accademico dopo, ancor tutti da catalogare. Più difficile è rintracciare qualche notizia dei possibili e sconosciuti scultori dell’area roglianese e cosentina, cioè quella afferente alle botteghe di riferimento roglianese. Manca al momento qualsiasi traccia d’archivio o firma, cosicché la ricostruzione è tutta affidata all’indagine stilistica nel numeroso materiale disponibile. Si tratta sempre di sculture anonime e locali alla stregua di quelle segnalate da Pierluigi Leone de Castris tra Cinquecento e Seicento: a cominciare dalla statua di San Michele Arcangelo della chiesa di San Francesco di Paola di Spezzano Sila (fig. 22) e di quella di uguale soggetto della chiesa dedicata allo stesso Santo di Pedace (fig. 23) e analogamente conventuale dei Minimi – e in quest’ultima c’è pure un’interessante Annunciazione che andrebbe senz’altro studiata -, alle altre che adornano le pale degli altari maggiori della chiesa di Santa Barbara di Rovito (fig. 24) e di San Nicola da Bari a Celico. Queste, insieme a tante altre opere che è veramente sterile annotare senza nessuna considerazione critica, possono essere di presupposto per una ricerca di connotati più cogenti. Gli intagliatori di Rogliano, per la prima detta grande attenzione al decorativismo e all’intaglio figurato, testimoniati dal portone di San Domenico di Cosenza e simili fino al bellissimo altare di Celico, decorato da molte figure intagliate e statue, certamente si pongono come plausibili autori di molti di molte di queste opere. Nelle ordinarie rettifiche a cui è soggetta un’analisi basata sui soli riscontri stilistici sembra resistere il caso da me segnalato nella chiesa della Madonna della Luce di San Pietro a Magisano108, giacché della statua, datata 1711 e indicata come possibile esecuzione di intagliatori afferenti alle botteghe roglianesi, è stata ritrovata una ‘gemella’, raffigurante la titolare della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Donnici Inferiore109, che realizzata sicuramente per l’edificio che la ospita non può essere datata anteriormente agli ultimi anni del Seicento. Tra i decenni finali del Seicento e quelli iniziali del Settecento, dunque, si può attestare l’attività sul territorio di un anonimo scultore al quale non esiterei affatto ad attribuire l’intero ricostruito trittico di Donnici Inferiore, San Pietro a Magisano e Conflenti110 se non fosse che quest’ultima attende ancora un restauro per essere certi della sua attinenza al periodo interessato e non opera cronologicamente più avanzata. L’attività di questo scultore, molto sensibile alle tecniche dell’intaglio documentate a Taverna, a San Pietro a Magisano e a Cosenza stessa, come prima si è definito trattando delle cornici di Taverna e di Cosenza, è successiva a quella di un altro, ugualmente senza nome, autore delle sculture dorate di San Pietro e di San Paolo della citata chiesa di Celico e datate sullo scannello 1674. L’anonimo scultore testimoniato a Celico usa la doratura uniforme per le vesti dei Santi, di più rigida connotazione arcaica cinque-seicentesca, lo scultore di Donnici Inferiore, invece, elabora una singolare versione dell’estofado, ora nascosto da spessi strati di ridipintura ottocentesca - visibile però sulla statua di San Pietro a Magisano -, che senz’altro risponde a più vecchie consuetudini di bottega che tenta di aggiornare sugli esempi napoletani ormai

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affrancati dai modelli seicenteschi, come forse tenta di emulare nell’iconografia la Madonna della Cintura di Sant’Agostino di Cosenza, firmata e datata Vincenzo Ajala nel 1685111, giacché le statue in questione sembrano mostrare dettagli e movenze simili delle vesti, come il modo di porre la sciarpa attorno alla scollatura o il groppo di pieghe del manto sotto il braccio con cui regge il Bambino, risolte senz’altro in una forma quasi dialettale per non dire popolare. Nient’altro, fino al momento di queste note, risulta a proposito dell’attività della scultura in seno alle botteghe di intagliatori di riferimento roglianese, ma le acquisizioni esaminate spingono certo a ricercare successive conferme nell’area che fu elettiva della loro attività. A Cosenza, inoltre, risulta operoso nel 1735 e nel 1738 Antonio Mollo le cui opere denotano uno stile filo-solimenesco che sembra un tantino subliminare la linea dei seguaci di Nicola Fumo e quella più addolcita di Giacomo Colombo. Di quest’ultimo scultore-caposcuola nella chiesa del Ritiro di Rende si conserva un raffinato San Michele Arcangelo che è anche il soggetto interpretato da Mollo nella sua scultura della chiesa della santissima Annunziata di San Fili datata 1738. Appare verosimile che la sua formazione sia avvenuta a Napoli e che una volta ritornato, se cosentino, o trasferitosi, se napoletano o di qualche altra parte del Regno meridionale, continuasse a lavorare su queste coordinate stilistiche112. La vicenda, del tutto oscura di Antonio Mollo, che a ogni buon conto si firma come “cosentino” sulla statua di San Fili, potrebbe essere indicativa di altre personalità anonime locali che, sulla scorta di più frequenti contatti diretti con Napoli e di una maggiore adesione agli indirizzi artistici della Capitale, lì perfezionarono la loro formazione e poi ritornati operarono sul territorio, esprimendo significative variazioni rispetto alle fonti stilistiche e alle richieste della committenza locale. Questi contatti diretti con la Capitale, di certo espressivi di quel rinnovamento più generale che fu avvertito dalle province del Regno nel periodo borbonico, si possono indicare ancora nella produzione statuaria dell’Ottocento, precisamente in quella di Giovan Battista Santoro, come dimostrerebbe la Santa Teresa d’Avila realizzata nel 1849 per la chiesa omonima di Intavolata di Acquappesa113, e in quella di scultori, ancora una volta anonimi, difficilmente classificabili, al momento, se siano stati ‘studenti’ calabresi a Napoli o scultori napoletani richiesti in Calabria, che sono attivi attorno alla metà del secolo, sulla scia degli insegnamenti accademici di Francesco Saverio Citarelli e che lasciano le loro significative statue, specialmente mariane, in molti luoghi. Accanto a questi è da annotare un altro gruppo di scultori della Calabria settentrionale che, nel corso di tutto il secolo, tra creazioni originali e restauri invasivi, quasi veri e propri rifacimenti, creano un filo che conduce direttamente al Novecento, espressivo di un accademismo declinato su diversi livelli comunque ben adeguato alle istanze della devozione locale: da Bernardo Bilotta documentato a Castrovillari nel 1829 a Gaetano Mazza attestato a Cerisano nel 1843, da Carlo Santoro a San Lucido nel 1854 a Francesco Antonio Lupi di San Pietro in Amantea operoso dagli anni sin a gran parte della seconda metà del secolo in molti centri del cosentino e considerato da taluni suoi contemporanei «... valente dipintore e scultore ...»114, da Pasquale Spadafora a Cosenza nel 1885 ad Antonio Spina di Lago che, analogamente a quel Francesco Salerno attivo a Rogliano nel 1904, trasporta la cultura e la produzione dell’intaglio e della scultura locale fino alle soglie della sua sostituzione con la produzione seriale dei falegnami mobilieri, dei cartapestai leccesi e degli scultori altoatesini. Un primo spunto per l’Ottocento L’aderenza di questi scultori ai lessici dell’accademismo napoletano, espresso a diversi livelli, l’uniformità dell’intaglio alla componente del mobilio napoletano tardo settecentesco e poi neoclassico sono le caratteristiche della lavorazione del legno per fini artistici riscontrata nell’attuale provincia di Cosenza nell’Ottocento115. La richiesta e la produzione di arredi e di sculture per il culto, così come si constata per la pittura e le altre arti applicate di produzione locale, come l’argenteria e la produzione tessile, dunque, si risolve inizialmente in continuità. Non si nota alcuna differenza nella committenza e nella risoluzione artistica delle opere in legno tra ciò che si richiedeva e veniva realizzato tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento. Poi incomincia un aggiornamento delle maestranze locali su modelli inizialmente neoclassici, successivamente dei vari revival che si

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susseguirono lungo tutto il secolo, a volte unito agli stili e alle tecniche più consuete dell’intaglio tradizionale, come si può più facilmente seguire specialmente su alcune basi processionali. Anche in questo secolo si possono cogliere influenze degli intagliatori dalle opere che venivano realizzate da intagliatori napoletani o di altre province del Regno espressamente chiamati dai committenti calabresi, ma sicuramente i modelli circolavano anche attraverso le “scuole di arti e mestieri” che, specialmente nella seconda metà del secolo, furono fondate in alcuni centri calabresi, insieme a disegni di mobilio e di altri arredi più aggiornati importati da Napoli. Alla realizzazione del limpido coro ligneo della Cattedrale di Rossano (fig. 25), avvenuta tra il 1844 e il 1877 sotto l’episcopato di mons. Pietro Cilento - e nella città, dopo il rovinoso terremoto del 1836, avevano operato maestranze serresi simultaneamente ancorate a retaggi barocchi e aggiornate sugli avvicendamenti neoclassici116 -, fa eco il piccolo coro della Matrice di Cropalati e altri arredi similmente ispirati alla ripartizione lineare delle superfici. Ugualmente, ma un po’ più avanti nel tempo, si diffondono arredi neogotici o neorinascimentali, come negli arredi del castello di Corigliano Calabro e della chiesa dell’Annunziata di Lago, che perdureranno nel campo dell’arte sacra e degli arredi di destinazione ecclesiastica fino agli inizi del Novecento. Molte botteghe di intagliatori locali del periodo si cimenteranno nella realizzazione di mobili per i nuovi appartamenti ‘borghesi’, dando vita così a una produzione seriale che le tramuterà in vere e proprie ditte specializzate nel settore. In questo processo sono certamente da segnalare, per restare nel solo campo della destinazione ecclesiastica, gli arredi appositamente costruiti nel 1926 dalla “Ditta Frunzi” di Castrovillari per la Cattedrale di rito Greco dell’Eparchia di Lungro117 da poco istituita.

Fig. 25 - Rossano Calabro, Cattedrale: Coro ligneo (1844-1877) (ph. Michele Abastante)

1 Per alcune considerazioni sulla effettiva conoscenza storiografica del patrimonio artistico ligneo calabrese si rimanda a Leone de Castris P., Tra Medioevo e Rinascimento, in Leone de Castris P. (a cura di), Sculture in Legno in Calabria: dal Medioevo al Settecento, Catalogo mostra 2008-2009, Napoli 2009, pp. 23-39, cui queste note, per linea teorica e metodologica, si ispirano. 2 Matteucci A.M., L’architettura del Settecento, Torino 1988, p. 160 fig. 162. 3 Matteucci A.M., L’architettura... cit., pp. 159-

162. 4 In Di Dario Guida M.P. (a cura di), Itinerari per la Calabria, Roma - Vicenza 1983 è pubblicato il contributo Le maestranze roglianesi (pp. 300-304) a firma di Rita Iannace, della quale, per lo specifico argomento, sino a quella data vanno senz’altro ricordati: R. Iannace, Antichi arredi in Calabria, in “Magna Graecia: Rassegna di archeologia, storia, attualità”, a. VI, 1978, pp. 25-26; Eadem, L’intaglio in legno nel cosentino dal XVI al XVIII secolo, in “Magna Graecia: rassegna di archeologia, storia, attualità”,

aa. VII-VIII, 1979, pp. 5-6; Eadem, L’intaglio su legno nel Cosentino, in I beni culturali e le chiese di Calabria: atti del Convegno ecclesiale regionale promosso dalla Conferenza episcopale calabra; Reggio Calabria-Gerace, 24-26 ottobre 1980, Atti 1980, Reggio Calabria 1981, pp. 315-319. 5 Per alcuni contributi calabresi di ricognizione territoriale afferenti l’intaglio in legno, sia specifici sia più generalmente rivolti ad altre indagini, ma comunque manifestanti un interesse verso i manufatti lignei, successivi a quelli direttamente citati

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nel testo, esclusi naturalmente i riferimenti alla letteratura di storia civica, si vedano: G. Trombetti, Castrovillari nei suoi momenti d’arte, Castrovillari, 1989; Bilotto L., La provincia di Cosenza: una guida; Storia, arte, tradizioni popolari, Mendicino 1996 (aggiornata in: Bilotto L., Itinerari culturali della provincia di Cosenza, Reggio Calabria 2001); Caputo R. (a cura di), Il Santuario di S. Maria delle Armi in Cerchiara di Calabria: catalogo delle opere, a Castrovillari 1991; Leone G., La Chiesa di S. Pietro in Cerchiara di Calabria: catalogo delle opere, Trebisacce 1991; Idem, Per la storia dell’intaglio ligneo in Calabria: appunti sulla cosiddetta “scuola di Morano”, in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 49-91; Meini M., Calabria, scultura lignea: intaglio barocco, in “Amici dei musei”, a. 57, 1993, pp. 28-29; Trombetti G., Le chiese di S. Maria del Gamio e delle Armi in Saracena: itinerario storico-artistico, Castrovillari 1993; Bernardiniana, [“Contrade. Periodico di indagine ed intervento sulla realtà locale”, a. 2, 1994, Morano Calabro 1994; Leone G., Le maestranze del legno a Corigliano, I. I cori, in “Il Serratore”, a. VII, 1994, pp. 31-34; Ceraudo G. (a cura di), Capolavori di arte organaria restaurati in Calabria, Catalogo mostra 1995, Soveria Mannelli 1995; Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte: mostra di opere d’arte restaurate dalle chiese della Maddalena e del Carmine, Catalogo mostra: 1995, (dir. scientifica: Leone G.), Castrovillari 1995; Leone G., Le maestranze del legno a Corigliano, II. Pulpiti e confessionali, in “Il Serratore”, a. IX, 1995, pp. 36-39; Idem, Le maestranze del legno a Corigliano, III. Altari, balaustrate e altri arredi. Prima parte, in “Il Serratore”, a. IX, 1995, pp. 42-46; Idem, Le maestranze del legno a Corigliano, IV. Altari, balaustrate e altri arredi. Seconda parte, in “Il Serratore”, a. IX, 1995, pp. 39-43; Pagliaro R. - Leone G., Particolari d’arte, Morano Calabro 1996; Salerno E., Un’arte antica a Fuscaldo: l’intaglio ligneo e la bottega dei Lattari nella storia, in “Calabria Letteraria: rivista mensile di cultura e arte”, a. ILIV, 1996, pp. 71-72; Leone G., Le maestranze del legno a Corigliano, V. Altari, balaustrate e altri arredi. Terza parte, in “Il Serratore”, a. IX, 1996, pp. 34-37; idem, Le maestranze del legno a Corigliano, VI. Il soffitto della chiesa di S. Francesco di Paola, in “Il Serratore”, a. IX, 1996, pp. 42-45; De Bonis M., L’arte della memoria e la memoria nell’arte: simboli e allegorie del coro di S. Domenico in Cosenza, Cosenza 1999; Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte: la Collegiata di San Nicola, Catalogo mostra 1999, (coord. Bosco S.), Roma 1999; Calabretta L., Serra San Bruno, 1-2, Marina di Davoli 2000; Ceraudo G., Tesori d’arte, 1. La Cappella della Madonna della Grazia di Carpanzano, Soveria Mannelli 2000; Mele M.,

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Passeggiate in luoghi d’arte: Morano Calabro, Morano Calabro 2000; Nostro C. (a cura di), Reggio Calabria e la sua provincia: l’arte i segni della storia, Napoli 2000; Iannace R., Museo d’Arte Sacra “S. Giuseppe”, Paola 2001; Spanò A., Tabernacoli lignei cappuccini della Calabria, in “Italia Francescana”, a. 76, 2001, pp. 11-83; Leone G. (a cura di), Pange Lingua: L’Eucaristia in Calabria: Storia - Arte - Devozione, Catanzaro 2002; F. Algieri - E. Arnieri - A. De Bonis - G. De Leonardis, Valorizzazione, manutenzione e fruizione dei beni culturali catalogazione e rivalutazione del centro storico della civitas di Luzzi, Luzzi 2007; Arbitrio P. - Privitera R. - Solferino G. (a cura di), L’estremo lembo d’Italia: la provincia di Reggio Calabria, Scilla 2008; Leone G., Per la cultura artistica di Taverna: qualche osservazione sull’intaglio e la scultura in legno, in Valentino G. (a cura di), L’arte nella città natale di Mattia Preti: dal patrimonio salvato alle nuove collezioni del Museo Civico di Taverna, Taverna 2010, pp. 87- 105. 6 Molto più rari sono stati i contributi di interesse archivistico concernenti manufatti o personalità attive nel settore dell’intaglio ligneo in Calabria, per i quali, oltre ai riferimenti contenuti nei saggi, schede, notizie, biografie e bibliografie specifiche del volume dello ”Atlante del Barocco in Italia” curato da Rosa Maria Cagliostro, richiamato nel testo e nella successiva nota 6, si vedano più specificatamente in questo contesto, per la valenza che ebbero nella storiografia o per il diretto interesse verso la lavorazione regionale del legno: D’Addosio G.B., Documenti inediti di artisti napoletani dei secoli XVI e XVII, Napoli 1920 (edizione anastatica: Sala Bolognese 1991); Borretti M., Fonti per la storia dell’arte in Cosenza e nella provincia cosentina, in “Brutium”, a. XIV, 1935, pp. 15-17; Idem, Fonti per la storia dell’arte in Cosenza e nella provincia cosentina, in “Brutium”, a. XX, 1941, pp. 89-90; Idem, Documenti per la Storia delle Arti in Provincia di Cosenza durante il Viceregno (1503-1734), in Atti del III Congresso Storico Calabrese, Atti 1963, Napoli 1964, pp. 505520; Nappi E. (a cura di), Catalogo delle pubblicazioni edite dal 1883 al 1990, riguardanti le opere di architetti, pittori, scultori, marmorari ed intagliatori per i secoli XVI e XVII, pagate tramite gli antichi banchi pubblici napoletani, Milano 1992; Scamardì G. –Mussari B., “Pro civitate Cosentia. Fides damni pro causa terremoti”: note sul patrimonio artistico di Cosenza danneggiato dal sisma del 1638, in “Quaderni del dipartimento patrimonio architettonico e urbanistico”, a. IV, 1994, pp. 143148; Scamardì G., Maestri toscani a Cosenza tra XVI e XVII secolo: sull’attività cosentina di Andrea Maggiore da Carrara, in “Quaderni del dipartimento patri-

monio architettonico e urbanistico”, a. IV, 1994, pp. 169-180; Tripodi A., In Calabria tra Cinquecento e Ottocento: ricerche di archivio, Reggio Calabria 1994; Leone G., I Fusco e altri intagliatori degli arredi di completamento settecenteschi della Maddalena, in Filice R. (a cura di), Memorie riscoperte... cit., [1995], pp. 105110; Scamardì G. - Mussari B., Notizie sull’attività di architetti, artisti e costruttori in Calabria Citra nei secc. XVII-XVIII tratte da protocolli notarili, in “Quaderni del dipartimento patrimonio architettonico e urbanistico”, a. VII, 1997-1998, pp. 43-60; Tripodi A., Sulle fonti documentarie per la storia dell’arte in Calabria tra Sei e Settecento, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, pp. 579-573. 7 Il volume Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., sapientemente curato e articolato per la collana “Atlante del Barocco in Italia”, diretta da Marcello Fagiolo, ed edito nel 2002, contiene molte schede tipologiche direttamente interessate agli arredi in legno che furono affidate a chi scrive: L’altare ligneo (pp. 352-361), L’altare a retablo (pp. 362-365), Coretti (p. 397), Organi e cantorie (pp. 398401), Cori lignei e panche corali (pp. 402-406), Pulpiti (pp. 407-411), Confessionali (pp. 412-414), Armadi ed altri arredi lignei (pp. 415-421), Troni vescovili, sedie presbiterali e stalli confraternali (pp. 420-421), Soffitti a cassettoni lignei (pp. 524-526), nonché il saggio L’intaglio barocco in Calabria: annotazioni a margine di un problema di storiografia artistica (pp. 159-167). A queste s i devono aggiungere quella, sempre dedicata a simili arredi ma di più specifica e individuata tipologia, di Attilio Spanò: I tabernacoli cappuccini (pp. 390-392), e poi le molte altre in cui l’interesse tipologico comprende esemplari in legno senz’altro ragguardevoli, il cui riferimento in tali contesti di più varia schedatura e certamente indispensabile per la comprensione compositiva e simbolica degli stessi. Di queste schede tipologiche si segnalano, di Rosa Maria Cagliostro: Oratori, confraternite e cappelle private (pp. 428-430), L’ordine salomonico (pp. 463-465), L’ordine tornito: il balaustro e il bulbo (p. 466), L’ordine binato (pp. 467-468), L’ordine antropomorfico (pp. 473-475), Le strutture ruotate (pp. 506-507), Le roste lignee (pp. 538-539), Maschere e telamoni (pp. 557-558); di Mario Panarello: L’altare reliquiario (pp. 366-369), L’altare a portelle (pp. 370-373), L’altare del Rosario (pp. 374-375), Architettura in miniatura (379380), Fonti battesimali (pp. 342-343), Metamorfosi del Ciborio e del Tabernacolo (pp. 381-384), La prospettiva e l’illusionismo (pp. 495-498), Architettura e natura: il fitomorfismo (pp. 512-513); di Antonio Preiti: Simbolismo dei fiori (pp. 551-553), Simbolismo della conchiglia (pp.


557-558), Gli angeli (pp. 559-562). Il volume, inoltre, contiene una importante selezione dei centri urbani (pp. 595-702) in cui sono contenuti, sul modello delle guide, molti altri riferimenti a manufatti lignei, purtroppo a volte con riferimenti discordanti da quanto riferito in altre parti del volume, e una sezione di biografie (pp. 707-721) in cui sono stati felicemente inclusi alcuni de gli intagliatori più attestati sul territorio calabrese. 8 Leone de Castris P., Tra Medioevo... cit., pp. 2939. 9 Capitelli G., Arte dell’Ottocento in Calabria (17031908): prospettive di ricerca, in Cipparrone A. (a cura di), Cosenza e le arti: la collezione dei dipinti dell’800 della Provincia di Cosenza (1861-1931), Catalogo mostra 2013)], Cosenza 2013, pp. 21-27. 10 Capitelli G., Arte... cit., pp. 21-22. 11 Sicoli T. - Valente I. (a cura di), Andrea Cefaly e la Scuola di Cortale, Catalogo mostra 1998, Catanzaro 1998; Sicoli T. - Valente I. (a cura di), L’animo e lo sguardo: pittori calabresi dell’Ottocento di Scuola napoletana, Catalogo mostra 1997-1998, Cosenza 1997; Sicoli T. - Valente I. (a cura di), Rubens Santoro e i Pittori della Provincia di Cosenza fra Otto e Novecento, Catalogo mostra 2003, Catanzaro 2003. 12 Sulla scultura e l’intaglio di Serra San Bruno, nonostante la ricca e già attempata bibliografia, manca a tutt’oggi una trattazione monografica, perciò a titolo puramente esemplificativo del filone quasi autonomo di studi e interesse, si rimanda ai seguenti testi, di cui alcuni utili per la ricerca di ulteriori titoli: Frangipane A., I Barillari e il bassorilievo della Roccelletta, in “Brutium”, a. XIV, 1935, pp. 92- 93; Idem, Notizie su artisti catanzaresi”, in “Brutium”, a. XV, 1936, pp. 91-92; Barillari B., La vita dell’artista Domenico Barillari, in “Brutium”, a. XXXIV, 1955, pp. 4-5; Liberti R., Artisti di Oppido Mamertina nel secolo XIX poco o affatto conosciuti, in “Brutium”, a. LI, 1972, p. 1; Santoro V., L’arte e l’artigianato in legno a Serra San Bruno, in “Brutium”, a. LIV, 1975, pp. 11-15; Idem, L’arte e l’artigianato in legno a Serra San Bruno, in “Brutium”, a. LV, 1976, pp. 10-12; Stillitano S., La scultura lignea di Vincenzo Scrivo e l’artigianato stilese, Locri 1984; Ceravolo T. - Luciani S. - Pisani D. (a cura di), Serra San Bruno e la Certosa: guida storica artistica naturalistica, Vibo Valentia 1997; Leone G., Per una storia della storiografia artistica in Calabria: il «caso» di Vibo Valentia; sintesi e proposte per una indagine storico-artistica sul territorio (secc. XVI-XIX), in Pagano N. - Gligora E. (a cura di), Beni culturali del Vibonese: sintesi, proposte e prospettive, Atti 1996, Vibo Valentia 1998, pp. 231-300; Pisani

D., Ebanisti, intagliatori e statuari: opere lignee di bottega serrese nella provincia di Vibo Valentia, in Pagano N. Gligora E. (a cura di), I Beni Culturali... cit., 1998, pp. 199-200; Onda S., La chiesa dell’Assunta di Spinetto nella storia civile e religiosa di Serra S. Bruno, Serra S. Bruno 1999; Calabretta L., Serra... cit., [2000]; Pisani D., Vita e opere di Domenico Barillari: un artista neoclassico tra la Calabria e Napoli, Soveria Mannelli 2003; Solferino G., Vincenzo Scrivo maestro-scultore in Serra San Bruno, in “Calabria sconosciuta”, a. 28, 2005, pp. 59-64; Leone G., Scultura in legno in Calabria: l’apporto locale nel Seicento e nel Settecento, in Leone de Castris (a cura di), Sculture in legno... cit., pp. 95102. Nonostante non sia direttamente interessato all’intaglio, è molto utile il riferimento a Zambrano P., “Sembrando uno squarcio del giudizio universale”: il terremoto del 1783 in Calabria; l’identità perduta e ritrovata; un caso di uso e riuso del patrimonio artistico, in Varese R. - Veratelli F. (a cura di), Il collezionismo locale: adesioni e rifiuti, Atti 2006, Firenze 2009, pp. 431-494 che rilegge in chiave decisamente aggiornata ed extra regionale le problematiche critiche e interpretative e dunque decisive per una nuova contestualizzazione dell’intero fenomeno. 13 Nell’ambito del convegno Capitelli G. - Coscarella C. - Leone G. - Mazzarelli C. - Passarelli L. (a cura di), Arte in Calabria nell’800: 17831908; Anagrafe della ricerca, Atti 2009, Cosenza (in corso di stampa), Antonella Salatino ha presentato un intervento su “Le vare processionali: una ricognizione sul territorio” mentre Michele Abastante sulle “Sculture e intagli dell’Ottocento: per un censimento nella diocesi di Rossano”; il mio intervento, infine: La scultura lignea e l’intaglio nelle chiese dell’Ottocento. 14 Leone de Castris P., Tra Medioevo... cit., pp. 25-27. 15 Di Dario Guida M.P., Formazione e consistenza del patrimonio artistico delle chiese di Calabria, in I Beni culturali... cit., [1981], p. 255; Eadem, in Di Dario M.P. (a cura di), Itinerari per la Calabria... cit., p. 268; Eadem, Produzione e importazione negli svolgimenti della pittura e della scultura, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 175 (cfr. Leone de Castris P., Tra Medioevo... cit., p. 30). 16 Belli D’Elia P., Le icone, in Calò Mariani M.S. - Cassano R. (a cura di), Federico II: immagine e potere, Catalogo mostra 1995, Venezia 1995, pp. 430-431 (cfr. Leone de Castris P., Tra Medioevo... cit., p. 38 nota 12). 17 Leone G., «Di greco in latino»: la cultura artistica della Calabria tardomedioevale tra persistenze e innovazioni, in Scripturae et Imagines: i Codici Leontei nella

cultura calabrese tra l’XI e il XIV secolo, Catalogo mostra 2001, Vibo Valentia 2001, p. 108. 18 Per tali fonti si rimanda a quanto rilevato e discusso a proposito da Leone G., L’intaglio barocco... cit., pp. 159-160; Agosti B. - di Majo I., Biografie d’artisti nella Calabria sacra e profana di Domenico Martire, in di Majo I. (a cura di), Dal viceregno a Napoli: arte e lettere in Calabria tra Cinque e Seicento, Napoli 2004, p. 118; Leone de Castris P., Tra Medioevo... cit., pp. 23-39. 19 Bologna F., Introduzione, in Venturoli P. (a cura di), Scultura lignea in Basilicata dalla fine del XII alla prima metà del XVI secolo, Catalogo mostra 2004, Torino 2004, XVIII. 20 Leone de Castris P., Tra Medioevo... cit., pp. 26 ss. 21 La prima segnalazione della coppia di colonne lignee della chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio Corone è di Orsi P., Le chiese basiliane della Calabria, Firenze, 1929, p. 177 (dell’opera esiste una riedizione a cura di Carlino C.: Roma, 1997), cui fece seguito la schedatura in Frangipane A. (a cura di), Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, II. Calabria, Roma 1933, p. 233. I riferimenti interpretativi più aggiornati, invece, risalgono a Belli D’Elia P., Alle sorgenti del romanico: Puglia XI secolo, [1975], Bari 1987, p. 85; Di Dario Guida M.P., Alla ricerca dell’arte perduta: il Medioevo in Italia meridionale, Roma 2006, p. 52 ai quali è doveroso, anche per ulteriori nuove aperture critiche, unire Curzi G., Ipotesi sull’origine cassinese di alcune botteghe romaniche di intagliatori del legno, in Somma M.C. (a cura di), Cantieri e maestranze nell’Italia medievale, Atti 2008, Spoleto 2010, p. 161. 22 Frangipane A. (a cura di), Inventario... cit., p. 153 (cfr. Cappelli B., Note marginali all’Inventario degli oggetti d’arte d’Italia. Vol. II, Calabria, in “Archivio Storico per la Calabria e la Lucania”, a. IV, 1934, p. 155; Leone G., Per una storia dell’arte sacra nella Valle del Crati, in Fasanella R. - Falcone L. - Fucile N. (a cura di), Bisignano e la Val di Crati tra passato e futuro, Atti 1991, Soveria Mannelli 1993, p. 113). 23 Leone G., Per una storia... cit., [1993], p. 113. 24 Ruotolo R., Arte del legno, in Galasso G. - Romeo R. (a cura di), Storia del Mezzogiorno, XI, Aspetti e problemi del Medioevo e dell’età moderna 4°, Napoli 1993, p. 608. 25 Grelle Iusco A. (a cura di), Arte in Basilicata: rinvenimenti e restauri, Catalogo mostra 1979, Roma 1980, p. 105. 26 Frangipane A. (a cura di), Inventario...

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cit., pp. 197-198. 27 Frangipane A. (a cura di), Inventario... cit., p. 132. 28 Ruotolo R., Arte del legno... cit., p. 608. 29 Leone G., Osservazioni sulla tipologia dell’arco gotico inquadrato in Calabria, in Ceraudo G., Tesori d’arte... cit., pp. 54 ss. 30 Ruotolo R., Arte del legno... cit., p. 608. 31 Leone G., Per la storia... cit., pp. 52-53. 32 Leone de Castris P., Tra Medioevo... cit., pp. 31-38. 33 Frangipane A. (a cura di), Inventario... cit., pp. 197-199. 34 Leone G., in Calabria... cit., p. 526. 35 Frangipane A. (a cura di), Inventario... cit., p. 106. 36 Geraci P., L’arte bizantina medioevale e moderna, Roma 1975, p. 47. 37 Leone G., Per la storia... cit., pp. 54-55. 38 Leone G., Per la storia... cit., pp. 59-60. 39 Leone G., “Grandi Tesori d’arte”: percorsi critici per una storia dell’arte nella città di Cosenza, in Bilotto L. (a cura di), Cosenza nel secondo millennio, Atti 1996, Cosenza 2000, p. 153. 40 Fanelli C., La Chiesa e il Monastero delle Vergini di Cosenza, Cosenza 1999, pp. 28-35, 43, 44. 41 Frangipane A. (a cura di), Inventario... cit., p. 255 (cfr. Leone G., La chiesa di San Giorgio Martire di Zumpano, in Leone G. (a cura di), Il Tesoro della Chiesa di San Giorgio Martire, Cosenza, 2008, pp. 14-15). 42 Trombetti G., in Leone G. (a cura di), Pange lingua... cit., p. 311 scheda XXV. 43 Solferino G., Dal marmo al legno: classicismo toscano e iperdecorativismo spagnolo in alcuni esempi della statuaria lignea in Calabria: gli splendori della «Fidelissima Civitas Tropeae», in Panarello M., Artisti della tarda maniera nel Viceregno di Napoli: mastri scultori, marmorari e architetti, Soveria Mannelli 2010, pp. 256257. 44 Trombetti G., Castrovillari... cit., p. 70; Leone de Castris P., Tra Medioevo... cit., pp. 159160. 45 Frangipane A. (a cura di), Inventario... cit., pp. 161, 182; Iannace R., in Galletti M. (a cura di), Iconografia di Chiara d’Assisi in Calabria: celebrazioni per l’VIII centenario della nascita della Santa, Catalogo mostra 1994, (dir. scientifica: Leone G.), Castrovillari 1994, pp. 105-106. 46 Leone G., Per la storia... cit., p. 58 nota 6. 47 Leone G., Bona Sforza e dintorni: alcune riflessioni storico-artistiche su Longobucco tra Quattro e Cin-

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quecento e la «Madonnina dei Carbonai», in Longobucco: dal mito alla storia: testimonianze e studi in memoria di mons. Giuseppe De Capua, Longobucco 2008, p. 195 nota 55. 48 Leone G., Per la storia... cit., pp. 49 ss.; Ruotolo R., Arte... cit., pp. 609 ss.; Leone G., L’intaglio barocco... cit., pp. 159 ss. 49 Ruotolo R., Arte... cit., pp. 611 ss. 50 Leone G., Scultura... cit., p. 89; Idem, Scultori di confine, alcuni esempi di scultura in legno nell’area del Pollino (e di altre zone della Calabria settentrionale e della Basilicata meridionale tra il Cinquecento e il Settecento), in Tomei A. - Curzi G. (a cura di), Abruzzo: un laboratorio di ricerca, Atti 2009, Napoli 2011, pp. 317-319. 51 Ho discusso tali questioni già in Leone G., Per la storia... cit., pp. 49 ss.; Idem, L’intaglio barocco... cit., pp. 159 ss. 52 Frangipane A. (a cura di), Inventario... cit., p. 167 (cfr. Il Santuario... cit., p. 69). 53 Ruotolo R., Arte... cit., pp. 611 ss. 54 Per la definizione e interpretazione di tali aspetti si vedano i titoli di Rita Iannace citati nelle precedenti note 3 e 4 (cfr. Leone, G. L’intaglio barocco... cit., pp. 164-165). 55 Iannace R., in Di Dario Guida M.P. (a cura di), Itinerari per la Calabria... cit., p. 300, 302; De Bonis M., L’arte della memoria... cit. 56 Iannace R. (a cura di), L’intaglio ligneo in Calabria: dal XVII secolo al XVIII secolo, Catalogo mostra 1991, Cosenza 1991, p. 11; Leone G., “Grandi tesori”... cit., p. 153. 57 Fanelli C., La Chiesa... cit., pp. 24-25. 58 Iannace R., in Itinerari per la Calabria... cit., pp. 302-303. 59 Di Dario Guida M.P., Il Museo di Santa Maria della Consolazione in Altomonte, Cava dei Tirreni 1984, p. 37. 60 Leone G., “Grandi tesori”... cit., p. 153. 61 Ruotolo R., Arte del legno... cit., pp. 612 ss. 62 Iannace R., in L’intaglio... cit., p. 12; Valentino G., Taverna città d’arte: per ricostruire un’identità perduta, Lamezia Terme 1994, p. 33. 63 Per questi contatti si vedano i documenti e le interpretazioni di Bruno Mussari e Giuseppina Scamardì nei loro contributi citati nella precedente nota 5. 64 Valentino G., in Spike J.T., Mattia e Gregorio Preti a Taverna: catalogo completo delle opere, Firenze 1997, p. 131 (cfr. Raffaele F., Taverna patria di Mattia Preti, Catanzaro, 1990, p. 47; G. Leone,

L’intaglio barocco... cit., p. 164; idem, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 353). 65 Ruotolo R., Arte del legno... cit., p. 613 ss.; Leone G., L’intaglio barocco... cit., pp. 164-165. 66 Iannace R., in Di Dario Guida M.P. (a cura di)Itinerari per la Calabria... cit., p. 300. 67 Cagliostro R.M. (a cura di), in Calabria... cit., p. 717 (cfr. Panarello M., I protagonisti della decorazione: mastri marmorari e professori di stucco, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., pp. 77-80). 68 Per questi altari citati nel testo e attribuibili alla bottega degli Altomare di Rogliano, si vedano: Mari N., in Iannace R. (a cura di), L’intaglio... cit., pp. 13-14; Leone G., in Calabria... cit., pp. 353-361. 69 Basile S. - Bitonti T., Le chiese di San Giovanni in Fiore, San Giovanni in Fiore 1995, p. 23; Leone G., L’intaglio barocco... cit., p. 165 (cfr. Leone G., in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., pp. 360-361). 70 Leone G., in Calabria... cit., p. 421; Idem, Tra dire e fare... un percorso didattico per la storia della città attraverso le opere d’arte delle chiese di San Francesco d’Assisi e delle Vergini di Cosenza, in Raccontiamoci la città: Cosenza tra storia, miti, leggende, Cosenza 2003, p. 125 (cfr. Mussari B. –Scamardì G., Notizie... cit., p. 44). 71 Leone G., L’intaglio barocco... cit., p. 165. 72 Ruotolo R., Arte del legno... cit., p. 613 ss. 73 Leone G., in G. Ceraudo, Tesori d’arte... cit., pp. 102 ss.; Idem, L’intaglio barocco... cit., p. 165. 74 Leone G., Per la storia... cit., p. 67 nota 11; Idem, L’intaglio barocco... cit., p. 165. 75 Di Dario Guida M.P., Formazione... cit., p. 255; Eadem, in Di Dario M.P. (a cura di), Itinerari per la Calabria... cit., p. 268; Eadem, Produzione... cit., p. 175 (cfr. Leone de Castris P., Tra Medioevo... cit., p. 30). 76 Leone G., L’intaglio barocco... cit., p. 162. 77 Minicucci C., Ricordi storici della città di Rogliano: vita ed opere di fra Gaspare Ricciulli Dal Fosso, arcivescovo di Reggio Calabria; Conferenza tenuta il 12 novembre 1953 nel Palazzo Municipale di Rogliano, Firenze 1954, pp. 19, 22. 78 Spanò A., Tabernacoli... cit., pp. 31, 56, 59-60 ; Idem, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 392 (cfr. Leone G. (a cura di), Pange lingua... cit., p. 632 n. 97). 79 Leone G., Per la storia... cit., pp. 66-67 e nota 11; Idem, Le maestranze del legno a Corigliano... cit., [“Il Serratore”; 1995], pp. 42-46, 39-43, 34-


37; Idem, Alcune considerazioni sugli arredi lignei della chiesa dei Cappuccini, in “Il Serratore”, a. XIII, 2000, pp. 26-29; Idem, Scultura... cit., pp. 87-95. 80 Trombetti G., Castrovillari... cit., pp. 183184; Leone G., L’intaglio barocco... cit., p. 162. 81 Leone G., Per la storia... cit., pp. 49 ss. 82 Leone G., Per la storia... cit., pp. 62 ss.; Idem, in Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte... cit., pp. 107-108; Idem, Scultura... cit., pp. 88-92. 83 Leone G., L’intaglio barocco... cit., p. 162. 84 Leone G., Per la storia... cit., p. 62 (cfr. Trombetti G., Castrovillari... cit., p. 177; Panarello M., in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 356). 85 Ruotolo R., in Abita S. (a cura di), Argenti in Basilicata, Catalogo mostra 1994, Salerno 1994, p. 38. 86 Leone G., Per la storia... cit., pp. 66-71; Idem, in Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte... cit., pp. 105-106; Idem, L’intaglio barocco... cit., p. 163. 87 Leone G., Per la storia... cit., pp. 56 ss.; Ruotolo R., in Abita S. (a cura di), Argenti in Basilicata... cit., p. 38. 88 Mele M., in De Chirico F. – Filice R.A. (a cura di), Tesori riscoperti: restauro e valorizzazione del patrimonio artistico nella Chiesa di San Francesco da Paola in Altomonte, Soveria Mannelli 2010, pp. 59-70. 89 Leone G., Le maestranze del legno a Corigliano, I. I cori... cit., p. 34. 90 Frangipane A. (a cura di), Inventario... cit., p. 286; Amato P., La Pinacoteca del Santuario di San Francesco di Paola: dipinti dal XV al XIX secolo, Paola 2005, p. 153. 91 Salerno E., Un’arte... cit., pp. 71-7 (cfr. Leone G., Per la storia... cit., p. 70). 92 Iannace R. (a cura di), L’intaglio ligneo... cit., p. 11. 93 Salerno F., in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 658 (cfr. G. Leone, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., pp. 401, 421) . 94 Leone G., Pietro Costantini a Corigliano, in “Il Serratore”, a. IX, 1996, pp. 46-50. 95 Leone G., Le maestranze del legno a Corigliano, I. I cori... cit., pp. 32-34. 96 Leone G., Leone, Pietro Costantini... cit., p. 49. 97 Leone G., L’intaglio barocco... cit., p. 160; Idem, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 417. 98 Elencare tutte le statue cui si fa riferimento nel testo diviene certamente molto impe-

gnativo in questa sede, perché senza il supporto di un giudizio critico, anche già inizialmente generico come è quello stilistico, si risolverebbe in una mera citazione. In attesa, quindi, di un più specifico contributo, valga pertanto ancora il rimando a quelle già ricordate e discusse in Leone G., Scultura... cit., pp. 88-95. 99 Agosti B. - di Majo I., Biografie... cit., p. 118. 100 Solferino G., Dal marmo al legno... cit., p. 263. 101 Leone de Castris P., Tra Medioevo... cit., pp. 32-38 (le citazioni virgolettate nel testo sono a p. 32). 102 Leone de Castris P., Tra Medioevo... cit., p. 38. 103 Trombetti G., in Leone de Castris P. (a cura di), Sculture in legno... cit., pp. 212-214 scheda 38. 104 Leone G., Scultura... cit., pp. 88-91; Idem, Scultori... cit., pp. 328-330. 105 Leone G., Per la storia... cit., pp. 62-63. 106 Leone G., Scultura... cit., pp. 91-92; Idem, Scultori... cit., pp. 330-333. 107 Leone G., Scultura... cit., pp. 91-92; Idem, Scultori... cit., pp. 333-336. In particolare, su questo aspetto e singolare diffusione di scultori e sculture si rimanda per una breve scheda biografica su Agostino Pierri si rimanda a Aruanno F., Agostino Pierri, in Acanfora E. (a cura di), Splendori del barocco defilato: arte in Basilicata e ai suoi confini da Luca Giordano al Settecento, Catalogo mostra 2009, 2009, p. 189 e agli studi di Ludovico Noia di prossima pubblicazione. 108 Leone G., Scultura... cit., pp. 94-95. 109 Salfi C., Nuove scoperte e possibili confronti: la Madonna delle Grazie di Donnici Inferiore e la Madonna della Luce di San Pietro a Magisano, in “Calabria Letteraria: rivista mensile di cultura e arte”, a. LX, 2012, pp. 116-121. 110 Il confronto della Madonna di Loreto di Conflenti con la Madonna della Luce di San Pietro a Magisano si deve a Solferino G., Dal marmo al legno... cit., pp. 262-263 che però le assegna cronologicamente a una non meglio precisata fase di transizione della seconda metà del Seicento non vedendo la data 1711 e l’iscrizione «P.D.M.F» incisa su una delle nuvole che fanno corpo sin dall’origine con la scultura della Vergine col Bambino (cfr. Salfi C., Nuove scoperte... cit., pp. 116-121). La, scultura di San Pietro a Magisano, per la perdita della base, di più espresso riferimento roglianese,

è certo oggi privata di quella allure che meglio ne contraddistingueva la fatturae l’uniformità con gli arredi tipici degli intagliatoridella Valle del Savuto. 111 Salatino A., in Leone de Castris P. (a cura di), Sculture in legno... cit., pp. 21-216 scheda 39. 112 Leone G., Scultura... cit., pp. 94-95; Idem, Per la cultura artistica di Taverna... cit., pp. 9697. 113 Samà F., Aqua Appensa: la chiave della memoria; storia e architettura religiosa ad Acquappesa, Soveria Mannelli 2003, p. 141. 114 D.S., Due Sicilie, in “La Voce della Verità - Gazzetta dell’Italia centrale”, 1364, 25 aprile 1840, p. 1. 115 Ho discusso più profusamente di questi aspetti in Leone G., La scultura lignea e l’intaglio nelle chiese dell’Ottocento, in Capitelli G. - Coscarella C. Leone G. - Mazzarelli C. - Passarelli L. (a cura di), Arte in Calabria nell’800... cit. (in corso di stampa). 116 Leone G., Per la storia... cit., p. 71 nota 12; Pisani D., Bruno Maria Tedeschi, Arcivescovo di Rossano, in “Calabria Nobilissima”, aa. XL- XLI, 1994, pp. 127-139. 117 “Bollettino Ecclesiastico Trimestrale della Diocesi di Lungro”, a. 28, 1931, pp. 425-429 (cfr. Leone G., Per la storia... cit., p. 70).

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Intagliatore e pittore meridionali

Cappello di fonte battesimale Secolo XVI (ultimo decennio), con aggiunte decorative del Secolo XVIII Legno intagliato, dipinto e dorato; cm 194 x 70 Castrovillari, Museo di Arte Sacra Provenienza: Chiesa di San Giuliano, già dalla Chiesa di San Pietro la Cattolica Bibliografia: Frangipane A. 1933, p. 161; Barillaro E. 1972 p. 146; Trombetti G. 1989, pp. 60-61; Leone G.1990, p. 60; Bilotto L. 1996, p. 218; Trombetti G., in Leone G. 2002a, scheda XXV, p. 311; Guido D. 2002, 1-I, p. 537; Cagliostro R.M. 2002, p. 629. Nel Museo di Arte Sacra di Castrovillari è conservato questo singolare esempio di ciborio d’altare, l’opera arriva dall’attigua chiesa parrocchiale di San Giuliano, dove pervenne, nel 1820, come cappello di fonte battesimale dalla demolita chiesa di San Pietro la Cattolica1. Il modello del tabernacolo a tempio con pianta centrale, determinato dalle disposizioni posttridentine di centralità, venerazione e solennità dell’Eucarestia, ebbe rapido sviluppo anche in Calabria, e fu specialmente adottato dagli ordini religiosi, bisogna ricordare inoltre la presenza, e il favore che dovette ottenere nella zona, almeno dal 1592, il marmoreo “Ciborio di Colloreto” opera di Pietro Bernini, realizzato per la chiesa agostiniana di Santa Maria di Colloreto a Morano Calabro2, pur senza ipotizzare precise dipendenze considerando che la tipologia del manufatto è certamente più antica e molto diffusa su tutto il territorio peninsulare, trovando nella Certosa di Padula un esemplare importante e noto. Dalle tipologie più diffuse il ciborio di Castrovillari differisce specialmente per la copertura piramidale. Il manufatto ligneo è a base esagonale, l’apparato decorativo appare copioso, mostrando, nella parte inferiore, una fascia continua decorata con motivi regolari a fiori e girali; l’alzato presenta i sei lati spartiti da delicate colonnine scanalate terminanti con capitello corinzio; il bordo nella parte superiore, leggermente aggettante, è decorato da un fregio continuo ornato da una fascia di fiori e girali. La chiusura piramidale superiore è costituita da sei falde triangolari, decorata ognuna da tralci di volute inanellate e generanti grappoli d’uva, chiuse sulla sommità da una grossa pigna apicale, rimando iconografico a Cristo e all’ unità della Chiesa. Al vertice della copertura piramidale è collocata una croce raggiata con estremità gigliate, aggiunta, insieme ad alcune foglie d’acanto rovesciate sotto la base3, nel corso del Settecento secolo, quando ne fu operato la variazione d’uso. La decorazione ad intaglio ligneo di quest’opera, nell’accurata fattura e nel gradevole equilibrio compositivo, mostra i caratteri stilistici distintivi delle botteghe moranesi, con un programma iconografico sostanzialmente tardo rinascimentale, proponendo un repertorio ornamentale che non deborda mai dagli spazi strutturali, nell’intenzione di far emergere, come in questo caso, sempre la componente architettonica del manufatto. Il ciborio di Castrovillari, è ornato su i lati da sei tavolette centinate e dipinte, queste illustrano un repertorio iconografico strettamente legato all’originario luogo di provenienza e testimoniano l’antica funzione dell’opera, infatti, su un lato, l’antico sportello del tabernacolo, è dipinto il Calice eucaristico, questo è compreso, tra due formelle raffiguranti due angeli oranti, ritratti con un delicato paesaggio di sfondo; mentre i restanti pannelli raffigurano rispettivamente San Pietro e San Paolo, e lo stemma papale con Tiara e chiavi decussate, attestazione ulteriore della originaria provenienza dalla chiesa di San Pietro. L’esecuzione delle tavolette dipinte è stata, in seguito a riscontri stilistici, avvicinata alla maniera di Orfeo Barbalimpida4, artista che nella seconda metà Cinquecento secolo appare procedere nella tradizione iconografica e formale di Pietro Negroni, estremante diffusa e apprezzata dalla

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committenza ecclesiale in Calabria Citra; il Barbalimpida infatti firma la tavola, datata 1591, con la Visitazione conservata nel santuario di Santa Maria della Armi a Cerchiara di Calabria5, ed a lui è inoltre attribuita l’Annunziata del Museo diocesano di Cassano allo Jonio, ma proveniente dalla chiesa di San Francesco d’Assisi a Mormanno6. Antonella Salatino

1 Trombetti G., Castrovillari nei suoi momenti d’arte, Castrovillari 1989 p. 61; il manufatto fu utilizzato come di fonte battesimale già nel Settecento, ccircostanza testimoniata dalle aggiunte della parte terminale superiore. 2 Leone G., Pietro Bernini in Calabria: il “Ciborio di Colloreto” di Morano Calabro, in “Fuoriquadro”, a. II, 2006, pp. 6-7; Panarello M., Artisti della tarda maniera nel Viceregno di Napoli: mastri scultori, marmorari e archi-

tetti, Soveria Mannelli 2010, pp. 221-242. Il ciborio ora si trova, in parte ricomposto, nella chiesa della Maddalena a Morano Calabro. 3 Trombetti G., in Leone G. (a cura di), Pange Lingua: l’Eucarestia in Calabria; Storia Devozione Arte, Catanzaro 2002a, p. 31 , scheda XXV. 4 Leone G., I negroneschi nel gusto e nella committenza “locale” della Calabria nella seconda metà del Cinquecento, in Savova V. (a cura di), Pietro Negroni e la cultura

figurativa del Cinquecento in Calabria, Catalogo mostra 1990, Cosenza 1990, p. 60. 5 Leone G., I negroneschi... cit., p. 60. 6 Leone G., I negroneschi... cit., p. 60.

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Intagliatori meridionali

Soffitto

Secolo XVI (ultimi decenni) – Secolo XVII (primi decenni)

Legno intagliato, dipinto e dorato; (misure non rilevate) Rogliano, Chiesa della Madonna delle Grazie, detta di Camina Bibliografia: Frangipane A. 1950, p. 1139; Borretti M. 1960, p. 54; Valente G. 1973, II, p. 825; Perri F. 1987, pp. 96-97; Deni C. – Lico A. 1994, p. 145; Leone G. 2002b, p. 164; Altomare C., in Cagliostro R.M. 2002, p. 650; Leone G., in Cagliostro R.M. 2002, pp. 524-525. Sicuramente più citato che effettivamente studiato, il soffitto della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Rogliano è senz’altro una delle testimonianze più importanti dell’intaglio tardo-rinascimentale sopravvissute nell’attuale provincia di Cosenza. L’edificio sorge nei pressi del torrente Camina, nel punto dove, secondo una tradizione locale, venne trovata una sacra immagine della Beata Vergine col bambino in un roveto, che, se come si suppone, è da riconoscere in quella affrescata nella nicchia inglobata nella pala dell’altare maggiore comproverebbe un’origine della costruzione legata a un culto sviluppato attorno a un’edicola stradale. L’edificio, stando sempre a fonti e notizie locali da verificare, venne fondato nel 15691 e concluso nel 1616, data che si trova iscritta sul portale lapideo della facciata. Tra questi due termini cronologici, in ogni modo, si inserirebbe bene la messa in opera del soffitto che si scheda, per il quale, sempre stando a informazioni tramandate, il disegno fu approvato da mons. Giovan Battista Costanzo, vescovo di Cosenza dal 1591 al 1617. La chiesa è probabilmente ricordata per un benefico di patronato dell’Universitas di Rogliano nella Visita Apostolica di mons. Andrea Pierbenedetto del 16282, ma non risulta dallo stesso esaminata. Il soffitto ha un impianto stilistico di derivazione tosco-romano, comune a quelli diffusi nelle chiese di Roma e Napoli tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento. Sul piano di fondo, tinteggiato di azzurro, si dispongono elementi lignei dorati, intagliati e damaschinati, aventi forma di rombo con lati concavi, di semicorona e di disco che, sebbene liberi da qualsiasi impalcatura di carpenteria, configurano sul piano di base un’orditura circolare e quadrangolare insieme, guardando ora l’elemento a disco ora quello romboidale. Ciò genera un elegante gioco ottico alternato, reso ancor più raffinato dall’intaglio degli elementi compositivi, formato da ovuli, cordoli, rosette e pigne; dalla colorazione in oro e azzurro dell’insieme, con gradevoli risoluzioni in damasco graffito; dalla fascia di raccordo alle pareti con mensole, rosette e teste d’angelo. Al centro del soffitto, al posto dell’elemento romboidale, è collocato un medaglione ellittico, raccordato agli elementi a semicorona da teste d’angelo, con la raffigurazione della Madonna col bambino posta su nubi e incoronata da due angeli in volo, assecondando la devo-

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zione mariana dell’affresco della nicchia dell’altare maggiore dove è coperto da una manta lignea che lascia in vista solo i volti dei due personaggi effigiati. Non esiste al momento nessuna documentazione archivistica o fonte letteraria che permetta di datare con certezza il soffitto di Santa Maria delle Grazie di Camina, su cui tra l’altro le citazioni non sono affatto concordi, comparendo in alcune addirittura come settecentesco, perciò gli anni che qui si propongono sono ancora espressi su basi eminentemente stilistiche e di carpenteria. Lo stesso si deve dire per quanto riguarda l’assegnazione a maestranze locali. Infatti, sebbene la tradizione locale ricordi all’interno della chiesa in questione l’attività dei cosiddetti “fratelli sciardari”, ai quali è spesso rinviata la produzione seicentesca e quella migliore degli intagliatori roglianesi3, mancano per il periodo cui qui si assegna l’opera precisi termini di confronto stilistico e tecnico che possano convalidare la proposta. Viceversa, le ricerche archivistiche e gli studi4 hanno ormai da tempo confermata l’esistenza di tali attività e finanche la trasmissione di forme e modelli toscani nella cultura degli scalpellini e degli intagliatori della Calabria Citra. Giorgio Leone

1 Andreotti D., Storia dei Cosentini, I-II, Napoli 1869, I, p. 395. 2 Archivio Storico Diocesano di Cosenza, Visita Apostolica 1628, f.253v. 3 Adami A., La città di Rogliano e suoi monumenti, Cosenza 1936, p. 56 (cfr. Perri L.M. - Perri F., Gli scalpellini di Rogliano (dal XVI al XVII sec.), Marzi 1995, pp. 19-23). 4 Scamardì G., Maestri toscani a Cosenza tra XVI e

XVII secolo. Sull’attività cosentina di Andrea Maggiore da Carrara., in “Quaderni del dipartimento patrimonio architettonico e urbanistico”, a. IV, 1994, pp. 169-180; Mussari B. - Scamardì G., Notizie sull’attività di architetti, artisti e costruttori in Calabria Citra nei secc. XVII-XVIII tratte da protocolli notarili, in “Quaderni del dipartimento patrimonio architettonico e urbanistico”, a. VII, 1997, pp. 43-60.

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Intagliatori roglianesi

Portone

Secolo XVII (1614, datato)

Legno intagliato; (misure non rilevate) Cosenza, Chiesa di San Domenico Bibliografia: Frangipane A. 1933, p. 138; Esposito G.L. 1975, pp. 265-266; Iannace R., in Di Dario Guida M.P. 1983, pp. 300, 302; Iannace R. 1978, p. 25; Iannace R. 1979, p. 5; Stancati E. 1979, pp. 97-98; Iannace R. 1981, pp. 315-316; Iannace R., in Cosenza 1991, pp. 11, 16 (fig.); Lupinacci E. 1992, p. 65 (fig.); Bilotto L. 1996, p. 162; De Bonis M. 1999; Leone G. 2000, pp. 150 (fig.), 152-153; Leone G., in Cagliostro R.M. 2002, p. 406; Salerno F., in Cagliostro R.M. 2002, p. 619; TCI 2005, p. 422; Bilotto L. 2000, p. 44; Guido D. 2002, p. 35. Racchiuso nel limpido protiro archiacuto della facciata, il portone ligneo d’ingresso della chiesa di San Domenico di Cosenza fu realizzato nel 1614, come si legge dall’iscrizione posta in alto e divisa sulle due valve: «SVMPTIBVS CONVENTVS - ANNO DOMINI MDCXIV», da cui si apprende che il costo dei lavoro gravò sugli stessi padri del convento. Sulla base della lettura di un documento del 1614 è stato attribuito alla bottega di mastro Fabrizio Volpe di Paterno Calabro1, il quale realizzò a partire dal 1615 per la stessa chiesa parte del coro ligneo e che in quell’anno è pagato per altri lavori, non specificati, realizzati per i padri. Gli emblemi araldici intagliati sulla porta della chiesa di San Domenico sono quindi palese testimonianza della committenza che ne promosse la realizzazione, sul battente sinistro, infatti, è presente lo stemma dell’Ordine Domenicano: una palma d’oro e un giglio, una stella a sei raggi in alto del capo e un cane con collare che stringe in bocca una torcia. Sul battente destro lo stemma della famiglia Cavalcanti: «campo seminato di crocette incrociato di rosso»�, che all’interno della chiesa possedeva una cappella gentilizia, un altare posto lungo una delle pareti laterali della chiesa, dedicato a san Domenico e due dei cinque altari del coro, uno offerto ancora a san Domenico e l’altro a Santa Caterina da Siena3. Menzione specifica degli altari e delle cappelle della chiesa di San Domenico di Cosenza si ha, infatti, nella Relatio del vescovo di Venosa del 1628 ed in alcuni atti notarili relativi alla stipula fra la comunità domenicana e

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le famiglie nobili cosentine per l’acquisizione del patronato, la cui funzione devozionale si poneva strettamente in relazione con la destinazione d’uso, ossia la sepoltura dei membri della famiglia che dotava la chiesa domenicana di cospicue rendite per ottenere tale privilegio4. La presenza di questa arme, stante la notizia ricavata dall’iscrizione, si potrebbe ipotizzare come una sorta di omaggio a quel Paolo Cavalcanti che nel 1611 era Vicario Generale della diocesi, Decano del Capitolo e Penitenziere Maggiore della Cattedrale di Cosenza, il quale potrebbe aver promosso l’esecuzione del portone e fors’anche partecipato alle spese. L’Ordine Domenicano, così come gli altri ordini religiosi in Calabria, svolse un ruolo molto importante per la diffusione delle maestranze locali dell’intaglio sul territorio e probabilmente, all’interno di esso e delle sue aggregazioni, dové anche esercitare una certa influenza nella propagazione delle soluzioni stilistiche roglianesi5. Arredi di queste maestranze e di quelle che ebbero nelle maestranze roglianesi i propri riferimenti, infatti, sono presenti nelle chiese domenicane di Altomonte, Taverna, Rossano e Saracena e di Taverna6, ma anche negli oratori confraternali del Rosario, come a Cosenza e a Catanzaro; G. Leone addirittura ipotizza un probabile uso da parte degli intagliatori locali di specifici disegni forniti dall’Ordine Domenicano7, come del resto è documentato nel 1668 per il coro di Taverna8. Il portone cosentino, oltre ai motivi decorativi di fitto intaglio di foglie e fiori e con spiccata tendenza alla figurazione, soluzioni che appartengono al patrimonio iconografico e formale del barocco roglianese, presenta altri elementi ornamentali come mascheroni, angeli, volatili e, all’interno di alcuni riquadri, dei clipei con le effigi di santi dell’Ordine. Sono riconoscibili: San Vincenzo Ferrer, raffigurato con l’indice della mano verso il cielo e raffigurato come l’angelo dell’Apocalisse, San Pio V, San Domenico di Guzman, San Tommaso d’Aquino, San Pietro da Verona, Sant’Antonino da Firenze, un santo di difficile identificazione, forse il beato Benedetto XI9, e, infine, la Madonna del Rosario che è collocata nel riquadro che fiancheggia quello con San Domenico. Lo sviluppo tecnico stilistico del manufatto, per l’armonia dell’insieme, per l’eleganza della composizione e per la finezza dell’intaglio, che lo rendono un modello per altre simili opere, come ad esempio il portone ligneo della chiesa delle Vergini di Cosenza, appare per certi versi più evoluto rispetto a quanto oggi è rimasto dell’originario coro ligneo realizzato dalla stessa bottega per la stessa chiesa domenicana. In tal senso, qualche affinità è stata ravvisata con gli intagli di alcuni scanni di coro custoditi al Metropolitan Museum di New York10, sia o non sia la loro originaria pertinenza alla chiesa domenicana di Cosenza11. Edvige De Rose

1 Leone G., “Grandi tesori d’arte”: percorsi critici per una storia dell’arte nella città di Cosenza, in Bilotto L. (a cura di), Cosenza nel secondo millennio, Atti 1996, Cosenza 2000, pp. 152-153. 2 Ferraro A., Stemmi nobiliari a Cosenza, Cosenza 2004, pp. 58-59. 3 Paolino F., Cappelle gentilizie e devozionali in Calabria: 1550-1650, Reggio Calabria 2000, p. 76 note 14, 15. 4 Paolino F., Cappelle gentilizie...cit., p. 56.

5 Leone G., Per la storia dell’intaglio ligneo in Calabria: appunti sulla cosiddetta “scuola di Morano”, in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 64-65, Idem, L’intaglio barocco in Calabria: annotazioni a margine di un problema di storiografia artistica del Mezzogiorno, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 161. 6 Leone G., Per la storia... cit., pp. 64-65. 7 Leone G., Per la storia... cit., p. 65. 8 Valentino G., Taverna città d’arte. Per ricostruire

un’identità perduta, Lamezia Terme 1994, p. 33. 9 Esposito G.L., San Domenico di Cosenza: 14471863: vita civile e religiosa nel Meridione, Pistoia 1975, p. 266 nota 75. 10 Leone G., “Grandi tesori d’arte”... cit., pp. 152-153 11 De Bonis M., L’arte della memoria e la memoria nell’arte, Cosenza 1999, p. 153.

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Intagliatori roglianesi

Coro

Sec. XVII (1616-1635, datato)

Legno intagliato; (misure non rilevate) Cosenza, Chiesa di San Domenico Bibliografia: Frangipane A. 1933, p. 138; Esposito G.L. 1975, pp. 265-266; Iannace R., in Di Dario Guida M.P. 1983, pp. 300, 302; Iannace R. 1978, p. 25; Iannace R. 1979, p. 5; Stancati E. 1979, p. 98; Iannace R. 1981, p. 25; Iannace R., in Cosenza 1991, pp. 11,15 (fig.); Lupinacci E. 1992, pp. 79,83-84, 88; Bilotto L. 1996, p. 162; Mussari B. – Scamardì G. 1997, pp. 49, 51; De Bonis M. 1999; Bilotto L. 2000, p. 44; Leone G. 2000, pp. 152-153; Paolino F. 2000, pp. 58, 70, 76; Leone G., in Cagliostro R.M. 2002, p. 406; Guido D. 2002-2003, p. 35. Il 7 giugno 1616 Padre Giovanni Battista della Grotteria, rappresentante del convento di San Domenico di Cosenza, insieme ad altri ventuno padri, stipularono, con atto notarile redatto dal notaio Antonio Riccio1, un contratto di lavoro per l’esecuzione di «un coro de ligname de nuce scuro, secundo il dis(egn)o» di mastro Fabrizio Volpe di Paterno Calabro, il cui progetto fu mandato a Napoli e fatto stimare dai più valenti artigiani, tramite il priore padre Silvestro Zagarise. Il coro doveva essere composto da cinquantadue stalli da intagliare per il prezzo di 1.500 ducati. Morto il Volpe, per istrumento del 12 marzo 16332, i padri stipularono il contratto per il completamento dei lavori del coro con gli intagliatori Giuseppe Gioffrida di Paterno, Giovanni Aurelio Muto di Rogliano e Sertorio Perrotta di Tessano3. Dallo stesso documento si evince che nell’anno 1633 la parte sinistra delle sedie superiori del grandioso coro ligneo era già stata eseguita da Fabrizio Volpe, per cui gli artigiani dovevano completarne la realizzazione. Giuseppe Gioffrida doveva eseguire sette sedie maggiori con «le sedie da basso che si doveranno mettere a perfettione»; altre sedie sempre della parte bassa toccavano a Sertorio Perrotta «e l’altra terza parte che si và alla sacrestia co le sedie d’abasso da mettersi ancora a perfettione» erano state assegnate a Giovanni Aurelio Muto. Gli intagliatori si servirono anche di altre maestranze e l’esecuzione del coro fu terminata da Ferraro Federico e Paolo Materise4 per conto di Giuffrida e Perrotta nell’anno 1635, come testimonia il cartiglio che reca la data «MCDXXXV». Modifiche, ricomposizioni, spostamenti e dispersioni del coro ligneo di San Domenico di Cosenza sono documentati nei vari rifacimenti e abbellimenti subiti dall’edificio nel corso del tempo e nei restauri novecenteschi5. Il coro ligneo domenicano, in legno di noce, che contava quindi in origine cinquantadue stalli, oggi si trova sistemato in parte nella sacrestia della chiesa, mentre altri quattro stalli da tre posti sono dislocati nella vicina cappella ottogonale, nonché custoditi, fatiscenti, in un deposito del convento6. Valutarne dunque la consistenza originaria attualmente è problematico, proprio perché la struttura, varie volte scomposta e ricomposta, presenta diffe-

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renze stilistiche tra alcuni dei pezzi superstiti, per cui risulta difficile capire se tali differenze siano dovute a un concepibile cambiamento del progetto originario del Volpe da parte degli intagliatori che terminarono il lavoro, oppure soltanto alla diversità dell’esecuzione, o se non proprio all’esistenza di più cori nello stesso complesso conventuale domenicano7. La struttura del coro e anche di altri cori realizzati nel corso del Seicento per diverse chiese in Calabria - come quelli eseguiti per la chiesa di San Francesco da Paola a Cosenza (1679), per le chiese dell’Assunta di Celico, di Santa Maria della Consolazione ad Altomonte e di San Domenico a Taverna8 - prevede un doppio ordine di stalli disposti lungo tre pareti di un vano quadrangolare nel retro altare. Gli stalli dell’ordine superiore sono costituiti da alti postergali, la cui fascia di chiusura è rettilinea, aggettante e decorata da fregio di volute di racemi. I postergali sono scanditi ritmicamente da colonne scanalate e fasciate e da lesene antropomorfiche con encarpi, inquadranti pannelli con specchiature lisce, ornate da cornici e festoni, secondo modelli ben noti alla tradizione tardo rinascimentale napoletana e meridionale in genere, con figure allegoriche tratte da temi biblici e teologici. I sedili, invece, sono suddivisi da braccioli intagliati con figure zoomorfe, grifoni, sirene e altri mostri alati, rappresentazioni di vizi, tentazioni, diavoli e angeli, e sostenuti da zampe di caprone con altre figurazioni allegoriche che rivelano un serrato riferimento iconologico e tendono a definire il carattere dell’Ordine dei Predicatori a cui il coro appartiene9. Marilena De Bonis ha diviso idealmente il coro in tre parti, per una lettura simbolica delle raffigurazioni10: nella parte inferiore degli stalli sono presenti decorazioni che raffigurano il male, il peccato e il vizio, tutte immagini mostruose, sinuose che hanno le ali e la coda, alcuni presentano attributi femminili, demoni con seni di donna, altri sono quadrupedi. La parte intermedia presenta invece figurazioni tratte dalla Bibbia, come Adamo ed Eva, che dividono gli specchi dei postergali, quasi specularmente, Eva tiene la mela con la mano sinistra e con la destra un mostro e Adamo nella destra la mela e nella sinistra un mostro con collo e testa di rettile e il corpo di donna11. La parte terminale superiore culmina con le raffigurazioni di sei santi, tra cui sono riconoscibili, per esattezza iconografica, san Domenico di Guzman e san Tommaso d’Aquino nonché, in base a congetture interpretative, il beato Benedetto XI e san Pio V12, quest’ultimo raffigurato anche sul portone della chiesa. Edvige De Rose

1 Cosenza, Archivio di Stato (da ora in poi ASCs), Notaio G.A. Riccio, istr. 07/06/1616, foglio 193r (cfr. Borretti M., Documenti per la storia delle arti in provincia di Cosenza durante il viceregno (1503-1734), in Atti del 3° Congresso storico calabrese (19-26/05/1963), Atti 1963, Napoli 1964, pp. 511-512; Idem, Fonti per la storia e l’arte in Cosenza e nella provincia cosentina, in “Brutium”, a. XIV, 1935, p. 16; De Bonis M., L’arte della memoria e la memoria nell’arte: simboli e allegorie nel coro di san Domenico in Cosenza, Cosenza 1999, p. 14). 2 ASCs, Notaio A. Pizzuti, istr. 12/03/1633, foglio 49v. 3 Mussari B. - Scamardì G., Notizie sull’attività di architetti, artisti e costruttori in Calabria Citra nei secoli XVI-XVII, in “Quaderni del dipartimento patri-

monio architettonico e urbanistico”, a. VII, 1997, pp. 49, 51. 4 ASCs, Notaio A. Pizzuti, istr. 12/03/1633, foglio 49v. 5 De Bonis M., L’arte della memoria... cit., pp. 17 ss. (cfr. Frangipane A. (a cura di), Inventario degli oggetti d’arte d’Italia: II; Calabria, Roma 1933, p. 138; Esposito G.L., San Domenico di Cosenza: 1447-1863; Vita civile e religiosa nel Meridione, Pistoia 1975, p. 265; Leone G., “Grandi tesori d’arte”: percorsi critici per una storia dell’arte nella città di Cosenza, in Bilotto L. (a cura di), Cosenza nel secondo millennio, Atti 1996, Cosenza 2000, p. 402). 6 De Bonis M., L’arte della memoria... cit., pp. 17 ss. 7 Leone G., “Grandi tesori d’arte”... cit., p. 153. 8 Leone G., in Cagliostro R.M. (a cura di), Cal-

abria, Roma 2002, pp. 402-406. 9 Leone G., in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 402 (cfr. De Bonis M., L’arte della memoria... cit., pp. 62 ss.). 10 De Bonis M., L’arte della memoria... cit., pp. 95-157. 11 De Bonis M., L’arte della memoria... cit., pp. 95-157. 12 Esposito G.L., San Domenico... cit., p. 266 nota 75.

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Intagliatori meridionali

Armadio da sacrestia Secolo XVII (1616, datato) Legno intagliato, dipinto e dorato; cm 320 x 260 Rossano, Museo Diocesano di Arte Sacra Provenienza: Cattedrale, sacrestia Bibliografia: Frangipane A., 1933, p. 228; Renzo L., 2002, pp. 53-54; Leone G, 2009b, p. 220 nota 181.

Proveniente dalla antica sacrestia della Cattedrale di Rossano, dove un tempo era utilizzato come armadio che custodiva le vesti sacerdotali, nel cassone, e il busto argenteo della Santissima Achiropita e altre reliquie e argenterie, nella parte alta, oggi il mobile è esposto nel Museo Diocesano di Arte Sacra di Rossano. L’opera lignea, che doveva essere alquanto imponente nella sua architettura originaria, ben si collocava nell’ampio ambiente della sacrestia che, invece, oggi, si presenta molto ridotta in altezza, a causa di lavori condotti negli anni cinquanta-sessanta del Novecento per favorire l’ingresso in Arcivescovado da Largo Duomo e realizzare altri locali nel ricavato piano superiore. Di conseguenza il mobile, che venne trasportato nell’allora da poco istituito Museo Diocesano, per motivi di spazio, venne privato di alcuni suoi elementi, e ancor successivamente, durante il riallestimento del Museo avvenuto nel 1978, dal cassone che, in quell’anno, fu donato alle Clarisse. Attualmente, dopo l’allestimento museale del 2000, all’interno della sala espositiva risulta montato privo di altri suoi elementi – il timpano, i due busti reliquiario che ne adornavano la cimasa, pur non essendo originariamente di essa costitutivi – che sono esposti singolarmente. L’armadio fu commissionato dall’arcivescovo Lucio Sanseverino (1592-1612) e completato nel 1616 dal suo successore mons. Girolamo Pignatelli (1615-1618). A testimoniarlo è l’iscrizione commemorativa che compare sul timpano: «A Lucio Sanseverino Archiepiscopo pro / sacra reliquia asservitione constructum Don Hieronimus / Pignatelli Archiepiscopus successor opus perfecit anno

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/ Domini MDCXVI». L’insieme si presenta in un’elegante forma a tempio con quattro colonne scanalate e rispettivi capitelli di ordine corinzio sul prospetto che lo ripartiscono in tre sezioni che accolgono altrettanti sportelli: quelli centrali si compongono come una vera e propria porta a due ante – l’interno delle ante era un tempo foderato con tele dipinte1 -, quelli laterali come effettivi sportelli ad una sola anta, su di esse sono raffigurate, in rilievo o a giorno, figure di puttini e allegoriche alternate a decorazioni floreali. Gli sportelli hanno sull’architrave una decorazione a valva di conchiglia racchiusa da una cornice quadrata. Una trabeazione riccamente decorata sorregge una cimasa rettangolare, con al centro è presente un dipinto su tavola della Veronica, sormontata da una chiusura fatta di volute fitomorfe reggenti lo stemma dell’arcivescovo committente. Ai lati della cuspide erano presenti, come detto, due busti lignei reliquiari, intagliati, dipinti e dorati, raffiguranti San Maurizio e San Lazzaro martire. Non pertinenti all’armadio ma su di esso collocati da tempo immemorabile, le due figure sono assai simili, entrambe sono riprodotte con un libro nella mano sinistra, mentre la mano destra è posizionata all’altezza del medaglione reliquiario posto sul petto. Anche nella fisionomia i ritratti delle due figure sono pressoché identiche, essi si presentano con una folta barba e dei capelli mossi e pettinati verso la fronte. Una delle due statue è oggi ancor identificabile in san Lazzaro Martire in quanto si legge ancora la scritta in basso, l’altro invece l’ha persa2. In alto, anch’esso oggi smontato, era presente il timpano con la già citata iscrizione, sopra di essa compariva lo stemma di monsignor Sanseverino. Il mobile è un’opera di buona manifattura, intagliato e parzialmente dipinto dorato con lavorazioni a rilievo molto basso e a giorno, cioè traforate. Lo stile, per il connotato tardo rinascimentale delle decorazioni e alcune particolarità tecniche è riconducibile a quello degli intagliatori di Morano Calabro, che tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento producevano arredi lignei molto simili3. Proprio in questo periodo, tra l’altro, venne realizzato il soffitto a cassettoni della navata centrale della Cattedrale che porta lo stemma di committenza dello stesso Arcivescovo Lucio Sanseverino, il quale apparteneva alla famiglia dei Sanseverino, allora signori di Morano e che per tale motivo, ma non solo per questo, è stato assegnato come ipotesi di studio a tali maestranze4. È plausibile, quindi, supporre che agli intagliatori moranesi chiamati a Rossano dall’arcivescovo Sanseverino per la realizzazione del soffitto venisse commissionato anche l’armadio della sacrestia, per il quale è stata comunque avanzata una simile attribuzione5. I busti, invece, parrebbero di provenienza napoletana. Michele Abastante

1 Frangipane A. (a cura di), Inventario degli oggetti d’arte d’Italia: II; Calabria, Roma 1933, p. 228; Leone G., San Nilo di Rossano: tracce per una iconografia di un santo monaco calabrogreco dal medioevo all’età moderna, in Burgarella F. (a cura di), San Nilo di Rossano e l’Abbazia greca di Grottaferrata: storia e immagini, Catalogo mostra 2009, Roma 2009, p. 220 nota 181. 2 Per il riconoscimento dei santi raffigurati dai due busti: Frangipane A. (a cura di), Inventario... cit., p. 228.

3 Sulle determinazioni stilistiche e identificazioni di modelli e intagliatori nell’ambito degli intagliatori dell’area del Pollino, correntemente definiti “moranesi” si veda: Leone G., Per la storia dell’intaglio ligneo in Calabria: appunti sulla cosiddetta “scuola di Morano”, in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 49-91; Idem, L’intaglio barocco in Calabria: annotazioni a margine di un problema di storiografia artistica del Mezzogiorno, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, pp. 161-164.

4 Leone G., Per la storia... cit., pp. 57, 59; Idem, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., pp. 524, 526. 5 Renzo L., Il Museo diocesano di Rossano, Rossano 2002, pp. 53-54, per la sola cimasa.

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Intagliatori meridionali

Soffitto

Secolo XVII (1618-1621, datato) Legno intagliato, dorato e dipinto; (misure non rilevate) Saracena, Chiesa di Santa Maria del Gamio Bibliografia: Barillaro E. 1972, p. 224; Valente G. 1973, II, p. 980; Leone G., in Cosenza 1991, p. 26; Leone G., 1991-1992, pp. 58-59; Trombetti G. 1993, p. 7; Ruotolo R. 1993, pp. 614-615; Mainieri B., in Morano 1995, p. 27; Boniface L. 2000, pp. 40-44; Leone G., in Cagliostro R.M. 2002, pp. 525-526; Panarello M., in Cagliostro R.M. 2002, p. 656.

Sull’impalcato di tavole piane è montato un sistema complesso di elementi lignei che, assemblati sapientemente tra loro, compongono una struttura articolata e dinamica scandita nel suo insieme da tre file di lacunari di forma quadrata e ottagonale, in totale 39, disposti orizzontalmente e verticalmente in maniera alternata. I cassettoni sono delimitati da cornici e regoli modanati e dorati, con profilo a listello; al centro di ogni formella è applicata una rosetta in forte aggetto, anch’essa dorata. La superficie dello sfondo, visibile tra gli spazi vuoti, è di colore verde scuro e presenta un raffinato decoro floreale dipinto in policromia. Il tutto è chiuso ed ornato da una cornice perimetrale intagliata a palmette stilizzate di colore oro. Il soffitto sembra percorso da travi continue che si collegano tra loro incrociandosi, e tale illusione ottica gli conferisce un senso di equilibrio e di robustezza, oltre ad esaltare l’eleganza stilistica e compositiva dell’insieme; l’alternanza di rientranze e di sporgenze delle modanature dorate, inoltre, in netto contrasto con il verde dello sfondo, e la profondità dei lacunari quadrati ed ottagonali, crea un gioco di luci ed ombre, di pieni e di vuoti che danno vivacità all’ambiente, producendo uno straordinario effetto di ampiezza e di profondità spaziale. La terminazione verso la facciata del soffitto oggi appare bruscamente interrotta, in quanto modificata per l’allungamento della navata e la ricostruzione della facciata. Per quel che attiene l’attribuzione di questo pregevole manufatto, esso è ormai concordemente assegnato a Jacono Lanfusa. Ad avvalorare tale paternità artistica, contribuisce quanto è riportato nei registri di Amministrazione della chiesa di Santa Maria del Gamio di Saracena, nei quali il nome del suddetto intagliatore è più volte menzionato quale esecutore delle decorazioni del coro, dell’arco e di altre parti dell’edificio religioso; pur essendo perdute le pagine relative agli anni in cui venne commissionato il cassettonato, quasi certamente esso fu realizzato proprio dal Lanfusa, anche perché, per ovvie ragioni di opportunità, tutti i lavori lignei dell’interno dovettero essere assegnati a lui ed eseguiti nel giro di pochi anni1. La data di esecuzione del soffitto dovrebbe essere collocabile in un arco di tempo abbastanza circoscritto che va dal 1618 al 1621. Questo preciso intervallo cronologico è stato ricavato dalle relazioni di due

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Visite pastorali: quella del 23 aprile 1618 attesta la mancanza del tavolato in una delle tre navate della chiesa, mentre in quella del 1621, il tavolato mancante di cui si dava notizia qualche anno prima risulta già ultimato, visto che si fa cenno alla sua rifinitura, e precisamente alla pittura in oro delle parti decorative2. La fase dell’indoratura venne poi ultimata tra il 1627 e il 1628 da Vincenzo De Untis per ventinove carlini; molti anni dopo, tra il 1787-1788, fu affidato a Genesio Galtieri, documentato dal 1768 al 1810, il compito di decorare serti di rose su fondo verde chiaro3. Dal punto di vista stilistico il cassettonato di Saracena «appare alquanto aggiornato sui modelli elaborati a Napoli tra il finire del Cinquecento e gli inizi del Seicento»4. Tali canoni estetici erano certamente conosciuti dagli intagliatori moranesi «attraverso i documentati legami della committenza cittadina con molte personalità artistiche napoletane»5. La ripartizione in scomparti e il motivo decorativo presente nel soffitto di Santa Maria del Gamio, inoltre, come sostiene Giorgio Leone6, si riconosce anche sul portone laterale della stessa chiesa, realizzata tra il 1612 e il 1613 da Giovanni La Bollita, originario di Morano o di Castrovillari, e ciò porta a supporre che pure gli intagliatori del soffitto, dei quali non si conosce la provenienza, siano di quella stessa area. Le forti analogie stilistiche che legano il soffitto di Saracena a quello della sacrestia della chiesa della Maddalena di Morano7, realizzato appunto da intagliatori moranesi della prima metà del Settecento, sembrerebbero rafforzare tale ipotesi; e infatti, la somiglianza tra i suddetti manufatti è facilmente riscontrabile nella tecnica compositiva, basata sull’uso di moduli ottagonali alternati ad elementi quadrangolari di raccordo, oltre che nella decorazione floreale inserita tra gli spazi vuoti creati dai finti incroci delle tavole e al centro di ogni lacunare. Marina Ameduri

1 Boniface L., La chiesa di S. Maria del Gamio in Saracena, Castrovillari 2000, p. 44. 2 Leone G., Scuola moranese, in Iannace R. (a cura di), L’intaglio ligneo dal XVII al XVIII secolo, Catalogo mostra 1991, Cosenza 1991, p. 26; Idem, Per la storia dell’intaglio in Calabria: appunti sulla cosiddetta «Scuola di Morano», in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 58-59; L. Boniface, La chiesa... cit., pp. 40-44.

3 Boniface L., La chiesa... cit., p. 44. 4 Leone G., in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 526. 5 Leone G., in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 526. 6 Leone G., Per la storia dell’intaglio... cit., p. 59; G. Leone, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 526.

7 Mainieri B., in Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte: mostra di Opere d’Arte Restaurate dalle Chiese della Maddalena e del Carmine, Catalogo mostra 1995, Morano 1995, p. 27.

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Intagliatori meridionali

Alzata d’altare

Secolo XVII (primo quarto) Legno intagliato dipinto e dorato; cm 550 x 350 Tortora, chiesa della Santissima Annunziata o del convento di San Francesco d’Assisi Bibliografia: Frangipane A. 1933, p. 252; Barillaro E. 1972, pp. 239-240; Ritondale F. 1990, p. 120; Bilotto L. 1996, p. 55; Bilotto L. 2001, p. 330; Leone G., in Cagliostro 2002, p. 362; TCI 2007, pp. 464-465; Leone G. 2009a, p. 89; Leone G. 2011a, pp. 317-319.

Posto sulla parete del presbiterio, al di sopra del coro ligneo nella chiesa della Santissima Annunziata, annessa al convento francescano di Tortora, l’alzata d’altare qui in esame, che asseconda la tipologia detta “a retablo”, è certamente opera di pregevole fattura artistica espressamente realizzato per esporre statue e dipinti1. Il periodo di fondazione del convento risale al Cinquecento e venne edificato nella parte alta del centro abitato, accanto ad una preesistente chiesa di Santa Maria dell’Annunciazione2. L’altare ligneo è databile all’inizio del Seicento, probabilmente dové essere già in situ quando la chiesa venne consacrata attorno al 16203 e di certo occupava un’altra collocazione, giacché l’impronta di legno a vista sulla predella lascia supporre la presenza di un tabernacolo e, di conseguenza, la sistemazione dell’alzata sull’altare maggiore. L’opera mostra indicative analogie con modelli diffusi nel Molise4 e in Basilicata5. La sfarzosa alzata d’altare è interamente intagliata e dorata; su un alto basamento si impostano quattro colonne di diverse dimensioni culminanti in raffinati capitelli distinti da affusolate foglie di acanto, mentre il fusto è caratterizzato da un elaborato intreccio di fitti racemi, come se fosse interamente fasciato. Le colonne ripartiscono l’alzata in tre sezioni: nelle laterali sono esposte quattro tele, due più grandi centinate effigiano due santi francescani a figura intera – San Bonaventura da Bagnoregio a sinistra; San Ludovico da Tolosa a destra6 – e due più piccole, poste più in alto, ritraggono a mezzobusto San Giovanni Battista a sinistra e San Giuseppe col Bambino a destra. Le tele sembrano manifestare la mano di

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un’unica personalità il cui portato stilistico pare aggiornato sulla produzione pittorica diffusa da Napoli nella prima metà del Seicento da personalità influenzate da Massimo Stanzione. Sopra il frontone l’intagliatore ha realizzato una grande cimasa incorniciata da un gradevole motivo di volute che nel timpano circoscrive la figura a mezzobusto dell’Eterno Padre e sulla curva delle stesse volute culmina con due teste, caratteri esornativi questi che, come è stato notato, paiono annunciare una svolta che prelude già al barocco7. Al centro della cimasa è inserita una tela raffigurante l’Annunciazione, opera, stilisticamente diversa dalle quattro sottostanti, accostabile alla pittura di Genesio Galtieri8, artista attivo e documentato a Mormanno a partire dal secondo quarto del Settecento9. Al centro dell’altare due colonne più piccole inquadrano una nicchia impreziosita dalla conchiglia, dove è collocata la statua lignea della Madonna della Scala. L’alzata d’altare di Tortora è stata assegnata a maestranze d’intagliatori operosi nella prima metà del Seicento nell’area del Pollino che manifestano una cultura artistica che supera i confini dell’area, conscia, inoltre, di quei motivi consoni e frequentemente adoperati dalla coeva produzione argentaria delle botteghe napoletane e locali10. La scultura della Madonna col Bambino è interamente dorata nell’abbigliamento e arricchita nel vestiario dalla lavorazione a estofado. Come rilevato da Giorgio Leone11, la statua parrebbe più antica dell’alzata d’altare che la contiene e dalle tele che la circondano; l’iconografia discende dalla cosiddetta Madonna Arcella della chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli, scolpita nel 1536 da Giovanni da Nola, che informa anche la Madonna col Bambino della chiesa di San Nicola di Picerno e quella della chiesa di San Francesco a Tolve, entrambe assegnate all’ancora anonimo “Maestro del polittico di Picerno” 12. La scultura di Tortora, dunque, rielabora un modello nobile ed è espressione di una cultura essenzialmente locale che schematizza la postura e nello specifico irrigidisce quella del Bambino, espletando alcuni schemi arcaicizzanti e quasi iconici13. Sebbene sono molto scarne le informazioni su scultori operosi nella prima metà del Seicento nell’area settentrionale della Calabria, la statua racchiusa nell’alzata d’altare della chiesa di San Francesco d’Assisi di Tortora è una «testimonianza importante per il chiarimento dei travasi di modelli e dell’attività di maestranze nell’area del Pollino»14. Alberto Pincitore

1 Leone G., L’Altare a retablo, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 362. 2 Liberti R., Tortora, Bovalino 1999, pp. 23-27. 3 L’ipotesi è di P. Rosazza (cfr. Cosenza, Archivio Schede OA della Soprintendenza per il BSAE: n. 18/00009354-0). 4 Leone G., Scultura in legno in Calabria: l’apporto locale nel Seicento e nel Settecento, in Leone de Castris P. (a cura di), Sculture in legno in Calabria: dal Medioevo al Settecento, Catalogo mostra 2008-2009, Napoli 2009, p. 89. 5 Leone G., Scultori di confine, alcuni esempi di scultura in legno nell’area del Pollino (...e di altre zone della Calabria settentrionale e della Basilicata meridionale tra il Cinquecento e il Settecento), in Tomei A. – Curzi G. (a cura di), Abruzzo: un laboratorio di ricerca, Atti 2009, [“Studi medievali e moderni: arte, letteratura, storia”, a. XV, 2011, Napoli 2011, pp. 317-319. 6 In precedenza i due santi Francescani effigiati nelle due tele, San Bonaventura da Bagnoreggio e San Ludovico da Tolosa, sono stati riconosciuti come Sant’Antonio da Padova e Santo Francescano: cfr. Frangipane A. (a cura di), Inventario degli oggetti d’arte d’Italia: II; Calabria, Roma 1933 p. 252; Barillaro E., Calabria: guida artistica e archeologica, Cosenza 1972,

p. 240; Bilotto L., Itinerari Culturali della provincia di Cosenza, Cosenza 2001, p. 330; Basilicata e Calabria, Milano 2007, pp. 464-465. 7 Leone G., L’Altare a retablo... cit., p. 362. 8 Leone G., Scultori di confine... cit., p 318 nota 30. 9 Per un recente aggiornamento sul pittore si rimanda a Leone G., Un inedito Genesio Galtieri nella chiesa dei Cappucini, in “Il Serratore”, a. XIX, 2006, pp. 24-28; Trombetti G., in F. De Chirico e R. A. Filice (a cura di), Tesori riscoperti: restauro e valorizzazione del patrimonio artistico nella chiesa di San Francesco di Paola in Altomonte, Soveria Mannelli 2010, pp. 76-82. 10 Leone G., Scultori di confine... cit., p 318 nota 30. Nell’area del Pollino il centro di produzione di Morano Calabro ha svolto un ruolo rilevante nell’intaglio ligneo. Alla cosiddetta “scuola” moranese appartennero anche personalità non originarie di Morano e operanti in centri limitrofi. In queste esecuzioni il legame tra la produzione dell’intaglio e quello dell’argenteria conferirà alle decorazioni dei manufatti maggior rilievo. Cfr. Leone G., Per la storia dell’intaglio ligneo in Calabria: appunti sulla cosiddetta «scuola di Morano», in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 49-50, 66 e nota 1.

11 Leone G., Scultura... cit., p. 89; Leone G., Scultori di confine... cit., pp. 317-319. 12 Naldi R., in Venturoli P. (a cura di), Scultura lignea in Basilicata dalla fine del XII alla prima metà del XVI secolo, Catalogo mostra 2004, Torino 2004, pp. 242-249 schede 58, 59. 13 Leone G., Scultori di confine... cit., pp. 318. 14 Leone G., Scultori di confine... cit., pp. 319.

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Intagliatori meridionali

Cantoria

Secolo XVII (attorno alla metà) Legno intagliato, dipinto e dorato; cm 130 x 350. Mormanno, Chiesa di Santa Maria del Colle. Bibliografia: Frangipane A. 1933, p. 204; Leone G. 1991-1992, pp. 58; Samà F., in Cosenza 1995, p. 26; Bilotto L. 1996, p. 208; Bilotto L. 2001, p. 228; Leone G., in Cagliostro 2002, p. 398; TCI 2007, p. 290; Paternostro L. 2007, p. 47.

Situata nel cuore dell’abitato di Mormanno la chiesa di Santa Maria del Colle è uno dei più grandi edifici sacri presenti nella circoscrizione diocesana di Cassano allo Ionio. Fra i manufatti artistici custoditi al suo interno di grande interesse artistico è la cantoria lignea collocata sotto l’arco sinistro della navata centrale in prossimità della crociera. La cantoria è strutturata come un blocco unico squadrato e pensile, i pannelli lignei sono intagliati con motivi desunti dal repertorio iconografico rinascimentale ovvero ovuli, nicchie e un’elaborata treccia che gira intorno al fregio tra le colonnine e la cornice, e, ancora, da una decorazione a gomene cui si avviluppano foglie e teste alate di angeli sulla cornice inferiore. Sul pannello del fronte gli intagliatori hanno realizzato dei veri e propri partiti architettonici scanditi da coppie di colonnine capitellate sulle quali sono impostati archi a tutto sesto, con una testolina alata di angelo in chiave di volta. All’interno sono sistemati due angeli, uno a destra e uno a sinistra, e al centro Re David che suona la cetra. Le figure, interamente dorate, emergono dal fondo verde delle nicchie e assumono grande rilievo col restante sfondo rosso del pannello. Questa elegante e raffinata soluzione però, come già avanzato da Giorgio Leone1, pone il dubbio se queste pitturazioni siano originarie, oppure apportate al manufatto successivamente, e pertanto non riflettenti l’idea originale degli intagliatori. I due pannelli laterali presentano il medesimo motivo ornamentale del fronte con un angelo inserito al centro di un arco, quello del lato destro, diverso da quello di sinistra, è rappresentato nell’atto di suonare una lunga tromba. Sulla cantoria è sistemato

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l’organo, opera di notevole valore artistico che palesa un prospetto tripartito indirizzato verso aggiornamenti barocchi2, evidenti nel particolare effetto ondulante raffigurato nei tre settori della cassa di risonanza, convessa nella campata centrale e concava nelle due laterali, e anche per i preziosi intagli di foglie dorate che colmano ogni spazio libero delle canne. Sul pannello centrale, posto sopra la tastiera, vi è un dipinto datato 1744 raffigurante la Gloria dell’Eucarestia. Due angeli sorreggono con entrambi le mani un ostensorio raggiato con croce apicale. L’opera pare si possa ascrivere a un pittore formatosi verosimilmente su basi solimenesche, ovvero, pertinente alle realizzazioni di pittori gravitanti alla scena artistica napoletana negli anni trenta-quaranta del Settecento. Sul lato sinistro della cassa è intagliato un cartiglio, dove è inscritto sia l’anno di esecuzione 1671 sia la data dell’attuale collocazione risalente al 1786. Il tipo di pedaliera di cui è dotato permette di supporre l’esistenza di un organo più antico, almeno nelle parti meccaniche, e di conseguenza riutilizzate per la costruzione del nuovo strumento3. Nell’arco antistante alla cantoria è posizionato il pulpito pensile. Le opere, analoghe nella struttura e nella decorazione, creano un pregevole pendant. L’intaglio dei pannelli mostra il medesimo motivo impiegato per la cantoria, sul fronte, gli artieri propongono quel “cadenzare” di spazi divisi da colonnine capitellate e archi a tutto sesto includenti le figure intagliate della Vergine Annunciata, l’Assunta e l’Angelo Gabriele mentre sui due lati, San Francesco d’Assisi e San Francesco di Paola. La cantoria, cosi come il pulpito, sono databili attorno alla metà del Seicento4, proponendo sia nell’impostazione compositiva sia in quella decorativa un modello tratto dalla cultura napoletana assai diffuso fin dai primi anni del Seicento dagli intagliatori attivi nell’area del Pollino. La cantoria di Mormanno conferma un più che probabile legame “moranese” desumibile nell’ornato tratto dal repertorio esornativo tardo manierista e confermato anche in quell’apparente arcaicità delle forme, schiacciate e articolate,riscontrabile nella produzione del Seicento degli artieri del legno della cosiddetta “scuola” moranese5. Alberto Pincitore

1 Leone G., Per la storia dell’intaglio ligneo in Calabria: appunti sulla cosiddetta «scuola di Morano» , in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, p. 58. 2 Leone G., Organi e cantorie, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 398. 3 Samà F., in Ceraudo G. (a cura di), Capolavori di arte organaria restaurati in Calabria, Catalogo mostra 1995, Soveria Mannelli 1995, pp. 23-26. 4 Leone G., Per la storia... cit., p. 58.

5 Leone G., La scula moranese, in Iannace R. (a cura di), L’intaglio ligneo in Calabria: dal XVII secolo al XVIII secolo, Catalogo mostra 1991, Cosenza 1991, pp. 24-25.

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Intagliatori meridionali

Alzata d’altare

Secolo XVII (1652, datato) Legno intagliato, dorato e parzialmente dipinto; (misure non rilevate) Morano Calabro, Chiesa di Santa Maria del Carmine Bibliografia: Leone G., in Morano 1995, p. 22; Leone G., in Cagliostro R.M. 2002, p. 352.

La mostra dell’altare della chiesa del Carmine di Morano rientra nella tipologia più comune di quelle incornicianti una sola pala1. Posta sulla parete di fondo dell’edificio, nel piccolo presbiterio provvisto di belle panche presbiterali e balaustrata lignea settecentesca, è oggi poggiata, attraverso alti plinti in muratura e stucco, su un altare marmoreo. È realizzata in legno intagliato, dorato e dipinto, secondo un modello strutturale e decorativo ancora di tradizione tardo rinascimentale, molto in voga nell’intaglio locale seicentesco2, che dà certamente più risalto all’impianto architettonico del manufatto, dispone l’ornamentazione in spazi stabiliti e giunge a un armonioso equilibrio. In basso, sulla predella, decorata da racemi e targa centrale, dorati su fondo oro, si impostano due proporzionati plinti, con la facciata dipinta a soggetto - Sacra famiglia nella bottega di san Giuseppe; Maddalena penitente -, su cui si innalzano le rispettive colonne, rudentate, fasciate e scanalate con capitelli corinzi. Le fasce sono realizzate con un intaglio fitomorfo che include al centro il busto di un putto dipinto al naturale, come lo sono tutte le altre simili figure presenti sul manufatto. Le colonne, invece, sono addossate a una parasta che sul profilo delle estremità laterali è accompagnata da una ornamentazione, composta da una voluta con protome e dado, sovrapposta per tre volte e leggermente variata nella disposizione della voluta e nella conformazione della protome che, nel settore centrale, espone dei seni. Sui capitelli si imposta la fascia del fregio, anch’essa decorata su fondo azzurro da racemi dorati e cornice di targa centrale, sempre dorata e con due piccole teste di putto, e sulla quale risaltano i due dadi o abaco

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dei capitelli, ornati ognuno da una testa d’angelo. Questi ultimi, chiusi in alto da cornice del fregio, la cui parte inferiore è impreziosita da rosette e dentelli, sorreggono il timpano spezzato, con gli elementi sempre decorati da dentelli, che, accompagnandola con un profilo interno flesso, accoglie la cimasa rettangolare. La cimasa, piccola ma proporzionata, accoglie la raffigurazione dell’Eterno Padre benedicente ed è anch’essa di modello architettonico, composta da colonne, che inquadrano il dipinto, volute con protome sul profilo esterno e fascia di trabeazione dentellata che sostiene una chiusura a timpano, con iscrizione «A. D. 1652», il cui profilo ornato di volute a ricciolo chiude idealmente il frontone di tutto l’altare. La pala è costituita da una grande tela con la Madonna del Carmine fra i Santi Francesco di Paola e Lucia, datata 1594 e attribuita a Pedro Torres, pittore fiammingo napoletanizzato3. L’alzata d’altare lignea della chiesa del Carmine di Morano è stata assegnata a maestranze locali che lavoravano sulla scorta di modelli napoletani e che trovano una documentazione pressoché contemporanea nella perduta incorniciatura del polittico di Bartolomeo Vivarini (1477) della chiesa di San Bernardino della stessa cittadina, iniziata nel 1602 e portata a termine nel 1667 da Giovan Pietro Cerchiaro, uno dei capostipiti finora più noti dell’intaglio moranese4. Sebbene il manufatto sia stato ritenuto proveniente dalla vicina chiesa della Maddalena e in seguito trasferita nell’attuale, per incorniciare il più antico dipinto datato 15945, è possibile che, al contrario, sia stato realizzato appositamente per l’esposizione del dipinto, con l’elemosina dei fedeli come recita un’altra iscrizione. In tal caso, la raffigurazione della Maddalena penitente sul plinto di destra è stata giustificata per la pertinenza della chiesa confraternale del Carmine a quella della Maddalena, mentre la Sacra famiglia nella bottega di san Giuseppe per la possibile, ma ancora non certa, iscrizione dei falegnami locali alla congrega6. I due dipinti sono stati considerati opere coeve all’esecuzione dell’alzata d’altare, di fattura locale non dispiacevole; la cimasa, invece, parrebbe un rifacimento più tardo che lascia intuire anche qualche manomissione successiva nello stesso elemento. Giorgio Leone

1 Leone G., in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 352. 2 Leone G., Per una storia dell’intaglio in Calabria: appunti sulla cosiddetta «Scuola di Morano», in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 55-56. 3 Leone de Castris P., Pittura del Cinquecento a Napoli: 1573-1606; l’ultima maniera, Napoli 1991, p. 94; Leone G., in Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte: mostra di opere d’arte restaurate dalle chiese della

Maddalena e del Carmine, Catalogo mostra 1995, (dir. scientifica: Leone G.), Morano pp. 19-23 scheda 1. 4 Leone G., Scultura in legno in Calabria: l’apporto locale nel Seicento e nel Settecento, in Leone de Castris P. (a cura di), Sculture in legno in Calabria: dal Medioevo al Settecento, Catalogo mostra 2008-2009, Napoli 2009, pp. 90-91. 5 Cosenza, Archivio Schede OA della Soprintendenza per il BSAE: 1800006211 (P. Rosazza)

6 Leone G., in Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte... cit., p. 22.

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Intagliatori e scultori meridionali

Alzata d’altare

Secolo XVII (terzo quarto; 1674?) Legno intagliato, dorato e parzialmente dipinto; (misure non rilevate) Celico, Chiesa di San Nicola Bibliografia: Valente G. 1973, II, p. 624; Valente G. 1979, p. 222; Altomare C., in Cagliostro R.M. 2002, p. 631; Leone G., in Cagliostro R.M. 2002, p. 364.

Nella Visita Apostolica del 1628, mons. Andrea Pierbenedetto annota che nella chiesa di San Nicola, parrocchiale del casale di Mennito oggi compreso nel comune di Celico, l’altare maggiore è “decentis, et communis formae” e che su esso il rettore del tempo, don Carlo Cesare Celso, aveva l’onere di celebrare quotidianamente per il popolo1. L’accuratezza del Visitatore di segnalare in genere i manufatti artistici più notevoli, come nella stessa chiesa fa per la statua del Titolare - descritta come “auro coloribusque distinctum” e tra l’altro indicata “in aedicula ad cornu epistolae”, posta nel suo altare collocato in prossimità della sacrestia2 -, fa supporre che egli non vedesse l’altare ora in situ, opera di certo notevole, e che quindi questo sia successivo alla sua ispezione. La chiesa di San Nicola, come è noto, tra il 1571 e il 1618 era stata interessata ad alcuni interventi di ammodernamento architettonico, ma è possibile che nel 1628 non si fosse ancora provveduto alla realizzazione dell’altare che attualmente si ammira, benché questo manifesti un modello stilistico ancor di tradizione tardo rinascimentale. L’altare, in legno intagliato, dorato e dipinto, è posto nel presbitero addossato alla parete. Realizzato appositamente per l’esposizione di tre sculture, di cui la centrale forse un tempo nascosta da una tela, si presenta a ordine unico con quattro colonne, delle quali le laterali tortili e le centrali fasciate, che suddividono la pala in tre distinte sezioni atte ad accogliere i simulacri. Le colonne poggiano su alti e sporgenti plinti e sostengono fantasiosi capitelli, intagliati con animali alati, su cui insiste un doppio dado sporgente sulla fascia del fregio e sulla cornice di questo, decorata inferiormente da mensole e rosette, è impostata la cimasa rettangolare, con luce interna ovale, raccordata all’ordine inferiore da una esile voluta. Di grande interesse il partito decorativo che intaglia tutta la superficie che, come in molti simili arredi ha un chiaro valore simbolico3: sui plinti e sulla predella, sono disposte una testa d’angelo con racemi sulle facciate laterali esterne dei plinti posti alle estremità, le immagini dei quattro Evangelisti sui prospetti dei plinti e di sei profeti, ognuno distinto dalla didascalia del nome, sulle facciate laterali interne degli stessi plinti, due storie bibliche e due angeli reggi medaglione sulla predella vera e propria, precisamente una scena allegorica della Cacciata dal paradiso terreste o del Potere conferito alla Chiesa a sinistra, gli angeli reggi medaglione al centro, il Sacrificio di Isacco a destra. Sulle colonne centrali, invece, si svolge una ornamentazione continua composta da quattro gruppi di tre putti sovrapposti, in diversi atteggiamenti e posture, mentre le colonne tortili sono accompagnate nel tortiglione da un serto fitomorfo continuo. La fascia del fregio espone in continuità numerosi putti in svariate movenze, alcuni adagiati su grandi fiori o in groppa a cavalcature e tale fregio è alternato ai quattro doppi dadi dei

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capitelli e di questi, quelli superiori, ostendono dei mascheroni. La cimasa è chiusa lateralmente da due erme-telamoni barbuti. Nelle tre sezioni sono ricavate tre nicchie: quelle laterali, realizzate di legno, sono più piccole di quella centrale, ricavata direttamente nella muratura, e lo spazio sovrastante che risulta nelle sezioni laterali è decorato da un medaglione sorretto da tre putti con trofei e sormontato da una corona. Nella nicchia centrale, più grande, è esposta la statua di San Nicola di Bari - molto ridipinta ma non è del tutto da escludere si tratti di quella vista da mons. Pierbenedetto nel 1628 -, in quelle laterali a sinistra la statua di San Pietro e a destra la statua di San Paolo, in legno dorato e dipinto; sulla base ottagonale di queste due sculture è realizzato un medaglione con il nome degli effigiati e segnata la data «1674». Nella cimasa è collocata una tela raffigurante l’Eterno Padre. Davanti alla sezione centrale della predella è collocato un tabernacolo sempre in legno intagliato e dorato, con figure e altri ornati, probabilmente coevo ma con una diversa sistemazione originaria. Il modello architettonico dell’altare rientra nella tipologia cosiddetta “a retablo”4, che discende direttamente dal polittico, ma ne allarga lo sviluppo su quasi tutta la parete in modo articolato nella struttura e decorato con pitture e sculture. Molto diffuso in Spagna e in Italia Meridionale in età rinascimentale e barocca5, in Calabria trova le prime attestazioni sopravvissute nella seconda metà del Cinquecento per essere poi documentato con maggiore frequenza e diversità di forme nel corso del Seicento. Nello specifico, l’altare della chiesa di San Nicola di Celico si associa al modello attestato nella chiesa di San Francesco d’Assisi di Tortora, della chiesa di San Pietro di Spezzano Sila e della chiesa del Suffragio di Mormanno. In particolare, con quello di Spezzano Sila offre molti spunti strutturali e decorativi comuni, diversificandosene però per una maggiore attenzione decorativa e uno sviluppo tecnico e formale più sostenuto. Il trattamento delle colonne centrali e del fregio, inoltre, appare del tutto singolare nel panorama dell’intaglio della Calabria settentrionale dell’epoca, potendo addirittura citare confronti, se non proprio fonti, con tutto quel repertorio esornativo di intagliatori e scalpellini tardo cinquecenteschi e seicenteschi ispirato alle incisioni derivate dalla manualistica vitruviana cinquecentesca, tra cui appunto le traduzioni di Cesare Cesariano (1521), che, come è noto, ebbero gran peso nella decorazione architettonica del Salento6. Un probabile riferimento a incisioni, di diverso genere, inoltre, parrebbe possibile indicarlo per le figure dei profeti intagliate sulle facciate laterali dei plinti. Degli altari calabresi chiamati a confronto di questo di Celico è datato solo quello di Mormanno, che reca l’iscrizione dell’anno 1674 che è quello appunto indicato in questa sede come dipinto sullo scannello delle statue delle edicole laterali del manufatto che si discute. La mancanza attuale di qualsiasi altra documentazione, non consente però di ritenere questa data come quella effettiva dell’intera opera, mentre potrebbe essere considerata come quella conclusiva o addirittura della sola realizzazione delle due sculture. È comunque interessante notare talune affinità esecutive e formali tra le statue e alcuni intagli figurati dell’altare, comunque molto simili nella doratura e nella pittura. Non è nemmeno impossibile, per tali dettagli, appellarsi per la realizzazione dell’opera all’attività delle botteghe locali, presumibilmente quelle roglianesi o comunque della valle del Savuto. Giorgio Leone

1 Cosenza, Archivio Storico Diocesano (da ora ASCs), Visita Apostolica, 1628, f.84v. 2 ASCs, Visita Apostolica 1628, f.85v. 3 Leone G., Per una storia dell’intaglio in Calabria: appunti sulla cosiddetta «Scuola di Morano», in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 53, 60 ss. 4 Leone G., in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 362. 5 Pasculli Ferrara M., Paolo De Matteis in Puglia e

l’evoluzione della grande decorazione barocca, in Cazzato V. - Fagiolo M. - Pasculli Ferrara M. (a cura di), Terra di Bari e Capitanata, Roma 1996, pp. 97 ss. 6 Manieri Elia M., Barocco leccese, Milano 1989, pp. 76 ss.

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Giovan Pietro Cerchiaro († Castrovillari, 1709)

San Giuliano Vescovo Legno scolpito e dipinto; cm 180 x 110 Secolo XVII (1684, datato) Castrovillari, Chiesa di San Giuliano

Bibliografia: Frangipane A. 1933, p. 161; Barillaro E. 1972, p. 146; Trombetti G. 1981, p. 16; Schettini A. 1985, p. 21; Trombetti G. 1989, pp. 75, 177; Leone G. 1991-1992, p. 63; Trombetti G. 1998, p. 5; Trombetti G. 1999, p. 54; Cagliostro R.M. 2002, p. 629; Di Dario Guida M.P. 2002, p. 192; Guido D. 2002, I, p. 537; Leone G. 2002b, p. 163; Leone G. 2009, p. 90; Trombetti G., in Altomonte 2008-2009, pp. 212-214, scheda n. 38; Leone G. 2011a, p. 328-330. La scultura è conservata nella chiesa eponima di Castrovillari, edificio già esistente nel Dodicesimo secolo, seppure nel corso dei secoli ha subito varie trasformazioni1. Intensa la devozione verso il santo, patrono della città, come prova anche l’iscrizione posta sulla base della statua: «Te Patrono Civitas Tuta». Il Santo è raffigurato in dimensioni monumentali, con abiti vescovili, mitria e pastorale; la mano destra è benedicente mentre la sinistra regge un libro chiuso con sopra la torre del castello, simbolo civico di Castrovillari. La maestosità alla scultura, oltre che per le misure, viene data dall’aspetto austero, cui contribuiscono in larga misura i panneggi segmentati con un evidente interesse verso i dettagli2 e la posizione del piviale aperto che ricade dalle spalle. Il manufatto è menzionato da Alfonso Frangipane3 e da Emilio Barillaro4che lo datano al Settecento. Nel 1981, Gianluigi Trombetti segnala la notizia di un’iscrizione su un lato della base che permette di risalire all’autore Giovan Pietro Cerchiaro e alla data 16845. Il resto della critica ha riportato, con un paio di eccezioni sulla data - Aldo Schettini: 16856, Maria Pia Di Dario Guida: 16877 - le medesime notizie sulla scultura. L’iscrizione, purtroppo, è quasi illeggibile. Giorgio Leone sostiene la presenza di suggestioni derivanti da sculture napoletane di ispirazione ispanoportoghese, anche se, nel contesto delle opere barocche si evidenziano analogie con lo scultore napoletano Vincenzo Ardia e le botteghe dei Perrone e Patalano in riferimento ai volumi e al motivo dell’estofado che, nel caso, si avvale di una elaborazione pittorica8.

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Giovan Pietro Cerchiaro è il capostipite di una famiglia di intagliatori originari di Morano, che ha successivamente proseguito l’attività a Castrovillari. L’altra sua opera finora documentata è una parte del fastigio ligneo, datato 1667, del polittico di Bartolomeo Vivarini nella chiesa di San Bernardino a Morano9. Gli studiosi hanno assegnato altri manufatti allo scultore, Biagio Cappelli gli attribuisce con sicurezza l’altare di Sant’Antonio sempre nella chiesa di San Bernardino10. Avvicinabili ai modi di Giovan Pietro, o comunque, alla bottega dei Cerchiaro sono la sedia presbiteriale della chiesa di Santa Maria del Castello di Castrovillari, datata 167611 e il coro ligneo in stile tardo rinascimentale della stessa chiesa12, che ricorda, ancora, la sedia presbiteriale di San Giuliano, simile nello stile al citato fastigio di San Bernardino13. Giorgio Leone aveva evidenziato nei cori, nelle sedie presbiteriali e negli altari della bottega, motivi dell’intaglio barocco locale in parte discendenti da esempi rinascimentali con la preferenza verso le protomi alate14. L’attività dei Cerchiaro continuerà anche nel Settecento e oltre soprattutto grazie all’attività di Eugenio (doc. 1712-1715) e Carlo (doc. 1733-1746). Riguardo le statue, sono passabili di assegnazione a Giovan Pietro, tra le altre, la Madonna della Candelora e l’Immacolata della chiesa di San Pietro e Paolo a Morano15, il San Nicola da Tolentino della chiesa di San Nicola16 e il San Bernardino nella chiesa eponima sempre a Morano, seppure con quest’ultima attribuzione non concorda Giorgio Leone17 che confrontandolo con il San Giuliano, ravvisa una concezione dei volumi più sapiente, motivo per il quale il San Bernardino potrebbe essere una fonte artistica per Giovan Pietro18. Ludovico Noia

1 Trombetti G., La chiesa di San Giuliano, in Castrovillari, Castrovillari 1981, pp. 11-13. 2 Leone G., Scultura in legno in Calabria: dal Medioevo al Settecento, in Leone de Castris P. (a cura di), Sculture in legno in Calabria, Catalogo mostra 20082009, Napoli 2009, p. 290; Idem, Scultori di confine, alcuni esempi di scultura in legno nell’area del Pollino (...e di altre zone della Calabria settentrionale e della Basilicata meridionale tra il Cinquecento e il Settecento), in Tomei A. - Curzi G. (a cura di), Abruzzo: un laboratorio di ricerca, Atti 2009, [“Studi medievali e moderni: arte, letteratura, storia”, a. XV, 2011], Napoli 2011, p. 329. 3 Frangipane A. (a cura di), Inventario degli oggetti d’arte in Italia: II; Calabria, Roma 1933, p. 161. 4 Barillaro E., Arte archeologia cultura e stampa in Calabria, Cosenza 1968, p. 146. 5 Trombetti G., La chiesa... cit., p. 16. 6 Schettini A., La chiesa di San Giuliano a Castrovillari, in “Calabria Letteraria: rivista mensile di cultura e arte”, a. XLIII, 1985, p. 21. 7 Di Dario Guida M.P., Produzioni e importazione negli svolgimenti della pittura e della scultura, in Cagliostro

R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 192. 8 Leone G., Scultori di Confine... cit., pp. 329-330. 9 Cappelli B., I conventi francescani in Morano Calabro, Castrovillari, 1926 p. 11; Frangipane A. (a cura di), Inventario... cit., p. 197; Trombetti G., Castrovillari nei suoi momenti d’arte, Castrovillari 1989, p. 177; Leone G., Per la storia dell’intaglio in Calabria: appunti sulla cosiddetta «scuola di Morano», in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, p. 62. 10 Cappelli B., I conventi... cit., p 11; Idem, Recensione a Inventario degli oggetti d’arte in Calabria, vol. II, Calabria, di A. Frangipane: note marginali ed Aggiunta, in “Archivio Storico per la Calabria e la Lucania”, a. IV, 1934, p. 161 11 Trombetti G., Castrovillari... cit., pp. 20, 52, 177. 12 Trombetti G., Castrovillari... cit., pp. 20, 53, 177. 13 Trombetti G., Castrovillari... cit., pp. 77, 177. 14 Leone G., Per la storia... cit., p. 63. 15 Trombetti G., Castrovillari... cit., p. 177; Leone G., Per la storia... cit., p. 63; Mele M., in Fili-

ce R.A. (a cura di), Memorie riscoperte: mostra di opere d’arte restaurate dalla chiesa della Maddalena e del Carmine, Catalogo mostra 1995, (dir. scientifica: Leone G.), Morano, pp. 95-96 scheda 3; Tozzi S., La collegiata dei Santi Pietro e Paolo a Morano Calabro, Firenze 1996, pp. 107-109; Leone G., Scultori di Confine... cit., pp. 328-329. 16 Trombetti G., in Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte: la collegiata di San Nicola, Catalogo mostra 1999, (coord. Bosco S.)], Roma 1999, p.54; Leone G., in Tollo R. (a cura di), San Nicola da Tolentino nell’arte: corpus iconografico; Dal Concilio di Trento alla fine del Seicento, II, Tolentino 2006, p. 329 scheda 193. 17 Leone G., Scultura... cit., p. 90-91. 18 Trombetti G., in Leone de Castris P. (a cura di), Sculture in legno in Calabria: dal Medioevo al Settecento, Catalogo mostra 2008-2009, Napoli 2009, p. 214 scheda 38.

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Intagliatori meridionali

Soffitto

Legno intagliato e dipinto Secolo XVII (seconda metà) Corigliano Calabro, Chiesa di San Francesco di Paola Bibliografia: Amato G. 1884, p. 98; Patari G. 1891, p. 56; Grillo F., 1965, p. 42; Gravina Canadè T. 1990, p. 34; Cumino E. – Viteritti E. 1992, p. 42; Leone G. 1993, p. 129; Gravina Canadè T. 1995, p. 158; Leone G. 1996, pp. 42-45; Leone G. 2002b, p. 526; Leone G. 2008, p. 15.

La struttura del soffitto si compone di due moduli: romboidale e rettangolare, disposti in un rapporto di alternanza in cui il primo, posto lungo il perimetro, fa da cornice al secondo. Il cassettone vero e proprio è costituito da tavole ondulate con una cornice composta da una greca di colore nero e al centro una pigna. Il bordo esterno è circondato da un’ornamentazione geometrica creata da quattro rettangoli posti ai lati, e quattro croci di raccordo con una rosa a rilievo al centro. Il tutto crea, pur nella semplicità compositiva, un complesso gioco di movimento. Il soffitto si raccorda alle pareti attraverso una fascia in stucco modanata e decorata a rilievo. Giorgio Leone1 suggerisce come la colorazione del soffitto sia da considerare un intervento di epoca successiva, che nasconde le originali tonalità del legno quasi sicuramente “a vista”, probabilmente da riferire a quegli interventi di rinnovo eseguiti nel corso dell’Ottocento di cui ci informa Giuseppe Patari2. La più antica testimonianza fino ad oggi rinvenuta sul soffitto è stata rintracciata nella relazione firmata dal commissario Regio Giuseppe Lucini3, datata 1719, in cui sono contenute interessanti notizie circa la descrizione della città, con particolare attenzione verso i soffitti lignei a tavole lisce o a lacunari in molte chiese di Corigliano, tra cui quello riferito alla chiesa dei padri Minimi, con larga probabilità identificabile nell’attuale soffitto. L’assenza di altri dati documentari certi, ha portato a stabilire la cronologia del soffitto di San Francesco di Paola a Corigliano alla seconda metà del Seicento, per i caratteri prettamente stilistici che rivelano elementi di stampo rinascimentale4. A confermare tale

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datazione sono i forti legami suggeriti da Leone5 con il soffitto della chiesa di Sant’Omobono a Cosenza, databile attorno al 1660, e con quello della chiesa di San Francesco di Paola a Bisignano6 datato 1719. Entrambi sono eseguiti con la medesima struttura composta da profondi cassettoni con modulo rettangolare e dall’inserimento di parti romboidali, arricchiti da effetti d’ombra e da elementi decorativi come rosette o pigne7. Più di recente lo studioso cita questo soffitto di Corigliano Calabro tra quelli seicentesche che, attraverso similitudini, anche nel materiale, con il soffitto della chiesa di San Giorgio di Zumpano, possono essere indicati come ipoteticamente dipendenti dal modello diffuso dal soffitto cinquecentesco del Duomo di Cosenza oppure amplificazioni della sua diffusione8. Cecilia Perri

1 Leone G., Le maestranze del legno a Corigliano: VI; Il soffitto della chiesa di S. Francesco di Paola, in “Il Serratore”, a. IX, 1996, pp. 42-45. La colorazione attuale rimase nascosta fino agli anni settanta del Novecento da una pesante ridipintura di colore bianco, rimossa nel corso del restauro effettuato nei primi anni ottanta dello scorso secolo. 2 Patari G., Cenno storico su Corigliano Calabro, Corigliano Calabro 1891, p. 56 riporta come «la tettoja fu rinnovata bellamente a spese e divozione del Cavaliere Signor Gennaro de Baroni Compagna; come anche è stato rinnovato il pavimento a riggiole colorate». 3 Leone G., Le maestranze del legno... cit., pp. 4245. Giorgio Leone porta all’attenzione degli studi

storico-artistici cittadini la relazione del Lucini (cfr. Napoli Archivio di Stato, Archivio Saluzzi di Corigliano. Apprezzo. (1700- 1720), vol. perg. 20, in particolare f. 7v), sottolineandone come l’assenza di una descrizione dettagliata del soffitto a cassettone di San Francesco di Paola, definito genericamente a “tempiato” possa ricondursi alla mancanza di rigore scientifico del relatore, il cui scopo era di carattere informativo e probabilmente si soffermò solo su quelle opere considerate dai caratteri più insoliti. 4 Solo nel richiamo alla tradizione classicheggiante può leggersi il confronto proposto da Giuseppe Amato (1884) tra il soffitto di Corigliano e quello della basilica di San Paolo a Roma che pre-

senta tutt’altra ornamentazione (cfr. Leone G., Le maestranze... cit., p. 44). 5 Leone G., Le maestranze... cit., pp. 42-45. 6 Falcone L., La chiesa di San Francesco di Paola in Bisignano: guida storica e artistica, Bisignano 1992. 7 Leone G., Soffitti a cassettoni lignei, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, pp. 524526. 8 Leone G., La chiesa di San Giorgio Martire di Zumpano, in Leone G. (a cura di), Il Tesoro della Chiesa di San Giorgio Martire, Cosenza 2008, p. 15.

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Intagliatori roglianesi

Mobile di Sacrestia Secolo XVII (seconda metà) Legno intagliato e dipinto; (misure non rilevate) Spezzano della Sila, Chiesa di San Francesco di Paola Bibliografia: Frangipane A. 1933, p. 230; Valente G. 1973, II, p. 1054; Via P. 1994, p. 39; Altomare C., in Cagliostro 2002, p. 658.

Nella sacrestia della chiesa del convento di San Francesco di Paola a Spezzano della Sila, precisamente nella seconda parte dell’unico grande vano che la compone e coperto da soffitto a cassettonato1, è conservato un mobilio ligneo di servizio; il mobile, destinato a raccogliere e conservare i paramenti e le suppellettili ecclesiastiche, corre a ferro di cavallo lungo tre pareti, ed è della tipologia detta “a chasublier-chapier”2, ovvero di cassone provvisto di alzata a stipi. L’opera, infatti, si presenta composta in due registri: nella parte inferiore, un cassettone formato da nove sportelli a battenti3, decorati con una cornice esterna ad ovuli e riquadrati all’interno da doppie cornici lisce e specchiatura liscia; il bordo dell’alzata è decorato da una cornice aggettante che presenta nell’architrave un motivo ad anelli, mentre nella fascia continua un motivo ad ovuli virgolati; la parte superiore del mobile, o la stipatura vera e propria, si presenta formata da tredici sportelli a battenti a specchiatura liscia4, ripartiti da colonne a figura umana poggianti su mensole decorate con alternati elementi fitomorfi, teste d’angelo, frutta, girali e volute a S. La fascia di chiusura della parte superiore è ornata da un sottile abaco intagliato a ovuli, mentre il fregio mostra una decorazione di foglie, fiori e girali, che si interrompe, in corrispondenza delle colonne, presentando dei graziosi capitelli aggettanti decorati da fiori e foglie d’acanto; la trabeazione termina con una cornice a dentelli e con una ad ovuli. Il registro iconografico dei bassorilievi, in un composito sviluppo illustrativo pieno di figurazioni allegoriche, rivela un eclettico riferimento iconologico, leggendolo da destra a sinistra fino alla parte centrale, per poi ripetersi, a specchio, nel lato opposto. La prima figura nell’angolo si mostra di profilo, nell’atto di portare alla bocca un succoso frutto, e trattenendo nelle mani il grappolo da cui ha tratto il frutto; la seconda immagine, frontale, rappresenta un uomo nell’atto di mangiare un fico, e con la mano destra regge un grosso frutto; la terza figura mostra un uomo con braccia conserte; la quarta colonnina raffigura un uomo che indica silenzio e in una mano regge un pesce; il quinto bassorilievo ha le mani incrociate sul petto; mentre nell’angolo, la sesta colonna, presenta una figura con in mano una corona del Rosario; ancora, nella parte frontale del mobile, una figura tiene in mano un libro; e a seguire, una coppia di colonne raffiguranti due uomini in preghiera chiudono la parte centrale del paratoio, arricchita da un dipinto di piccole dimensioni raffigurante Cristo deriso, e al centro lo stipo è sormontato da una cima-

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sa contenente lo stemma dell’Ordine con il motto: «CHA/ RI/ TAS». L’opera, di fattura raffinata, mostra nella decorazione i caratteri distintivi delle botteghe roglianesi, prevalendo negli ornamenti le numerosi cornici, la presenza di un intaglio opulento a girali, volute e foglie d’acanto, e anche i grandi fioroni5; caratteristiche riscontrabili almeno in altre due opere cedue presenti nella chiesa6, il coro dell’abside e il coro della sacrestia, entrambi estremamente vicini, per tipologia e fattura, al coro ligneo della chiesa di San Francesco di Paola a Cosenza, opera realizzata nel 1679 dal roglianese Domenico Costanzo7. La datazione delle opere spezzanesi, in assenza di riferimenti documentari, andrebbe collocata nella seconda metà del Seicento, mettendo in relazione l’esecuzione e la committenza di questa fase decorativa, con la ristrutturazione della chiesa e il completo rifacimento di molta parte degli interni, conclusasi con la riapertura al culto il 27 giugno del 17178. Antonella Salatino

1 La sacrestia è ornata da due soffitti lignei a cassettonato, il cui schema molto semplice, formato da una leggera listatura ortogonale adagiata sul piano di fondo, che restituisce un fitto reticolo quadrangolare, dipinto; il soffitto del primo vano più antico è datato 1627, alla seconda metà del sec. XVII è databile il soffitto del secondo vano (cfr. Leone G., Soffitti a cassettoni e soffitti lignei, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 526). 2 Duret D., Mobilier, vases, objets et vêtements liturgiques: étude historique, s.v. Meuble de sacristie, Parigi 1932, p. 227. 3 Gli sportelli originariamente dovevano essere undici, ma solo nove ne restano oggi, l’intera opera infatti, appare mancante nella parte terminale sinistra, dove sono stati tagliati e strappati due sportelli del cassone e due specchiature dell’alzata. 4 Gli sportelli originariamente dovevano essere

quindici, ma oggi ne restano tredici. 5 Iannace R., La scuola roglianese, in Iannace R. (a cura di), L’intaglio ligneo in Calabria: dal XVII secolo al XVIII secolo, Catalogo mostra 1991, Cosenza 1991, pp. 9-10. 6 Il patrimonio di arredi lignei nella chiesa del convento di San Francesco di Paola a Spezzano della Sila è consistente e ben organizzato, e si inserisce in un progetto di decorazione, realizzato a più riprese da parte dei Minimi tra il secolo XVII e il secolo XVIII; la decisione di attuare questo programma si può ricondurre a l’importante posizione economica raggiunta dal convento dagli inizi del Seicento e mantenuta sostanzialmente inalterata fino alla soppressione napoleonica, inoltre il convento aveva importanti possedimenti nei territori silani, da cui riceveva, oltre ad introiti economici, notevoli forniture di pregiato legname (cfr.

Via P., Il patrimonio dei frati minimi di San Francesco di Paola di Spezzano Grande, in “Quaderni silani”, 1821, 1988, pp. 166-186). Gli arredi lignei constano di tre soffitti a cassettoni decorati, tra cui quello, nella prima stanza della sacrestia, datato 1627; il coro della chiesa e il coro di sacrestia, la bussola d’ingesso, la cantoria, il pulpito e i confessionali. 7 Leone G., Cori lignei e panche corali, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 402; per quanto riguarda la famiglia dei Costanzo si veda Iannace R., La scuola roglianese... cit, pp. 9-12. 8 Valente G., Dizionario dei Luoghi della Calabria, I-II, Chiaravalle Centrale, 1973, II, p. 1052.

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Scultore roglianese

Madonna col bambino, detta “Madonna delle Grazie” Secolo XVII (ultimo decennio) – Secolo XVIII (primo decennio) Legno intagliato, dipinto e dorato; cm 170 ca. Donnici Inferiore, Chiesa di Santa Maria delle Grazie Bibliografia: Salfi C. 2012, pp. 116-121.

La collocazione originaria della statua nella chiesa di Santa Maria delle Grazie di Donnici Inferiore era sull’altare maggiore, come risulta da una visita pastorale del 26 agosto 18281. Oggi, invece, è custodita in un apposito armadio nella sacrestia. L’interessante scultura, in legno scolpito e dipinto in discreto stato di conservazione, raffigura la Madonna col Bambino secondo la canonica iconografia della Madonna delle Grazie, ma è alterata da una pesante ridipintura, apposta in tempi remoti, che nasconde l’originaria cromia, la quale, visibile attraverso alcune cadute di colore, lascia ipotizzare una finitura a estofado. La Madonna, con il viso improntato a una serena compostezza, è raffigurata nell’atto di mostrare il seno sinistro scoperto e il Bambino seduto sullo stesso braccio; in piedi, poggia su una nuvola su cui sono scolpite tre teste d’angelo. Il gruppo scultoreo è tutt’uno con un basamento quadrangolare di semplice fattura, di profilo svasato e dai bordi decorati sui perimetri delle due basi. La Vergine indossa un vestito rosso con la cintola intrecciata in vita ed è avvolta da un voluminoso mantello azzurro decorato con stelle dorate, trattenuto sotto il braccio sinistro, a mo’ di nodo, dal quale i lembi ricadono in aggraziate e plastiche pieghe. Come già accennato, questi non sono i colori originali che si scorgono invece attraverso alcune mancanze di colore e che mostrano dei motivi a ramages dorati. Proprio questi piccoli lacerti della cromia originale hanno suggerito di collocare la datazione tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, indirizzando l’analisi verso un esame comparato con la simile scultura raffigurante la Madonna della Luce della chiesa eponima di San Pietro a Magisano2. Quest’ultima scultu-

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ra, già nota agli studi per l’assegnazione verosimile alle botteghe roglianesi e per la presenza di un’iscrizione con la datazione 17113, si mostra infatti molto vicina, per stile e tecniche esecutiva a questa di Donnici che qui si scheda. Non solo, ma nonostante il titolo diverso e alcune varianti iconografiche, la Madonna delle Grazie di Donnici Inferiore si può veramente affermare sia una replica alquanto fedele della Madonna della Luce di Magisano, meno sfarzosa nei panneggi, ma con lo stesso viso e la stessa espressione, stessi i capelli distribuiti in ciocche che terminano con lunghi riccioli ricadenti sulle spalle. In entrambe le sculture, inoltre, è molto simile la resa del velo che avvolge la testa della Vergine e poi, drappeggiato sul collo, si conclude con un lembo svolazzante dietro una spalla. Ancora pressoché identica la somiglianza tra l’angioletto posto dietro la Madonna di Magisano, a destra di chi guarda, e il Bambino sorretto dalla Madonna di Donnici, così come affini appaiono le teste e la fattura degli angeli ai piedi di entrambe le statue. Per queste indubbie corrispondenze è stata avanzata e ribadita la proposta che entrambe le sculture appartengano a una produzione di riferimento roglianese. L’ipotesi stilistica, del resto, potrebbe essere suffragata da considerazioni di carattere geografico, giacché appare del tutto possibile supporre che la Madonna di Donnici sia stata richiesta a qualche intagliatore-scultore della vicinissima Rogliano, da sempre considerata dalle comunità a essa circostanti un importante polo di riferimento, soprattutto di manufatti o arredi lignei di grande pregio e notorietà e, che la stessa Rogliano, si pone in collegamento con San Pietro a Magisano per gli arcinoti rapporti di collaborazione tra le maestranze roglianesi e l’entroterra catanzarese4. Si può supporre, infine, che l’artefice della Madonna di Donnici Inferiore sia la stesso di quello della Madonna di Magisano e che la scultura di Donnici, per motivi stilistici, appare eseguita addirittura in un momento anteriore al 1711, anno di realizzazione di quella di Magisano. Catia Salfi

1 Archivio Storico Diocesano di Cosenza, Visita Pastorale 1828, f.18r. 2 Salfi C., Nuove scoperte e possibili confronti: la Madonna delle Grazie di Donnici Inferiore e la Madonna della Luce di San Pietro a Magisano, in “Calabria Letteraria: rivista mensile di cultura e arte”, a. LX, 2012, pp. 116-121.

3 Leone G., Scultura in legno in Calabria: dal Medioevo al Settecento, in Leone de Castris P. (a cura di), Sculture in legno in Calabria, Catalogo mostra 2008-2009, Napoli 2009, p. 90; Salfi C., Nuove scoperte... cit., pp. 116-121. 4 Iannace R., La scuola roglianese , in Iannace R. (a cura di), L’intaglio ligneo in Calabria: dal XVII secolo al

XVIII secolo, Catalogo mostra 1991, Cosenza 1991, pp. 9-12.

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Intagliatori roglianesi

Cappella di Santa Caterina d’Alessandria Secolo XVII (ultimo ventennio) – Secolo XVIII (prima metà) Legno intagliato, dorato e dipinto; (misure non rilevate) Cosenza, Chiesa di San Francesco d’Assisi Bibliografia: Frangipane A. 1933, p. 121; Minicucci C. 1933, p. 106; Barillaro E. 1972, p. 113; Valente G. 1973, II, p. 336; Santagata G. 1974, p. 336; Iannace, in Cosenza 1981, p. 10; Iannace R., in Di Dario Guida M.P. 1983, p. 302; Palmieri G. 1999, p. 160; Leone G. 2000, p. 159; Cagliostro R. M. 2002, p. 428; Leone G. 2002c, pp. 127-128; Leone G., in Cagliostro R.M. 2002, pp. 416, 421, Salerno F., in Cagliostro R.M. 2002, p. 619; TCI 2005, p. 430; Leone G., in Roma 2008, p. 77.

La cappella di Santa Caterina d’Alessandria è sita nella chiesa conventuale di San Francesco d’Assisi a Cosenza, la più antica tra le fondazioni degli Ordini mendicanti della città, e venne eretta nel corso del Cinquecento, come ricavato da uno strumento di «donazione remuneratoria» del 1599 pubblicato da Cesare Minicucci1. Essa apparteneva alla famiglia Migliaresi, la quale nel 1639 la cedette all’Arciconfraternita di Santa Caterina d’Alessandria2. All’oratorio si accede dalla navata destra attraverso apposito portale, proprio nei pressi del presbiterio e fiancheggiante il coro dei frati. Gisberto Martelli3, sulla base di questa dislocazione architettonica e della presenza di una crociera proprio nella copertura della navata proprio in adiacenza del portale, ha avanzato l’ipotesi che la cappella sia stata costruita contemporaneamente alla chiesa, che un tempo aveva l’orientamento ruotato di 45°, costituendo in origine lo sfondo della navata laterale, e giunge a tale conclusione anche attraverso notizie storiche attendibili, riportate in alcune fonti bibliografiche, le quali riferiscono che un tempo la confraternita aveva una cappella ed un oratorio sotto il succorpo della cappella della famiglia Migliaresi4. La cappella, con pianta rettangolare e dimensioni ridotte, è un vero e proprio scrigno di capolavori, poiché racchiude preziosi intagli lignei, tele di particolare pregio artistico – un raro ciclo pittorico di Guglielmo Borremans firmato e datato 17055 - e decorazioni parietali in stucco eleganti e raffinati. Il soffitto è un fastoso cassettonato, con cornici lisce e lievemente modanate, scandito lungo tutta la sua lunghezza da fasce orizzontali e verticali che compongono lacunari di egual misura, tranne quelli centrali – che in origine ospitavano dipinti su tela6 sono leggermente più larghi rispetto ai laterali; ogni fascia, quindi, ha rettangoli e quadrati e tali figure geometriche sono disposte in maniera alternata. All’interno delle formelle su fondo azzurro sono realizzati intagli di girali fogliacei e decorazioni a candelabra dorate, e tra i vuoti e gli steli sono inseriti teste d’angelo intagliati e dipinti al naturale; quest’ultime ricorrono anche all’incrocio delle finte travi, ma hanno forme più stilizzate. L’insieme è chiuso da una cornice larga e piatta che corre lungo il perimetro superiore della cappella, entro la quale vi è una teoria di decorazioni a girali vegetali dorate. Le pareti laterali sono suddivise in due larghi registri sovrapposti divisi da una fascia di raccordo con fregi a girale sulla quale sono applicati dei bracci reggi torcia ed è delimitata in alto da una cornice aggettante modanata e con dentelli. Il registro superiore, direttamente al di sotto del soffitto ligneo, ha grandi cornici dorate, disposte

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l’una accanto all’altra fino a ricoprire quasi tutta la superficie muraria, caratterizzate da ridondanti motivi fogliacei con inserti di protomi, e racchiudono in modo alternato dipinti e finestre; le cornici dei dipinti sono quadrangolari, mentre quelle delle finestre rettangolari con frontone curvo di coronamento. Il registro inferiore, invece, è ripartito sua volta in due livelli, il primo, quello in alto, da elementi architettonici e vegetali in stucco entro cui sono ospitati dipinti su tela alternati a tondi sempre in stucco; il secondo, in basso, dagli stalli confraternali, da cui fuoriesce dal pulpito, i quali hanno postergali e parapetti, trattati in legno a vista, scanditi da lesene e specchiature decorate da motivi a candelabra dorate. La zona dell’altare, divisa dall’alula dall’arco santo, ha sulla volta un altro dipinto di Borremans circondato da riquadrature non dissimili a quelle del registro inferiore delle pareti ma più ampie, e sulla parete di fondo una straordinaria alzata d’altare a trittico, molto fastosa, tutta in legno intagliato e dorato e composta da grandi foglie e fioroni; essa è sovrastante un altare in stucco e la parte più alta del trittico, che incornicia una tela tardo seicentesca attribuita alla bottega del D’Amato7 mentre quelle laterali delle statuette di sante martiri, è fiancheggiata da due finestre incorniciate dallo stesso intaglio di quelle del registro superiore. Tutti questi lavori, dal gusto chiaramente tardo barocco, un tempo reso senz’altro più sontuoso dalle dorature che ricoprivano gli elementi plastici modanati delle pareti, come sembra suggerire la doratura rimasta sui pilastri dell’arco santo, potrebbero essere stati realizzati tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, quando l’oratorio fu oggetto di ammodernamenti, ma al momento non esistono documentazioni archivistiche dirette. Nonostante tale lacuna, l’arco di tempo della loro esecuzione potrebbe essere collocato dopo il 1688 e prima del 1716; due date importanti per la storia della cappella, ricavate da documenti d’archivio8; il 1688 è l’anno in cui furono depositate le costituzioni della Confraternita9 ed il 1716, invece, è relativo all’incarico di alcuni lavori nella cappella affidati ad Antonio Curcio10, intagliatore di Belmonte Calabro. In realtà, le differenze formali che è possibile riscontare tra le opere, ad esempio confrontando le decorazioni del soffitto cassettonato e quelle delle cornici, farebbero ipotizzare, come già sostenuto da Giorgio Leone, l’intervento di diversi intagliatori e in diversi anni e quindi al Curcio dovrebbe assegnarsi l’esecuzione solo di una parte delle opere11. Nonostante ciò è evidente che «il carattere stilistico delle decorazioni, in generale si può collegare alle rinomate maestranze dell’hinterland cosentino, distintamene di Rogliano, sede di una longeva attività nel settore»12. Partendo, quindi dal sopra definito intervallo temporale, una plausibile cronologia degli arredi della cappella potrebbe essere la seguente: il soffitto costituirebbe la parte più antica dei lavori, plausibilmente la più vicina al 1688; le cornici delle finestre e delle tele risulterebbero vicini alla datazione del ciclo pittorico eseguito nel 1705 dal Borremans; l’alzata a trittico, gli stalli e gli stucchi un po’ più avanti, nella prima metà del Settecento13. Marina Ameduri

1 Minicucci C., Cosenza sacra: notizie storiche sulle chiese e confraternite, sui conventi e monasteri della città di Cosenza : cronaca dei vescovi ed arcivescovi della chiesa cosentina, Cosenza 1933, p. 105. 2 Minicucci C., Cosenza sacra... cit., p. 105. 3 Martelli G., Chiese monastiche calabresi del sec. XV, in “Palladio”, 1-2, 1956, p. 52. 4 Minicucci C., Cosenza... cit., p. 104; Paolino F., Note sulla chiesa e il convento di S. Francesco d’Assisi a Cosenza, in “Quaderni del Dipartimento patrimonio architettonico e urbanistico”, I, 1991, pp. 48-58. 5 Leone G., “Grandi tesori d’arte”: percorsi critici per una storia dell’arte nella città di Cosenza, in Bilotto L. (a cura di), Cosenza nel secondo millennio, Atti 1996, Cosenza 2000, pp. 159-160, 173; Idem, in Fiam-

minghi e altri maestri: gli artisti stranieri nel patrimonio del Fondo edifici di culto del Ministero dell’interno, Catalogo Mostra 2008, Roma 2008, pp. 76-79. 6 Le tele originarie sono disperse, e al posto di quella centrale, dopo la soppressione del monastero delle Clarisse, venne inserita una tela da lì proveniente raffigurante il miracolo di Santa Chiara d’Assisi. 7 Leone G., “Grandi tesori d’arte”... cit., p. 145. 8 Leone G., in Fiamminghi... cit., p. 77. 9 Minicucci C., Cosenza...cit., p. 104. 10 Leone G., Tra dire e fare... un percorso didattico per la storia della città attraverso le opere d’arte delle chiese di San Francesco d’Assisi e delle Vergini di Cosenza, in Raccontiamoci la città: Cosenza tra storia, miti, leggende,

Cosenza 2002, p. 125 cfr. Mussari B. - Scamardì G., Notizie sull’attività di architetti artisti e costruttori in Calabria Citra nei secoli XVI XVIII tratte dai protocolli notarili, in “Quaderni del Dipartimento patrimonio architettonico e urbanistico”, a. VII, 1997, p. 44. 11 Leone G., Tra dire e fare... cit., pp. 127-128; Idem, Fiamminghi... cit., p. 77. 12 Leone G., “Grandi tesori d’arte”... cit., pp. 110112; Idem, L’intaglio barocco in Calabria: annotazioni a margine di un problema di storiografia artistica, Cagliostro R.M. (a cura di), in Calabria), Roma 2002, p. 164. 13 Leone G., in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 421; Idem, Fiamminghi... cit., p. 77.

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Intagliatori roglianesi

Altare maggiore

Secolo XVII (fine) – Secolo XVIII (inizi) Legno intagliato, dorato e dipinto; (misure non rilevate) Rogliano, Chiesa di San Giorgio Bibliografia: Frangipane A. 1933, p. 220; Barillaro E. 1972, p. 207; Valente G. 1973, p. 825; Jannace R. 1981, p. 318 ; F. Perri 1987, p. 90; Mari N., in Cosenza 1991, p. 13; Leone G., in Cagliostro R.M. 2002, pp. 525-526; Altomare C., in Cagliostro 2002 p. 649; TCI 2005, p. 412.

L’altare maggiore della chiesa di San Giorgio a Rogliano è un mirabile esempio di una particolare tipologia di altari, realizzati in Calabria sul finire del Seicento, e vicini ad un linguaggio già tardo barocco, la quale coesisterà accanto ad un altro modello ancora legata a schemi rinascimentali e tardo manieristi, il cui repertorio figurativo persisterà in alcuni ambiti fino ai primi anni del Settecento1. La mensa è a blocco ed ha un originale paliotto rettangolare, fatto di ritagli di carta incisa con decorazioni varie, e un doppio ordini di gradini ornati con volute e girali di foglie, interrotti al centro dal tabernacolo; questo è sormontato da un fastigio di coronamento, costituito da corpose volute fogliacee e testine alate in forte aggetto che incorniciano un sole, simbolo eucaristico dell’ostia consacrata, e un tempo serviva per le esposizioni liturgiche se Sacramento, mentre oggi è usto per posizionare una croce d’altare. L’alzata ha prospetto architettonico: presenta un impianto scenografico costituito da un alto podio aggettante su tre differenti piani, ornato da specchiature sempre in legno intagliato; il tutto è reso ancora più imponente per la presenza di quattro colonne, due delle quali, le centrali, sono in posizione avanzata rispetto a quelle laterali esterne. Queste coppie di colonne poste su entrambi i lati delimitano una campitura centrale con cornice anch’essa intagliata, nella quale si ripetono gli analoghi elementi decorativi sopra descritti, ed entro la quale oggi è collocato un dipinto su tela2. Ai lati estremi dell’alzata vi sono due fregi riccamente ornati da una teoria di foglie, angeli e figure a grottesche. Sulle colonne poggianti su plinti quadrangolari, con il fusto interamente

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ricoperto da fitti racemi e grottesche e i capitelli compositi, poggia la trabeazione, definita in alto da una cornice a dentelli, sulla quale a sua volta si imposta il frontone con timpano spezzato, dentro il quale è inserita la cimasa vera e propria; su entrambi i lati della cornice spiovente interrotta poggiano due angeli reggicartiglio realizzati a rilievo. La cimasa si caratterizza per un ricco lavoro a traforo, fatto di foglie e fiori penduli che, oltre ad incorniciare al centro un dipinto ovale, avvolgono tutti gli spazi sovrastando il timpano stesso. Questo altare manufatto ha dimensioni monumentali, ma nonostante ciò, «gli elementi decorativi conferiscono all’insieme un’area di leggerezza, fatta di barbagli di luci ed ombre fitte, senza perderne in maestosità»3. L’esecuzione dell’opera, collocata al centro del presbiterio, scenograficamente fiancheggiata da scanni in legno intagliato e dipinto, è da porre cronologicamente tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento ed è assegnabile ad intagliatori di bottega roglianese. Esso, nell’impianto architettonico, appare molto simile all’altare maggiore della chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza4, presentando l’alzata ugualmente mossa e la parte di raccordo con la mensa similmente composta, ma il partito decorativo più contenuto. L’altare cosentino ha poi la cimasa rettilinea. L’opulenta decorazione della cimasa dell’altare roglianese, realizzata a pieno intaglio come tipico dell’attività degli intagliatori di Rogliano, appare alquanto dissimile rispetto all’apparato decorativo presente nel resto dell’altare e ciò ha fatto supporre che si tratti «di un aggiunto realizzato in un secondo momento o di un completamento»5. Questa ipotesi, peraltro condivisile, potrebbe essere in parte confortata dal fatto che i dati documentari in possesso propongono e accertano l’attività dell’intagliatore Nicolò Altomare nella chiesa di San Giorgio di Rogliano nel primo quarto del Settecento6. Poiché la datazione è certa solo per l’altare dedicato a San Francesco di Paola, su cui si ricorda sono apposte la firma dell’autore e l’anno 17247, il campo delle ipotesi è alquanto ampio: può essere che veramente l’intagliatore in quell’anno sostituì solo la cimasa a un altare precedentemente da lui realizzato, perché di Altomare il lavoro effettivamente sembra; può essere, invece, che realizzò effettivamente l’altare con una cimasa diversa che poi sostituì più avanti ne tempo; può essere, infine, che lo realizzasse nelle forme attuali in un momento di transizione dalla cimasa rettilinea, attestata fra gli intagliatori roglianesi fin e oltre i primi del Settecento, alla cimasa floreale. La struttura compositiva e le decorazioni dell’altare di San Giorgio, inoltre, compaiono con evidenti somiglianze, anche se utilizzati in maniera diversificata, in molti altri altari disseminati in vari centri della Calabria Citra, basti citare tra tutti l’altare della chiesa di San Pietro di Mangone, e finanche della Presila catanzarese, come in quello dell’Oratorio del SS. Salvatore di Taverna8, e in particolare, le decorazioni trovano molte affinità con il repertorio ornamentale degli scalpellini della Valle del Crati e della Valle del Savuto9. Marina Ameduri

1 G. Leone, Per la storia dell’intaglio in Calabria: appunti sulla cosiddetta “Scuola di Morano, in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, p. 56; Idem, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 352. 2 N. Mari, in Iannace R. (a cura di), L’intaglio ligneo in Calabria: dal XVII secolo al XVIII secolo, Catalogo mostra 1991, Cosenza 1991, p. 13. 3 G. Leone, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit. p. 354. 4 G. Leone, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 352. 5 G. Leone, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 354.

6 B. Mussari - G. Scamardì, Notizie sull’attività di architetti artisti e costuttori in Calabria Citra nei secoli XVI - XVIII tratte dai protocolli notarili, in “Quaderni del Dipartimento patrimonio architettonico e urbanistico”, a. VII, 1997, p. 44 (cfr. Iannace R., L’intaglio su legno nel Cosentino, in I beni culturali e le chiese di Calabria: atti del Convegno ecclesiale regionale promosso dalla Conferenza episcopale calabra; Reggio Calabria-Gerace, 24-26 ottobre 1980, Atti 1980, Reggio Calabria 1981, p. 318). 7 Barillaro E., Calabria: guida artistica e archeologica, Cosenza 1972, p. 207; C. Altomare, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 649; G. Leone, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 361.

8 G. Leone, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., pp. 356-358. 9 G. Leone, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 35

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Intagliatori roglianesi

Altare maggiore

Secolo XVII (1692), mensa; Secolo XVIII (primo quarto), corpo e gradini Legno intagliato, dipinto e dorato; cm 435 x 184 x 105 Luzzi, Chiesa di San Michele Arcangelo Bibliografia: Pepe G. 1858, p. 37; Frangipane A. 1933, p. 179; Coppa A. 1969, pp. 21-22; Barillaro E. 1972, p. 178; Santagata G. 1981, p. 45; La Marca A. 1989, p. 105; Gioja M. M. 1990, p. 6; Leone G. 1991-1992, pp. 55-56; Leone G. 1993, pp.129-130; Bilotto L. 1996, p. 348; D’Alessandro R. 1996, p.11; Altomare M. P. 1998, pp. 23; Bilotto L. 2001, p. 205; Leone G. 2002, p. 361; Panarello M. 2002, in Cagliostro R.M., pp. 381-382; Panarello M. 2002, p.504; Algieri F. – Arnieri E. De Bonis A. - De Leonardis G. 2007, pp. 45, 46, 47; Pingitore T. 2008, p.75; Miceli C. 2009a, p. 63; Miceli C. 2009b, p. 268.

La chiesa di San Michele Arcangelo di Luzzi è considerata come la prima rettorale del territorio urbano in cui è ubicata, la cui fondazione risale con certezza al periodo medioevale1. Al suo interno sono custoditi manufatti artistici di pregevole fattura tra i quali primeggia l’altare maggiore. L’altare è un’opera lignea d’indubitabile valore artistico, composto da due corpi ben distinti sia a livello stilistico sia cronologico. La parte più antica del corpo della mensa, databile, con qualche cautela al 16922, mostra un intaglio di carattere ancora tardo rinascimentale, con racemi e fiori su fondo verde, teste d’angelo, nastri inanellati e colonnine scanalate e capitellate. Su di esso è stato inserito un paliotto dipinto su tela con le immagini della Madonna col Bambino, san Nicola e san Michele Arcangelo, firmato da Felice Fiore (1868-1958), e ascrivibile ai primi decenni del Novecento. La mensa è completata lateralmente da pannelli lignei dipinti, un tempo doveva essere sovrastata da una pala, di cui è sopravvissuta la cornice, perciò è possibile che l’altare fosse a parete. A questo altare, infine, dovrebbe riferirsi la data 1692 che accompagna il nome di Domenico Curti che, sul pannello del lato sinistro, si firma a lettere capitali come colui che indorò il manufatto: Iscrizioni: «DMINICVS CVRTI AVRAVIT A.D. 1b92». Il corpo dell’altare è realizzato con uno stile diversamente aggiornato alle produzioni marmoree tardo barocche che si svilupparono dalla fine del Seicento a Napoli e dei quali numerosi esempi sono presenti in Calabria3. Sui due ordini dei gradini del dossale sono dipinti dei sontuosi ornamenti floreali e fitomorfi su fondo verde: i fiori con tonalità rosse e gialle molto intense, mentre le volute con tinte chiare e luminose. Tra i tralci, a completamento del riferimento iconografico religioso, sono delineate delle farfalle nell’atto di posarsi sui fiori. Lo stesso decoro è presente sui pilastrini laterali che incorniciano la mensa e il paliotto, mentre al centro dei gradini è innestato il tabernacolo sormontato da una struttura a tempietto sul modello di un “baldacchino-ciborio” 4 di forma ottagonale, con cupola a bulbo sormontata da croce apicale e decori di teste d’angelo; in quattro nicchie

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laterali trovavano posto le microsculture degli Evangelisti, di cui ne sono sopravvissute solo due. I capialtare, infine, sono realizzati da ampie volute laterali che accolgono, in basso, una testa d’angelo e in alto due piccoli angeli frapposti tra le stesse volute. Non si hanno a disposizione documenti archivistici relativi alla realizzazione dell’opera, ma senz’altro risalta l’annotazione di un manoscritto del 18585 che dichiara l’altare maggiore di San Michele Arcangelo di Luzzi tra i migliori della cittadina per i suoi magnifici intagli abbelliti con «marmorei a vernice alla cinese». All’interno dell’altare, però, attraverso uno sportellino posto dietro l’angelo reggi voluta di destra, è stata rinvenuta, oltre a disegni tracciati direttamente sul legno, un’iscrizione: «IB9B» - (1696) -, che potrebbe riferirsi anche alla datazione del corpo oppure appartenere a qualche pezzo recuperato da altro manufatto. Tutto questo in quanto l’opera parrebbe più direttamente ancorarsi al primo settecento per l’influsso vaccariano e sanfeliciano che emana, trovando una plausibile datazione attorno al 1729, anno in cui terminò la contesa con la chiesa di Santa Maria per il titolo di Matrice del comune e che potrebbe ben costituire la circostanza della sua realizzazione. Per l’esecuzione di questa parte dell’altare appare certo verosimile l’attribuzione avanzata in favore di botteghe roglianesi attive tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento6, precisata in direzione di Niccolò Altomare7 e della sua bottega con la produzione del quale, in effetti, la fattura dell’altare di San Michele Arcangelo di Luzzi offre molte vicinanze, come ad esempio le affini teste d’angelo dell’altare di San Francesco di Paola della chiesa di San Giorgio di Rogliano che l’intagliatore realizzò nel 17248. Alberto Pincitore

1 Sulla fondazione dell’edificio sacro gli studiosi hanno avanzato diverse congetture; Marchese fa risalire l’edificio al IX secolo, cfr. Marchese G., Tebe Lucana, Val di Crati e l’odierna Luzzi, [1957], Cosenza 1992, pp. 388-389 nota 28. Coppa invece fissa l’anno d’ inizio dei lavori al 980, cfr. A. Coppa, Cenni storici sulla chiesa parrocchiale-rettorale di S. Michele Arcangelo (S. Angelo) in Luzzi, Cosenza 1969, p. 6. Barillaro scrive di fondazione duecentesca, cfr. Barillaro E., Calabria: guida artistica e archeologica, Cosenza 1972, p. 178. Altomare propone la metà del XII secolo, contemporaneamente, al periodo in cui si costituiva il nucleo abitativo del territorio urbano, cfr. Altomare M. P., La chiesa di Sant’Angelo e Luzzi in una platea secentesca, in “Quaderni dell’Associazione culturale Insieme per Luzzi”, a. III, 1998, pp. 15-16. 2 Rimanendo nel campo delle supposizioni è necessario osservare che la particolare risoluzione del numero nove della data permette di formulare un’ulteriore congettura, questo infatti potrebbe

verosimilmente decifrarsi in un due modi, se così fosse la data inscritta risulterebbe 1622. Conseguentemente a tale nuova ipotesi apparirebbe verosimile che questo altare possa essere proprio quello descritto nella Visita pastorale di Andrea Pierbenedetto del 1630, pubblicata da Rosario D’Alessandro, che cita «un tabernacolo di legno indorato artisticamente fabbricato, posto sopra l’altare maggiore», sempre che si intenda la doratura estesa a tutto il manufatto e non solo al tabernacolo. Cfr. D’Alessandro R., Visita Apostolica a Luzzi nel 1630. Da una visita nella Diocesi di Bisignano del Cardinale Mons. Andrea Pierbenedetto, Bisignano 1996, p. 11. 3 Leone G., Per la storia dell’intaglio ligneo in Calabria: appunti sulla cosiddetta «scuola di Morano», in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 55-56 nota 4; Leone G., Per una storia dell’arte sacra nella Valle di Crati, in a cura di D’Amore R. F. – Falcone L. – Pugliese M. (a cura di), Bisignano e la Val di Crati tra passato e futuro. Atti 1991, Soveria Mannelli 1993, pp. 129-130;

Leone G., L’Altare ligneo, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 361. 4 Panarello M., Metamorfosi del Ciborio e del Tabernacolo, in n Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., pp. 381-382. 5 Pepe G., Cenni sulla nostra patria dÈ Luzzi: copia anastatica di un manoscritto inedito del 1858, a cura di B. Durante, Luzzi 1994, p. 37. 6 Leone G., L’Altare ligneo... cit., p. 361. 7 Panarello M., In sublime altare tuum: osservazioni sull’evoluzione dell’altare marmoreo in Calabria tra Seicento ed Ottocento, in Leone G., Pange Lingua: l’Eucaristia in Calabria; Storia Devozione Arte, Catanzaro 2002, p. 504. 8 Leone G., L’Altare ligneo... cit., p. 361.

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Nicolò Altomare (Rogliano, secolo XVII, fine – secolo XVIII, primi decenni)

Altare

Secolo XVIII (prima metà; 1731?) Legno intagliato; (misure non rilevate) Rogliano, Museo d’Arte Sacra “San Giuseppe” Provenineza: Chiesa di Santa Maria del Carmine, detta “dei Cappuccini” Bibliografia: Minicucci C. 1954, pp. 19, 22; Leone G. 1986, II, p. 252; Perri F. 1987, pp. 21, 84; Deni C. - Lico A. 1994, p. 129; Iannace R. 2001, pp. 30, 42; Leone G. 2002a, p. 619.

L’altare dedicato a san Pasquale Baylon della chiesa dei Cappuccini di Rogliano, oggi esposto nel locale Museo d’Arte Sacra “San Giuseppe”, per il fatto di essere stato eseguito da Nicolò Altomare, uno dei più rinomati intagliatori cittadini del Settecento, è un esempio importante sia nei riguardi dello sviluppo di quest’arte fra le maestranze roglianesi sia rispetto all’avvenuta trasmissione di talune forme di tale industria fra ambiti generalmente considerati indipendenti1, nel caso fra gli intagliatori cappuccini e quelli roglianesi o viceversa. Il manufatto, realizzato interamente in legno a vista, in ossequio all’estetica francescana cappuccina, si compone dell’altare vero e proprio, provvisto di mensa, paliotto, gradini, tabernacolo, pala e cimasa, cui fanno da ali due sezioni che accolgono quattro nicchie, due per lato e sovrapposte. Le sezioni sono suddivise da quattro colonne, con fusto liscio e capitello corinzio-composito, poggiate sui gradini dell’altare quelle centrali e su alti plinti quelle laterali. Sull’orlo della seconda colonna di sinistra corre l’iscrizione, incisa nel legno e molto deteriorata: «(M. Ni)co(la) Altomre Fe-», con molta probabilità si concludeva sul piedritto della terza colonna, oggi ricostruito: «A. D. 1731», come riportato da Cesare Minicucci2. Le quattro colonne in alto sono raccordate dal fregio della trabeazione che, concepito con metope lisce e triglifi, accoglie gli abachi e i dadi delle colonne e armonizza la diversa altezza delle sezioni laterali a quella centrale con un elegante profilo curvo. Sopra la sezione centrale, quella dell’altare vero e proprio, dove è collocata la tela raffigurante i Santi Felice da Cantalice e Pasquale Baylon in ado-

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razione del Santissimo Sacramento3, si imposta la cimasa, fatta da volute geometriche diversamente composte, con inserti di volute vegetali e dentelature sui profili, attorno alla tela centrale ovale con l’Emblema francescano. Al di sopra della cornice del fregio della trabeazione, in corrispondenza dei quattro capitelli, svettano altrettanti dadi sormontati da pigne, mentre al centro della cimasa sta una composizione di volute che forse costituiva l’appoggio di una croce apicale o di un altro elemento. Nella storiografia specifica degli intagliatori roglianesi, questo altare, in base all’iscrizione prima trascritta, è sempre stato assegnato a Nicolò Altomare, il quale nello stesso anno, stando a un’altra sua firma segnalata sull’altare maggiore della stessa chiesa4, oggi non visibile per essere stato questo manufatto smontato e ancora non restaurato dunque difficile da verificare se non si tratti di una svista, dové eseguire con l’aiuto della sua bottega gran parte degli arredi interni dell’edificio, compreso anche l’altare di sant’Antonio5. L’altare di san Pasquale, in ogni modo, rientra nella tipologia dell’altare reliquiario6, in quanto molto probabilmente nelle nicchie laterali, appositamente lasciate in bianco, doveva esporre dei busti reliquiari di altri Sani Cappuccini. Esso, come si è già detto, è un’opera importante per chiarire la trasmissione delle forme dagli intagliatori locali a quelli dei frati cappuccini, ma nel contempo mostra lo sviluppo della cultura artistica di Nicolò Altomare che, in questa realizzazione, fors’anche per specifiche richieste della committenza, si mostra aggiornato su soluzioni tardo barocche molto diverse da quelle a lui generalmente più frequenti, basate soprattutto sull’utilizzo sontuoso di un repertorio esornativo vegetale. Nel caso, infatti, testimonia l’adesione a differenti modelli, di impianto più essenzialmente architettonico, che potrebbe lasciare intuire collegamenti sia con le soluzioni napoletane, sull’impronta di Ferdinando Sanfelice (1675-1748) e di Domenico Antonio Vaccaro (1678-1745), sia con quelle del barocco salentino e siciliano. Giorgio Leone

1 Leone G., Per la storia dell’intaglio ligneo in Calabria: appunti sulla cosiddetta “scuola di Morano”, in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 66-67 e nota 11; Idem, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 165; Idem, Il tabernacolo della chiesa dei Santi Fabiano e Sebastiano a Fiamignano: un episodio di intaglio cappuccino abruzzese nell’attuale provincia di Rieti e una postilla per una ricerca nel Lazio, in Nel Lazio: guida al Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico”, a. I, 2011, pp. 36-43.

2 Minicucci C., Ricordi storici della città di Rogliano: vita ed opere di fra Gaspare Ricciulli Dal Fosso, arcivescovo di Reggio Calabria; Conferenza tenuta il 12 novembre 1953 nel Palazzo Municipale di Rogliano, Firenze 1954, pp. 19, 22. 3 Leone G. (a cura di), Pange lingua: l’Eucaristia in Calabria; Storia Devozione Arte, Catanzaro 2002, p. 619 cat. 70 4 Frangipane A. (a cura di), Inventario degli oggetti d’arte d’Italia: II; Calabria, Roma 1933, p. 220.

5 Iannace R., Museo d’Arte Sacra “S. Giuseppe”, Paola 2001, p. 43. 6 Panarello M., in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., pp. 366-369

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Antonio Mollo (Cosenza, noto nel quarto decennio del XVIII secolo)

San Michele Arcangelo Secolo XVIII (1738, datato) Legno intagliato e dipinto; cm 180

San Fili, Chiesa della Santissima Annunziata Bibliografia: Di Dario Guida M.P. 2002, p. 192; Leone G. 2009a, pp. 94-95; Leone G. 2010, pp. 96-97.

La scultura, raffigurante San Michele Arcangelo, datata e firmata sul bordo della base: «ANTONIUS MOLLUS/ CONSENTINUS SCULPTOR/ A. D. N. 1738», è custodita nella chiesa matrice di San Fili; rappresenta un giovane in armatura che incede, in atteggiamento trionfante e composto, nell’atto di schiacciare il demonio. L’opera unisce le due iconografie tradizionali dell’Arcangelo, presentandolo come guerriero che impugna la spada per sconfiggere il demone e, attraverso l’attributo della bilancia, come pesatore delle anime prima del giudizio. La statua mostra una figura agile e ariosa, dal movimento leggero e sicuro, manifestando una finezza creativa e una connotazione stilistica dell’autore che è stata ottimamente definita come “filo-solimenesca”1, presentando caratteristiche e riferimenti manifesti alla cultura statuaria napoletana degli inizi del Settecento, fondendo lo stile di Nicola Fumo2 alla maniera più ammorbidita di Giacomo Colombo3; d’altronde è noto come, soprattutto nel corso di questo secolo, vennero a formarsi in tutta l’Italia meridionale, molte botteghe di scultura, in cui spesso venivano replicati o imitati, a volte con eccellenti risultati, modelli dei più noti maestri napoletani. Una bottega locale dovette essere quella del cosentino Antonio Mollo, la cui personalità artistica è ancora in via di definizione e, in assenza di fonti documentarie che lo riguardano, attenti studi hanno contribuito a restituire all’autore anche il bel busto raffigurante San Clemente conservato nella chiesa di Santa Barbara a Taverna4 (Catanzaro), firmato e datato anch’esso: «ANTONIUS MOLLUS CAELAVIT ANNO DOMINI MILL.mo SEPTICEN.mo TRIGESIMO QUINTO»,

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opera che, tra l’altro, testimonia i radicati legami tra la committenza tavernese e il mercato artistico facente capo all’area di Cosenza5, comprendente le botteghe afferenti alla scuola roglianese. Al catalogo di Antonio Mollo oltre alle due sculture fin qui ricordate è stata inoltre avvicinata, su basi stilistiche, anche l’Immacolata della Matrice di San Fili6, la cui caratterizzazione formale risente più apertamente dei modi addolciti di Giacomo Colombo. La qualità di queste sculture, pur rappresentando la produzione di una bottega locale, permette comunque di ipotizzare una diretta conoscenza dei coevi svolgimenti culturali napoletani, e conseguentemente presentare il cosentino Antonio Mollo come un artista informato e aggiornato sulle novità della capitale e, di conseguenza, ben allineato con i gusti della più esigente committenza locale. Antonella Salatino

1 Di Dario Guida M.P, Produzione e importazione negli svolgimenti della pittura e della scultura, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 192; Leone G., Scultura in legno in Calabria. l’apporto locale nel Seicento e nel Settecento, in Leone de Castris P. (a cura di), Sculture in legno in Calabria. Dal Medioevo al Settecento, Catalogo mostra 2009-2010, Napoli 2009, p. 111 nota 162. 2 Proprio su Nicola Fumo e in particolare sulla raffigurazione di San Michele in una parte della produzione dello scultore verte il contributo di Casciaro R., Seriazione e variazioni: sculture di Nicola Fumo, tra Napoli, la Puglia e la Spagna, in Gaeta L. (a cura di), La scultura meridionale in età moderna nei suoi

rapporti con la circolazione mediterranea, I-II, Galatina 2007, II, pp. 245-263. 3 Leone G., Scultura... cit., p. 95; Leone G., Per la cultura artistica di Taverna: qualche osservazione sull’intaglio e la scultura in legno, in Valentino G. (a cura di), L’arte nella città natale di Mattia Preti, Taverna 2010, p. 96. 4 Leone G., Scultura... cit., p. 95 nota 165, Leone G., Per la cultura... cit., pp. 96-97; Lo studioso aveva attribuito il San Clemente di Taverna ad Antonio Mollo inizialmente solo su basi stilistiche, affiancandolo all’Immacolata sempre della chiesa Matrice di San Fili (cfr. successiva nota 6), successivamente il ritrovamento sul busto della firma ha attestato la

paternità dell’opera allo scultore cosentino. 5 Leone G., Per la cultura... cit., p. 96 nota 100; Valentino G., Esempi di scultura sacra a Taverna dalla seconda metà del secolo XV alla bottega d’arte lignea di Sebastiano Mustari, in Valentino G. (a cura di), Sebastiano Mustari: l’ultima bottega d’arte di Taverna, Catalogo mostra 2006, Taverna 2007, p. 12. 6 Leone G., Per la cultura... cit., p. 95; Leone G., Per la cultura... cit., p. 96.

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Intagliatori roglianesi (Giovan Battista Altomare?, noto nella prima metà del XVIII secolo)

Altare maggiore

Secolo XVIII (attorno alla metà; 1740?) Legno intagliato, dorato e dipinto; (misure non rilevate) San Giovanni in Fiore, Abbazia Bibliografia: Frangipane A. 1933, p. 230; Barillaro E. 1972, p. 216; Valente G. 1973, p. 838; Iaquinta A.M. - Iaquinta V. 1977, p. 6; Bitonti T. 1988, p. 150; Madia B. 1990, p. 13; Basile S. – Bitonti T. 1999, p. 31; Leone G., in Cagliostro, 2002, p. 165; Lopetrone P. 2002, pp. 56-59; Greco G. 2005, p. 226.

L’altare maggiore della chiesa abbaziale di San Giovanni in Fiore è collocato in fondo alla navata, in corrispondenza dell’arco absidale, ed è stato realizzato in sostituzione di un più antico altare marmoreo. Questa pregevole opera in legno, intagliato e dorato, è caratterizzata da un suggestivo alternarsi di rientranze e di sporgenze, il blocco dell’altare poggia su un alto basamento modanato ed è collegato alle pareti con due portelle, anch’esse lignee, che permettono l’acceso al coro retrostante; ha il tabernacolo aggettante su due piani, definito ai lati da colonnine tortili e scandito frontalmente da due lesene che delimitano una nicchia centrale sormontata da una conchiglia, in realtà uno sportello concavo. L’andamento sinuoso dell’insieme è accentuato dalle cornici modanate mistilinee poste al di sopra di ogni gradino, la cui alzata è decorata da quadrati alternati a rettangolari; ciascun riquadro aumenta di dimensione man mano che si sale e, al centro, ha volute a ricciolo e motivi acantiformi addossati, quest’ultimi sono conclusi in alto da testine alate in forte aggetto dipinte al naturale. Le estremità dell’altare, infine, sono ornate da corpose volute a ricciolo, foglie d’acanto ed una testina alata sormontata dalla mensola capoaltare a voluta. L’alzata è costituita da una grande cornice impostata su un piedistallo, modanato e svasato verso l’alto, che incornicia la nicchia aggettante ospitante all’interno di una custodia di vetri, la statua di San Giovanni Battista, patrono della cittadina; e presenta una sfarzosa decorazione a pieno intaglio, con foglie d’acanto addossate o af-

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frontate terminanti a ricciolo, mostrandosi con la forma di un grande reliquiario. La realizzazione di questo imponente altare dovrebbe appartenere ai lavori di ammodernamento effettuati all’interno dell’Abbazia florense nella seconda metà del Settecento, con la decorazione delle pareti con stucchi, cornici e modanature, come ricordava un’epigrafe fatta realizzare sull’arco trionfale dall’abate claustrale Gioacchino Carelli, riportata interamente da Giacinto D’Ippolito nel 19281. In realtà, come è stato riportato da alcuni studiosi che se ne sono interessati, sull’opera, precisamente su uno degli archetti laterali, era visibile la data 1740 e la firma di Giovan Battista Altomare da Rogliano2. L’iscrizione oggi non è più visibile, cosicché altri ne hanno posto in dubbio l’effettiva esistenza, evidenziando tra l’altro, che la datazione riportata nell’iscrizione non coinciderebbe con le fonti documentarie relative alla data dello smontaggio dell’altare antico marmoreo3. L’approfondimento stilistico condotto sull’altare di San Giovanni in Fiore, in ogni modo, sembrerebbe avvalorare almeno l’attribuzione a Giovan Battista Altomare, figlio di quel Nicolò che fu uno dei più periti intagliatori roglianesi attivi tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento. A quest’ultimo, inoltre, Giorgio Leone tende ad assegnare, rintracciandovi un unico corpo stilistico con tutta la sua produzione4, una serie di simili manufatti lignei, in particolare l’altare dell’oratorio dell’Assunta di Rogliano e il grandioso fastigio della Madonna della Grazia della chiesa dell’Annunziata di Carpanzano, nei quali inoltre ipotizza anche l’attività di Giovan Battista5, ai quali veramente il manufatto che si esamina corrisponde per il partito decorativo, per la composizione e per la struttura. Lo studioso suppone che tali singolari creazioni della bottega degli Altomare, padre e figlio, siano frutto dell’apertura degli intagliatori roglianesi all’attività decorativa di Niccolò Ricciulli, altra importante personalità di Rogliano operosa nel campo dell’architettura e della decorazione lapidea, e alla conoscenza di disegni o modelli del barocco romano di matrice berniniana diffusi anche in ambienti napoletani6. La forte connotazione stilistica del manufatto, la pubblicazione della firma di Giovan Battista Altomare, come presente sulla cornice di una delle portelle dell’altare, in un anno in cui l’attività di questo intagliatore non era ancora molto nota alla storiografia calabrese, farebbero ritenere credibile il riferimento a questi. Resta tuttavia da valutare l’anno effettivo della sua realizzazione e della posa in opera nella chiesa dell’Abbazia che, si avverte, potrebbero essere non del tutto coincidenti. Marina Ameduri

1 D’Ippolito G., L’abate Gioacchino da Fiore: l’archicenobio florense e le nuove ricerche storiche sulla vita del grande calabrese: saggio storico, Cosenza 1928, p. 71 (cfr. Iaquinta A.M. – Iaquinta V., “Archicenobio Florence” di S. Giovanni in Fiore: ricerca storico-artistica; IV parte: Interno del tempio, in “Brutium”, a. IX, 1977, p. 6; Lopetrone P., La chiesa abbaziale Florense di San Giovanni in Fiore, San Giovanni in Fiore 2002, p. 41). 2 Bitonti T., Elementi barocchi e maestranze roglianesi nell’abbazia florense di San Giovanni in Fiore, in “Florensia: bollettino del centro internazionale di studi

gioachimiti”, a. II, 1988, p. 150. 3 Lopetrone P., La chiesa... cit., p. 56 (cfr.: Meluso S., La Sila e la sua gente: San Giovanni in Fiore; Comunità emblematica del Mezzogiorno d’Italia, San Giovanni in Fiore 1997, pp. 21, 95). 4 Leone G., L’intaglio barocco in Calabria: annotazioni a margine di un problema di storiografia artistica, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 165; Leone G., L’Altare ligneo, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 360. 5 Leone G., in Ceraudo G. (a cura di), La Cappel-

la della Madonna della Grazia di Carpanzano, Soveria Mannelli 2000, pp. 102 (cfr.: Leone G., L’intaglio barocco... cit., p. 165 ). 6 Leone G., in Ceraudo G. (a cura di), La Cappella... cit., p. 102.

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Intagliatori roglianesi (bottega di Nicolò Altomare?)

Cornice dell’icona della Madonna della Grazia Secolo XVIII (prima metà) Legno intagliato, dorato e parzialmente dipinto; (misure non rilevate) Carpanzano, Chiesa dell’Annunziata Bibliografia: Frangipane A., 1933, p. 157; Barillaro E. 1972; p. 4; Bilotto L. 1996, p. 389; Borretti M. – Leone G. 1996, p. 126; Ceraudo G. 1998, p. 44; Leone G. in Ceraudo 2000, pp. 102-103 scheda 28; Leone G. in Cagliostro R.M. 2002, p. 360; Salerno F., in Cagliostro R.M. 2002, p. 627.

Il monumentale fastigio del “Quadro Divino” di Maria SS. della Grazia, immagine devozionale cinque-seicentesca molto venerata in Carpanzano1, è interamente lavorato a intaglio a giorno. Un ordinato viluppo di foglie e di fiori che si dispongono con ordine e con fantasia intorno alla sacra effigie formandone la cornice, come un grandioso medaglione. Lo schema compositivo dell’intaglio è dato da una sorta di sostegno modulare di volute quasi nascenti una dall’altra e tangenti sul dorso quelle poste in basso e in alto cosicché creano una sorta di simmetria che, ribadita dalle figure angeliche e dai fiori, genera una raffinata percezione della distribuzione delle foglie. L’immagine, dipinta su tela e misurante 75 x 55 cm, è inserita con propria cornice nella cornice a cassetta del fastigio che è composta da una semplice doppia modanatura ed è raccordata ai racemi vegetali da quattro teste di angelo: una in basso e tre in altro, ai lati delle quali due angeli a tutto tondo reggono un grande corona. Il modello di siffatta incorniciatura, particolarmente complesso, ricalca quello delle cosiddette “glorie” di immagine sacra e, per la Calabria settentrionale, si ritrova adottato per molte di tali effigi2, tra cui si ricordano espressamente, almeno per le affinità compositive e decorative della cornice, risolte a volte con minore o maggiore laboriosità esornativa, il quadro della Madonna del Rosario della chiesa eponima di Rende, quello della Madonna del Carmine delle chiese omonime di Belmonte Calabro e di Carolei, della Madonna dell‘Arco di Mangone, con la cornice originalmente inserita in un altare, e, infine, l’alzata dell’altare

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ligneo dell’Abbazia di San Giovanni in Fiore. Tutte queste opere sono ascrivibili a maestranze roglianesi che Giorgio Leone intende ricondurre all’influenza di Niccolò Ricciulli e alla bottega di Nicolò Altomare, continuata dal figlio Giovan Battista3. La cornice di Carpanzano è stata ritenuta eseguita nel Settecento da intagliatori probabilmente roglianesi da Alfonso Frangipane4. Questo giudizio è stato ripetuto successivamente e solo Giorgio Leone, che ci si è soffermato più lungamente e ne ha diretto il restauro negli scorsi anni novanta, propone una realizzazione nella prima metà del Settecento, in ordine appunto alle coordinate documentarie di Nicolò e Giovan Battista Altomare5. Lo studioso, inoltre, ritiene che l’autore di questa monumentale opera, cosi come si è detto per le altre consimili, si muova sulle aperture culturali di Niccolò Ricciulli, personalità tra le più eccellenti del panorama artistico calabrese del primo Settecento6, cui presumibilmente si deve addurre la conoscenza di disegni o di modelli romani di matrice berniniana, tra l‘altro non estanei all’ambiente napoletano che questo maestro sicuramente frequentò7. Non è da escludere, sempre secondo gli studi di Leone, che l’acquisizione di tali modelli romani possa essere giunta alle maestranze roglianesi, nello specifico a Nicolò Altomare, dalle frequentazioni lavorative presso le chiese appartenenti all’Ordine dei Francescani Cappuccini8. Francesca Carvelli

1 Ceraudo G., in Ceraudo G. (a cura di), La Cappella della Madonna della Grazia di Carpanzano, Soveria Mannelli 2000, pp. 100-101. 2 Leone G., in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 360. 3 Leone G., L’intaglio barocco in Calabria: annotazioni a margine di un problema di storiografia artistica del Mezzogiorno, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., p. 165. 4 Frangipane A. (a cura di), Inventario degli oggetti

d’arte d’Italia: II; Calabria, Roma 1933, p. 157. 5 Leone G., in Ceraudo G. (a cura di), La Cappella... cit., 102-103 (cfr. Leone G., L’intaglio barocco... cit., p. 165; Idem, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., 360). 6 Panarello M., I protagonisti della decorazione: mastri marmorari e professori di stucco, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria... cit., Roma 2002., pp. 77-80. 7 G. Leone, in Ceraudo G. (a cura di), La Cappella... cit., pp. 102-103.

8 Leone G., Per la storia dell’intaglio ligneo in Calabria: appunti sulla cosiddetta «scuola di Morano», in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, p. 67 nota 11.

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Eugenio Cerchiaro (Castrovillari, documentato nel 1712 e nel 1715)

Madonna con Bambino, detta “Madonna della Purificazione” alias “Madonna della Candelora” Secolo XVIII (prima metà) Legno scolpito e dipinto; cm 140 x 160 Morano Calabro, Chiesa di San Nicola di Bari Bibliografia: Frangipane A. 1933, p. 199; Barillaro E. 1972, p. 188; Ritondale F. 1985, p. 96; Trombetti G. 1999, pp. 54-55; Leone G. 2009, p. 91.

La statua raffigurante la Madonna della Purificazione, conosciuta anche come Madonna della Candelora, è esposta nella chiesa di San Nicola di Bari di Morano Calabro, edificio fondato intorno al 1450 sopra un succorpo, oggi dedicato a Santa Maria delle Grazie, risalente probabilmente all’alto medioevo1. In realtà, l’iconografia del simulacro, con il seno scoperto, suggerisce una identificazione proprio con la Madonna delle Grazie e ciò ha fatto ipotizzare a Gianluigi Trombetti che questo sia il titolo precipuo della scultura2. La scultura, datata al Seicento da Alfonso Frangipane3e da Emilio Barillaro4, attribuita da quest’ultimo ad artiere provinciale, è ricondotta da Trombetti ai modi stilistici di Eugenio Cerchiaro con datazione al primo ventennio del Settecento5, attribuzione con cui concorda Giorgio Leone6. Lo scultore fa parte di una vera e propria ‘dinastia’ familiare di intagliatori originaria di Morano Calabro ma successivamente trasferitasi a Castrovillari e comunque operanti nella zona di confine tra Calabria e Basilicata7. Il capostipite è Giovan Pietro Cerchiaro, documentato dalle opere dal 1667 al 1684, morto nel 1709; Eugenio, presumibilmente suo figlio, è attestato nel 1712 e nel 1715; Carlo risulta attivo nel 1733-1734 a Saracena ed è citato come scultore e architetto nel catasto onciario di Castrovillari del 17468. Altri nomi che si riscontrano sono quelli di Aloisio9, Antonio, Nicola, Michelangelo e Nicola Gentile figlio di Antonia Cerchiaro10 di cui, però, al momento non si hanno notizie di loro opere. Le opere di questi artigiani del legno presen-

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tano stilemi tipici del barocco, con il naturale influsso napoletano mitigato dalla evidente caratterizzazione locale. L’attribuzione della scultura ad Eugenio Cerchiaro regge il confronto con le altre assegnazioni allo scultore, rese possibili grazie all’identificazione su base documentaria di un suo ‘rifacimento’ della statua dell’Angelo Custode della chiesa di Santa Maria del Gamio a Saracena11 che ha permesso di individuare un buon numero di sculture sotto questo nome, tra le quali la Madonna del Carmine della chiesa eponima di Morano, il San Pietro della chiesa di San Giuliano di Castrovillari, la Santa Margherita d’Antiochia della chiesa eponima di Amendolara e altre ancora in territorio lucano12. Rispetto a Giovan Pietro, a cui ormai gli studiosi attribuiscono la Madonna della Candelora della chiesa di San Pietro di Morano, le sculture di Eugenio, seppur con una simile cifra formale, si presentano più leggere dal punto di vista stilistico e meno imponenti. Uno dei tratti distintivi dei soggetti femminili rappresentati dai Cerchiaro è il velo che termina a punta sulla testa e si apre ai lati formando un rombo irregolare, con i capelli che seguono la conformazione del velo. Una scultura confrontabile a quella in esame è la Madonna del Pollino della chiesa di Santa Maria degli Angeli di San Severino Lucano che presenta analoga configurazione delle vesti13. Una disposizione simile si riscontra anche nell’Immacolata di Castrovillari, datata 1755 e firmata da Agostino Pierri di Lagonegro. D’altronde Giorgio Leone ha già fatto notare come grazie all’attività di Giovan Pietro ci sarà «... l’elaborazione di un modello ... che sarà replicato fino alla scadere del Settecento, ed adattato a seconda delle esigenze iconografiche e del variare del gusto»14. Lo scrivente concorda con l’attribuzione della Madonna della Purificazione di Morano ad Eugenio Cerchiaro, poiché rispetto a Pierri o ad altri eventuali collaboratori di bottega il simulacro mostra schematizzazioni più tipiche di questo scultore. Ludovico Noia

1 Salmena A., Morano Calabro e le sue case illustri, Milano, 1882, pp. 54-56; R. Marranghello, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 641. 2 Trombetti G., in Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte: la collegiata di San Nicola, Catalogo mostra 1999, (coord. Bosco S.), Roma 1996, p. 55. 3 Frangipane A. (a cura di), Inventario degli oggetti d’arte in Italia: II; Calabria, Roma 1933, p. 199. 4 Barillaro E., Calabria: guida artistica e archeologica, Cosenza 1972, p. 188. 5 Trombetti G., in Filice R.A. (a cura di), Memorie... cit., pp. 54-55. 6 Leone G., Scultura in legno in Calabria: dal Medioevo al Settecento in Leone de Castris P. (a cura di), Sculture in legno in Calabria, Catalogo mostra 2008-2009, Napoli 2009, p. 91. 7 Leone G., Scultori di confine, alcuni esempi di scultura

in legno nell’area del Pollino (...e di altre zone della Calabria settentrionale e della Basilicata meridionale tra il Cinquecento e il Settecento), in Tomei A. – Curzi G. (a cura di), Abruzzo: un laboratorio di ricerca, Atti 2009, [“Studi medievali e moderni: arte, letteratura, storia”, a. XV, 2011], Napoli 2011, pp. 328-336. 8 Trombetti G., Castrovillari nei suoi momenti d’arte, Castrovillari 1989, p. 177; G. Leone, Per la storia dell’intaglio in Calabria: appunti sulla cosiddetta «scuola di Morano», in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 62-63. 9 Barillaro E., Arte archeologia cultura e stampa in Calabria, Cosenza 1968, p. 73. 10 Leone G., I Fusco e altri intagliatori degli arredi di completamento settecenteschi della Maddalena in Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte: mostra di opere d’arte restaurate dalle chiese della Maddalena e del Carmine, Catalogo mostra 1995, (dir. scientifica:

Leone G.)], Morano, 1995, p. 109. 11 Trombetti G., Castrovillari... cit., p. 117; Leone G., Per la storia... cit., pp. 62-63; Boniface L., La chiesa di Santa Maria del Gamio in Saracena, Castrovillari 2000, pp. 72-75. 12 Trombetti G., in Filice R.A. (a cura di), Memorie... cit., [1999], pp. 54-55; G. Leone, Scultura in legno... cit., p. 91; Idem, Scultori di confine... cit., pp. 330-332. 13 Leone G., Scultura in legno... cit., p. 91; Idem, Scultori di confine... cit., pp. 331. 14 Leone G., Per la storia... cit., p. 63.

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Intagliatore cappuccino

Tabernacolo

Secolo XVIII (1750, datato) Legno intagliato, intarsiato, parzialmente dipinto e con inserti di avorio e madreperla; cm 190 ca. Orsomarso (Cosenza), Chiesa del Santissimo Salvatore Bibliografia: Leone G. 1986, II, p. 215; Montevecchi B. - Vasco Rocca S. 1987, p. 86; Spanò A. 2001, pp. 31, 56, 59-60 n. 13; Leone G. 2002a, pp. 621, 632 n. 97, 635; Spanò A., in Cagliostro R.M. 2002, p. 392.

Nell’ambito della diffusione delle riforme francescane dell’Osservanza, della Serafica Riforma e della Riforma Cappuccina la lavorazione del legno, per fini artistici connessi all’arredo ecclesiastico e alla liturgia, conobbe una nuova e specifica fioritura. Il legno,infatti, sin dalle origini del Francescanesimo, era considerato come il materiale che meglio rispecchiava il precetto di povertà dell’Ordine, perciò è abbastanza comprensibile che, nelle successive riforme, esso venisse riproposto e riconsiderato quasi come elemento visivo della riforma stessa. In particolare, dopo il Concilio di Trento, tra i Riformati e i Cappuccini la lavorazione del legno assunse un ruolo importante che caratterizzò gran parte della scultura e dell’intaglio barocco, divenendo appunto parte integrante di questa cultura artistica e diversificandosi sul territorio. I Cappuccini, in conformità alle loro Costituzioni (1536), poi aggiornate alla luce dei decreti del Concilio di Trento, furono particolarmente attenti all’uso del legno per gli arredi delle loro chiese e di altri materiali che evocavano visivamente la povertà, come la scagliola e il cuoio per i paliotti degli altari. In tale contesto, però, riservarono specifica attenzione all’altare maggiore, che, quasi sempre provvisto di una pala dipinta, a volte ancor composta sul modello antico del polittico, era dotato di un sontuoso tabernacolo. La preziosità di tale manufatto, basata sul minuto e sontuoso intaglio e intarsio, nonché sulla profusione dell’avorio e della madreperla, era molto probabilmente dettata dall’esigenza di caratterizzare il culto eucaristico, per il quale le predette Costituzioni ammettevano l’impiego dell’oro e dunque si poneva come una variante di questo. Il tabernacolo cappuccino è contraddistinto dalla forma turrita a più piani con riferimento a una pianta centrale. La sua genesi formale è complessa ed è tuttora oggetto di studi mirati a coglierne le adesioni e gli sviluppi dal tabernacolo-ciborio tardo rinascimentale e dal modello che contemporaneamente veniva elaborato nell’ambito della Serafica Riforma, dove appunto non mancano esemplari simili di custodie eucaristiche. Nello specifico, vengono anche richiamate possibili veicolazioni romane di modelli elaborati in Italia settentrionale sulla scorta di intromissioni meri-

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dionali, particolarmente siciliane1, anche se non andrebbero esclusi derivazioni dalle incisioni di architettura effimera, molto diffuse tra Cinquecento e Seicento. L’intaglio cappuccino, come tutto quello francescano, benché peculiare dell’Ordine non è da intendere come chiuso in esso. Al contrario, infatti, spesso si manifesta aperto verso l’esterno e pur garantendo una certa persistenza di tecniche e di forme tipiche, accoglie particolarità del tutto eterodosse che lo avvicinano in maniera indiscutibile alle forme artistiche del territorio dove operano le maestranze, potendosi così distinguere e riconoscere in caratteristiche elaborazioni, senz’altro dovute all’attività in tali maestranze di artefici locali. In Calabria, lo studio dei tabernacoli cappuccini, nell’univoco riferimento di tecniche e modelli, ha portato a identificare specifiche caratteristiche decorative che, in parte, si riconnettono alle forme dell’intaglio tipiche regionali, rispondendo così a quanto appena asserito a livello più generale. Di questi riferimenti è senz’altro esemplare il tabernacolo della chiesa dei Cappuccini di Orsomarso, che appunto si distingue per il maggior rilievo dato all’intaglio rispetto alle parti architettoniche, pur constatando l’interpolazione di un gruppo di angeli al posto della cupola . Esso, inoltre, si accomuna ai consimili manufatti delle chiese dell’Ordine di Castiglione Cosentino, Celico, Cetraro e Rogliano, tutti datati o databili attorno alla metà del Settecento e che, per la collocazione, hanno permesso di formulare ragionevoli confronti con i modelli dell’intaglio roglianese2, giungendo finanche a plausibili attribuzioni. Il tabernacolo di Orsomarso, quindi, su basi esclusivamente stilistiche, è stato ritenuto eseguito da fra’ Lorenzo di Belmonte autore tra l’altro del manufatto di Rogliano3. Indipendentemente da tale proposta, la vicinanza alle botteghe degli intagliatori della Calabria settentrionale, raggruppati attorno a quelli senz’altro più noti di Rogliano, si avverte specialmente per l’inserimento di molte teste d’angelo e di angeli-cariatidi di evidente connotazione simbolica. Giorgio Leone

1 Leone G., Il tabernacolo della chiesa dei Santi Fabiano e Sebastiano a Fiamignano: un episodio di intaglio cappuccino abruzzese nell’attuale provincia di Rieti e una postilla per una ricerca nel Lazio, in “Nel Lazio: guida al Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico”, a. I, 2011, pp. 29-45 .

2 Spanò A., Tabernacoli lignei cappuccini della Calabria, in “Italia Francescana”, a. 76, 2001, pp. 5960 n. 13; Leone G., in Leone G. (a cura di), Pange lingua: l’Eucaristia in Calabria; Storia Devozione Arte, Catanzaro 2002, p. 632 n. 97. 3 Spanò A., Tabernacoli... cit., pp. 31, 56, 59-60;

Idem, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma 2002, p. 392.

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Agostino Pierri (Lagonegro, attivo tra la seconda metà del secolo XVIII e gli inizi del secolo XIX)

San Nicola di Bari

Sec. XVIII (1777, datato) Legno intagliato e dipinto; cm 155 Trebisacce, Chiesa di San Nicola di Mira Bibliografia: Laviola G. 1978, p. 16; Laviola G. 1992, p. 269; Bilotto L. 1996, p. 269; Bilotto L. 2001, p. 331; De Vita, in Guido 2002, p. 488; Leone G. 2011a, p. 334 nota 89; Genise P. 2013, p. 11.

La statua è custodita nella chiesa di San Nicola di Mira a Trebisacce, edificio di cui il primo documento conosciuto risale al 13241. Il Santo è raffigurato con abiti vescovili e con la mano destra benedicente. Sopra la veste bianca indossa il piviale, foderato di colore rosso arancio, la stola e la mitria decorati da eleganti motivi fitomorfi; con la mano sinistra regge il pastorale e i tre globi posti su un volume chiuso. La scultura è adorna sul petto dalla catena vescovile con il Crocifisso segnalata anche nella visita pastorale del 1849 tra gli argenti della chiesa insieme al pastorale e l’anello2. Il manufatto è caratterizzato da un panneggio mosso, dal movimento del piviale svolazzante che si schiaccia sul corpo e dalla posizione piegata dalla gamba sinistra, evidente retaggio barocco che conferisce eleganza e grazia della scultura. Un lavoro di restauro è stato eseguito dalla ditta Malomo di Cassano nel 2004, durante il quale è emersa l’iscrizione «Marino» all’interno del clipeo del piviale. Questi è stato un artigiano restauratore di Trebisacce attivo negli anni quaranta e sessanta del secolo scorso. I due interventi di restauro fondamentalmente non hanno minato le caratteristiche originarie della statua. Giovanni Laviola cita per primo la scultura, affermandone la presenza all’interno della chiesa di San Nicola di Mira tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento3. Il resto della critica ha menzionato la scultura come settecentesca scolpita e dipinta al naturale, mentre solo Giorgio Leone avanza un’attribuzione in direzione di Eugenio Cerchiaro o di Agostino Pierri4. Esiste un documento

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del 1781 che attesta a quella data il simulacro già collocato nella citata chiesa5. Fondamentali sono le due iscrizioni poste sulla base della statua - «D.Fran. Tunno Archip. F.F. Sump. Eccne. A.D. 1777», lato sinistro; «Augustinus Pierri a Civitate Lacus Liber Fecit A.D. 1777»; lato posteriore -, che riferiscono i nomi del committente, l’arciprete don Francesco Tunno, dello scultore Agostino Pierri di Lagonegro, attivo tra la seconda metà del Settecento e gli albori dell’Ottocento, e la data 1777 . La figura di Pierri è stata analizzata da Giorgio Leone6 che la colloca all’interno di un humus culturale di bottega in cui «è doveroso tener conto della possibilità dell’attività di collaboratori oppure di personalità autonome e diversamente documentabili nell’insieme di una diffusione stilistica abbastanza omogenea e che manifestano inclinazioni ora verso un modello formale ora verso un altro»7. La bottega a cui fa riferimento lo studioso è quella dei Cerchiaro, intagliatori moranesi le cui opere sono diffuse nella Calabria Citra e che ispirano una evidente contiguità stilistica con Pierri. Opere certe in Calabria dello scultore si trovano a Castrovillari e Santa Sofia d’Epiro, mentre altre sono attestate nel territorio del Cilento8. Tuttavia sculture dello stesso possono essere rintracciate tra Calabria e Basilicata9. Allo stato attuale degli studi non si conosce se Pierri abbia lavorato nella bottega dei Cerchiaro o ne sia un semplice continuatore stilistico. Un aspetto inedito della statua in questione è il rinvenimento di altre tre sculture veramente gemelle: il San Nicola di Bari della chiesa eponima di Morano, il San Nicola di Bari di Cervicati e il San Biagio della chiesa della Madonna del Piano di Villapiana. Di queste statue non si è rintracciato l’autore, per quella di Morano e di Villapiana Giorgio Leone propone l’adesione agli stilemi dei Cerchiaro in direzione di Pierri10. Ludovico Noia

1 Russo F., Storia della Diocesi di Cassano al Jonio: I, dalle origini al 1500, Napoli 1964, p.225. 2 Archivio Storico Diocesano di Cassano Ionio, Fondo visite pastorali, faldone n. 4, Visita Pastorale Chiesa San Nicola di Mira di Trebisacce 1849. 3 Laviola G., Trebisacce 1770-1870: in appendice catasto e rivele del 1745, Trebisacce 1978, p.16 4 Leone G., Scultori di confine, alcuni esempi di scultura in legno nell’area del Pollino (...e di altre zone della Calabria settentrionale e della Basilicata meridionale tra il Cinquecento e il Settecento), in Tomei A. – Curzi G. (a cura di), Abruzzo: un laboratorio di ricerca, Atti

2009, [“Studi medievali e moderni: arte, letteratura, storia”, a. XV, 2011], Napoli 2011, p. 334 nota 89. 5 Barone A., L’universal castigo: l’elezione di San Nicola a Patrono di Trebisacce, in “Rivista Storica Calabrese”, a. XXI, 2000, pp. 337 -345. 6 Leone G., Scultura in legno in Calabria: dal Medioevo al Settecento, in Leone de Castris P. (a cura di), Sculture in legno in Calabria, Catalogo mostra 2008-2009, Napoli 2009, pp. 91-92; Idem, Scultori di confine... cit., pp. 333-335. 7 Leone G., Scultori di confine... cit., p. 333.

8 Aruanno F., Agostino Pierri, in Acanfora E. (a cura di), Splendori del barocco defilato: arte in Basilicata e ai suoi confini da Luca Giordano al Settecento, Catalogo mostra 2009, Firenze 2009, p. 189. 9 Leone G., Scultori di confine... cit., pp.333336 10 Leone G., Scultori di confine... cit., pp.334 nota 89.

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Giuseppe Bava (documentato nella seconda metà del XVIII secolo)

Mobili di Biblioteca

Sec. XVIII (1778, datato) Legno intagliato e parzialmente dorato; (misure non rilevate) Paola, Protoconvento di San Francesco Bibliografia: Patari G. 1925, pp. 243-251; Galli E. 1928, pp. 41-48; Frangipane A. 1933, p. 216; Russo F. 1966, pp. 80-83, 189-195; Barillaro E. 1972, pp. 196-197; C. Altomare, in Cagliostro R.M. 2002, p. 646; Leone G., in Cagliostro R.M. 2002, pp. 418-419; Gentile R. 2004, pp. 94-96; Amato P. 2005, p. 153.

Alfonso Frangipane definisce la Biblioteca dei Minimi del Protoconvento di Paola come «il più notevole ambiente di biblioteca monastica della provincia bruzia»1. Essa venne ricavata con il provvedimento di padre Domenico Ciandella da Paola, nella seconda metà del Seicento, dalla riduzione ad unico vano di due camere situate nella torre e dall’abbattimento del pavimento divisorio tra il primo e il secondo piano al termine del largo e lungo corridoio inferiore del braccio principale del Convento. Il vasto e arioso spazio a pianta quadrata di 10 metri per lato, sapientemente ricavato, prende luce dai due grandi balconi con inferriata in ferro battuto di stile barocco posti al livello del pavimento. La realizzazione della Biblioteca rispondeva alla precisa esigenza, per il Convento, di avere un luogo decorosamente idoneo alla conservazione e consultazione dell’importante patrimonio librario in possesso dei frati, così come prevedeva la norma emanata al XXII Capitolo Generale, tenuto a Venezia nel 1517, con cui si «ordinava ai Superiori dei conventi di raccogliere tutti i libri dei Padri, a mano a mano che questi morivano, nonché quelli avuti in dono o per legato, per formare la Libreria comune»2. Solo un secolo più tardi dalla sua realizzazione, lo spazio della biblioteca fu arricchito da una elegante scaffalatura per volere di padre Bonaventura Barbieri da Paola, ricordato da un’iscrizione posta sulla porta d’ingresso datata al 1779, l’anno di inaugurazione della biblioteca, e dalla sua effigie accompagnata con l’iscrizione su legno: «A.R.P. BONAVENTURA BARBIERI PROVINCIALIS, BIBLIOTHECAM HANC SUA INDUSTRIA SUISQUE ELEEMOSINIS CONSTRUENDAM CURAVIT»3. La sala fu allestita su tutti e quattro i lati, per una lunghezza complessiva di 38 metri e un’altezza di 5,50 metri, da una scaffalatura di 16 elementi in legno di noce, intagliato e parzialmente dorato, costituita da librerie a palchetto tramezzate da pilastri intagliati chiuse da cornice di coronamento con cimase “a cartoccio” che, all’incrocio con i pilastrini, include i capitelli di questi ultimi fatti da un elegante motivo mistilineo con ovulo centrale e sagola vegetale pendula. Sull’armadio centrale, in uno scudo, è l’iscrizione: «M. JOSEPH BAVA A.D. 1778 F.», attestante la paternità stessa dell’opera a Giuseppe Bava, intagliatore poco conosciuto ma attivo anche in Campania. La cimasa, inoltre, tra un serto vegetale, volute e angeli, mostra una inedita

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raffigurazione di San Francesco di Paola attribuita ragionevolmente a Genesio Galtieri4, pittore di Mormanno5, il quale inoltre nel 1781 decora il soffitto della biblioteca, ponendo quindi termine alla costruzione dell’ambiente, con una pittura murale descrivente l’Incontro della regina di Saba con Salomone. A coronamento degli armadi della biblioteca sono posti diversi ritratti di religiosi e membri dell’Ordine. L’architettura dell’insieme e la decorazione della biblioteca del Protoconvento di Paola sono un esempio d’alto livello della maestria del suo artiere. Sebbene di lui si conosca ben poco, oltre alle firme e alle date rimaste sui suoi manufatti sopravvissuti in Campania, va comunque annoverato tra quegli intagliatori che, alla stregua di quel Gaetano Fusco, campano anch’egli, attivo a Saracena e a Morano, dove si stabilì dando vita a una vera e propria bottega6, con i suoi lavori, di fatto aggiornati sulle tendenze del mobilio napoletano dell’epoca, poterono influenzare lo stile e le tecniche degli intagliatori locali. Non parrebbe un caso, quindi, che, nell’insieme della propagazione del pur valido intravisto riferimento stilistico moranese7, un dettaglio della decorazione del magnifico coro conservato nella chiesa dell’Annunziata a San Fili, realizzato nel 1781 da Antonio Lattari di Fuscaldo8, sembra proprio ricordare la sagola vegetale che decora i pilastrini della scaffalatura. Maria D’Ermoggine

1 Frangipane A. (a cura di), Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, II. Calabria, Roma 1933, p. 216. 2 Russo F., Il Santuario-Basilica di Paola: monografia storica e guida illustrata, Paola 1966, p. 80 nota 60. 3 Russo F., Il Santuario... cit., p.194 4 Amato P., La Pinacoteca del Santuario di San Francesco di Paola: dipinti dal XV al XIX secolo, Paola 2005, p. 153. 5 Leone G., Un inedito Genesio Galtieri nella chiesa dei Cappucini, in “il Serratore”, a. XIX, 2006, pp. 2428; Trombetti G., in De Chirico F. - Filice R. A. (a cura di), Tesori riscoperti: restauro e valorizzazione del

patrimonio artistico nella chiesa di San Francesco di Paola in Altomonte, Soveria Mannelli 2010, pp. 76-82. 6 Leone G., Per la storia dell’intaglio ligneo in Calabria: appunti sulla cosiddetta «scuola di Morano», in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 49-91 7 Leone G., Per la storia... cit., p. 70 8 Leone G., Per la storia... cit., pp. 70, 90 (fig.).

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Agostino Fusco (Morano?, documentato nella prima metà del XVIII secolo)

Coro

Secolo XVIII (1784, datato) Legno intagliato, cm 320 x 1600; leggio cm 205 Corigliano Calabro, Chiesa di Santa Maria Maggiore Bibliografia: Amato G. 1884, p. 93, Patari G. 1891, p. 47; Frangipane A.1933, pp. 168-169; Grillo F.1965, p. 40; Barillaro E. 1972, p. 156; Leone G. 1994, pp. 31-34; Acri P.E. – C. Di Martino- S. Scigliano 1994, p. 61; Gravina- Canadè T. 1995, p. 120; Aquilino S. 1996, pp. 46-49; Leone G. 2002a, pp. 403, 632.

Il coro, costruito in legno di noce, radica di noce, castagno e altre essenze, è composto da sedici stalli ripartiti da lesene che terminano con capitelli, su cui posa il cornicione ben pronunciato culminante, nei sedili centrali ed angolari, con una cimasa riccamente intagliata. I sedili sono separati da braccioli con volute a ricciolo, mentre la sedia presbiteriale centrale presenta un parapetto avanzato e cappello aggettante. Completano il coro, le panche e il badalone. Riconosciuto dalla critica specialistica come opera di estrema eleganza per la preziosità dei materiali e per la raffinatezza della realizzazione, il coro si distingue per l’utilizzo del trattamento “a vista” delle varie essenze di legno impiegate, accostate ai numerosi intarsi e intagli, evidenti soprattutto nelle cimase poste sulla cornice. Citato già nelle più antiche fonti letterarie e bibliografiche come pregevole opera ascrivibile a una bottega provinciale, il coro è attribuito per la prima volta da Giorgio Leone1 ad Agostino Fusco, membro della famiglia di artieri originari di Morano Calabro e attivi nella seconda metà del Settecento in vari centri della diocesi di Cassano. L’intuizione dello studioso, che vi individuava quei caratteri stilistici tipici dell’alto livello della bottega dei Fusco, sarà poi confermata dal rinvenimento documentario2, che attesta come l’opera fu commissionata ad Agostino Fusco di Morano da Don Carlo Maria Montera - arciprete di Santa Maria Maggiore a Corigliano dal 1769 al 1780 - e terminata nel 1784 sotto l’arciprete Vincenzo Maria della Cananea. Il coro rappresenta un valido esempio di intaglio moranese della seconda metà del Settecento, che attraverso l’operato della famiglia Fusco - dal padre Gaetano seguito dal figlio Agostino e successivamente dal nipote Mario - raggiunse alti livelli qualitativi. All’utilizzo del già citato legno a vista, con spessi strati di vernice, nelle loro opere è stato evidenziato un legame con lo stile Rococò e una certa propensione verso il gusto francese, probabilmente desunti dalla cultura napoletana che si sviluppa sotto la parentesi asburgica (17071734) e con la nuova politica di Carlo III3. L’attività di Agostino Fusco è documentata, a partire dagli anni settanta del Settecento, nella natìa città di Morano, dove esegue i tre grandiosi cori in San Nicola di Bari (a. 1779), in Santa Maria Maddalena, con leggio e pulpito (a. 1792-1793), e nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, anche qui corredato da pulpi-

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to e leggio e avviato nel 1792 per essere poi terminato, alla sua morte, dal figlio Mario nel 1805. A queste opere firmate è stato anche aggiunto, per analogie stilistiche con il coro di San Pietro, il pulpito di Santa Maria del Castello a Castovillari, in seguito completamente dipinto nei colori di verde e oro4. Cecilia Perri

1 Leone G., Le maestranze del legno a Corigliano, I; I cori, in “Il Serratore”, a. VII, 1994, pp. 31-34. 2 Cosenza, Archivio di Stato, Prot. Not. Varcaro Vincenzo (1002), vol. 17, 1784, mar. 27, Corigliano, cc. 78r-79v (cfr. Acri P. E. – Di Martino C. – Scigliano S., La chiesa di Santa Maria Maggiore in Corigliano, Rossano 1994, p. 61). 3 Leone G., Scuola moranese, in Iannace R. (a cura di), L’intaglio ligneo in Calabria dal XVII secolo al XVIII secolo Catalogo mostra 1991, Cosenza 1991, pp. 24-25; Leone G., Per la storia dell’intaglio in Calabria:

appunti sulla cosiddetta «scuola di Morano», in “Daedalus”, aa. IV-V, 1991-1992, pp. 67-69; Leone G., L’intaglio barocco in Calabria: annotazioni a margine di un problema di storiografia artistica, in Cagliostro R.M. (a cura di), Calabria, Roma, 2002 pp. 159-166; 4 Trombetti G., Castrovillari nei suoi momenti d’arte, Castrovillari 1989, pp. 52, 17

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Francesco Antonio Lupi (San Pietro in Amantea, 1810 – Napoli, 1894)

Madonna col Bambino detta “Madonna dei Monti” Secolo XIX (1839, datato) Legno intagliato, dipinto e parzialmente dorato; cm 138 circa Lago, Chiesa di Santa Maria ad Nives Bibliografia: Inedito.

La collocazione originaria della scultura raffigurante la Madonna dei Monti è a destra dell’altare maggiore della chiesa di Santa Maria ad Nives di Lago, al momento chiusa per restauri, per questo la statua è attualmente esposta nella chiesa matrice di San Nicola di Bari. La Vergine è raffigurata in piedi: con la mano destra sorregge due monti innevati e con la sinistra il Figlio, il quale, a sua volta, stringe nella mano destra il pastorale della Chiesa Greca; le teste di entrambi sono decorate ognuna da una tiara. I capelli sono nascosti da un velo color panna che le scende davanti sul petto a mo’ di sciarpa ed è avvolta da un ampio mantello azzurro, decorato con stelle dorate, che si raccoglie sul fianco sinistro formando delle balze morbide e plastiche; il manto è indossato su di una veste rosa con sopravveste cilestrina, stretta in vita da un cintura rosa con dorature. Ai piedi della Madonna prendono posto due piccoli angeli: quello alla sua destra indica con l’indice verso l’alto, quello alla sua sinistra ha le braccia conserte sul petto. Il gruppo scultoreo poggia su una base quadrangolare molto semplice, con angoli smussati e peducci angolari ed è munita di propria base processionale, anch’essa di forma quadrata, colorata d’oro, i cui montanti anteriori sono formati da due angeli genuflessi e quelli posteriori da una fila di quattro balaustri. La singolare iconografia della Vergine col Bambino è testimoniata anche in un tela, custodita nella chiesa di San Nicola di Bari dove ora il gruppo è ospitato, databile sullo scorcio del Settecento e probabile opera della bottega di Cristoforo Santanna. Ciò induce a supporre un culto locale verso un’immagine devozionale più antica, in cui le tiare, il pastorale greco e i monti innevati sarebbero i segni contraddistintivi. Non si hanno notizie precise di questa immagine, ma potrebbe essere stata mutuata dal titolo della chiesa per la quale fu realizzata: i monti innevati farebbero riferimento alla neve, mentre le attribuzioni patriarcali alla Basilica romana di santa Maria Maggiore da dove appunto si originò e sviluppò il titolo e la devozione alla Madonna della Neve, celebrata il 5 agosto, a ricordo della miracolosa nevicata estiva sul colle dell’Esquilino attraverso cui la Vergine indicò a papa Liberio il luogo dove voleva sorgesse una chiesa dedicata i suo onore. Sul prospetto della base è dipinta la seguente iscrizione, in un cartiglio mistilineo: «FRANCESCO ANT. LUPI SCULTORE 1839 F.» da cui

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si apprende il nome dell’autore. Francesco A. Lupi, nato a San Pietro in Amantea nel 1810, compì i suoi studi a Napoli dove superò con ottimo profitto tutte le classi degli studi artistici per cui gli fu concesso di esercitare la professione di pittore e scultore. Fu in questo campo prolifico e noto nella Calabria settentrionale e si dedicò soprattutto all’elaborazione di opere di destinazione ecclesiastica. Diversi, infatti, sono i dipinti e le sculture sparse in molte le chiese del cosentino1. La sua produzione statuaria denota un formazione legata alla tradizione tardo settecentesca, cui aggiunge un certo nitore del segno e dei volumi di derivazione classicheggiante, probabilmente derivatogli dalla cultura e frequenza napoletana nei primi anni trenta dell’Ottocento. L’opera di Lago è tra le prime sculture finora note e su di essa si annota un intervento di restauro del 1934 a opera di G. Politano, documentato da un’altra iscrizione apposta sulla base. Catia Salfi

1 Guido P., Francesco Antonio Lupi: un artista sconosciuto, in “Calabria Letteraria: rivista mensile di cultura e arte”, a. LIV, 2003, p. 109; Le Pera E., Arte di Calabria tra Otto e Novecento: dizionario degli artisti calabresi nati nell’Ottocento, Soveria Mannell, 2001, p. 117; Idem, La Calabria e l’Arte: dizionario degli Artisti

Calabresi dell’Ottocento e del Novecento, Gioiosa Jonica 2005, pp. 91-92; Policicchio F., San Pietro in Amantea e dintorni nell’800, Cosenza 1997, pp. 321-336.

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Giovan Battista Santoro (Fuscaldo, 1809 – Napoli, 1895)

Santa Teresa d’Avila

Secolo XIX (1849, datato) Legno intagliato, dipinto e parzialmente dorato; cm 138 ca. Acquappesa - Intavolata, Chiesa di Santa Teresa Bibliografia: Le Pera E., 2005, p. 146; Guido D. 2002, II, p. 96; Valente I., in Rende 1997, p. 115; Pingitore T., in Corigliano Calabro 2003, pp. 153-154; Samà F., 2003, p. 141; Leone G., 2009c.

La scultura lignea raffigurante Santa Teresa d’Avila della chiesa eponima di Intavolata, frazione di Acquappesa, poggia su una base quadrata di semplice fattura con angoli smussati e cornici in aggetto sui profili superiore e inferiore, dove è completata da quattro piccoli peducci. La Santa, nata ad Avila in Castiglia e grande riformatrice del Carmelo, è raffigurata in piedi con la faccia estatica rivolta in alto e con indosso l’abito delle Carmelitane, costituito da una lunga tonaca marrone con scapolare dello stesso colore, ampio mantello gialloavorio, velo nero con risvolto bianco e soggolo dello stesso colore, e calza sandali; la testa è circonfusa da un’aureola in metallo argentato decorata di foglie e roselline. Ella regge con la mano destra portata in avanti una penna d’oca e con la sinistra stesa sul fianco un libro chiuso; ai piedi, invece, è posto un teschio. L’iconografia, per l’atteggiamento e i simboli, unisce i due tipi relativi all’estasi e alla scrittura che sin dalle origini hanno condizionato l’immagine della Santa Castigliana1. In particolare, il teschio che è sempre allusivo della preghiera e della meditazione, potrebbe nel contesto iconografico teresiano, essere anche riferito al suo pensiero sulla morte come avvicinamento allo Sposo che le ispirarono la straordinaria preghiera Vivo sin vivir en mí: «Vivo, eppur non vivo in me, aspettando sì alta vita, ché mi è morte il non morire»2. Sul prospetto della base è presente la seguente iscrizione: «A DIVOZIONE DELLA SIGNORA D. GIUSEPPINA MARCHIANO’/ IN DE SETA. SCOLPI’ BATTISTA SANTORO, 1849», da cui si apprende che la scultura fu realizzata da Giovan Battista

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Santoro, artista nato a Fuscaldo nel 1809 e documentato a Napoli a partire dal 1830, dove studiò all’Istituto Regio di Belle Arti e partecipò a diverse Biennali borboniche3. Egli è noto soprattutto come pittore, lasciando in Calabria e finanche in Lucania, diversi dipinti, ma la critica ha già indicato e discusso la sua attività di scultore in cui ugualmente manifesta la sua formazione accademica4. La Santa Teresa d’Avila di Intavolata, infatti, mostra come l’artista «l’abbia modellata secondo i canoni della statuaria neoclassica ancora legata agli stilemi espressivi settecenteschi, retaggio dell’ambiente pittorico napoletano del quale fu fortemente influenzato»�. Di Giovan Battista Santoro scultore è nota finora soltanto la Madonna con Bambino della chiesa di Santa Maria Maggiore di Maratea firmata e datata 1844, che espone simili connotazioni stilistiche e un’eccellente esecuzione tecnica6. La scultura che si esamina ha subito due interventi di “restauro”: uno nella prima metà del Novecento, documentato da un’iscrizione apposta su un altro prospetto della base: «RESTAURATA A CURA DEL PARROCO COSTANTINO CAVALIERE/ DALLA DITTA SCULTORE LUIGI GUACCI DA LECCE» e noto alla storiografia dell’opera7, l’altro recente e veramente discutibile effettuato nel 2004. Catia Salfi

1 Cannata P., in Bibliotheca Sanctorum, IV, Roma, 1990, s.v. Iconografia, coll. 411- 419. 2 Borriello L. – della Croce G. (a cura di), Teresa d’Avila: opere complete, Milano 20083, pp. 1569-1571. 3 Per una biografia aggiornata di G.B. Santoro si vedano Valente I., Giambattista Santoro, in Sicoli T. – Valente I. (a cura di), L’animo e lo sguardo: pittori calabresi dell’Ottocento di Scuola Napoletana, Catalogo mostra 1997, Cosenza 1997, p. 115; Pingitore T., Giambattista Santoro, in Sicoli T. – Valente I. (a cura di), Rubens Santoro e i pittori della provincia di Cosenza fra Ottocento e Novecento, Catalogo mostra 2003, Catanzaro 2003, pp. 153-154.

4 Samà F., Aqua Appensa: la chiave della memoria; storia e architettura religiosa ad Acquappesa, Soveria Mannell, 2003, p. 141; Leone G., La scultura lignea e l’intaglio nelle chiese dell’Ottocento, in Capitelli G. – Coscarella C. – Leone G. – Mazzarelli C. – Passarelli L. (a cura di), Arte in Calabria nell’800: 1783-1908; Anagrafe della ricerca, Atti 2009, Cosenza (in corso di stampa). 5 F. Samà, Aqua Appensa... cit., p. 141. 6 G. Leone, La scultura lignea e l’intaglio ..cit. 7 F. Samà, Aqua Appensa... cit., p. 141.

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Giuseppe Leonetti (Serra Pedace, noto nella seconda metà del secolo XIX)

Base processionale

Secolo XIX (1877, datato) Legno intagliato e dorato; cm 55 x 80 x 80 Cerchiara di Calabria, Chiesa di San Pietro Bibliografia: Leone G. 1991, p. 64; Salatino A. 2009.

Nella chiesa di San Pietro a Cerchiara di Calabria è custodita una tra le più interessanti basi processionali in legno ottocentesche della provincia cosentina. L’opera mostra un impianto d’insieme semplice, con una base d’appoggio della statua di profilo mistilineo, decorato da una sottile bordura intagliata con piccole volute a S specchiate su foglia a picche; la base è sorretta nei quattro angoli da ampie e voluminose volute a S, ornate, nelle parti terminali, da delicate foglie d’acanto che, superiormente fanno tutt’uno con il motivo prima descritto; nella parte inferiore, sul rinforzo

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della struttura a riquadratura sagomata, che tiene insieme le quattro volute, sono fissati i sostegni metallici d’alloggio delle stanghe per il trasporto processionale. Sul bordo della base è incisa l’iscrizione: «TITTA ADULCI PRO./ GIUSEPPE LEONETTI DI SERRA PEDACE/FECE A.D. 1877». Titta, cioè Giovan Battista, Adulci è il procuratore della Confraternita del Rosario, l’unica congregazione laicale che ebbe sede nella chiesa di San Pietro di Cerchiara fin dagli inizi del secolo XVII1; egli, quindi, è il committente dell’opera che, come continua l’iscrizione, nel 1877 venne realizzata da Giuseppe Leonetti di Serra Pedace appositamente per il simulacro della Vergine del Rosario, come si evince dall’altra iscrizione: «RSSR», presente su una delle facciate del manufatto. Giuseppe Leonetti è il componente di una famiglia di artigiani intagliatori del legno, originaria del centro pre-silano2; pur in assenza di ulteriori notizie documentarie, la produzione e l’attività di questa bottega è testimoniata dalla tradizione della lavorazione cedua diffusa nella zona, ma soprattutto, nell’Ottocento, è confermata almeno da altre due opere riconducibili sempre a Giuseppe Leonetti, che nello stretto giro di anni realizza l’antiporta intagliata e dipinta, firmata e datata 1871, e il bel coro con decorazioni intarsiate, firmato e datato 1878, collocate entrambe nella chiesa parrocchiale di San Donato in Serra Pedace 3. Il coro ligneo in particolare mostra, nell’accurata fattura e nella equilibrata composizione, l’abilità tecnica dell’intagliatore, che pur se esponente di una isolata bottega locale rivela, nelle sue opere, una caratterizzazione stilistica appresa dai caratteri derivanti dalla scuola d’intaglio roglianese, soprattutto nel plasmare la superficie nel tentativo di fissare su un unico piano di fondo la spazialità della decorazione4, manifestando, nel contempo, un completo aggiornamento sulle più contemporanee tendenze, come testimonia la fascia superiore di chiusura degli scranni, ornata da un intarsio con neoclassico motivo a meandri. Antonella Salatino

1 La confraternita, tra le più antiche della Calabria settentrionale, venne istituita il 1609, come riportato da Leone G., La Chiesa di S. Pietro in Cerchiara di Calabria, Trebisacce 1991, p. 20 nota 61. 2 Leonetti è un cognome molto popolare nella presila cosentina, ma tradizionalmente è propria delle famiglie di Serra Pedace l’attività artigiana di

intagliatori e falegnami. 3 Salatino A., Le vare processionali: per una ricognizione sul territorio, in Capitelli G. – Coscarella C. – Leone G. – Mazzarelli C. – Passarelli L. (a cura di), Arte in Calabria nell’800: 1783-1908; Anagrafe della ricerca, Atti 2009, Cosenza (in corso di stampa). 4 Iannace R., Scuola roglianese, in Iannace R. (a

cura di), L’intaglio ligneo in Calabria: dal XVII secolo al XVIII secolo, Catalogo mostra 1991, Cosenza 1991, pp. 9-10.

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Spina Antonio (Lago, 1847 – 1928)

San Michele Arcangelo

Secolo XX (1907, datato) Legno intagliato, dipinto e parzialmente dorato; cm 145 circa Lago, Chiesa di San Nicola di Bari Bibliografia: Bilotto L., 1996, p.133

La scultura lignea è collocata in una nicchia ricavata nel pilastro tra le prime due arcate della navata centrale della chiesa di San Nicola di Bari a Lago e raffigura San Michele Arcangelo. La sua figura è in posizione dominante: poggia col piede sinistro sul demonio, impugna con la mano destra la spada con cui è pronto a trafiggerlo e con quella sinistra regge la bilancia. Indossa, sopra una corta tunica di colore celeste, una corazza argentata decorata da ricca guarnizione dorata lungo il bordo inferiore e all’attaccatura delle maniche ed è cinta in vita da un nastro azzurro che ricade sul fianco sinistro; un sottile drappo rosso diparte dal fianco destro per poggiarsi sulla spalla, passare dietro al collo e ricadere sul braccio sinistro; i piedi sono calzati da sandali con lacci color cuoio. La figura di satana che giace sotto i piedi ostende una smorfia di scherno ed è raffigurato metà con sembianze umane e metà con forma di drago, di cui porta anche le ali. L’immagine, come consuetudine, unisce le due iconografie tradizionali dell’Arcangelo Michele: quella di guerriero e quella di pesatore delle anime. Sul prospetto della base, alcentro, è dipinta l’iscrizione: «ANTONIO SPINA/ fu Ovidio/ Scultore_ Meccanico/ Lago 1907», mentre ai lati sono trascritti i nomi di tutti gli “Oblatori”che, grazie all’offerta di ognuno di “Lire 25.00”, consentirono di portare a termine l’opera per un totale di 550 lire. L’iscrizione, quindi, rende noto che la scultura fu realizzata da Antonio Spina, nato a Lago il 21 ottobre 1847 e ivi morto il 26 maggio 1928, come si apprende dai relativi

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registri di quegli anni stesso Comune. Lo scultore, di cui non si possiedono molte notizie ma di cui viceversa sono note molte opere a Lago e nei centri viciniori, secondo la tradizione famigliare fu autodidatta. Probabilmente avviato all’arte dell’intaglio dal padre, che svolgeva l’attività di falegname, sperimentò da solo la strada della scultura. Sarebbe interessante capire il senso della qualifica di “scultore meccanico” che egli appone alla sua forma in questa e in altre statue. Fu molto attivo nel suo paese natìo dove si possono ammirare nelle chiese molte sue opere di carattere sacro, suo è il Crocifisso dell’altare maggiore della chiesa di San Nicola di Bari, eseguito su schemi del tardo Settecento1. Grazie al suo ingegno, inoltre, lavorò anche per committenti privati. Catia Salfi

1 Borretti M., Cosenza: in Provincia; A Lago l’arte è in casa propria, in “Il Bruzio”, a. XLII, 1964, p. 3.

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Una storia (s)conosciuta: Frammenti d’archivio per il forziere ligneo di scalea Storia di una perdita Annamaria Lico

Il patrimonio artistico calabrese è stato quasi da sempre vittima di una damnatio memoriae dovuta a calamità naturali o all’alienazione per dispersione o vendita, subendo nel corso del tempo un sistematico depauperamento o l’irrevocabilità delle condizioni giuridiche di molte opere ormai storicizzate in vari musei o trasferite all’estero. Molti sono i casi, in particolare quello che qui si presenta, emblematici delle molte occasioni perse dallo Stato in cui l’alienazione per vendita di un bene vincolato mette in evidenza la debolezza del sistema, non sempre solerte nella definizione e nella corretta applicazione delle norme di legge e, congiuntamente, la malafede di alcuni proprietari di oggetti d’arte che scambiano l’interessamento dello Stato per riconoscimento ufficiale e indiscutibile di un aumento del valore economico degli stessi. L’interesse verso un oggetto o un bene può essere determinato, in molti casi, non solo da considerazioni estetiche com’è normale

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che sia, ma anche dalla storia di un’opera o dal suo legame a un episodio storico o essere esemplificativo della grande perizia tecnica raggiunta da botteghe locali di artigiani, con vocazione artistica ed essere, quindi, testimone di un’attività importante e perciò documento fisico anche in assenza di qualsiasi documento cartaceo, come probabilmente ha inteso Luigi Credari1 all’epoca Ministro dell’Istruzione per il caso che in questa sede si presenta. L’emblematica vicenda riguarda la vendita di un mobile di proprietà privata, con la notifica di importante interesse ai sensi dell’art. 5 della legge 364 del 20 giugno 1909; più correttamente è il forziere ligneo illustrato nelle figure 1 e 2, avvenuta poco più di un secolo fa. La vicenda mostra come cambiando i tempi, i mezzi e gli uomini, era e rimane ancora poco sufficiente la conoscenza, la tutela e la salvaguardia del patrimonio storico-artistico. Risale dunque al 1911 la conoscenza di questo straordinario forziere di legno intagliato e scolpito proveniente da Scalea (figg. 1-2) che dà l’avvio a una pratica2 durata vent’anni e conclusa nel 1931 quando si ha la certezza che la vendita del mobile ad antiquari di Firenze è già avvenuta. Il forziere (m 0,80 x 0,80x 0,50 circa) è intagliato e ornato da una nutrita schiera di figurine scolpite, posizionate sui bordi degli spigoli superiori, inferiori, laterali e anche sul retro dove la severità della superficie centrale è ingentilita da due borchie a motivi curvilinei e un chiavistello a scudo sicuramente in metallo. Notevole opera lignea fra intaglio e scultura, nelle carte dell’archivio della Soprintendenza3 è datata al Seicento; datazione ripetuta più volte nel carteggio mutilo di molte carte. Infatti questa pratica è una delle poche, fortunosamente, sopravvissute ai diversi trasferimenti avvenuti nella prima metà del Novecento, della Soprintendenza da Napoli a Reggio, da Reggio a Cosenza, nuovamente a Reggio e infine a Cosenza. La richiesta di vendita del forziere viene inoltrata direttamente al Ministero dell’Istruzione, che all’epoca era competente in materia d’arte. Il Ministro in data 11 aprile 1911 comunica al Direttore del Museo Nazionale di Napoli di aver ricevuto la lettera di un “Certo Sig. Caselli Carmelo fu Luigi...da Scalea (Cosenza)...[il quale] offre in vendita...un mobile antico, scolpito e intagliato, di sua proprietà...”, allegando anche due foto e chiedendo al Direttore se il mobile può interessare un “... istituto governativo” cioè un museo nazionale o una raccolta invitandolo a informarsi sul costo richiesto dal proprietario. Il Direttore del Museo Nazionale con estrema celerità scrive a sua volta al Regio Ispettore Onorario per il circondario di Cosenza Avvocato Carlo Caruso il quale si reca a Scalea per visionare l’opera e corrispondere alle attese del Direttore di Napoli e del Ministro. Compiuto il sopralluogo l’Ispettore avv. Caruso relaziona al Ministro di aver coinvolto nella trattativa il sottoprefetto di Paola e altre persone perché si interessino di conoscere il prezzo richiesto dal proprietario per il mobile che tra mancate risposte e altri sopralluoghi di funzionari finalmente viene quantificato in lire 60.000 mila, cifra enorme per l’epoca e per l’opera, che il Ministero non può corrispondere. Il vero problema in questa trattativa anomala non traspare dalle carte, alcune piuttosto sibilline ma dalla riluttanza a fornire risposte chiare da parte del proprietario che nel frattempo ha ottenuto quello che sperava: una visibilità notevole per il suo forziere e la possibilità di continuare la trattativa privata con gli antiquari fiorentini che avrebbero immediatamente corrisposto un terzo della cifra chiesta al Ministero. Il complicato percorso continua e si arriva al 1931 quando Alfonso Frangipane, alla richiesta del Soprintendente Edoardo Galli4 di essere informato sull’esito della vendita invia una relazione, conservata in minuta manoscritta e firmata con la sigla AF, nella quale, con molta chiarezza e un pizzico di malcelata ironia fornisce notizia dell’iter burocratico svolto dal Ministero dell’Istruzione Pubblica, dagli uffici periferici di Napoli e della Calabria, dagli ispettori onorari calabresi e dal

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proprietario. La relazione di Frangipane viene di seguito allegata (figg. 3-5) senza alcun commento perché fornisce il sunto chiaro e analitico di un’annosa vicenda trascinata per troppo tempo e scarso dinamismo e che lascia un po’ d’amaro in bocca per la perdita di un altro tassello della storia artistica calabrese.

1 Luigi Credari fu Ministro dell’Istruzione dal 1910 al 1914. 2 Archivio Soprintendenza BSAE Cosenza, prat. n.655, pos. G. L’archivio storico è costituito da uno sparuto numero di pratiche sopravvissute a numerosi trasferimenti, all’inclemenza del tempo e spes-

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so, trattandosi di sedi poco idonee, stivato in locali e magazzini umidi che ne hanno determinato per sempre la perdita. 3 4 L’architetto Edoardo Galli fu Soprintendente della Regia Soprintendenza per le Antichità e

L’Arte del Bruzio e della Lucania con sede a Reggio Calabria dal 1923 al 1936.


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Il legno nell’esperienza quotidiana dell’antica civiltà contadina

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Museo comunale di Aiello Calabro

Antico Mortaio in legno Materia Legno di ulivo. Misure cm 57,5x42xh26. Categoria: Artigianato del legno. Tipologia: Lavorazione a mano. Tecnica di lavorazione: Taglio e intaglio

Utensile da lavoro, costituito da un recipiente cavo dal fondo emisferico nel quale si pongono le sostanze da sminuzzare con un pestello, mazza pesante con impugnatura stretta e base percuotente più larga. I ripetuti colpi della mazza e riducono in granuli, in polvere, o mescolano numerose sostanze solide e friabili. Descrizione specifica: Mortaio costituito da un monoblocco robusto di legno a forma tronco-piramidale composita e inversa, dominata da un ampio quadrilatero al cui centro affonda, il contenitore o mortaio vero e proprio, scavato e modellato nel robusto massello. La forma insolita è dovuta all’uso specifico al quale era destinato: soprattutto lavoro da magazzino o laboratorio e non domestico. L’area rettangolare che si dispiega dal bordo superiore è a forma di vasca perimetrata da un cordolo rialzato entro cui sono trattenuti i granuli scaraventati fuori dal mortaio dai colpi della pestatura. Si conoscono esemplari di mortai anche primitivi. L’uso del mortaio per trattare le derrate alimentari comincia prima ancora della panificazione per la quale occorse la scoperta della ruota e l’invenzione dei primi, rudimentali mulini manuali. Il mortaio fu strumento principe nell’epoca arcaica delle cosiddette “pappe e gallette”; esso consentiva di decorticare cereali e semi più coriacei, come farro, mais, orzo, e sgusciare frutta con buccia dura, come noci, pinoli e nocciole. Il loro utilizzo in laboratori e botteghe, per la produzione su più ampia scala, affiancò l’opera dei mulini in diverse delle grandi civiltà antiche, come l’egiziana, l’etrusca, la greca. Franco Ferlaino

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Tino in legno e ferro per la vinificazione Materia legno di rovere. Misure cm 88x44 Categoria: Artigianato del legno e del ferro. Tipologia: Lavorazione artigianale a doghe di falegnameria, montate e ricalzate a mano da esperti artigiani barilari. Tecnica di lavorazione: Assemblaggio. Descrizione generale: Recipiente in doghe di legno pregiato, prevalentemente a tronco di cono regolare inverso (base minore sotto e maggiore in alto) o ritto, oblungo e spesso rastremato, simile a un barile, con cerchi metallici di contenimento ben distanziati. Descrizione specifica: Contenitore composito, in doghe di legno massello e cerchi di contenimento in ferro; al cerchio mediano inferiore sono fissate delle maniglie per il maneggio e il trasporto. Ha la base superiore scoperchiabile per le operazioni di follatura. Nella fascia alta presenta un finestrino con cerniere esterne e serratura per l’ispezione e l’estrazione delle vinacce. Nella fascia mediana vi è un foro per la svinatura del mosto decantato, mentre, in quella inferiore, sul fondo, un rubinetto per lo scarto dei sedimenti e depositi pesanti. Impiego: Nei tini si travasano le vinacce torchiate e vi si svolge e si cura il complesso sistema della fermentazione. La follatura è l’azione d’immersione manuale esercitata sul “cappello”, costituito dalle scorie galleggianti delle vinacce, portate in alto dalle bollicine dell’anidride carbonica sprigionata dalla fermentazione. Normalmente il vignaiolo svolge tale operazione due volte al giorno, ma può essere continua, «a cappello sommerso», se le sostanze galleggianti vengono tenute in immersione da un retino adeguatamente sistemato. Quest’ultimo sistema accelera la colorazione del mosto e l’estrazione degli aromi. Il rimontaggio è l’innaffiamento del “capello”, dall’alto, con il mosto prelevato dal basso del tino; esso consente un più omogeneo rimescolamento delle sostanze in tutta la volumetria del mosto e del tino. La svinatura è l’operazione fatta attraverso la cannella o il rubinetto (inseriti nel tino) per prelevare il mosto del rimontaggio o il vino di fine fermentazione (da travasare nelle botti); scartando in anticipo i residui pesanti depositati sul fondo del tino e senza le vinacce, trattenute dallo spazzolo, una sorta di filtro posto in prossimità della cannella, un tempo fatto con rametti secchi di erica. Franco Ferlaino

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Museo comunale di Aiello Calabro

Torchio per la pigiatura dell’uva Materia Legno e ferro. Misure 70x45xh140 Categoria: Artigianato del legno. Tipologia: Lavorazione a mano. Tecnica di lavorazione: Taglio, levigatura, incastri e assemblaggio. Macchina semplice di antica concezione per esercitare elevate pressioni sulle sostanze e i materiali sottoposti alle sue azioni di compressione e spremitura. Descrizione specifica: Utensile composito, in legno massello e rinforzi in ferro. Il torchio è costituito, sostanzialmente, da una pressa, da un filtro e da una vasca raccoglitrice auto-svuotante per mezzo di un foro mediano munito di “becco”; per questo necessita di un ausiliario recipiente per la raccolta del mosto. La pressa è formata da due montanti che incastrano, alle estremità, due solide traverse; quella inferiore è infilata nel massiccio basamento della macchina che, a sua volta, è sorretto e rialzato da terra da quattro robuste zampe o piedi. La traversa superiore è sovrastata da un manubrio trasversale di ferro collegato a una grande vite mobile dello stesso metallo. In mezzo alla pressa vi è la “gabbia” formata da listelli verticali distanziati e disposti in circolo sulla massiccia piattaforma del basamento, fissati con semicerchi metallici di rinforzo, distali e terminanti con delle “chiavarde” entro le quali passano due chiavistelli a paletto, verticali e diametralmente opposti. La parte superiore della massiccia base quadrangolare è una “scolina” a vasca piatta, delimitata da un bordo di contenimento nella cui parte anteriore è situato il suddetto becco di scarico del mosto. Impiego: La rotazione del manubrio muove la vite che poggia su un rinforzo ligneo e spinge verso il basso, dentro la gabbia a guisa di cilindro, un pesante disco di legno. Le vinacce sono pressate e spremute dentro la gabbia con l’ausilio di diaframmi semplici o doppi, di giunco o di corda di cocco; il mosto defluisce dagli interstizi dei listelli nella colina e da questa nel recipiente ausiliario, posto in corrispondenza del foro di scarico. La torchiatura dell’uva serve a estrarre tutto il succo delle vinacce che non si ottiene con la pigiatura; per tale ragione la pressatura si rivelò indispensabile fin dagli albori della vinificazione e sorsero i primitivi torchi con manubri e bracci a stella che comportavano uno sforzo fisico notevole. Nel secolo scorso vennero si diffusero quelli a vite continua che vide implementare la sua forza grazie al meccanismo francese detto “Mabille” (dal cognome dei fratelli che lo inventarono) che consentiva perfino tre velocità di pressatura. Il meccanismo “mabille” consentì il facile impiego di poderosi torchi anche alle grandi aziende vinicole, ma oggi il suo uso è limitato alle piccole aziende; quelle grandi usano macchinari altamente sofisticati ed efficienti. L’innovazione del torchio vinicolo ha interessato soprattutto il meccanismo di pressa per ottenere la massima forza di spremitura con uno sforzo ridotto degli operatori, fino all’uso di meccanismi idraulici leggeri che consentirono a un unico operatore di torchiare con il minimo sforzo; le altre parti sono rimaste quasi invariate. Franco Ferlaino

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Museo della Civiltà Contadina di Bocchigliero

Tavolato per il trasporto del pane Materia Legno di abete. Epoca: fine ‘800 - inizi ‘900.

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Museo dell’Artigianato Silano e della Difesa del Suolo di Longobucco

Telaio in legno

Materiale: Legno Provenienza: Sersale Proprietà: Museo dell’artigianato silano e della difesa del suolo di Longobucco Attualmente esposto presso il Museo dell’artigianato silano e della difesa del suolo di Longobucco. Nel contesto della casa contadina tradizionale risalta il cosiddetto spazio del telaio, ovvero quel luogo unico ed esclusivo, quasi sacro, della donna che ha sempre rivestito un’importanza fondamentale non solo dell’universo femminile ma del sostrato economico calabrese. Il telaio veniva sistemato nella camera da letto, la stanza dell’intimità alla quale nessuno poteva accedere; esso costituiva parte della dote della donna e sottendeva un valore sacro oltre che un momento di socializzazione. Le donne hanno sempre avuto un ruolo importante nell’allevamento del baco da seta e nella tessitura. Molte erano le casalinghe che avevano impiantato piccoli allevamenti e con i guadagni ricavati integravano i redditi familiari. Esse riuscivano ad implementare il corredo delle figlie con capi in seta che altrimenti non avrebbero potuto permettersi. Per l’incubazione del baco da seta le donne tenevano nel proprio seno i semi del baco e ciascuna di esse era gelosa del proprio siricu (allevamento) temendo che qualcuno potesse buttarle il malocchio. Il lavoro delle donne proseguiva con la tessitura o nelle filande o al telaio casalingo mosso a mano. Il possesso di un telaio per uso domestico fu a lungo tipico della civiltà cosentina e consentì il perdurare dell’arte popolare della tessitura; i primi telai comparsi sul territorio risalgono all’epoca Protostorica e si trattava di costruzioni piuttosto lineari e semplici ripetutesi con continuità e maestria fino all’età ellenistica. Nel Medioevo il telaio fu dotato di pedale e la sua realizzazione divenne sempre più accurata fino al conseguimento di manufatti complessi e raffinati. Nel 1787 nacque il telaio meccanico grazie all’applicazione di un motore a vapore e qualche anno dopo fu progettato il telaio jacquard che consentì la lavorazione di manufatti complessi e con disegni elaborati. Nel XIX secolo il telaio acquisì una configurazione più meccanica assurgendo ad artefice della rivoluzione industriale. I telai industriali sono oggi molto diffusi eppure numerose aziende artigiane mantengono viva la lavorazione tradizionale; inoltre Musei deputati alla veicolazione delle antiche tradizioni locali ne preservano antichi prototipi e manufatti originali. I telai calabresi sono di due tipi, orizzontale e verticale ed utilizzano diverse fibre animali (lana e seta) e vegetali (lino, cotone, ginestra, canapa e ortica). I disegni sono stati tramandati oralmente e in parte rielaborati dalle tessitrici attuali, ma mai manomettendo l’impianto originale.

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Museo dell’Arte Olearia “Ludovico Noia”, Trebisacce

Torchio alla calabrese:

travetti orizzontali in legno di quercia, due viti in silice filettati verticali, di piccole dimensioni. Dalle viti si esercitava una pressione sulle fiscole a riempimento da cui fuoriusciva l’olio. Questo sistema fu l’unico ad esser utilizzato fino ai primi dell’800 quando s’introdusse il torchio alla genovese.

Fiscole a riempimento: tasche a forma circolare, con foro centrale, realizzate con corde di giunco e legate all’imboccatura centrale da canapa filata; riempite di pasta d’olive, venivano collocate una sopra l’altro e pressate dal torchio. Per lungo tempo, il legno di castagno di piccola circonferenza venne usato per la fabbricazione delle fiscole, indispensabili per la premitura delle olive opportunamente molite. Il legno, reso duttile da una preventiva cottura a fuoco, veniva ridotto in sottili listelle che, intrecciate a regola d’arte e provviste di un foro centrale permetteva maneggevolezza, creava un contenitore dentro il quale insaccare la pasta d’olive.

Contenitori misura capacità (minzullo, stuppìllo, cozza e chizza) Minzullo: contenitore per olive e cereali per 20-22 kg, in legno d’abete. Stuppìllo: contenitore per olive, farina e cereali, misura kg.5, in legno d’abete Cozza: contenitore per olive, farina e cereali, misura kg 1. in legno pino d’aleppo Chizze: contenitore per olive, ecc., misura inferiore a Kg 1, in legno pino d’aleppo

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Museo comunale di Aiello Calabro www.retemuseale.provincia.cs.it

Il bellissimo centro storico di Aiello vanta opere d’arte, edifici civili e chiese di particolare pregio e, nel suo patrimonio storico-artistico annovera l’istituendo Museo comunale, intimamente connesso con la vicenda rurale e contadina del territorio. Nella direzione di una rivalutazione delle origini della civiltà contadina, il Museo indaga e ricerca -con la sua variegata collezione suddivisa in numerosi campi della sfera umana- sulle proprie radici, ricreando nello spazio di uno storico palazzo del borgo, i settori del lavoro e degli antichi mestieri, quello della vita domestica, quello della musica e della scuola, del gioco, dell’ambiente e della natura, quello della vita dei campi e così via. La copiosa collezione ritrae infatti un mondo antico e ricco di suggestioni, di microstorie capaci di destare interessanti riflessioni e indagini sul nostro passato.

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Museo della Civiltà Contadina Bocchigliero www.retemuseale.provincia.cs.it

Il museo di Bocchigliero rappresenta, insieme alla pinacoteca comunale ed alla sala espositiva d’arte sacra, un piccolo scrigno d’arte e di cultura nascosto nella meravigliosa cornice silana di Bocchigliero. Il Museo contadino, ben organizzato e dalle ottime potenzialità didattiche per i reperti unici che presenta nell’ambito della storia della civiltà contadina e della storia sociale, presenta diverse sezioni ciascuna delle quali espone gli utensili e gli attrezzi relativi agli antichi mestieri della civiltà bocchiglierese: • sezione del pastore e del contadino • sezione interno di una casa comune • sezione lavorazione delle fibre naturali (baco da seta, ginestra, filatura e tessitura con expo tessuti) La visita continua con le ulteriori sezioni: • gli utensili connessi alla lavorazione del pane (con l’introvabile tavolato che prevedeva la seguente utilizzazione: dopo l’impasto e la forma, il pane veniva messo crudo sul tavolato, nelle apposite forme tonde e sopra un panno di stoffa e tutto il tavolato veniva portato al forno del paese per la cottura, in testa alle donne. • gli utensili del fabbro e per l’allevamento e l’utilizzo dell’asino • gli antichi mestieri: il calzolaio, il falegname e gli strumenti musicali • la produzione del vino (imponente in questo sala espositiva bocchiglierese) con un enorme palmento e con grosse botti e altri oggetti legati alla produzione del vino Il museo espone anche una ricca sequenza di fotografie storiche (circa 400) che documentano e ricostruiscono rapporti sociali, feste religiose, lavoro sui campi, antichi mestieri, costumi e famiglie.

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Museo dell’Artigianato Silano e della Difesa del Suolo Longobucco www.retemuseale.provincia.cs.it

Il Museo di Longobucco è il frutto della sinergia fra l’Ente Parco Nazionale della Sila, la Regione Calabria e il Comune di Longobucco. L’allestimento è stato curato da Syremont s.p.a e attualmente la gestione è affidata a Novamusa s.p.a. Contemporaneamente all’apertura del museo di Longobucco (12 aprile 2011), sono stati inaugurati altri ecomusei e centri visita nel Parco Nazionale della Sila. L’ecomuseo di Longobucco rientra infatti nella rete dei Musei del Parco di cui fanno parte: Museo dell’olio di oliva e della civiltà contadina di Zagarise, Museo della civiltà agrosilvopastorale, delle arti e delle tradizioni di Albi, Centro visite Cupone, Centro visite A. Garcea, Centro visite Trepidò. L’edificio che accoglie l’Ecomuseo di Longobucco è un ex convento dei frati francescani minori la cui prima fase di costruzione risale al 1550-1615. Agli inizi del Novecento la struttura fu adibita per un corso annuale di avviamento professionale di tipo industriale, trasformandosi poi negli anni sessanta, in scuola di formazione e di riqualificazione professionale e successivamente accolse le scuole elementari e medie. Durante il fascismo fu sede del Comune. Al primo piano dell’edificio, il visitatore viene accolto nel punto di assistenza e vendita dal quale prende avvio il percorso museale che si articola nelle sei sale allestite e lungo il corridoio perimetrale al cortile del convento. L’idea alla base del progetto museografico è quella di offrire un quadro completo sull’artigianato silano e nello specifico sulle tradizioni degli antichi mestieri longobucchesi e di sensibilizzare il fruitore alla risorsa naturalistica e dunque alla difesa del territorio silano. Sui pannelli del primo corridoio è rappresentata la linea del tempo dove sono narrate le varie dominazioni che si sono succedute a Longobucco (il periodo greco, la conquista romana, le invasioni barbariche, il periodo normanno svevo, il periodo angioino, il periodo aragonese, la dominazione spagnola ed austriaca, i francesi e infine l’unità d’Italia). Il territorio di Longobucco era probabilmente abitato già prima dell’arrivo dei Greci da popolazioni italiche che preferivano l’entroterra alla costa. Nel terzo secolo a.C. i Romani conquistarono ai Greci i territori calabresi, che assunsero la denominazione di Bruzium dalle antiche popolazioni di origine osca. Gli anni delle invasioni barbariche sono gli anni della divisione dell’Impero romano in due tronconi. Il ramo d’Occidente, retto da Onorio con capitale a Ravenna, subì nel 410 l’invasione dei Visigoti di Alarico che saccheggiarono Roma e marciarono poi verso Sud. Nel 1050 ha inizio la conquista normanna. Segue a questo il periodo angioino caratterizzato da brutali violenze e saccheggi. Tra il 1434 e il 1443 si svolge la lunga guerra di successione al trono che terminerà con l’unione del regno di Napoli a quello di Sicilia sotto Alfonso d’Aragona. I sala: Vetrina sul territorio La prima sala è dedicata al Parco Nazionale della Sila (73.695 ettari) nel contesto del territorio calabrese e al paesaggio naturalistico di Longobucco, con particolare attenzione alla via delle miniere dalle quali si estraevano gli argenti. Longobucco è noto infatti come il paese degli argenti e dei telai. Sui pannelli che adornano la sala sono segnalati i centri visita presenti nel Parco (Cupone, Antonio-Garcea, Buturo-Casa Giulia, Trepidò). Tramite l’utilizzo di una mappa interattiva installata su un computer il visitatore può avere informazioni specifiche sugli altri comuni del Parco. I comuni sono raggruppati per temi (centri visita, itinerari museali, itinerari prodotti enogastronomici, itinerario storico-culturale, siti di alto valore naturalistico) e a seconda dell’itinerario scelto si apre una scheda di approfondimento sulle peculiarità del singolo comune. Le sale II-III-IV-V sono dedicate all’artigianato silano. Ognuna di queste sale è costituita da un

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pannello centrale su cui è raffigurato il mestiere e da una serie di oggetti con cartellini didascalici dove si specifica il nome dell’oggetto in dialetto e in italiano, la funzione d’uso, la datazione e la proprietà. II sala: artigianato della terra e della pietra La Calabria è una regione ricca di tufo, granito e pietra calcarea. Le grandi doti di durezza del granito silano fanno di questa pietra uno dei materiali da costruzione più frequentemente impiegati sia per interni sia per esterni. Grazie ai particolari trattamenti superficiali cui il granito può essere sottoposto (levigatura, lucidatura, sabbiatura, fiammatura, bocciardatura ecc.) esso è adattabile praticamente ad ogni tipo di applicazione, ad esempio gradini, davanzali di finestre, piani di cucine, piani di stufe, pavimentazioni, stradali ecc. A Longobucco in particolare è possibile ammirare alcuni portali abbelliti da maschere apotropaiche – dette in dialetto mostriciattoli – risalenti alla tradizione greca. III sala: artigianato del filato e del tessuto L’artigianato della lavorazione dei tessuti di pregio si è tradizionalmente espressa nei centri di San Giovanni in Fiore, Longobucco e Tiriolo. Attraverso la tessitura di coperte e tappeti si mantengono vive le tecniche d’intreccio più antiche. Dalla ginestra comune, Spartium junceum, in Calabria detta jonostra o spartu, si ricavava una delle tre fibre maggiormente utilizzate, con molta probabilità a partire dal periodo greco. Molto diffusa sulle pendici silane nella fascia, produceva una fibra grossolana per tessere sacchi e bisacce ma, se lavorata più a lungo, era utilizzata anche per tessere stoffe più fini simili a quelle prodotte con il cotone e il lino. IV sala: artigianato del legno In epoca magno greca dai boschi della Sila – il cui nome deriva dal greco hyle (legno) e dal latino silva (bosco) – si ricavava una notevole quantità di legname per la costruzione di navi, mobili ed oggetti semplici e funzionali: letti, tavole, sedie. In epoca romana i boschi erano sfruttati soprattutto per ricavare il legno per costruire le navi e gli edifici e anche per l’estrazione dal pino laricio della pece brutia, considerata la più pregiata di tutto l’impero. Durante il Medioevo l’artigianato del legno si sviluppa su cinque settori ben distinguibili: lavorazione del legno per edifici e costruzioni navali, sculture lignee d’ispirazione religiosa, produzione artigianale di piccoli oggetti dei pastori, oggetti d’uso domestico ed agricolo, decorazioni per mobili ed arredamento. Nasce in questo periodo la tradizione della lavorazione dei cesti, si producono le casse per oggetti e alimenti. V sala: artigianato del metallo Fin dall’antichità il territorio di Longobucco era noto per la presenza di miniere d’argento. La realizzazione di ferriere nelle zone silane e aspro montane risale ai secoli tredicesimo quattordicesimo, come testimonia anche un documento del 1491 che dà notizia di due ferriere molto attive nella Sila cosentina. Cancellate, ringhiere per balconi dai motivi floreali di gigli e tulipani, oggetti di arte religiosa hanno costituito la principale produzione di manufatti di ferro fin dall’epoca barocca. Durante il periodo borbonico erano attive la Fonderia Ferdinandea e la Fabbrica d’armi di Mongiana, dove si fondeva ferro anche per grandi opere di ingegneria civile. Un elemento che rendeva molto richiesto il ferro silano era costituito dall’eccellente qualità del carbone che si ricavava dal ciocco di erica, pianta tipica della Sila. VI sala: difesa del suolo La sala è adibita a laboratori didattici. I pannelli illustrano il sistema idraulico forestale e il rischio idrogeologico. La gravità dei danni subiti negli ultimi secoli dalla montagna calabrese ha dato impulso, con apposita legislazione, alle attività di prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico. Un uso corrente del suolo determina benefici ambientali e il buon esito nello sviluppo dell’economia locale. Attuare un sistema di difesa del suolo in un ambiente naturale come il Parco Nazionale della Sila significa ristabilire legami corretti tra popolazione e ambiente, tra risorse ambientali e lavoro umano, tra economia ed ecologia, preservando così un importante patrimonio da consegnare alle future generazioni come una preziosa eredità da custodire e tramandare. Giovanna Ioele

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Museo “Ludovico Noia” dell’Arte Olearia e della Cultura Contadina Trebisacce www.retemuseale.provincia.cs.it

Il Museo, inaugurato il 14 agosto 2005, ha sede nel centro storico di Trebisacce in via dei Massari, già via dei Frantoi ed è gestito dall’Associazione Onlus Promozione Cultura e Arte: “A.O.P.C.A. Ludovico Noia”. Attuali proprietari dell`immobile e della struttura, dedicata al compianto genitore, sono i fratelli NOIA (Salvatore, Francesco, Renato). Ingresso gratuito. Il Museo è nato con lo scopo di recuperare la memoria storica di un patrimonio culturale, materiale e immateriale, di grande pregio per la collettività e di qualificarne la presenza nel territorio. Il Museo documenta, inoltre, alcune attività che si sono progressivamente estinte e che hanno avuto un ruolo tutt’altro che marginale nell’ economia di sussistenza dell’area. Il mondo contadino tratteggiato attraverso l’esposizione museale è senza dubbio un mondo in cui prevale la fatica, il bisogno, la ristrettezza economica, il sacrificio e la dedizione al lavoro. Una presenza dai molti richiami storico-culturali e agricoli, interessante soprattutto per rendersi conto delle condizioni che hanno preceduto e determinato il progresso e per valutarne i vari risvolti. La frequentazione è continua e ciò conferma la positività dell’iniziativa, dell’offerta museale e dei servizi culturali. La presenza del museo ha contribuito notevolmente a valorizzare e vivacizzare il centro storico di Trebisacce e la zona dell’Alto Jonio, a sostenere studi, ricerche e tesi di laurea. La struttura è situata all’interno di un frantoio costruito intorno al 1934 ed attivo fino al 1986. L’idea di trasformarlo in Museo è stata del Prof. Salvatore Noia. Presidente AOPCA è il Prof. Francesco NOIA Direttore del Museo: Dott. Piero De Vita (antropologo museale); Vice Direttore: Dott. Ludovico Noia ( storico dell’arte). Superficie espositiva: La struttura, a pianta rettangolare, con pavimento in mattoni, è suddivisa in 3 vani a due livelli e di diverse dimensioni. Il complesso è stato sottoposto ad un pregevole intervento di restauro, che ne permette la fruizione come frantoio – museo e come museo della cultura contadina. 1ª SALA ( Arte Olearia). Conserva ancora nel suo interno attrezzature per la molitura delle olive (molazza in pietra, lavatrice, dosatore, n°2 torchi o presse, fiscole, n°3 carrelli per fiscole, n°2 separatori, n. 4 vasche raccolta olio, n. 2 vasche di decantazione con zona deposito sansa, ecc.). 2ª SALA- ( Attrezzi della Cultura Contadina). In questa sala sono sistemati gli attrezzi e gli oggetti della cultura contadina, della casa contadina e dei vari mestieri. Oltre al materiale museale, adeguatamente ordinato negli appositi spazi, il visitatore, può approfondire percorsi tematici e argomenti sull’arte olearia grazie alla esposizizone delle guide e alla predisposizione di pannelli espositivi. 3ª SALA-Laboratorio per restauro pezzi e magazzino (già sala vasche di decantazione e raccolta sansa). Il lavoro di recupero e di restauro della struttura museale ha rispettato la normativa vigente in materia, la vocazione del luogo e le particolarità estetiche del manufatto. Il Museo ha partecipato attivamente alle diverse iniziative del MIBAC (“Porte aperte alle tradizioni italiane” “Notte dei musei”) e ha contributo all’allestimento del Museo dell’olio di Zagarise (CZ), con prestiti di alcuni interessanti reperti . E’ inserito nel Sistema Museale della Provincia di Cosenza, in rete con altri musei del territorio. La nostra struttura è inclusa in diversi cataloghi, saggi e testi universitari ( vedi Collezioni e raccolte mostre musei demoantropologici in Calabria, di Ottavio Cavalcanti, Rosario Chimirri). Ha destato l’interesse di Rai Uno e della trasmissione Easy Driver condotta da Ilaria Moscato,

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andata in onda sabato 12 maggio 2007. Progetti e iniziative registrano ottimi indici di partecipazione. Di rilievo il progetto VIVERE IL MUSEO che attraverso il controllo dell’acidità dell’OLIO (con acidimetro per olio) e il controllo del grado alcolico (con ebulliometro di Malligan) del VINO, punta alla partecipazione attiva alla vita del museo e al coinvolgimento di più fasce di utenti. Stretta collaborazione con le scuole per i progetti PON-POR –FESR, Etwinning, Comenius, Leonardo, Grundtvig, con la Coldiretti per Campagna Amica, tutte le Associazioni locali e le strutture ricettive e di ospitalità turistica. Piero De Vita

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L’artigianato del legno nella provincia di Cosenza

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La Surdulina Calabrese

breve storia e aspetti tecnico-musicali

Giorgio Belluscio

Fig. 1 Bagpipe

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“La capra che suona” è il titolo di un bellissimo libro di A. Ricci e R. Tucci dedicato alla zampogna e alla musica popolare calabro-lucana, quindi la capra che diventa zampogna, assume, per l’artigiano costruttore e suonatore, un valore molto importante perché nel suo destino era segnato che essa avrebbe allietato il ‘palato musicale’ dell’uomo. La surdulina, un particolare tipo di zampogna tipico della Calabria settentrionale, è da considerarsi (insieme alle percussioni) forse il più arcaico tra gli strumenti della tradizione popolare calabrese. Su questo strumento esiste già un’ampia letteratura e un eccezionale numero di tipologie d’uso pubblicate anche con repertori sonori (audiocassette e CD) nonché in video ora consultabili in internet. Il panorama europeo della zampogna, strumento dalle misteriose origini, è quanto mai variegato. Il termine zampogna deriva dal greco symphónia, che vuole dire “suoni legati assieme” o più propriamente musica. La zampogna probabilmente nasce nell’Età classica come evoluzione del flauto di Pan o syrinx, secondo altri studiosi etnomusicologi le origini vanno ricercate invece nei testi degli autori latini dove ricorre una serie di nomi di strumenti che spesso vengono tradotti in italiano con zampogna. Pare che il progenitore della zampogna sia l’utricularium e tra i suonatori dell’antichità si annovera anche l’imperatore Nerone, mentre nelle Bucoliche di Virgilio, già all’inizio del poema, ricorre la parola avena tradotto appunto con zampogna, ma gli storici della musica non sono del tutto convinti che in questo caso si sia trattato proprio di una zampogna così come la intendiamo noi. La questione, benché interessante, non può comunque essere affrontata in questo luogo. Dal Medioevo a oggi la zampogna è entrata di diritto come uno degli strumenti aerofoni principali della cultura europea. Il tipo più famoso di zampogna è la Great highland bagpipe scozzese, in realtà qui bisogna parlare di cornamusa (le differenze tra i tipi di zampogna li tratteremo nel prossimo paragrafo) che è riconosciuta appunto come lo strumento nazionale degli scozzesi, usato nel folklore locale ma è anche un segno distintivo delle bande militari come strumento che accompagna i soldati nelle operazioni militari e negli spostamenti. La particolarità della zampogna consiste nel fatto che è uno strumento che viene realizzato artigianalmente e i cui elementi sono tutti naturali, elementi propri della cultura agro-pastorale dalla quale trae origini lo strumento. Le prime attestazioni iconografiche della zampogna risalgono al XIII secolo quando appare in manoscritti miniati, mentre nel Medioevo essa viene inizialmente vista come strumento con connotazioni negative legate soprattutto al fatto che l’otre deriva dalla pelle conciata e rivoltata della capra, animale questo che allora veniva collegato al diavolo (non è un caso che questo nell’immaginario collettivo del tempo la parte inferiore del corpo era con fattezze di caprone), un’altra connotazione era anche quella sessuale, essa veniva vista come una raffigurazione dell’organo sessuale maschile (l’otre richiama lo scroto mentre il flauto/i flauti il pene, ma è sufficiente vedere la famosa litografia di Durer che bene dimostra questo aspetto, e senza alcun equivoco). Solo successivamente lo strumento è stato accolto nella tradizione paraliturgica di tipo popolare ed è entrata di diritto nell’iconografia religiosa tipica del Natale, tradizione che è giunta fino a noi e che permane molto viva nei paesi cattolici. La presenza della zampogna usata dai pastori nel presepe appare già nel XIII secolo in alcuni codici miniati (soprattutto in alcuni capilettera). Da questo momento in poi nelle arti figurative la zampogna (usiamo questo termine in senso neutro per raggruppare tutte le tipologie di questo strumento) diviene un elemento molto ricorrente, e nel XV-XVI secolo essa viene raffigurata anche in contesti diversi da quelli tipici del periodo natalizio. Forse il pittore più rappresentativo e che meglio fa vedere sia i diversi tipi di zampogna che il suo


Fig. 2 Gaita Spagnola

Fig. 3 Saaekepibe

Fig. 4 Torupill

uso popolare è il fiammingo Bruegel. Chi non ricorda il suo famosissimo quadro “La danza dei contadini” e le altre opere di esso coeve? Nel XVIII secolo la zampogna appare anche in quadri raffiguranti la nobiltà francese, lì diviene uno strumento da salotto il cui otre viene sostituito (o forse rivestito) con prodotti meno rozzi, come tessuti broccati e altro. Con il passare del tempo lo strumento è comunque rimasto uno strumento proprio della cultura popolare. I pastori sono stati coloro che hanno usato lo strumento con continuità, tuttavia esso non restava del tutto a loro appannaggio. Nelle comunità albanesi dell’Italia meridionale (ma anche nei paesi italofoni) la zampogna è stata ininterrottamente l’unico strumento usato nelle feste e con il quale si eseguivano le danze, ciò fino alla diffusione dell’organetto, il quale in parte ha soppresso l’uso della zampogna per motivi di ordine tecnico e pratico (ricordiamo qui a titolo di esempio che la zampogna non mantiene l’accordatura, subisce problemi dovuti alle condizioni metereologiche, ogni volta che si accorda non assume la stessa nota di accordatura ecc.). Tuttavia, nonostante un drastico calo nell’uso, dovuto anche alla non continuità nella tradizione artigianale della costruzione dello strumento, la zampogna si è integrata pian piano anche nell’uso complementare con l’organetto e con altri strumenti come la chitarra. Un uso tipico della zampogna sia nelle comunità albanesi che in quelle italofone è quello di accompagnamento al canto popolare laico (come nel caso delle serenate) e religioso (soprattutto nei pellegrinaggi, come nel caso della Madonna del Pettoruto o della Madonna del Pollino). Bellissimi esempi di questa tipologia musicale meridionale con voce e zampogna (ma anche con assolo di zampogna) sono stati registrati per la prima volta nel 1954 da Diego Carpitella e da Ernesto de Martino durante il loro viaggio in Calabria e Basilicata, così come anche da Cirese per il Molise. A partire dai primi anni del 2000 la zampogna vive una nuova primavera, forse anche sulla scia dell’uso della cornamusa scozzese in canzoni pop diventate improvvisamente famose in tutto il mondo (è il caso di Hevia, per esempio). La tradizione è oggi preservata grazie a nuovi artigiani/ suonatori che hanno avviato l’attività di produzione artigianale dello strumento. E’ il caso di ricordare qui Antonio Forastiero in Basilicata e Angelo Le Rose in Calabria che sono oggi i più importanti costruttori/suonatori di zampogna. L’aumentato interesse per lo strumento può essere ben dimostrato anche dai numerosi partecipanti al primo corso regionale di zampogna, organizzato nel 2012 dal Comune di Mongrassano (CS) su idea dell’etnomusicologo Antonio Gattabria e tenuto anche in collaborazione con il maestro Angelo Le Rose. Le diverse famiglie di zampogne Come si è detto, l’uso della zampogna compare in molti stati europei. Lo strumento mantiene le sue macrocaratteristiche strutturali (è uno strumento a suono continuo, ha un otre, ha un flauto per la melodia, ha almeno un bordone, ha un boccaglio per l’immissione del fiato) forse anche gli usi non sono molto diversi, tuttavia appare con una varietà di nomi che oltre ad indicarci l’origine dello strumento rendono evidenti anche gli influssi culturali che ne hanno permesso la diffusione. Come si vede dalla cartina ci sono alcune aree con maggiore influenza rispetto ad altre che sono più periferiche, per esempio il tipo gajda, parola di probabile origine turca occupa un’area maggiore rispetto alle altre; il tipo zampogna comprende anche l’area rumena dove appare con il termine cimpoi (il quale strutturalmente appartiene tuttavia alla famiglia delle gajde); poi c’è il tipo cornamusa tipico dei paesi nordici, quindi, fatta eccezione delle piccole aree in cui lo strumento viene chiamato con parole poco diffuse, possiamo dire che a seconda della terminologia usata si possono disegnare delle aree omogenee anche dal punto di vista della tipologia strutturale dello strumento. Esistono dunque tre diverse famiglie di zampogne, ognuna con le sue caratteristiche Famiglia delle cornamuse Fig. 1 Bagpipe Fig. 2 Gaita Spagnola Fig. 3 Saaekepibe Fig. 4 Torupill

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Gli strumenti della famiglia delle cornamuse possiedono un solo chanter e pi첫 di un bordone: sono le pi첫 diffuse e le pi첫 conosciute. La zampogna europea pi첫 famosa (bagpipe) appartiene a questa categoria Famiglia delle gajde Fig. 5 Cimpoi Fig. 6 il particolarissimo Dudy Fig. 7 Gajda Fig. 8 Volynka Fig. 9 Piva

Fig. 6 il particolarissimo Dudy

Fig. 5 Cimpoi

Fig. 8 Volynka

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Fig. 7 Gajda

Fig. 9 Piva


Gli strumenti della famiglia delle pive possiedono generalmente un bordone e uno chanter, ma vi possono essere delle eccezioni come il Dudy. Famiglia delle zampogne Fig. 10 Zampogna a Chiave Fig. 11 Surdulina Fig. 12 zampogna a paro La famiglia delle zampogne comprende le zampogne italiane tra cui le due zampogne artigianali calabresi: la zampogna a chiave e la surdulina. È su di essa che concentreremo la nostra attenzione, analizzandone la struttura e il tipo d’uso

Fig. 11 Surdulina

Fig. 12 zampogna a paro

Fig. 10 Zampogna a Chiave

Fig. 13 Surdulina

La surdulina La surdulina è composta da quattro elementi principali: a) l’otre, b) il tronco, c) i flauti, d) il boccaglio. Tutti gli elementi sono naturali, l’otre in pelle di capra o capretto, tronco, flauti e boccaglio in legno lavorato. Fig. 13 OTRE L’otre è costituito da una pelle di capra interamente rivoltata, in modo che la condensa prodotta dal suonatore non fuoriesca dall’interno. il tronco viene inserito al posto della testa, mentre le zampe anteriori sono dotate di due valvole per introdurre l’aria permettendo di suonare sia al suonatore destro che mancino. Le zampe posteriori e la coda vengono annodate per chiudere l’otre. L’otre tenuto in tensione con il fiato permette alla surdulina di mantenere il suono anche durante la ripresa di fiato del suonatore. Quindi la surdulina è uno strumento a suono continuo. Tronco Il tronco (costruito in varie dimensioni e con vari legni a seconda

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dell’estensione desiderata per lo strumento) consiste in un’apertura principale in cui entra l’aria proveniente dall’otre e in quattro aperture secondarie dalle quali fuoriesce per far vibrare le ance dei flauti FLAUTI I flauti sono quattro: due bordoni (vedi sotto) e due chanter (vedi sotto). sono costruiti in varie misure e in vari legni a seconda delle esigenze del suonatore e del range desiderato per lo strumento

Fig. 14 - Bordoni

BORDONI Fig. 14 I bordoni sono due dei quattro flauti della surdulina. Essi producono solo due note, in un intervallo di ottava, riconoscibile sempre nella quinta della tonalità dello strumento (ad es. se la surdulina è in la, i due bordoni suoneranno in mi). I loro nomi sono BORDONE o BASSO e FISCHIETTO o ALTO BORDONE o BASSO È il flauto che produce la nota più bassa della surdulina. È una caratteristica comune di tutte le zampogne-cornamuse europee. In una surdulina del Pollino il bordone è quasi nella totalità accordato tra il RE e il MI, ma possono esserci anche delle eccezioni. FISCHIETTO o ALTO Il fischietto è una caratteristica unica, presente solo nella surdulina. Esso ripete la nota del bordone, ma un’ottava più alta. Non sempre viene utilizzato per la difficoltà nell’accordatura e per la sua elevata sensibilità: quindi è dotato di un tappo che può essere inserito o tolto a seconda delle esigenze del suonatore CHANTER I chanter sono due dei quattro flauti della surdulina: essi sono atipici perché nella quasi totalità delle altre zampogne europee lo chanter è uno solo, che copre leggermente più di un’ intera ottava: essi invece si dividono questa stessa estensione: avremo dunque il chanter di sinistra (sordo o quello con quattro) che coprirà la parte bassa dell’estensione e il chanter di destra (solista o quello con cinque) che ne coprirà la parte alta. Ciò implica una caratteristica unica nell’intero panorama delle zampogne europee: la costruzione di una triade e quindi la possibilità di suonare accordi. Il sordo o quello con quattro (cioè: fori) Fig. 15 Il Sordo o Quello con Quattro è il flauto eponimo della Surdulina: esso presenta una caratteristica fondamentale, unica: la capacità di non suonare una volta tappati tutti i suoi buchi (che come si deduce dal nome sono quattro). Questo facilita nettamente il lavoro di accordatura del suonatore e amplia anche le modalità del suono dello strumento. Esistono diverse posizioni fondamentali per suonare questo flauto ma le più importanti sono: La posizione con due: il suonatore tiene premuti i primi due tasti del Sordo. il Sordo produrrà la terza dell’accordo fondamentale della surdulina. La posizione con uno: il suonatore tiene premuto il primo tasto del Sordo. Il Sordo produrrà la tonica generale dell’accordo di tonica della surdulina

Fig. 15 - Il Sordo o Quello con Quattro

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Solista o quello con cinque Il Solista, come dice il nome, è il flauto con cui il suonatore esegue la melodia: possiede cinque buchi, di cui uno non suonabile (non visibile nella foto) che si trova a lato. per la sua limitata estensione (una quinta) può eseguire solo le melodie più semplici, come alcune canzoni natalizie e qualche pastorale. Viene utilizzato anche nelle tarantelle come ausilio per il Sordo. Le due posizioni fondamentali del Solista sono: La posizione con tre: il suonatore tiene premuti i primi tre tasti: il Solista produrrà la quinta dell’accordo fondamentale della surdulina; La posizione con due: il suonatore tiene premuti i primi due tasti: il Solista produrrà la terza dell’accordo di tonica della surdulina;


Accessori e abbellimenti della surdulina ANCE Fig. 16 Le ance nella surdulina sono quattro, di misura e taglio diversi a seconda del flauto su cui sono poste. La surdulina è uno strumento ad ancia semplice. Le ance sono ricavate dalle canne comuni o da altri arbusti simili. Nella foto vediamo a sinistra l’ancia del Bordone, a destra quella del Fischietto. Per migliorare il loro suono o per evitare che si blocchino vengono modificate dal suonatore con cera, capelli o piccoli frammenti di nastro adesivo.

Fig. 16

Fig. 17 - Cera

Fig. 18 - accordatori d’osso

Fig. 20 - Pon Pon

CERA Fig. 17 La cera di api è la protagonista dell’accordatura. Un pezzo di cera viene tenuto incollato sul tronco della surdulina e utilizzata dal suonatore per accordare lo strumento. Aggiungere cera a un tasto (cioè a un forellino) implica un innalzamento di tono del tasto immediatamente superiore. Per innalzare o abbassare la tonalità dell’intero flauto invece è più comodo e utile spostare in sopra o in sotto l’ancia ACCORDATORI D’OSSO Fig. 18 Servono per togliere la cera dai tasti. Togliere la cera da un tasto implica una discesa di tono del tasto immediatamente superiore. La cera recuperata viene aggiunta a quella incollata sul tronco. TAPPO PER IL BOCCAGLIO INUTILIZZATO (a sx) e BOCCHINO PER SUONARE (a dx) Fig. 19 Ideata dal Maestro Angelo le Rose, la valvola a nido di rondine che permette il mantenimento del fiato immesso nell’otre da la possibilità a più persone di poter suonare la stessa surdulina senza scambio dellaria immessa poiché essa mantiene la condensa all’interno dell’otre stesso. Nell’altro boccaglio viene inserito il tappo che riduce la fuga d’aria dalla surdulina. Il bocchino di plastica (in sostituzione di quello tradizionale fatto con un pezzo di canna) si dimostra molto resistente all’usura, versatile nella tenuta e anche di facile reperimento per l’uso della surdulina da parte di più suonatori.

Fig. 19

PON PON Fig. 20 Molti suonatori attaccano pon pon o altre decorazioni (spille e immagini religiose, corni ecc.) sulle loro surduline per abbellirle.

Cenni di tecnica Suonare la zampogna richiede un’elevata dose di resistenza:infatti essa non è difficile tanto per le diteggiature (quasi banali confrontate con le complicatissime tecniche usate dai suonatori di cornamusa) ma per il mantenimento continuo della tensione all’interno dell’otre: la zampogna richiede infatti un ciclo continuo di aria per poter suonare senza interruzioni: inoltre lo sforzo delle labbra comporta uno stiramento atipico dei muscoli del volto, che nel suonatore non abituato producono un senso di stanchezza. Come già detto nella scheda tecnica, nonostante le possibilità di suonare questo strumento siano quanto mai varie e gli eventuali abbellimenti quanto mai complessi, per poter padroneggiare le basi dello strumento è sufficiente conoscere due posizioni principali, che corrispondono al primo e al quinto accordo della scala. Un’altra difficoltà nell’apprendimento della zampogna è dovuta all’accordatura: essa infatti è molto complessa e richiede un suonatore esperto e un buon lasso di tempo: un’accordatura totale (incluso il fischietto) della surdulina può richiedere anche un ora. Inoltre essendo uno strumento molto sensibile tende a scordarsi al minimo cambio di altitudine o temperatura.

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Maestro di surdulina calabrese Angelo Le Rose Acquaformosa

La passione per la musica è nata in Angelo Le Rose, giovane musicista e artigiano di Acquaformosa, all’età di dieci anni grazie all’assidua frequentazione e ascolto degli strumenti della tradizione arberëschë traducendosi in una spiccata capacità di costruire la tipica zampogna “surdulina” calabrese, specializzandosi successivamente in altre creazioni musicali. Nel 2012 ha tenuto un corso di zampogna (Karramunxa) a Mongrassano ed è attivamente impegnato nell’insegnamento dello strumento musicale ai giovani del territorio.

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Zampogna a chiave Legno chanter/flauto/fuso: ULIVO Legno ceppo/campana: ACERO Misura chanter: 3 PALMI ½ (ca 70 cm) Misura totale: 4 PALMI ¼ (ca 85 cm)

Tonalità: FA (bordoni in DO) Segni particolari: Proprietà del Maestro Le Rose. Realizzata negli anni ’50 del XX secolo

Zampogna a paro Legno chanter/flauto/fuso: ERICA Legno ceppo/campana: ERICA Misura chanter: 37 cm Misura totale: 51 cm

Tonalità: SOL (bordoni in RE) Segni particolari: Proprietà del Maestro Le Rose. Realizzata negli anni ’50 del XX secolo a Reggio Calabria

Surdulina antica Legno chanter/flauto/fuso: GELSO Legno ceppo/campana: GELSO Misura chanter: 15 cm Misura totale: 27 cm

Tonalità: LA (bordoni in MI) Segni particolari: Proprietà del Maestro Le Rose. Realizzata dal suo bisnonno negli ultimi anni del XIX secolo

Surdulina di Mongrassano Legno chanter/flauto/fuso: ALBICOCCO Legno ceppo/campana: GELSO Misura chanter: 12 cm Misura totale: 21 cm

Tonalità: DO# (bordoni in SOL#) Segni particolari: Riproduzione del Maestro Le Rose del modello originale conservato a Mongrassano.Riconosciuta come la zampogna più piccola del mondo

Surdulina fatta a mano Legno chanter/flauto/fuso: GELSO Legno ceppo/campana: GELSO Misura chanter: 20 cm Misura totale: 30 cm

Tonalità: DO (bordoni in SOL) Segni particolari: Prima zampogna costruita interamente a mano dal Maestro Le Rose


Pipita Lunga Legno chanter/flauto/fuso: ERICA Legno ceppo/campana: ACERO Misura totale: 30 cm

TonalitĂ : LA Segni particolari: Costruita dal Maestro Le Rose

Pipita Corta Legno chanter/flauto/fuso: ULIVO Legno ceppo/campana: ULIVO Misura totale: 25,5 cm

TonalitĂ : DO Segni particolari: Costruita dal Maestro Le Rose

Flauti di canna Legno chanter/flauto/fuso: CANNA Segni particolari: Costruiti dal Maestro Le Rose

Flauti a paro Legno chanter/flauto/fuso: CANNA Segni particolari: Costruiti dal Maestro Le Rose

Fischietti Legno chanter/flauto/fuso: CANNA Segni particolari: Costruiti dal Maestro Le Rose

Ance Legno chanter/flauto/fuso: CANNA Segni particolari: Costruite dal Maestro Le Rose

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Calabria Pipe di Carlino Vito Mandatoriccio

Il marchio CARLINO ha una lunga tradizione di ben 3 generazioni. Nasce e si compone soprattutto di esperti e specialisti abbozzatori di radica, maestri del taglio: i cosiddetti segantini!! L’azienda fu costituita nel 1931 dai fratelli Luigi ed Arturo Carlino. Seppure con grande sacrificio, i fratelli Carlino fanno sin da subito apprezzare il loro prodotto e così negli anni successivi, incrementando la loro produzione, si affermano come maggiori produttori di abbozzi nel mondo e si confermano veri e propri leader del settore . Con l’inizio del secondo conflitto mondiale l’attività subisce una limitazione in quanto molti lavoratori dipendenti sono chiamati alle armi, ma nonostante il conflitto l’attività prosegue e la produzione degli abbozzi per pipe non cessa. Solo dopo, a partire dal 1947 agli inizi degli anni 50, l’azienda si ricompone e riprende la sua attività a pieno regime. Nel 1964 la gestione dell’azienda passa a Vito Carlino, figlio di Arturo, che rinnova e continua la tradizione fondando il marchio CALABRIA PIPE di Vito Carlino, ad oggi considerato uno dei migliori professionisti nel settore. Lo stesso produce abbozzi e placche di altissimo livello, destinate anche ad una clientela molto esigente, sempre alla ricerca di venature eccellenti e tagli particolari, offrendo pezzi di elevata qualità da cui ricavarne pipe di grande valore. Successivamente entra nell’azienda Carlo Carlino, figlio di Vito, ad oggi titolare dell’azienda Calabria Pipe, che segue le orme del padre apprendendo scrupolosamente i vari segreti del mestiere e che riesce ad affermarsi ugualmente come un ottimo tagliatore di radica. Insieme decidono di ampliare la produzione ricavando dai propri abbozzi pipe finite di altissimo livello, adeguandosi il più possibile ad un mercato sempre in continua evoluzione anche in termini di design . Tutti i prodotti esposti, infatti, vengono realizzati da loro utilizzando esclusivamente radica di origine calabrese. Ogni fase di lavorazione viene svolta interamente nella loro azienda, dal taglio dei ciocchi di radica alla bollitura, dalla stagionatura naturale fino alla realizzazione delle pipe di alta qualità, di prestigio e dal valore unico. Dopo più di 80 anni di storia e tradizione, CALABRIA PIPE, con grande orgoglio dei suoi fondatori, è una grande realtà e, soprattutto, l’unica azienda a garantire una lavorazione unica e completa in ogni sua fase.

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Una lavorazione unica La lavorazione della radica di erica arborea è un processo lungo e faticoso che richiede molta esperienza, manualità e soprattutto tanta passione. Queste sono tutte le fasi del processo di lavorazione: Taglio: il taglio dei ciocchi di radica viene effettuato secondo un metodo tradizionale che nel corso degli anni non ha subito nessuna evoluzione. Con il taglio del ciocco, che avviene manualmente per mezzo di lame circolari, vengono prodotti le placche e gli abbozzi che serviranno per la realizzazione delle pipe. Bollitura: tutti i pezzi ottenuti dal taglio, già suddivisi per qualità, vengono posti giornalmente in ammollo in alcuni recipienti di plastica fino al raggiungimento di un quantitativo minimo di circa 1500kg. Successivamente, i pezzi vengono riposti in delle vasche di rame piene d’acqua (le caldaie) e viene avviato il processo di bollitura che dura circa 18 ore e che avviene ad una temperatura costante di 100 gradi. Le caldaie vengono portate in ebollizione e costantemente riscaldate per mezzo di un forno, riposto al di sotto delle vasche di rame ed alimentato manualmente con gli scarti del taglio. Essicazione e stagionatura: il giorno successivo al completamento della bollitura, tutti i pezzi vengono prelevati dalle caldaie assicurandosi che nel raffreddamento l’acqua abbia raggiunto la temperatura di circa 25 gradi così da evitare notevoli sbalzi con la temperatura esterna; una volta prelevati, vengono trasferiti immediatamente nelle camere essiccatoi, dove le placche e gli abbozzi saranno tenuti coperti per circa 90 giorni. Durante la fase di stagionatura i pezzi di radica vengono continuamente tenuti in movimento, ovvero trasferiti da una scaffalatura ad un’altra; questa operazione consente di far cadere la muffa riposta sulle pareti dei pezzi, che si viene a creare per via dalla fuoriuscita di umidità che risiede ancora all’interno di essi, e allo stesso tempo per rendere più omogenea possibile l’essiccazione di ogni singolo pezzo. Dopo circa 30 mesi di stagionatura naturale, tutti i pezzi vengono selezionati per misura (in più di 20 misure differenti) utilizzando criteri e strumenti di misura molto antichi ma estremamente efficaci. Realizzazione: una parte degli abbozzi viene destinata alla produzione di pipe in larga scala per realizzare modelli specifici e da sempre ricercati come i modelli billiard, lovat, pot, prince, e tanti altri ancora; la rimanente parte degli abbozzi e le placche vengono, invece, lavorati interamente e rigorosamente a mano dando vita a capolavori unici, inimitabili e di grande prestigio. Le rifiniture delle pipe, infine, avvengono mediante l’utilizzo di carte abrasive di diverse grane, colorazioni e lucidature a cera carnaupe. E’ importante evidenziare che ogni pipa prima di essere tale subisce un processo di lavorazione molto lungo ed accurato, che richiede mediamente più di 100 passaggi manuali, e porta con se la bellezza e la sapienza di una lavorazione artigianale unica!

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Maestro d’ascia Antonio Montesanto Cariati

La Cantieri Navali Montesanto S.a.s è una nuova sfida nell’imprenditoria giovanile che fa tesoro dell’esperienza trentennale del maestro d’ascia Montesanto Antonio. La presenza di artigiani del legno specializzati nella costruzione di barche da pesca e da diporto richiama a Cariati tutti gli appassionati del mare dell’Italia meridionale. L’arte dei maestri d’ascia non è nata sul luogo, ma è stata importata nel 1920 da un abile artigiano proveniente dalla costiera amalfitana, Natale Monti, che, da Maiori, in provincia di Salerno, approdò sulla nostra costa chiamato da numerosi pescatori per costruire delle imbarcazioni. La tradizione familiare continuò con i figli Vincenzo e Cataldo. Nel 1950 Vincenzo Monti fece ritorno a Cariati per continuare l’ arte paterna e insieme al fratello Cataldo mantenne il cantiere attivo per circa 40 anni. Se ancora oggi quest’arte esiste è merito di Antonio Montesanto, cariatese purosangue e unico maestro d’ascia dell’intera costa ionica, che, sin da piccolo, ha seguito i fratelli Vincenzo e Cataldo Monti imparando il mestiere con grande arte e passione. Antonio Montesanto con l’ aiuto dei figli Rocco e Enzo, giovani maestri d’ascia, del figlio Luigi quale consulente e uno staff di collaboratori costruisce ogni tipo di barca. La società “Cantieri Navali Montesanto S.a.s.” nasce per proseguire il cammino intrapreso durante gli anni, per consolidare e tramandare l’arte dei maestri d’ascia, con un ritorno economico, occupazionale e d’immagine per l’intero territorio del basso jonio cosentino. Il cantiere di Montesanto è diviso in due parti: la parte a mare dove ci sono le barche vecchie, quelle in costruzione e il legname; il capannone dove ci sono pialle, motosega, trapani e l’ immancabile ascia. La gamma di produzione riguarda diverse tipologie di imbarcazioni tra cui : • Da lavoro in legno con lunghezza fuori tutto da 7 a 28 metri, per strascico, motocianciola e mista. • Da diporto fuori bordo ed entro bordo fino a 28 metri • Gozzi fino a 8 metri La tipologia adottata per la realizzazione delle imbarcazioni è slanciata per scafi veloci. Ne esistono anche di tipo diritte e rientrate, come quelle adottate dai gozzi tipici dell’Adriatico e della Liguria. Gli scafi della “Cantieri Navali Montesanto S.a.s.” si differenziano da quelli normalmente prodotti da altri concorrenti extraregionali quali, ad esempio, quelli campani, pugliesi e siciliani. La produzione, infatti, riguarda scafi del tipo “Quadro”, con murata dritta, solitamente utilizzati per i motoscafi. La totalità della produzione degli altri cantieri, viceversa, è di tipo tondo in quanto tradizionalmente utilizzata per le imbarcazioni in legno adibite a peschereccio. L’ulteriore novità introdotta dai giovani soci, consta nello schiacciamento della poppa; tanto che il tipo di scafo da questi prodotta può definirsi “tipo quadro con poppa schiacciata”. L’intuizione è nata da una serie di considerazioni riguardo la poca stabilità e l’eccessivo rollio di molte delle imbarcazioni di tipo“Tondo”ed ha prodotto l’effetto indiretto, ma decisamente apprezzabile, della creazione di maggior spazio disponibile per le operazioni di pesca. Una serie di sperimentazioni empiriche su modellini e barche di minori dimensione ha evidenziato come l’adozione di scafi quadri permetteva la tenuta del mare in modo ottimale anche in condizioni di mare mosso. Ma detta intuizione e la validità della soluzione adottata per la tenuta del mare, si adattava male con la necessità di dover sostenere a poppa sollecitazioni notevoli determinate soprattutto dal traino delle reti durante le fasi di pesca. Con detta tipologia di scafo, infatti, la forza dinamica prodotta in coincidenza dall’angolo generato dalla rete con gli archi preposti al sollevamento della stessa, produceva una sollecitazione tale da determinare seri problemi al galleggiamento. Attraverso uno studio più attento, basato sulla analisi dei flussi dinamici, si decise di provare ad

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utilizzare lo schema della poppa appiattita. Infatti detta combinazione, tra scafo a carena piatta alla poppa e quadro verso prua con una decisa inclinazione della ossatura verso la chiglia, ha permesso di realizzare un tipo di imbarcazione: • più veloce grazie alle maggiore capacità di penetrazione dell’acqua; • più stabile in fase di navigazione grazie al reflusso dinamico generato dalla arcata delle murate; • assolutamente stabile in fase di traino e raccolta del pescato grazie alla poppa schiacciata la quale determina un ottimo grado di resistenza alla sollecitazione generata dall’effetto leva tra reti ed archetti. è da evidenziare che non molti artigiani avranno la possibilità di realizzare scafi similari. Infatti non si tratta semplicemente di produrre il disegno dell’imbarcazione, quanto di eseguirne la produzione con competenze adeguate.

Gozzo in legno tipo sorrentino

MISURE Lunghezza f.t. 7,20 m. - Larghezza f.t. 2,50 m. Altezza di costruzione 0.80 m. TIPOLOGIA DI COSTRUZIONE Gozzo costruito a mano secondo la tecnica cosiddetta del Mezzo Garbo e scala con tavoletta di misura. FASI DI COSTRUZIONE 1. La prima fase della costruzione in oggetto è il Diritto di Poppa con annessa ruota di poppa con l’utilizzo di quercia e olmo. Si è proceduto poi con la realizzazione del Diritto di Prua con ruota e pezzo centrale della chiglia in quercia e azobè; 2. Nella seconda fase di costruzione si è proseguito con la realizzazione delle Ordinate Centrali costituite da madieri e staminali con l’utilizzo di olmo; 3. Si è così giunti alla fase 3 relativa riempimento delle lo scheletro con la realizzazione delle ordinate di poppa e prua utilizzando come materiale sempre olmo; 4. A seguito del completamento della terza fase relativa alla costruzio-

ne dell’intero scheletro si è proseguito in fase 4 con la realizzazione della prima fascia di tavole esterne chiamata “CENTA esterna” e della prima fascia di tavole interne denominata “DORMIENTE” con l’utilizzo di materiale in pino e mogano; 5. La fase 5 della costruzione ha riguardato la realizzazione della prua e della poppa come sedile in materiale di compensato marino al di sotto ricoperto sopra con doghe di mogano. In questa fase si è poi proceduto all’esecuzione del trattamento di resina epossidica; 6. In fase 6 è stato costruito il cosiddetto “ CAPO DI BANDA” e la “FALCHETTA” di prua con gli scalmi e i relativi cordoncini esterni ed interni utilizzando quale materiale frassino e mogano; 7. La fase 7 , ancora da ultimare, ha riguardato la realizzazione della fasciatura esterna ed interna che, allo stato attuale della costruzione risulta formata da 2 fasce di tavole in mogano; 8. A completamento dello scafo mancano la residua parte di fasciatura esterna ed interna da realizzare in mogano e tutti i trattamenti di pittura. Trattamento con resina epossidica, flatting marino e pitturazione completa dello scafo con vernice marina.

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Liutaio Andrea Palermo Cosenza

È nato a La Spezia il 18 giugno del 1973, risiede attualmente nel comune di Luzzi ma vive e opera da quasi tredici anni tra i comuni di Rende e Cosenza, nei quali ha vissuto per gran parte della sua vita tranne alcune parentesi in terra Toscana dove ha imparato, diversamente dalla liuteria, altri arti artigiane quali le calzature e la lavorazione dell’argilla. Dal 1999 al 2001 frequenta e completa con “eccellente” risultato l’allora Corso di Formazione Professionale Regionale per Liutai nella scuola di Bisignano intitolata a “Nicola De Bonis”, eccelso rappresentante di una famiglia liutaia che ha rappresentato all’epoca un’avanguardia artigiana e musicale e oggi una tradizione da rispettare, omaggiare e tramandare. Ottiene la qualifica di Liutaio con il Maestro Carlo Rocco di Cosenza, allora docente e ne ha proseguito l’attività, dopo la sua prematura scomparsa, per dodici anni nel laboratorio di Via Tarantelli a Cosenza. Attualmente prosegue il suo progetto di rivitalizzare la Liuteria e le Arti in genere collaborando con vari gruppi e associazioni e cercando di collegare lavoro passione e sviluppo economico-sociale.

Chitarra Arpa

Liuto Rinascimentale

Basso Acustico

Modello classica flamenco 7 corde + 3 bordoni Materiali costruttivi: Tavola Arminica in abete Val di Fiemme Fasce e fondo Cipresso Manico Cedrella Libanese Tastiera, ponticello e rifiniture Palissandro India Motivo rosetta con filetti alternati Ebano / Acero / Madre Perla

Su modello Pietro Railich - Venezia 1614 a 7 cori + 1 singolo Materiali costruttivi: Tavola Armonica in Abete Val di Fiemme Doghe, guscio e rivestimento manico in Acero Tigrato dei Balcani Filetti alternati tra le doghe in Ebano Africano Manico di Acero Tastiera e rifiniture in Ebano Africano

Su modello Colascione Rinascimentale Materiali costruttivi: Tavola Armonica in Abete val di Fiemme Guscio a doghe alternate in Acero tigrato e Palissandro India Manico in Mogano kaja Tastiera, ponticello e rifiniture in Palissandro India

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Chitarra Classica Concerto

Pochettes Mandolino Stradivariano

Mandolino Calabrese a Fondo Piatto

Materiali costruttivi: Tavola Armonica Cedro Libanese Fasce e Fondo Palissandro Brasiliano Manico Cedrella Libanese Tastiera, ponticello, rosetta e rifiniture in Ebano Africano

Copia dell’originale - a 4 Cori Materiali costruttivi: Tavola Armonica in Abete Val di Fiemme Guscio a doghe in Acero Tigrato alternate a filetti in Ebano Africano Manico in Acero mordensato mogano scuro Tastiera, rosetta, ponticello e rifiniture in Ebano Africano

Materiali costruttivi: Tavola Armonica in Abete Val di Fiemme Fasce e fondo in Noce nazionale Manico in Mogano Tastiera e rifiniture in Palissandro India

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Liutaio Alessandro Carpino Cosenza

Alessandro Carpino è nato nel 1971 a Cosenza. Figlio del liutaio ed ebanista Antonio Carpino (1908-1995), ha frequentato la scuola di liuteria De Bonis a Bisignano (Cosenza) ed opera come liutaio da molti anni. All’inizio degli anni ‘90 eredita la bottega paterna di liuteria ed ebanisteria avviata negli anni ‘20 nel cuore del centro storico di Cosenza. Grazie allo studio e alla collaborazione con maestri come Fiorenzo Copertini Amati (FI) e Gabriele Carletti (BO)illustri esponenti della liuteria classica Italiana, diventa un esperto liutaioliutologo e restauratore di strumenti musicali antichi. Secondo i canoni più tradizionali esegue lavori di alto pregio nella costruzione e nel restauro conservativo di manufatti lignei. Realizza lavori di intaglio e intarsio, tecnica diffusa in ogni epoca con forme diverse e che può essere eseguita a rilievo o a mano libera o con lo scalpello per ottenere un risultato simile alla scultura a tutto tondo. Il nome liutaio deriva dal liuto, tra gli strumenti uno dei più antichi, ma si occupa della costruzione e della riparazione di tutti gli strumenti ad arco (quali violini, violoncelli, viole, contrabbassi, ecc.) e a pizzico (chitarre, bassi, mandolini ecc.). Si tratta di una professione estremamente delicata, poiché anche un banale difetto può determinare distorsioni musicali. Nel suo laboratorio disegna, progetta, costruisce strumenti a corda, secondo i canoni e le tecniche appartenenti alla tradizione dell’antica arte liutaria classica italiana. Un bravo liutaio deve conoscere: il violino e gli strumenti consimili, il suo uso e la tecnica musicale per una valutazione critica dello strumento costruito, le caratteristiche fondamentali delle principali scuole classiche di liuteria e i diversi sistemi per il riconoscimento di strumenti di varie epoche e autori principali, il disegno professionale, la tecnologia del legno, con particolare riguardo ai legni esotici od europei, la tecnica di lavorazione dei singoli pezzi: bombatura del fondo del violino, lavorazione ed elaborazione delle testate ecc., le vernici, le resine e la loro composizione, l’acustica del legno, le attrezzature, il loro uso e garantirne l’efficienza. Gli strumenti in mostra: La collezione esposta mostra alcuni strumenti costruiti dal Maestro Carpino, altri sono strumenti antichi di alto pregio completamente restaurati che fanno parte di collezioni private. In particolar modo gli strumenti ad arco etichettati “copia di Antonio Stradivari ” del 1721, quello del Maggini e quello di Giovanni Gagliano rappresentano la storia della nobile arte liutaria italiana.

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Antica Falegnameria Marra Bocchigliero

La falegnameria Marra nasce nel 1917nel vecchio borgo di via S. Francesco a Bocchigliero in una bottega del palazzo Barrese dal maestro Vincenzo Marra. Egli proveniva da una famiglia di mulattieri e con molta tenacia e caparbietà ha costruito dapprima tutti gli attrezzi da lavoro, instaurando un rapporto di fiducia con la clientela. Nel 1956 comprò la prima macchina da lavoro, la “pialla” e iniziò ad accogliere discepoli che intendevano apprendere la lavorazione del legno dal maestro. I lavori eseguiti venivano portati anche fuori da Bocchigliero usando i muli come mezzi di trasporto e in molti pagavano i primi lavori barattando con grano, olio e vino. In seguito a Vincenzo Marra è succeduto mio padre Rosario Marra che ha continuato la lavorazione del legno, soprattutto quella del castagno proponendo caminetti, scale, porte ecc. Dagli anni ’90 mi sono occupato io, Francesco Marra, dell’azienda cominciando a esportare il nostro prodotto dapprima fuori della Calabria, al centro e al nord, e poi fuori Italia e devo dire con grande soddisfazione che ho riscontrato riconoscenza e stima verso la qualità e le finiture da noi adottate. Oggi la falegnameria Marra vanta di portare avanti la tradizione della lavorazione del legno da ben tre generazioni, con lo stesso spirito e un pizzico di modernità proponiamo i nostri capolavori. Alcune opere importanti sono i saloni di Palazzo Toscano a Cosenza, le teche del Palazzo delle Culture di Rogliano e il Museo Archeologico di Santa Severina, nonché le Biblioteche Vaticane in Città del Vaticano a Roma.

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Ditta Perri Saverio Gennaro Bocchigliero

A metà del secolo scorso,ovvero nel 1950 un Signore di nome Emilio Perri,originario di Bocchigliero ed ivi residente,precisamente in Via S. Agostino n ° 9 decide di mettere su una piccola azienda nel settore boschivo specializzata nella produzione di particolari materiali a carattere legnoso,puntando principalmente sul Castagno, finalizzati alla produzione di vari oggetti in svariati settori, dal campo agricolo a quello immobiliare passando per quello edilizio e strutturale; esempi di ciò sono dati da: • produzione di doghe per la costruzione delle botti da vino; • produzione di carbone venduto ai privati; • traverse per la realizzazione della rete ferroviaria con ritiro da parte dell’ente ferroviario direttamente nel bosco. Dalle piante di castagno qualitativamente migliori venivano estratte rispettivamente: • travi, da utilizzare per le coperture delle case,ancora ben visibili nei palazzi più antichi,nelle Chiese ecc; • puntelli, per sorreggere i solai delle abitazioni o di qualsiasi altra struttura costruita in pietra e cemento; • tavoloni e tavole per la realizzazioni di portoni a Chiese o palazzi di famiglie Nobili; • pali e paletti di varie misure e dimensioni per la realizzazione di vigneti in Calabria e Puglia. Le Piante meno adatte (colpite da malattia, secche o con forme particolari) per svolgere i lavori sopra elencati venivano tagliate a legna e trasportate alla Legnochimica sita in Cosenza (ora centrale a biomassa per la produzione di energia) dove ricavavano l’estratto tannico,qualitativamente uno dei migliori al mondo(la maggior parte veniva spedito nelle concerie americane). Nel 1974 entrano a far parte dell’azienda 2 dei 3 figli maschi del Signor Perri, rispettivamente il Primo ed il secondo, Pietro e Saverio, dando inizio alla seconda generazione, i quali iniziarono a lavorare altri tipi di legno quali Quercia, Farna, Faggio, Leccio Ontano e altre varietà per la produzione di legna da ardere. Iniziarono anche a specializzarsi nel taglio del Pino, producendo tronchi che venivano trasportati alle segherie di Cosenza, Petilia Policastro e Savelli. Tronchetti più piccoli e il legno restante venivano inviati in Campania, dove La Novolegno sita in Avellino produceva pannelli di compensato per le falegnamerie e le varie industrie immobiliari. La Crisi nazionale che ha investito il mondo è giunta ovviamente anche nel nostro settore,facendo sì che la produzione e la lavorazione del legno di Pino e di Castagno in modo selettivo come sopra descritto non portarono più profitto e soddisfazione soprattutto dal punto di vista economico. Ci specializzammo quindi con l’acquisto di adeguati macchinari (cippatrice) alla produzione di Chips di legno vergine, risulta proveniente dalla triturazione dell’intera pianta. Il Chps nel nostro settore oggi è diventato il materiale più commercializzato, poiché è l’unico che garantisce lo sfruttamento completo della pianta senza sprechi,e soprattutto garantisce utile dal punto di vista economico. Col Chips si riforniscono infatti le Centrali a Biomassa per la produzione di energia elettrica attraverso la combustione del Chips (Centrali site a Crotone, Strongoli) ma viene utilizzato anche per fornire la Fabbrica del Pelletts di Cropalati. Nel 2012 la Ditta si amplia nuovamente con l’ingresso nel mondo lavorativo a tempo pieno dei Cugini Perri, rispettivamente figli di Pietro (Emilio 25anni) e Saverio (Emilio 19 anni), i quali cercheranno di mandare avanti l’azienda dando vita alla terza generazione, con lo scopo di ampliare migliorare e mantenere attivo (nonostante i tempi di crisi), tutto ciò a cui il loro nonno ha dato vita circa un secolo prima.

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A.G.M. Arredamenti Cosenza

A.G.M. Arredamenti srl è una società di proprietà della famiglia Cristiano che da generazioni opera nel settore del’arredamento . L’azienda è stata costituita nel 1980 con la partecipazione del papà Francesco e i fratelli Antonio, Massimo, Gaspare e Gianpiero Cristiano. Ognuno di essi, specializzato in un settore particolare, vanta esperienza decennale sviluppatasi nella precedente azienda di famiglia L’Arte del Legno Snc. L’azienda si avvale dell’impegno di attrezzature all’avanguardia e del meticoloso lavoro di esperti artigiani che producono arredamento su misura e chiavi in mano in cui l’eleganza è la ricercatezza dei materiali impiegati rappresentano le linee guida aziendali. Ci si avvale pertanto o di un team di architetti e tecnici interni all’azienda o della collaborazione diretta con professionisti scelti dalla committenza. L’azienda inoltre ha prodotto anche una collezione “Cuboplus” realizzata interamente in massello che viene esposta nel proprio showroom sito in Rende (CS).

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Arredamento ligneo della Sala Giunta del Palazzo della Provincia di Cosenza, sede dell’Archivio Storico

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Scultore del legno Riccardo Magarò Cosenza

Riccardo Magarò, scultore del legno, ospita a Castiglione cosentino una personale esposizione di opere che abbraccia diversi temi rifacendosi al comune denominatore del suo intenso misticismo. L’artista si confronta costantemente con la natura, individua e porta alla luce le sue forme segrete attraverso un personale fare artistico che gli consente di lavorare il legno plasmandolo e trasformandolo in forme cariche di pathos. La ricerca di questo scultore è continua, e molteplici sono le lenti focali attraverso le quali osserva il mondo che lo circonda. Dedicatevi a distinguere i vari registri presenti nella sua opera: troverete una austera religiosità ma anche una raffinata ironia che assume le forme più strane, oggetti della tradizione rivisitati, una zoologia fantastica fatta di animali che il visitatore deve indovinare e a volte creare lui stesso con la sua immaginazione. Riccardo Magarò scolpisce quasi sempre l’ulivo e, nelle sua piccola sala espositiva, offre al visitatore la serie dal titolo Il Cristo e l’ulivo ove sculture lignee raffiguranti il Cristo in croce denotano il suo rapporto con il divino e con la sua sofferenza. E’ presente nella sala espositiva anche la serie delle Maschere, perlopiù carnevalesche, alle quali Riccardo Magarò ha donato un’anima lasciando che esse propongano al pubblico i loro interrogativi; molto curiosa è la serie degli Animali i cui pezzi, come detto, spaziano dal mondo reale a quello fantastico e, per concludere, la collezione Il Santo e l’Ulivo. Quest’ultima è stata realizzata per il cinquecentenario della morte di San Francesco di Paola e le opere che ne fanno parte denotano un forte aspetto meditativo, vivo omaggio al Patrono della Calabria. Rientrano in questo gruppo La pietra del miracolo, Il gelso diviso in due parti, Il passaggio sullo Stretto e così via. Le opere di Riccardo Magarò sono rivelatrici della spiritualità del loro autore che, insieme alla conoscenza del legno e delle sue più intime caratteristiche, dimostra con le opere esposte di saperlo dominare dandogli quella forma artistica che la sua mente ha prodotto. Le sue sculture sono visitabili a Castiglione cosentino, nei locali di rione Crocevia n. 63, il mercoledì e il sabato dalle ore 16,00 alle 20,00, sempre previo appuntamento allo 0984442147 o al 3883430335. Ulteriori informazioni si possono reperire sul sito www.riccardomagaro.it. Per richieste o considerazioni si può scrivere all’indirizzo info@ riccardomagaro.it.

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Installazione di un antico forno per l’estrazione della pece

Nei mesi di settembre e ottobre del 2008, ha avuto luogo la campagna di ricognizione e scavo sul Lago Cecita, nel sito di Forge di Cecita – area 4.
 di appurare l’estensione di un insediamento, nato al termine del III secolo a.C. e già individuato nelle ricognizioni degli anni precedenti, e di approfondire lo studio di una struttura solo in parte indagata nell’anno 2007.
 presentava con due camere rettangolari intervallate da una corte aperta, all’interno della quale è stato trovato un forno per la preparazione della pece. L’edificio posto sulla parte sommitale di una dorsale morenica, ha subito un forte degrado, dovuto alle variazioni isobariche del lago e alle attività agricole che si sono succedute nei secoli. Si è potuto determinare in base all’unica fila di pietre di fondazione poste su tre linee ed alla dispersione delle pietre che dovevano far parte dell’alzato, che l’edificio dovesse avere una struttura in elevato mista con pietra e legno e non è da escludere la presenza di un piano superiore a cui si accedeva tramite una scala posta nella corte, di cui si è ritrovato l’alloggiamento.
 monete con i più disparati conii, due dischi in piombo da ritenersi pesi di riferimento, ed addirittura un asse romano volutamente spezzato per creare sottomultipli, sono la testimonianza di un fiorente commercio della pece e di una fervente attività commerciale in tutta l’area.
avo all’esterno della fattoria che produceva pece, si è notato uno sviluppo del sito nell’area ad Est di questa.
 fossato semicircolare, in parte visibile ad occhio nudo, che circonda per tre quarti quella che doveva essere l’estensione totale del sito, ed interpretato come un sistema difensivo. Inoltre il ritrovamento di un equide carbonizzato, di rivetti e fibbie in bronzo legati ad armature od armamenti e numerose punte di balista in ferro, alcune delle quali presentano segni d’impatto, fanno ipotizzare frequenti scontri armati nell’area.
 dell’anno è sommerso dalle acque del lago artificiale creato per la produzione di energia elettrica, potrebbe fornire un quadro più chiaro su quelli che erano i conflitti ed i rapporti commerciali tra i Romani ed i Bretti in quel periodo1.

L’installazione è stata progettata da Pino Iannelli su modello della fornace rinvenuta nei pressi di Lago Cecita e nel corso della mostra si terranno laboratori didattici sull’estrazione e la preparazione della pece.

http://www.fastionline.org/micro_view. php?fst_cd=AIAC_1996&curcol=sea_cdAIAC_2335&lang=it

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